venerdì 30 settembre 2016

Rottamare il verbo euro liberista


Dopo gli interventi di Brancaccio, Iodice, Fazi e Grazzini proseguiamo il nostro dibattito sull'Europa pubblicando la recensione di Carlo Formenti al volume "Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa" con saggi di Aldo Barba, Massimo D’Angelillo, Steffen Lehndorff, Leonardo Paggi e Alessandro Somma, appena uscito da DeriveApprodi. A seguire anticipiamo il testo dell'introduzione che apre il volume.

di Carlo Formenti da Micromega


 
Agli osservatori più attenti non dev’essere sfuggito che l’inopinata conversione del Presidente del consiglio Renzi al partito dei critici dell’Europa contiene una buona dose di messa in scena (attaccare l’austerità, se nel contempo si ribadisce l’impegno a rispettare i vincoli Ue in materia, suona poco credibile).

Pur subodorando la teatralizzazione – che mira a captare il consenso di un elettorato irritato con le oligarchie europee – i media, i quali non cessano di diffondere il verbo euro liberista, si sono premurati di invitare alla prudenza, celebrando le virtù del modello tedesco e invitando a non mollare la presa sulla barra del timone, onde non perdere la scia della nave ammiraglia pilotata da Frau Merkel. Ma quali sarebbero le “virtù” in questione? Assai meglio dei media, ce lo spiega un libro a più mani (scrivono Aldo Barba, Massimo D’Angelillo, Steffen Lehndorff, Leonardo Paggi e Alessandro Somma) appena uscito da DeriveApprodi: Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa.
Il modello tedesco, imposto a tutti gli stati membri della Ue con le buone o con le cattive (per le cattive vedi il caso greco), si fonda sull’assoluta priorità attribuita alla lotta all’inflazione e all’equilibrio di bilancio (l’ultimo obiettivo, sancito dai trattati, è stato perfino integrato in alcuni ordinamenti costituzionali, fra cui il nostro).

Dal punto di vista “filosofico”, ciò trova fondamento nelle teorie ordoliberiste – nate fra le due Guerre mondiali – che elevano la concorrenza a principio supremo dell’economia di mercato: un mercato concepito come costruzione politica da difendere e proteggere sulla base di un ferreo sistema di regole. Ecco perché, nel libro di cui stiamo parlando, s’insiste giustamente – sulla scia delle tesi di Pierre Dardot e Christian Laval – sul fatto che l’ordoliberismo non vuole "indebolire" lo stato, ma gli affida, al contrario, il compito decisivo di promuovere e garantire la concorrenza.

Al principio filosofico corrisponde, sul piano pratico, l’obiettivo di aumentare la competitività del sistema in modo da favorire le esportazioni, che vengono a occupare il posto della domanda interna come principale fattore di crescita. Peccato che la crescita tedesca sia significativamente inferiore a quella americana, e che il tanto celebrato modello tedesco contribuisca ancor più a rallentare la crescita dei partner europei. Ciò avviene per varie ragioni. In primo luogo, perché non tutti i paesi possono avere esportazioni nette positive: gli avanzi permanenti degli uni generano i disavanzi permanenti degli altri. Poi perché l’altra faccia degli aumenti di competitività è l’attacco a salari e welfare, attacco che, riducendo i redditi dei lavoratori, contrae la domanda interna. In Germania l’impatto di tale politica si è fatto sentire con la proliferazione di mini-jobs, working poor e disuguaglianze, mentre negli altri paesi europei ha provocato effetti ancora più tragici, dovuti al divieto ai finanziamenti monetari dei deficit per i debiti pubblici, e alla concorrenza fra stati, che offrono profitti più elevati alle imprese abbassando i salari, flessibilizzando la forza lavoro, riducendo la pressione fiscale grazie ai tagli alla spesa sociale, privatizzando tutto il privatizzabile, ecc.

Tuttavia non siamo di fronte a “errori”, e neppure all’incapacità di riconoscerli (benché i loro effetti negativi siano ormai evidenti): il punto è che il modello tedesco non mira alla crescita, bensì a ottenere una ridistribuzione dei redditi a favore del capitale e a danno del lavoro, perché i capitalisti preferiscono meno crescita e più profitti, piuttosto del contrario. Il che è evidente anche nel caso degli Stati Uniti, dove si è ugualmente tentato di far convivere la crescita con tassi crescenti di disuguaglianza, con la differenza che non si è puntato sulle esportazioni ma sull’aumento dell’indebitamento. Risultato: la crescita c‘è stata, ma poi è puntualmente arrivato il contraccolpo della crisi finanziaria.

Insomma: il modello liberista genera disastri in entrambe le varianti. Funziona solo per spostare ricchezza dal basso verso l’alto, ma al prezzo di instaurare un ordine oligarchico che distrugge democrazia e diritti del lavoro, e che fa lievitare la tensione sociale fino a livelli di rottura, come ha certificato il voto del popolo inglese contro l’Europa. Si può spezzare il circolo vizioso e riattivare il binomio crescita-equità sociale? Per farlo, argomentano alcuni coautori del libro, occorrerebbe riformare l’Europa dal basso e da sinistra. Personalmente, ritengo che tale prospettiva sia del tutto irrealistica, mentre condivido l’idea che (cito dalla Introduzione): “una ripresa del potere democratico si può determinare, anzitutto, solo ritornando dall’atmosfera rarefatta e irrespirabile della governance al terreno corposo e vitale della sovranità nazionale”. Rottamare Maastricht appunto. Una tesi che sostengo a mia volta in un saggio che approderà in libreria il prossimo 13 ottobre (La variante populista, DeriveApprodi).

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Introduzione a "Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa" (DeriveApprodi)

di Leonardo Paggi

La proposta di rottamare Maastricht con cui abbiamo scelto di riassumere il senso del volume, è nata dalla convinzione che il grande sogno dell’unità europea ha finito per legittimare un ordine oligarchico frontalmente contrapposto alla democrazia e ai diritti del lavoro. Senza il potere delle istituzioni sovranazionali oggi esistenti mai sarebbe stato possibile originare la regressione politica, economica e sociale in cui sta vivendo l’Europa di oggi.
1. La creazione della moneta unica ha fatto sì che si sia a lungo guardato a Maastricht come all’inizio, alla prima tappa, della costituzione di un Europa federale. In realtà a quella scelta si giunge attraverso una esplicita involuzione programmatica, ricostruita nei dettagli da Alessandro Somma, che è approdata a una netta dissociazione tra moneta e stato considerati, ancora negli anni Settanta, come assolutamente inscindibili.

Una vasta esperienza storica sta a testimoniare che solo la creazione di un potere politico fondato sulla unificazione del debito e delle bilance dei pagamenti può portare alla creazione di mercati in espansione. Parla in questo senso, anche se in modi tra loro molto diversi, l’esperienza degli Stati uniti, dell’Italia e della Germania nella seconda metà del xix secolo. In tutti questi casi l’unificazione politica è premessa indispensabile di un più lungo processo di unificazione economica che si traduce nella costituzione ed espansione del mercato interno. Maastricht capovolge, mette scientemente sulla testa, questo rapporto tra politica ed economia. L’obiettivo dichiarato del mercato unico non è in questo caso quello di creare più sviluppo, bensì, nelle parole di Padoa Schioppa, membro autorevole del comitato Delors, di «abbandonare definitivamente il modello di stato centralizzato forgiato dalle grandi monarchie europee» [2].

