Mimmo Porcaro e Ugo Boghetta da socialismo2017
Il Brancaccio è
fallito. Meno male. Forse qualcuno la smetterà di tentare di aggregare
gli sconfitti usando le stesse parole d’ordine che hanno causato la
sconfitta stessa. Forse qualcuno la smetterà di credere che la proposta
dell’unità della sinistra sia il sostituto efficace di una vera
strategia politica, quando per la maggior parte del popolo italiano
“sinistra” significa per lo più delusione e liberismo. Il Brancaccio è
fallito e questo, nel piccolo mondo della sinistra radicale, può essere
un piccolo evento salutare perché impedisce che tutta quella sinistra si
attacchi da subito al carro dei D’Alema e dei Bersani, e si presti
perciò a fare la forza di complemento per i vari governi d’emergenza che
dovranno garantire l’ “europeismo” del paese, e quindi la sua
subordinazione al liberismo. E perché dopo il fallimento qualcuno ha
pensato di reagire. Cosicché, dall’assemblea romana di Je so’pazz’, da
Rifondazione, dal Partito Comunista, da diverse realtà di base e singoli
militanti è emersa l’esigenza di formare una lista popolare per le
prossime elezioni. La reazione è comprensibile e positiva, e
addirittura, in qualcuno degli interventi in cui si è espressa, è
accompagnata da qualche sortita dal linguaggio abituale e da qualche
significativo spostamento in direzione anti Ue. Tanto che Eurostop,
l’organizzazione di sinistra che con maggior impegno ed efficacia lavora
per una rottura dei vincoli europei, ha accettato l’invito a discutere
della fattibilità politica e tecnica della lista elettorale.
Ora, noi siamo da
sempre sostenitori della necessità di presentare una lista (ed ancor
prima un progetto) di lealtà costituzionale e recupero della sovranità
in funzione e condizione di una rottura con le politiche neoliberiste, e
crediamo che se qualcuno oggi volesse eludere il problema delle
elezioni invocando la necessità di partire dal basso, dal “sociale”,
indicherebbe una strada sbagliata, perché l’assenza di mobilitazione
sociale è oggi in buona misura spiegabile proprio con l’assenza di
prospettiva politica. E perché lo stesso lavoro di radicamento di massa
richiede un impegno talmente grande (dovendo essere fatto nelle forme
del mutualismo, del “partito sociale” e così via) da poter essere
gestito soltanto da gruppi politici di una certa forza e di una certa
dimensione: forza e dimensione che potrebbero aumentare a seguito di una
prima vittoria politica dopo decenni di sconfitte.
Ciononostante crediamo che la proposta di costruire oggi, in funzione delle elezioni di domani, una simile lista, arrivi davvero troppo tardi
perché c’è pochissimo tempo e bisogna superare moltissimi ostacoli, che
si riassumono semplicemente nella presenza diffusa di un sinistrismo
che condannerebbe la lista al famoso Zero Virgola rendendo molto più
difficile ogni mossa successiva. Un sinistrismo che consiste nel parlare
di democrazia partecipata a chi non ha tempo e risorse per partecipare,
di parlare di conflitto a chi non si trova nella posizione per farlo,
nel parlare solo di accoglienza e di apertura a chi ha legittimamente
paura che il mondo gli sia completamente ostile, nel parlare di classe
quando la gran parte dei lavoratori occupati ed organizzati è al momento
conservatrice, e la gran parte delle masse del quasi-lavoro si
percepisce, se va bene, soltanto come popolo. Un sinistrismo che
finirebbe in realtà solo per parlare a se stesso: come sempre. Un
sinistrismo che riesce anche ad annacquare il riferimento alla
Costituzione insistendo sull’aspetto della sovranità popolare per
nascondere quello della sovranità nazionale, che è invece condizione di
possibilità del primo. Un sinistrismo, infine che inchioda numerosi e
validi militanti all’impotenza perché li costringe a ristagnare in un
linguaggio che è una variante estremista del discorso delle élite
globaliste: meno stato, niente nazione, poca politica e tanto progresso;
nessuna rottura puntuale e localizzata del potere, nessuna riconquista
della possibilità della politica nell’unico spazio possibile, quello
nazionale. Con questo linguaggio una lista di presunta “vera sinistra”
si condannerebbe a dire cose che agli elettori parrebbero uguali a
quelle dei D’Alema e dei Fratoianni, solo dette in maniera più
incazzosa. Un misto di estremismo verbale e moderatismo nei contenuti
che spiega gran parte della triste irrilevanza politica di quest’area.