L’attacco alla sovranità dello stato perseguito a vantaggio della libertà delle grandi masse di capitale finanziario si traduce in un’opera di contenimento e di disciplinamento di tutti i fattori che precedentemente hanno reso possibile la crescita. Il processo di integrazione fornisce dividendi ai paesi europei che ne fanno parte solo fino a quando rimane nei limiti di una unione doganale e di una politica agricola comune. L’eliminazione delle barriere tariffarie è infatti un utile incentivo addizionale per uno sviluppo che ha solide radici nelle politiche keynesiane attivamente perseguite dallo stato nazione europeo che si rilegittima per questa via, dopo la pesante sconfitta subita nella Seconda guerra mondiale.

L’unificazione monetaria si accompagna alla ufficializzazione di una cultura della stabilità che mette in primo piano la lotta all’inflazione e l’equilibrio di bilancio. L’unificazione monetaria entra per questa via in aperta contraddizione con l’unificazione economica, rovesciandosi addirittura in una esasperazione delle distanze e delle differenze tra i paesi componenti l’Ue. La interpretazione che del trattato danno a caldo le figure più rappresentative di Bankitalia, su cui si sofferma diffusamente Leonardo Paggi, esprime compiutamente, ben oltre il caso italiano, il significato coscientemente restauratore del trattato che formalizza e mette in costituzione l’abbandono delle politiche di sviluppo, a partire dalla sconfitta che il movimento operaio ha già subito nel decennio precedente nei più importanti paesi europei.

E tuttavia sarebbe sbagliato rappresentare Maastricht come «un processo senza soggetto», condiscendendo in qualche modo alla sua auto rappresentazione ideologica. La cultura della stabilità, come si annuncia già con la creazione nel 1979 di un sistema monetario europeo, ha il suo punto di riferimento e il suo sostegno nel modello economico tedesco, uscito dalla crisi degli anni Settanta come l’unico capace di affrontare la nuova divisione internazionale del lavoro profondamente modificata dall’ingresso dei paesi in via di sviluppo. Caratteristica fondamentale di questo modello, analizzato con approcci diversi da Aldo Barba e Massimo D’angelillo, è la ricerca continua di aumenti di competitività volti a incrementare indefinitamente il volume delle esportazioni, che finiscono per sostituire la crescita della domanda interna.

La raffigurazione della Germania come «egemone riluttante» su cui è tornato di recente anche Jurgen Habermas [3] appare per più aspetti fuorviante. La storia dello sviluppo capitalistico ha esibito compiutamente i tratti di un modello di egemonia contrassegnato dalla funzione di traino che il mercato americano svolge, fino alla metà degli anni Settanta, per l’intero sistema occidentale. Il modello tedesco basato sul contenimento della domanda interna non solo non offre alcuna possibilità di crescita al resto dei paesi europei, ma chiede anzi loro di perseguire lo stesso obiettivo della competitività con l’abbassamento dei salari e lo smantellamento dei sistemi previdenziali e pensionistici. La Germania è tornata a contendere per un primato europeo sulla base di un modello di relazioni economico-politiche fondato ancora una volta sulla gerarchia, la coercizione e la violenza, come la vicenda greca ha messo definitivamente in luce.

Ma fino a quando può durare l’ordine di Maastricht ?
2. Nel corso degli ultimi tre decenni si è prodotto un cambiamento strutturale nella geografia politica dell’Europa in virtù del quale, per riprendere la terminologia di Albert O. Hirschmann, la protesta sociale in continua crescita tende ad assumere la forma tendenzialmente catastrofica dell’exit invece di quella ritualmente democratica del voice. In precisa corrispondenza con la sparizione della sinistra storica, prendono piedi movimenti che riformulano in chiave neonazionalista e xenofoba il bisogno di protezione sociale degli strati popolari più colpiti dalle politiche di austerità. Negli anni Novanta, infatti, sono proprio i partiti della tradizione socialista che traducono in provvedimenti di governo la nuova filosofia del trattato.

Si tratta di un fenomeno complesso per cui non è facile trovare una spiegazione plausibile. Da una comparazione con precedenti storici non meno significativi sembra si possa dedurre che nel corso del Novecento il socialismo europeo viene puntualmente travolto dalle profonde cesure che scandiscono la storia del capitalismo internazionale. A onta della fratellanza tra i popoli, proclamata negli anni di sviluppo e di pace dei primi anni del secolo, il 4 agosto del 1914 il socialismo europeo blocca i feroci nazionalismi che organizzano la mattanza della prima guerra mondiale. Negli anni Venti il laburismo inglese e la socialdemocrazia tedesca appoggiano la deflazione richiesta dalla politica di ritorno all’oro, considerata da Michael Polanyi come fattore cruciale dell’avanzata del fascismo.

Dopo il 1945 il movimento operaio conosce in Europa occidentale il periodo più fruttuoso della sua storia. La socialdemocrazia (ma anche il Partito comunista italiano) si inserisce come fattore propulsivo e moltiplicativo in una fase di eccezionale sviluppo che prende tuttavia corpo per il concorso di fattori esogeni alla sua volontà e alla sua capacità di influenza.

La tragedia della Seconda guerra mondiale, con i suoi 55 milioni di morti, ha posto un problema del tutto nuovo di difesa e di promozione della vita che trova nel Piano Beveridge, del dicembre 1942, la sua più solenne formulazione. Si realizza negli stessi anni la definitiva legittimazione della economia di piano, che ha messo in campo una produzione di massa di armi sofisticate decisive per la sconfitta del nazismo. È una sfida possente alla cultura del capitalismo che gli Usa raccolgono esportando nel vecchio continente il mercato di massa dei beni di consumo durevoli, che hanno già promosso nel corso degli anni Venti.

Il repentino cambiamento del modello di sviluppo che si apre nei primi anni Settanta, a partire dalla fluttuazione e poi dalla inconvertibilità del dollaro, disarma per la terza volta la sinistra europea. Alla fine del decennio arrivano puntuali le sconfitte strategiche del movimento operaio italiano e inglese, e, a ruota, quella dell’unità delle sinistre in Francia. Dopo il crollo inaspettato dell’Unione sovietica la sinistra europea formalizza negli anni Novanta il suo passaggio dalla «giustizia sociale» al «dinamismo economico».

Il consolidamento nel decennio successivo del trend rappresentato dalla disintegrazione della sinistra e dall’avanzamento del populismo di destra scava lentamente una voragine politica sotto i piedi dell’ordine di Maastricht. Si profilano all’orizzonte anche vere e proprie crisi di rigetto del processo di integrazione. Dopo la bocciatura che il trattato costituzionale conosce nel 2005 sia in Olanda che in Francia, è oggi un intero paese, l’Inghilterra, che denuncia i contratti sottoscritti.

La spiegazione di Brexit come voto dei vecchi contro i giovani ha inteso ridicolizzare il significato di un voto di altissima complessità politica. Esce il paese che in ragione del controllo della propria moneta ha avuto negli ultimi tre anni uno sviluppo superiore non solo a quello della media europea, ma della stessa Germania. Ma ancora: l’economia inglese caratterizzata dai servizi finanziari è particolarmente interessata al mantenimento di integrazioni sovranazionali. Le piazze finanziarie di Londra e Francoforte lavorano insieme da anni. Insomma esce il paese che più di ogni altro godeva i vantaggi della sua presenza in Ue senza dover sopportare il peso della politica di austerità.

Solo sul medio e lungo periodo sarà possibile valutare le conseguenze di questa scelta per l’economia inglese. Il significato politico è invece immediatamente valutabile. È la prima grande delegittimazione di Maastricht in quanto ordine che consacra il potere tedesco attraverso una finta universalità delle regole. Certo ha pesato enormemente, come Teresa May ha riconosciuto nel suo discorso di investitura a Brighton, il voto dei lavoratori meno qualificati, delle imprese meno competitive, dei territori più periferici (anche se il sì e il no si distribuiscono in modo uniforme nel sud e nel nord del paese). Ma sarebbe errato non vedere in quel voto anche un grande problema di identità. Brexit chiama in causa i limiti non solo di uno sviluppo che non cessa di dividere e polarizzare, ma anche di una cultura neoliberista astrattamente cosmopolita che pensava di aver cancellato nello spazio di un ventennio le differenze prodotte da secoli di storia.

Emmanuel Todd ha proposto di leggere Brexit in un’ottica di longue durée, e certo in modo provocatorio ha detto che l’Europa di oggi assomiglia stranamente a quella del 1941, con il continente sotto il tallone tedesco e la Gran Bretagna che resiste in solitudine4. Forse non si sta tornando, come egli sostiene, all’ Europa delle nazioni, che non è stata poi propriamente un paradiso terrestre, ma dall’intreccio sempre più stretto tra questione sociale e questione democratica che sta alla base di Brexit esce la voce forte di un’Europa che non si lascia uniformare dalla governance del terzetto Merkel/Schäuble/Weidmann, che intende mantenersi plurale e cerca un’unità da perseguire nella diversità, fatta, quest’ultima, non solo di livelli di sviluppo difformi ma anche di tradizioni e di storia non facilmente omologabili. È in questo senso complesso che Brexit ripropone alla Ue la centralità della questione democratica. Il messaggio forte mi pare quello di un’Europa che non vuole cancellare il suo pluralismo e che del sistema delle sue differenze intende fare una ragione non di debolezza, ma di forza.

Seppure con logiche del tutte diverse la crisi di Maastricht matura pericolosamente anche in Francia. Dietro la stretta terroristica in cui si sta avvitando il paese c’è l’onda lunga della storia nazionale la cui lettura è in questi mesi oggetto di dibattito serrato. Alla interpretazione del terrorismo come risultato di una radicalizzazione dell’Islam, cui si dovrebbe rispondere con la intensificazione della laicità (Jill Kepel), si risponde affermando la islamizzazione di un radicalismo connesso a una svolta generazionale che ha nel disagio delle periferie il suo luogo di origine(Olivier Roy). Altri, forse con ancor più ragione, parlano di una sofferenza post coloniale. Si ha talvolta l’impressione di assistere a una guerra di Algeria che non riesce a trovare la sua conclusione, e la cui memoria si trasmette, forse inconsciamente, attraverso le generazioni.

Lo spostamento a est dell’asse geopolitico della Ue, supinamente accettato dalla classe dirigente francese, ha imposto al paese l’abbandono di ogni strategia di dialogo mediterraneo, favorendo le forze che al suo interno cercano visibilità e consenso nella moltiplicazione sempre più insensata e autolesionista delle avventure neocoloniali. Ma ancora: nel momento in cui il terrorismo porta alla luce tutti i limiti delle strategie di integrazione fino a oggi seguite, i governi in carica assistono impotenti al moltiplicarsi della disoccupazione, tagliano i livelli del welfare, aggrediscono i diritti consolidati del popolo lavoratore. Tutti i democratici europei guardano con profonda apprensione alle prossime elezioni della primavera del 2017. Saranno i valori della rivoluzione francese a essere messi ai voti!

La radicale incapacità di Maastricht di dare risposte, non solo malthusiane e repressive, alle sfide della globalizzazione è stata tuttavia definitivamente messa in luce dal salto improvviso dei flussi migratori. Dinanzi a una emergenza che richiede se non progetti comuni almeno coordinamento organizzativo degli sforzi è balzata in primo piano tutta la miseria culturale di quella che Steffen Lehndorff chiama la «integrazione che divide», ossia un congegno di governo tutto rivolto a isolare e contrapporre le economie e gli Stati, a impedire qualsiasi sinergia che travalichi la soglia del rispetto dei parametri di stabilità. Dopo nove anni di crisi le élite europee non danno alcun segno di ripensamento.
3. In effetti, che la Germania svolga un ruolo di architrave nell’ordine di Maastricht non autorizza a mettere sullo sfondo l’apporto decisivo di quella che ancora Steffen Lehndorff chiama «la coalizione dei non volenterosi», ossia l’appoggio che i governi degli altri paesi europei (democraticamente eletti, si sottolinea talvolta polemicamente, ma non a torto) danno a politiche Ue che negano sistematicamente qualsiasi principio di collaborazione e di solidarietà.

La ricerca di una alternativa non può non prendere le mosse che dalla identificazione del consenso, del «blocco sociale», che si è saldato intorno alle politiche vigenti. Una distinzione è necessaria tra la Germania e gli altri paesi europei.

Sono elementi portanti del consenso tedesco al modello economico nazionale:

a) Una forte saldatura di interessi tra imprese e sindacati nei settori trainanti delle esportazioni (in primo luogo il settore automobilistico) dove la «riforme» di Schroeder non hanno intaccato il tradizionale regime di alti salari.

b) Il conservatorismo patrimoniale, dice Massimo D’Angelillo, ossia la difesa del risparmio e del potere d’acquisto delle pensioni in un paese con un tasso di natalità fortemente decrescente. Significativi i continui attacchi della stampa tedesca a Draghi per la sua persistente politica di sempre più bassi tassi d’interesse.

c) I surplus commerciali, provenienti dalle esportazioni, che ammontano al 50% del Pil,e che consentono di integrare i bassi salari del secondo settore di un mercato del lavoro apertamente duale (8 milioni di minijobs), e di garantire nello stesso tempo il mantenimento di buoni livelli di welfare.

d) Infine con la riunificazione la Germania si è sbarazzata del senso di colpa per il passato nazista e ha inaugurato una politica di monumentalizzazione della memoria che toglie dall’armadio tutti gli scheletri. Il ritrovato senso di autostima nazionale, sottolinea Leonardo Paggi, produce consenso a un modello economico che mostra la sua superiorità non tanto nella capacità di promuovere gli altri, quanto al contrario in quella di bloccare e reprimere le loro possibilità di sviluppo. Non sorprende dunque che nella conduzione di questo tipo di politica europea, sostenuta da una «grande coalizione» che cancella ogni distinzione tra destra e sinistra, si determini un progressivo spostamento dell’asse ideologico e politico del paese in senso sempre più marcatamente conservativo. Ciò che peraltro rende sempre più difficile l’importazione di mano d’opera straniera di cui l’economia tedesca ha un crescente bisogno, visto il trend demografico in atto.