Ora questo
sinistrismo comincia a scricchiolare, qualcuno comincia a parlare a
ragion veduta di popolo, qualcuno si decide a fare il passo anti Ue, e
tutto ciò, in un’ottica di medio periodo, è da considerarsi
assolutamente positivo. Ma la partita oggi si gioca nel breve periodo,
che diventa brevissimo se si considera che il lavoro da farsi è
soprattutto di carattere culturale, e si riassume nella necessità di accettare pienamente la dimensione nazionale dell’azione
(se Mélenchon e Corbyn hanno avuto qualche successo è anche grazie a
questa scelta) vedendola non soltanto come una dura necessità ma come
un’opportunità. Non è certo con
artificiosi e verbosi compromessi sulla questione dell’ ”Unione dei
Trattati” che si risolve il problema di cambiare l’impostazione rispetto
alle esperienze precedenti: ultima la lista Tsipras. In questo cono
d’ombra il programma diventa inevitabilmente la solita lista della spesa
a cui manca proprio la condizione sine qua non per attuarla. E non
serve a molto risolvere il problema con frasi scarlatte inneggianti ad
un vago potere al popolo. Nel
mondo degli imperialismi nazionali novecenteschi era giusto essere
antinazionali –anche in quell’epoca, però, il discorso mutava quando si
trattava di nazioni oppresse. Ma quando, come oggi, l’imperialismo della
“triade” occidentale agisce attraverso la distruzione delle nazioni
(delle nazioni subalterne, ovviamente); quando il sud d’Europa è posto
in una condizione – inedita in Occidente – di dipendenza strutturale e permanente nei confronti del Nord; quando tale dipendenza rende inevitabile la compressione dei salari e del welfare; quando tutto questo accade l’autonomia di classe si lega strettamente all’autonomia nazionale.
E la rivendicazione della sovranità nazionale diviene condizione
necessaria, pur se insufficiente, sia della ripresa di un efficace
conflitto di classe, sia del progresso civile del paese. Ma anche di contrasto al crescere della destre ed alle giravolte del M5S.
La dimensione nazionale della nostra iniziativa deve quindi divenire un nostro tratto distintivo,
deve essere valorizzata nella battaglia culturale e nello scontro
elettorale. E non soltanto perché questo ci consente di costruire più
facilmente una vasta rete di alleanze sociali col pulviscolo delle
partite Iva, coi piccoli e medi imprenditori, ecc.. Prima ancora, e
soprattutto, c’è il fatto che la stessa unificazione dei lavoratori,
data la dispersione sociale e culturale della classe, non può avvenire
che attraverso il richiamo all’appartenenza comune ad un paese che è
retto da una Costituzione lavorista e tendenzialmente socialista,
possibile argine contro il liberismo dell’Unione. Insomma: nei nostri
comizi dovremmo mescolare bandiere rosse e bandiere tricolori (e questa è
ancora una proposta moderata: guardate i video dei comizi di
Mélenchon…). Siamo capaci di farlo, oggi? A nostro parere no. Anzi,
il trasformismo di alcuni propone di nascondersi dietro la foglia di
fico di Mélenchon e Podemos fingendo di non capire, o non capendo
davvero, che la cifra del loro successo è proprio la dimensione
nazionale, il patriottismo democratico!
Allora, se non siamo ancora in grado di raggiungere queste consapevolezze, diamo tempo al tempo. Iniziamo
già da oggi il lavoro, ma avendo in mente soprattutto la scadenza delle
elezioni europee (2019) e considerando che dopo le esose richieste che
la Commissione europea ci presenterà a primavera, sarà più facile
stracciare gli ultimi residui di europeismo e lavorare per convergenze
unitarie. Dunque, si apra subito il confronto, valorizzando al massimo
le novità del momento. Ma lo si finalizzi alle elezione europee e,
soprattutto, lo si basi su precise direttrici di metodo e di contenuto.
Quanto al metodo
deve trattarsi di un confronto a tutto campo e coinvolgere, oltre ai già
noti, i compagni della Confederazione di Liberazione Nazionale e l’area
nella quale agiscono, la Lista di Popolo di Chiesa ed Ingroia,
l’interessante esperienza di Senso Comune, le variegate componenti del
sovranismo costituzionale, lo stesso composito movimento di De
Magistris. La gran parte di queste forze può e deve
convergere in una prospettiva nazional-democratica, e soltanto da
questa convergenza può nascere una proposta politico-elettorale
credibile: ma è chiaro che più largo è lo spettro delle forze
interessate, più lungo è il processo di mediazione.
Quanto ai contenuti,
per avere una minima possibilità di successo e per costituire il punto
di partenza di una più ampia aggregazione una lista dovrebbe darsi
almeno i seguenti punti programmatici:
-
Dignità del lavoro/ dignità del paese. Il problema del lavoro si risolve soltanto con un programma di piena occupazione sostenuto da un intervento pubblico e da imprese e banche pubbliche (con la retorica dei beni comuni non si crea piena occupazione). Ma un tale programma è incompatibile con la sottomissione del paese ai vincoli dell’Unione europea e nell’Unione monetaria.