Tratti solo in parte analoghi tornano nella struttura del consenso di cui Maastricht si avvale negli altri paesi europei:

a) L’industria trainante è in Europa quella più fortemente internazionalizzata (questo vale anche per la parte più competitiva dei nostri distretti), che condivide pertanto la priorità accordata dalla Germania alle esportazioni.

b) Nelle imprese più dinamiche una parte crescente dei profitti è realizzata tramite la presenza sul mercato azionario e comunque sempre più diffusa è la logica di share holder che ha trasformato e americanizzato dall’interno il tradizionale modello produzionista tedesco.

c) Stabilità dei prezzi e assenza di inflazione garantiscano ovunque non solo i creditori, ma anche una popolazione fortemente invecchiata che fa delle pensioni una quota crescente del reddito nazionale.

d) Una volta creatasi la figura dello stato debitore la sua permanente esposizione alla speculazione internazionale, esplicitamente prevista e voluta dal trattato, impone consenso attorno a politiche di pareggio del bilancio come mezzo per evitare mali peggiori. Esemplare in questo senso la formazione del governo Monti, che ha ben dimostrato come il consenso si possa estorcere anche con la forza del ricatto e della coercizione.

e) Dato lo stato dei rapporti di forza, anche in presenza di una crescita bloccata, l’impresa può appropriarsi di una parte crescente della torta senza correre il rischio di una ripresa del conflitto redistributivo quale si avrebbe in un quadro di sviluppo. Non è insomma un caso che le Confindustrie di tutta Europa accettino senza protestare le politiche di austerità.

f) La cultura dell’individualismo darwiniano, che trasuda da tutti i pori del trattato, è tanto più vincente quanto più forte è la stagnazione. Solo con una crescita ritrovata si potrebbe rigenerare il senso della solidarietà e apprezzare il valore dei dividendi provenienti da uno sforzo comune.

Se questi sono alcuni fattori che spiegano almeno in parte lo stato di passività esistente, dove sono le «forze motrici» che possono spingere verso la riapertura di quel circuito tra crescita e eguaglianza che Aldo Barba pone a fondamento della sua analisi critica?

Poiché la dimensione europea é stata messa in sicurezza e quasi sigillata nei confronti dei rischi della politica, una ripresa di potere democratico si può determinare, anzitutto, solo ritornando dall’atmosfera rarefatta e irrespirabile della governance al terreno corposo e vitale della sovranità nazionale.

Di questo concetto si può avere una accezione ideologica e subalterna che tende a sottovalutare o a mettere tra parentesi i livelli di internazionalizzazione e di globalità raggiunti dallo sviluppo capitalistico. Ma della sovranità esiste anche una visione funzionale, realistica, che mette in valore la riconquista dello spazio politicodemocratico, distrutto dalla astratta dimensione sovranazionale della moneta unica. Solo sui terreni nazionali, ossia a contatto con la realtà immediata e tangibile della vita quotidiana, è possibile provocare la crisi del mondo capovolto della moneta unica. Con il noto adagio « ce lo chiede l’Europa» è stato proposta e purtroppo accolta dalle élite europee una totale dismissione della responsabilità politica nazionale. La precedenza dell’Europa si è trasformata in un vero proprio alibi per abbandonare il rapporto con i bisogni, con i territori, con le specificità della storia.

Il processo non è stato tuttavia indolore.

L’ordine di Maastricht è oggi vittima del suo stesso successo. La crisi dei partiti democratici, che corrisponde al crescente potere di decisione dei mercati, ha fatto sì che – lo abbiamo già ricordato – la protesta sociale generata dalla austerità e dalla globalizzazione ha alimentato un populismo sempre più eversivo. Il terrorismo, come fattore potenzialmente endemico, moltiplica ora a vista d’occhio la forza persuasiva della ragione populista. Tornano alla mente le analisi di Franz Neumann sul nesso tra angoscia e politica come fattore propulsivo dello stato autoritario. Ancora una volta la crescente alienazione economica e sociale di massa alimenta una visione cospirativa della storia che compatta il «popolo» contro un nemico esterno.

Questa emergenza impone l’obbligo di lavorare, qui e ora, per un allentamento e una rottura dei vincoli esistenti sul filo di un netto spostamento di ottica e di enfasi dal tema della disciplina a quello delle possibilità. Gli autori di questo volume non credono che il problema sia quello di rinegoziare questo o quel parametro del trattato. È in fondo una riprova di questa loro convinzione anche l’assai scarso successo con cui il nostro Presidente del consiglio cerca in Europa inesistenti spazi di autonomia, con la richiesta di questa o quella «flessibilità», se non addirittura con le invocazioni ad «un’Europa più umana»! Siamo dinanzi a un sistema coerentemente e conseguentemente oligarchico, in cui la negazione dello sviluppo fa tutt’uno con la messa in mora della democrazia.

E tuttavia stiamo vivendo un paradosso che non può essere ignorato. Il monopolio che il populismo detiene della critica della situazione esistente fa sì che il sistema consegua nuova legittimazione, proprio agli occhi di una opinione pubblica democratica, come l’unico possibile depositario del progetto europeo. Se non si spezza la tenaglia che si è creata, con l’ austerità da un lato e il populismo dall’altra, qualsiasi nuova opportunità creata dalla crisi andrà perduta. Per questo ci pare essenziale l’apertura di un dibattito sui principi (non sulle misure specifiche) di una agenda di stabilizzazione democratica della situazione italiana e europea, che favorisca la costruzione di un movimento anti-Maastricht diverso da quello populista.

Fino a oggi la critica della moneta unica non è andato oltre la proposta astrattamente taumaturgica di uscita dall’euro o la previsione irrealistica di un suo inevitabile crollo. L’euro ha dimostrato di saper reggere, forse anche in ragione dell’uso repressivo che di esso hanno fatto e continuano a fare i mercati finanziari. Sono la società, la politica, le identità democratiche che deperiscono. Non sembra saggio aspettare che il cadavere passi lungo il fiume. Le crisi economiche producono una degenerazione del capitalismo (fino al nazismo), mai il suo crollo. Maastricht del resto non è solo una moneta unica, è anche una cultura, una concezione del mondo, una proposta di «civiltà». Per questo morirà, se morirà, solo di una morte politica. È per la costruzione di un movimento ancora inesistente che occorre mettere sul tappeto il problema di una filosofia di governo alternativa e di un programma che indichi, in primo luogo sotto il profilo concettuale, alcuni punti di scorrimento verso un’Europa politica della crescita.
4. La vera scommessa è quella di trasformare la protesta sociale in conflitto redistributivo e in alternativa politica. In questa prospettiva ci sembra utile sottolineare l’importanza di alcuni ordini di problemi, con particolare riferimento alla situazione specifica del nostro paese.

Il recupero del rapporto tra democrazia e sovranità. Premessa essenziale di qualsiasi evoluzione positiva è la condanna e il rigetto aperti della governance che configura la Ue come «uno stato di polizia economica», secondo la definizione di Alessandro Somma. Contro la imposizione di regole punitive e uguali per tutti è essenziale ritrovare lo spazio e il metodo della discrezionalità e della responsabilità politica, aperto a ragionamenti e negoziati capaci di interpretare i bisogni specifici di situazione specifiche. I dadi del resto sono truccati. Le regole sono pensate e scritte in piena conformità all’«eccezionalismo» tedesco, ossia per una economia che ha impostato la crescita sulla leva del surplus commerciale piuttosto che sui consumi e gli investimenti. È in accordo a questa logica che sono nati i parametri del 60% del pil per il debito e del 3% per il deficit, i quali pertanto non sono da rinegoziare ma da respingere in via di principio. Il culto delle regole ha trasformato la Ue in un intollerabile spazio gerarchizzato in cui i Peripherielaender pagano un prezzo crescente in termine di autonomia delle scelte di politica economica, di disoccupazione rampante, di perdita di pezzi di apparato produttivo, quasi sempre a favore di gruppi industriali tedeschi che amano comprare a prezzi stracciati.

La difesa del salario. Una delle misure prese da Frank D. Roosevelt nei suoi primi cento giorni fu la messa sotto protezione del sindacato uscito massacrato dalla rivoluzione tecnologica e dagli attacchi conservatori degli anni Venti. La misura era intesa come passaggio obbligato per ricreare il potere d’acquisto necessario a interrompere la morsa deflattiva in cui era caduta l’economia americana. Per una situazione analoga abbiamo già visto che il quantitative easing non basta. La stagnazione italiana data dalla seconda metà degli anni Novanta e ha la sua prima ragione nell’arresto della domanda interna provocata, in primo luogo, dal blocco della contrattazione salariale. Nelle condizioni di estrema debolezza in cui si trova il sindacato, la difesa della contrattazione collettiva è oggi una misura di governo indispensabile. Si tratta di rovesciare la logica che presiede alle «svalutazioni interne» volute da Maastricht secondo cui in un regime di cambi fissi la competitività e il pareggio di bilancio devono essere assicurati comprimendo i livelli di vita della popolazione.

La ripresa della produttività. È questa la via maestra per la indispensabile ripresa di competitività della nostra economia. I dati che la Banca d’Italia fornisce in proposito parlano di una catastrofe nazionale. L’economia italiana sta perdendo ogni capacità di produrre e distribuire ricchezza. La medicina è nota. Investimenti in capitale umano volti a elevare il livello della formazione professionale, investimenti in ricerca e sviluppo che lo stesso trattato di Lisbona aveva proclamato indispensabili, e che il patto di stabilità vieta perentoriamente, innovazione e internazionalizzazione del sistema delle imprese, innalzamento del livello di efficienza della pubblica amministrazione. L’accettazione passiva dei parametri di Maastricht significa complicità attiva nel processo di distruzione dei livelli di civiltà conseguiti dal nostro paese. Perché il governatore Ignazio Visco non sottomette alla più ampia opinione pubblica del paese i dati di cui è a conoscenza? [5]

Emergenza migrazioni. La fedeltà al principio dell’accoglienza in assenza di qualsiasi programma di gestione della forza lavoro immigrata è destinata sul medio periodo ad accumulare degrado e contraddizioni sociali e politiche sempre più insostenibili. È proprio il Sud a darci l’esempio di due esiti possibili. Il campo di concentramento di Rosano consegna al caporalato la nuova forza lavoro. Il caso di Riace indica quanto la rete dei comuni potrebbe fare in termini di allocazione sensata delle risorse, se convocata, organizzata e diretta dai poteri centrali del governo.

La pace e la guerra. Da tempo l’ Europa ha cessato di essere forza di pace. Maastricht nasce contestualmente all’inizio di una politica di esportazione della democrazia, resa possibile dalla fine degli equilibri della guerra fredda. Si è rivelata nei fatti l’esistenza di una correlazione strettissima tra il conferimento ai mercati di una piena e totale libertà di movimento e l’idea che i confini degli stati siano modificabili ad libitum con l’ausilio delle armi. L’Europa è stata pienamente coinvolta nell’effetto domino che l’invasione dell’Iraq del 2003 ha scatenato in Medio Oriente, nel Mediterraneo e nei rapporti con la Russia. Nel permanere di questo quadro le stesse relazioni intra europee sono destinate a deteriorarsi, come la crisi di Schengen ha già abbondantemente dimostrato.

Con l’indicazione di questi temi, ma molti altri se ne potrebbe aggiungere, si è voluto esprimere la convinzione che un’opposizione politica di governo può nascere solo con un programma che assuma senza mezze misure la profondità dei guasti provocati da Maastricht. Qualcosa si può e si deve fare. Niente di quello che è accaduto deve essere dato per scontato e irreversibile. In definitiva, venticinque anni sono solo un soffio se commisurati ai tempi della storia europea.
NOTE

1. Il testo dell’introduzione è stato redatto da Leonardo Paggi che si è avvalso dei contributi di discussione di Aldo Barba, Massimo D’Angelillo e Alessandro Somma.

2. Cfr. Infra, p. 32.

3. Intervista a «Die Zeit», 7 luglio 2016.

4. Intervista pubblicata su «Atlantico.fr» il 3 luglio 2016.

5. Mi riferisco in particolare all’intervento pronunciato dal Governatore della Banca d’Italia a Bari il 29 marzo 2014 al Convegno Biennale Centro Studi Confindustria su «Il capitale sociale e la forza del paese».

(30 settembre 2016)