-
Sovranità popolare/sovranità nazionale. Il rafforzamento del settore pubblico rappresenta un importante momento di attuazione della sovranità popolare perché funge da contrappeso al potere dei mercati. Una tale sovranità deve attuarsi anche nei confronti dello stesso settore pubblico, prevedendo forme di intervento diretto delle associazioni popolari nella definizione dei suoi indirizzi e nel controllo del suo funzionamento. Ma la riaffermazione della sovranità popolare è frase vuota se non si coniuga con la riaffermazione della sovranità nazionale, che è il presupposto dell’efficacia delle decisioni popolari, e quindi con la rottura dell’Unione europea.
-
Rifinanziamento e ripubblicizzazione del welfare. Non è sufficiente superare la scarsità di mezzi a cui il liberismo condanna il welfare pubblico, bisogna anche ridurre tutte le forme di erogazione privata dei servizi sociali e tutte le forme di precarizzazione del lavoro che esse comportano. Anche se tutto ciò urta contro gli interessi materiali di una parte non piccola della sinistra che ha cogestito la privatizzazione scambiandola per socializzazione della sfera pubblica.
-
Sicurezza. Ebbene sì: sicurezza per tutte e tutti, per bianchi e per neri. E’ un tema vissuto come decisivo dai ceti popolari e dunque deve essere decisivo anche per noi. Non si tratta di “inseguire la destra sul suo terreno”, ma di riprenderci un terreno che deve essere nostro. Sicurezza contro le turbolenze guerreggiate mondiali, sviluppando una politica internazionale di pace. Sicurezza contro la miseria, puntando su lavoro e welfare. Sicurezza contro la criminalità ed il degrado, sia facendola gestire direttamente dagli abitanti dei quartieri attraverso la riconquista e la cura degli spazi pubblici, sia ampliando e riqualificando gli organici delle forze di polizia, utilizzandoli con funzione di mediazione sociale invece che di ordine pubblico.
-
Regolarizzazione e regolazione dell’immigrazione. Dobbiamo renderci conto che la giusta e necessaria regolarizzazione degli immigrati (fondamentale anche per una positiva gestione del mercato del lavoro) implica una regolazione del flusso dell’immigrazione senza la quale (se, come tutti prevediamo, questo flusso assumerà necessariamente dimensioni sempre crescenti) verranno a mancare le risorse economiche, sociali e politiche per la regolarizzazione stessa. Anche in questo caso non si tratta di inseguire la destra sul suo terreno. Si tratta di dire la verità: nessun paese, tantomeno un paese come il nostro, può pensare di non regolare in alcun modo i flussi. Nessun governo, nemmeno un nostro governo, potrebbe evitare di farlo. Non si tratta di imitare Minniti, si tratta quanto meno di porsi il problema. Parlando solamente di accoglienza perderemmo il contatto con la gran parte della nostra gente, e lo perderemmo per non aver detto cose… che saremmo poi costretti a fare se fossimo al governo. Un vero paradosso che può essere superato con la proposta convinta della coppia regolarizzazione/regolazione.
-
Nuova collocazione internazionale dell’Italia. Tutto quanto sopra ha un senso ed è possibile soltanto se l’Italia esce dalla propria collocazione euroatlantista e partecipa alla costruzione di un’area di cooperazione economica e di pace (iniziando ad eliminare le atomiche dal proprio territorio) che possa costituire una terza forza nello scontro tra Occidente e Oriente. La rottura con l’Ue deve essere accompagnata da subito con una proposta di nuova alleanza fra gli stati del continente fondata questa volta su un patto politico che espressamente rifiuti una soluzione bellicista e la prosecuzione del mercantilismo che ha accresciuto le diseguaglianze, gli squilibri e la tendenza alla guerra. Rapporti con la Russia, la Cina e col complesso dei Brics devono divenire asse normale dello sviluppo del paese. Così è, ovviamente, per il ruolo nel Mediterraneo. L’obiettivo non può essere tanto, o immediatamente, quello della collaborazione con stati orientati al socialismo, quanto quello della collaborazione con stati che intendano sottoporre a controllo politico i movimenti del capitale e intendano accettare una regolazione degli scambi che non si traduca nella deflazione competitiva a danno dell’occupazione e dei salari.
Siamo sicuri che
intorno a questo asse si possa costruire non soltanto una lista, ma,
progressivamente, quella vera e propria coalizione costituzionale di cui
questo paese ha bisogno (e che potrebbe anche essere lo spazio migliore
per far crescere una autonoma presenza comunista). Siamo sicuri che
dicendo queste verità si possa ottenere un buon consenso, quantomeno il
consenso necessario a porsi ulteriori obiettivi di crescita politica.
Così come siamo sicuri che la ripetizione del nostro solito frasario
umilierebbe le nostre migliori idee e ci condannerebbe ad arrestare sul
nascere un cammino che potrebbe invece portarci molto lontano.
Servirebbe solo a regolare i conti nel nostro piccolo cortile, quando il
campo della nostra azione potrebbe e dovrebbe essere molto più vasto.
Sarebbe come restare a casa a giocare a Subbuteo fra amici quando si
potrebbe giocare una partita vera.