Se è l’euro la causa dei tanti populismi europei

 da Il Manifesto


Intervenendo sul manifesto del 23 settembre Giorgio Lunghini fornisce “qualche cifra sugli effetti dell’abbandono della moneta unica”. In sintesi: l’uscita provocherebbe una svalutazione del 50% della nuova valuta italiana, cui conseguirebbe nel primo anno un’inflazione del 15%, che poi si attesterebbe su una media del 20% nel quinquennio successivo. La svalutazione farebbe raddoppiare il valore dei titoli di Stato in mano ai non residenti, determinando il default dello Stato italiano, mentre l’inflazione farebbe dimezzare il valore dei titoli di Stato in mano ai residenti, causando un crollo del reddito disponibile delle famiglie dell’11%. L’inflazione, inoltre, eroderebbe i salari, causando una perdita media annua di reddito del 10%. Il risultato sarebbe una perdita di Pil pari a circa il 40% per l’Italia nel primo anno, seguito da 15% negli anni successivi per almeno un triennio.
Nessuno si nasconde le criticità dell’abbandono della moneta unica. D’altra parte, lo stesso Lunghini ammette che essa è insostenibile. Corre quindi l’obbligo di discuterne gli esiti con serenità e attenendosi, nella misura del possibile, alla base fattuale fornita dai dati statistici e dalla ricerca scientifica.
Nelle statistiche della Banca d’Italia leggiamo che una perdita di Pil del 40% come quella paventata da Lunghini ha un solo precedente storico: i cinque anni del secondo conflitto mondiale. Questo per valutare la plausibilità dello scenario, che inoltre è aritmeticamente incoerente. Lunghini cita un crollo del 10% di redditi da lavoro: un valore che è difficile conciliare, senza ipotesi “eroiche” sulle altre componenti di reddito, con una caduta del 40% dei redditi totali.
Va anche valutata la tesi secondo cui a fronte di una perdita di competitività del 30% verso la Germania l’Italia svaluterebbe del 50% portando l’inflazione al 20%. Il ministero dello Sviluppo Economico ci ricorda che al mondo non siamo in due: fra i 30 partner commerciali più importanti dell’Italia solo otto appartengono all’Eurozona. Rispetto agli altri, che esprimono il 44% del nostro commercio, abbiamo già svalutato del 20% fra marzo 2014 e marzo 2015. Ne discendono due considerazioni. Primo: i paesi che già hanno subito la svalutazione competitiva di Draghi difficilmente lascerebbero cadere il cambio di un concorrente pericoloso come l’Italia di un altro 50%. Secondo: con un euro così indebolito rispetto ai paesi da cui importiamo materie prime, di inflazione non se n’è vista.
L’idea che i riallineamenti del cambio oltrepassino il nuovo equilibrio (overshooting), per cui una perdita di competitività del 30% porterebbe a una svalutazione del 50%, è propria dei modelli economici neoliberisti, che non trovano grande riscontro in pratica. L’idea che esista un legame diretto fra svalutazione e inflazione è anch’essa smentita dall’evidenza: in nessuno dei paesi europei che hanno reagito alla crisi del 2009 svalutando in media del 25,7% (Inghilterra, Polonia, Svezia) si è manifestata inflazione nelle proporzioni evocate da Lunghini (l’inflazione è stata in media del 2,5%). Esiste un’ampia letteratura che riscontra e spiega perché le grandi svalutazioni non sono associate a grandi inflazioni (Burstein et al. sul J. Pol. Ec. del 2015). Ci scusiamo per il riferimento pedante: il rischio apparire tali ci sembra inferiore rispetto a quello di non essere scientificamente rigorosi.
Nell’esprimere le proprie opinioni occorre interrogarsi sull’opportunità politica di presentarle come fatti intervenendo in un dibattito così delicato. Se quello che preoccupa Lunghini, come tutti noi, è l’avanzata delle destre populiste, dobbiamo allora confrontarci sul punto che combattere il populismo con argomenti altrettanto populisti è una strategia che finora è risultata controproducente. L’unica speranza di contrastare le destre è aprire a sinistra un dibattito basato su fondamenta analitiche e fattuali più solide
***Sergio Cesaratto, Massimo D’Antoni, Vladimiro Giacché, Mario Nuti, Paolo Pini, Antonella Stirati

La replica: “Se nessuno spiega le conseguenze positive del no euro”

Nessuno dei miei molti articoli pubblicati in tanti anni sul manifesto aveva suscitato tanti commenti: quasi 50 sullo stesso manifesto, almeno altri 50 in altri luoghi. Commenti quasi tutti nella forma dell’invettiva e della denuncia di un mio bieco anticomunismo.
Del tutto diverso, per forma e contenuto, è il commento di Paolo Pini e altri amici, che anzi ringrazio. Ricordo soltanto che nel mio testo avevo parlato di “stime”, e non di “dati” o di “fatti”: dunque è benvenuta qualsiasi correzione, soprattutto se così autorevole.
Sì, una delle mie preoccupazioni è l’avanzata delle destre populiste, tuttavia anche a sinistra talvolta si parla di una uscita dalla Uem e dall’euro. Nessuno ha però ancora dato risposta alla domanda in cui consisteva il mio articolo: quali potrebbero essere le conseguenze positive di una uscita dalla Uem e dall’euro, per l’economia italiana tutta e in particolare per i lavoratori? E desidero anche ricordare che sempre sul manifesto, tre anni fa, era uscita una lettera aperta sulla necessità di cambiare le politiche di austerità e di modificare i Trattati, lettera che qui viene ripubblicata.
Giorgio Lunghini

La lettera-appello: “Invertire la rotta”

Al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano
Al Presidente del Consiglio dei Ministri, Enrico Letta
Al Presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso
Al Governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi
La crisi dura ormai da sei anni. Innescata dalla povertà di massa figlia di trent’anni di neoliberismo,
esaspera a sua volta povertà e disuguaglianza. Moltiplica l’esercito dei senza-lavoro. Distrugge lo
Stato sociale e smantella i diritti dei lavoratori. Compromette il futuro delle giovani generazioni.
Produce una generale regressione intellettuale e morale. Mina alle fondamenta le Costituzioni
democratiche nate nel dopoguerra. Alimenta rigurgiti nazionalistici e neofascisti.

Concepita nel segno della speranza, l’Europa unita arbitra della scena politica continentale
rappresenta oggi, agli occhi dei più, un potere ostile e minaccioso. E la stessa democrazia rischia di
apparire un mero simulacro o, peggio, un pericoloso inganno.
Perché? È la crisi come si suole ripetere la causa immediata di tale stato di cose? O a determinarlo
sono le politiche di bilancio che, su indicazione delle istituzioni europee, i paesi dell’eurozona
applicano per affrontarla, in osservanza ai principi neoliberisti?
Noi crediamo che quest’ultima sia la verità. Siamo convinti che le ricette di politica economica
adottate dai governi europei, lungi dal contrastare la crisi e favorire la ripresa, rafforzino le cause
della prima e impediscano la seconda. I Trattati europei prescrivono un rigore finanziario
incompatibile con lo sviluppo economico, oltre che con qualsiasi politica redistributiva, di equità e di
progresso civile. I sacrifici imposti a milioni di cittadini non soltanto si traducono in indigenza e
disagio, ma, deprimendo la domanda, fanno anche venir meno un fattore essenziale alla crescita
economica. Di questo passo l’Europa la regione potenzialmente più avanzata e fiorente del mondo
rischia di avvitarsi in una tragica spirale distruttiva.
Tutto ciò non può continuare. È urgente un’inversione di tendenza, che affidi alle istituzioni politiche,
nazionali e comunitarie il compito di realizzare politiche espansive e alla Banca centrale europea una
funzione prioritaria di stimolo alla crescita.
Ammesso che considerare il pareggio di bilancio un vincolo indiscutibile sia potuto apparire sin qui
una scelta obbligata, mantenere tale atteggiamento costituirebbe d’ora in avanti un errore
imperdonabile e la responsabilità più grave che una classe dirigente possa assumersi al cospetto
della società che ha il dovere di tutelare.
*** Étienne Balibar, Alberto Burgio, Luciano Canfora, Enzo Collotti, Marcello De Cecco, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Giorgio Lunghini, Alfio Mastropaolo, Adriano Prosperi, Stefano Rodotà, Guido Rossi, Salvatore Settis, Giacomo Todeschini, Edoardo Vesentini

giovedì 29 settembre 2016

Spinoza Rosso Sangue, ovvero della pena di scrivere

Politica&EconomiaBlog: Hot€l California

Politica&EconomiaBlog: Hot€l California:  Domani (venerdì 30 settembre) il manifesto ha promesso di pubblicare un articolo a più firme (incluso il sottoscritto) che risponde a...

Quel penoso accordo sulle pensioni...

di Giorgio Cremaschi 

La sostanza dell'accordo è che la Fornero non si tocca. Il catastrofico innalzamento dell'età pensionabile resta tutto a fare i suoi danni alla condizione di lavoro e alla occupazione. Si potrà andare in pensione prima solo se si vincerà la lotteria dei lavori usuranti. Pochi saranno scelti tra coloro che hanno già 41 anni di contributi. Oppure se le aziende ti manderanno via come esubero. Oppure se ti indebiterai per 20 anni con quel raggiro usuraio che è l'APE.
Il solo risultato che viene sbandierato è la quattordicesima aumentata o elargita per la prima volta a circa tre milioni di pensionati con i redditi più bassi. A parte il fatto che gli aumenti non sono quelli vantati dalla propaganda, ma molto inferiori e legati al reddito complessivo del pensionato, c'è da chiarire che i soldi per questo piccolo risultato vengono direttamente dai tagli di tutte le altre pensioni per tutti gli altri pensionati.
L' ultimo comma del verbale firmato da Cgil Cisl Uil rinvia al 2019 la questione del taglio delle indicizzazioni delle pensioni. Come tanti ricordano nel 2012 Elsa Fornero si era commossa in pubblico mentre annunciava che avrebbe bloccato la rivalutazione delle pensioni rispetto all'inflazione. Nel 2014 la Corte Costituzinale ha dichiarato incostituzionle questa misura. Il governo però, come da abitudine, non ha rispettato la sentenza e ha dato solo piccole mance a una platea ridotta di pensionati. Sono in corso molte cause e diversi giudici hanno già rinviato di nuovo il contenzioso alla Corte. Ora governo e Cgil Cisl Uil concordano che se ne riparli nel 2019, nel frattempo milioni di pensionati continueranno a perdere soldi. Per un ammontare calcolato a suo tempo dallo stesso governo in almeno 10 miliardi. Ora siccome tutta la manovra pensionistica, secondo Poletti, costa 6 miliardi si può ben affermare che il bancomat pensionati ha permesso al governo di farsi bello prima del referendum e di intascare 4 miliardi di resto....
Il governo ormai lo conosciamo con i suoi trucchi. La cosa che davvero ci indigna è il degrado di Cgil Cisl Uil, che hanno abbandonato la loro già moderatissima piattaforma per fare da stampella a Renzi. E alla Fornero.

lunedì 26 settembre 2016

Il Diario di Spinoza: "Spinoza Rosso Sangue", langue

Il Diario di Spinoza: "Spinoza Rosso Sangue", langue: Insomma uno scrive un libro e come tutti  (o quasi) gli scrittori si mette in mente che è un buon libro e che alla fine il valore trionferà....

Fesserie di un economista



A proposito di un incredibile articolo di Giorgio Lunghini

di Leonardo Mazzei da Sollevazione

 
Poi c'è chi si chiede come mai, davanti al disastro dell'euro, la sinistra brancoli nel buio più della destra. Certo, c'è il problema della direzione politica e non è poco. Ma ci sono anche economisti che sparano immani stupidaggini spacciandole per verità. Il bello è che le loro improbabili certezze neppure provano a spiegarle. Le buttano lì come fossero indiscutibili, tanto per quella mercanzia un Manifesto che le pubblica si trova sempre, così come è sicuro che un anemico sito come quello del Prc le rilancerà con gioia.

E' questo il caso di un articolo di Giorgio Lunghini, uscito venerdì scorso. L'articolo è talmente maldestro che ce occupiamo solo per l'indiscussa fama dell'autore. Il fatto che certe cose vengano dette da un illustre cattedratico, già presidente della Società italiana degli economisti, è infatti la migliore dimostrazione di come l'ideologia (in questo caso quella eurista) prevalga quasi sempre su cultura, conoscenza, esperienza e capacità d'analisi che certo al Nostro non mancano.

Vediamo di cosa si tratta.
Nel breve testo intitolato "Le conseguenze di un'uscita dall'euro", Lunghini giunge a vette davvero ineguagliate. La sua non è un'analisi più o meno pacata, ma un elenco di traumi economici che colpirebbero il Paese al determinarsi del temuto evento. Il fatto è che neppure gli euristi più sfegatati, i liberisti più accaniti, gli indefessi adoratori della moneta unica a prescindere, sono mai giunti a sparare certe cifre.

Non siamo tra quelli che pensano che l'uscita dall'euro sarà una passeggiata. Non lo sarà di certo, ma i ceti popolari da molti anni non "passeggiano". Non siamo comunque tra coloro che si nascondono i problemi di una scelta pure necessaria. Ma che a sinistra circolino ancora "ragionamenti" terroristici come quello di Lunghini è di una gravità inaudita.

Esageriamo a parlare di terrorismo? Giudichino i lettori.
Prendiamo due previsioni contenute nel suo articolo, quella sul livello di inflazione e quella sulla caduta del Pil che si determinerebbe con l'uscita dall'euro.

Partiamo dall'inflazione, che secondo l'economista salirebbe al 20% annuo, non si sa - bontà sua - per quanti anni. Alla base di questa previsione ce n'è un'altra concernente la percentuale di svalutazione, che egli stima al 30% nei confronti della Germania.

Ora, a parte il fatto che il 30% sulla Germania (calcolato sulla base della perdita di competitività verso quel paese) non è un 30% applicabile all'intera area euro, qui il punto è un altro. Ed è che non si capisce da cosa spunti fuori il 20% di inflazione, se non dal manifesto desiderio di terrorizzare i lettori.

In proposito è sufficiente ricordare due eventi, uno di un quarto di secolo fa, ed un altro invece recentissimo.

Il primo è quello della famosa svalutazione della lira rispetto al marco (anche qui, si badi, rispetto al marco, non ad un indistinto paniere di monete) del settembre 1992. Quella svalutazione finì per attestarsi proprio sul temuto 30% di cui ci parla oggi Lunghini. Bene. Quale fu l'effetto sull'inflazione di quella svalutazione? L'inflazione media del triennio successivo (1993-1995) fu del 4,6%. Oggi può sembrare molto, ma l'inflazione media del triennio precedente a tassi fissi (1990-1992) - era stata del 5,9%! Come si vede la realtà è a volte un po' diversa da come ce la raccontano.

E il confronto con la Germania? Uno si aspetterebbe l'esplosione del differenziale di inflazione dopo il 1992. E invece quel differenziale, che era pari al 2,7% nel triennio 1990-1992 (quello precedente la svalutazione), scende sorprendentemente all'1,6% nel triennio post-svalutazione (1993-1995) nel quale la lira arriva a deprezzarsi fino al 50% sul marco (esattamente il picco che Lunghini ipotizza oggi uscendo dall'euro), per poi scendere all'1,2% nel triennio successivo (1996-1998) quando la lira prende a rivalutarsi.

Lungo sarebbe il discorso sulle ragioni di tutto ciò, e magari uno come Lunghini potrebbe utilizzare la sua scienza per illuminarci un po' su questo, ma due dati balzano agli occhi di chiunque: primo, non ci fu alcun vero effetto inflattivo determinato dalla svalutazione del 1992; secondo, siamo comunque nel campo dei decimali, non certo dei rotondi 20% messi lì solo per incutere terrore. Che l'andamento dell'inflazione dipenda da numerose altre variabili, oltre che dalla variazione dei cambi, ci pare comunque cosa assai evidente.

Questa osservazione è in realtà piuttosto banale, anche se così non sembra all'illustre economista. C'è però un fatto recente che dimostra quanto egli abbia torto. Negli ultimi due anni l'euro si è svalutato di circa il 20% sul dollaro, eppure abbiamo l'inflazione a zero. Se il Nostro avesse ragione, e tenendo conto della maggiore importanza della valuta americana, con la quale si effettuano i pagamenti delle principali materie prime importate, dovremmo avere un'inflazione a due cifre. E invece siamo a zero. Perché Lunghini omette questo piccolo particolare? Anche qui, giudichino i lettori.

Veniamo ora al disastro annunciato del Pil. Se sull'inflazione Lunghini ha sparato a caso giusto per impressionare, è sul Pil che dà il meglio di se. Citiamo:
«Come conseguenza di tutto ciò(degli effetti dell'uscita dall'euro, ndr), la caduta del Pil dell’Italia sarebbe pari a circa il 40% nel primo anno e al 15% negli anni successivi per almeno un triennio».
Avete letto bene: meno quaranta per cento, così per iniziare; poi un bel meno quindici per cento per almeno un triennio. Insomma l'azzeramento dell'economia italiana. Ma si può!!!???

Ora, ricordandoci che la pazienza è una virtù, andiamo a vedere il precedente di un autentico disastro: quello dell'Argentina. Quando uno dice Argentina sa di dire una cosa paurosa, che evoca i peggiori timori, l'esperienza peggiore che possa capitare all'economia di una nazione. E allora andiamo a vedere i dati di quell'inferno.

Nel 2002, anno in cui (a gennaio) viene abbandonato il cambio fisso con il dollaro, ed il pesoinizia a fluttuare, il Pil cala del 14,7%. Un calo drammatico e con gravissime conseguenze sociali, prima tra tutte la disoccupazione. Il calo, peraltro, fu anche il frutto del precipitare di una recessione già iniziata (proprio a causa del cambio fisso) nel 1999. In ogni caso drammatico, ma parliamo di un 14,7% in un paese con un'economia assai più debole di quella italiana, non certo dell'assurdo 40% che spara Lunghini per il nostro paese.

Questo per il primo anno. E negli anni seguenti? Per l'Italia il Nostro ha già parlato: meno quindici per cento all'anno, almeno per tre anni. E in Argentina, cosa successe al Pil negli anni successivi al divorzio con il dollaro? E' presto detto: +8,7% nel 2003, +8,3% nel 2004, +9,2% nel 2005, +8,5% nel 2006, +8,7% nel 2007. Detto in altri termini: in due anni si è più che recuperata la perdita del 2002, mentre nei cinque anni successivi allo sganciamento dal dollaro la crescita cumulata è stata del 51,6%. Dobbiamo aggiungere altro?

In Italia invece, rimanendo nell'euro, abbiamo un Pil inferiore dell'8% a quello dei livelli pre-crisi del 2007. Ecco le virtù della moneta unica! Ma i drammi sociali prodotti da questa situazione non preoccupano Lunghini quanto quelli ipotetici che seguirebbero l'uscita dall'euro.

Ad ogni modo, la cosa che grida vendetta è che il Nostro prevede per l'Italia —non si sa come, ma lasciamo perdere— un'Argentina moltiplicato tre per il primo anno post-euro, mentre per gli anni successivi il disastro continuerebbe, contraddicendo —ed anche qui non si sa perché— quanto avvenuto nel caso argentino.

Ora, la sparata è talmente colossale che conviene lasciare da parte ogni dettaglio tecnico. E' evidente che qui siamo davanti ad una religione, quella dell'euro, di fronte alla quale chi vi aderisce perde il lume della ragione. Che oggi, nell'anno 2016, si debbano leggere ancora robe di questo tipo fa però un certo effetto. Non che gli argomenti del Nostro siano nuovi. Al contrario, sono vecchissimi. Ma mentre nel campo degli economisti mainstream si evita ormai il ricorso a cifre così insensate, a sinistra invece non si riesce proprio a farne a meno.

"Sinistra"?
Ecco, forse su questo ci sarebbe da discutere. Un tempo "sinistra" significava anche, tra le altre cose, volontà di cambiamento, coraggio nell'affrontare il difficile compito della trasformazione dell'esistente. Oggi, ecco cosa ci propone invece Lunghini nella sua conclusione: «In breve, l’Unione Economica e Monetaria europea è come l'«Hotel California nella canzone degli Eagles: forse sarebbe stato meglio non entrare, ma una volta dentro è impossibile uscire».

Eccoci così arrivati al decisivo inno alla conservazione! Peggio: alla conservazione non per un supposto bene (come fanno da sempre gli "onesti" conservatori), ma per l'impossibilità anche solo di pensare ad un'alternativa al male presente.

E' sicuramente anche per questo male dell'anima che si vanno poi a sparare certe cifre. Ma in questo modo non ci si salva di certo né l'anima né la reputazione. 

venerdì 23 settembre 2016

SI debole perché NO è onnicomprensivo



di Tonino D’Orazio 23 settembre 2016.

Bratislava (summit dei leader europei) sancisce con profonde divergenze una ulteriore spaccatura di questa Unione. Il non aver capito che la “risoluzione” dei rapporti con l’Urss dei cosiddetti paesi del’est passasse soprattutto tramite una forte concezione di identità nazionale, sembra un grosso sbaglio. Prodi compreso che facendo di tutto per inglobarli urgentemente nell’Unione, seguendo un “forte consiglio” della Nato, ha tentato di barare sui tempi necessari. Non si sono sganciati da una Urss prepotente per infilarsi in una Europa altrettanto irrispettosa.  Che questa Unione stia arrivando alla fine per implosione interna, avendo messi tutti i paesi uno contro l’altro in una competitività dissennata e sotto una regia unica e ferrea tedesca (bisogna ribadire che i francesi non contano), che fa solo i propri interessi di classe (con gran parte dei lavoratori tedeschi che si avviano alla povertà), lo ha sancito la riunione di Bratislava. Basta vedere i dati di Eurostat invece di sentire i luoghi comuni sul benessere generale del popolo tedesco o di qualche premio annuale solo nelle grandi industrie automobilistiche. Ma principalmente la “salita” a due decimali (aspettando l’Austria) delle formazioni politiche di “ultra-destra” rivendicative di identità. Il rifiuto di ubbidire ai mille laccioli di Bruxelles ( che non sono “regole” e che nascondono interessi tedesco-francesi precisi, dallo zucchero nei mosti ai formaggi con polvere di latte ecc…), con i polacchi in testa (hanno appena dato il loro premio nazionale al migliore politico europeo all’ungherese Orban) e a seguire anche gli altri. Il Brexit è già fatto. Soldi (e armi Nato) contro servitù non è sufficiente, come non lo era con l’Urss.
Le scintille? L’immigrazione incontrollata (o auspicata) e l’austerity della Troika di Bruxelles. Alle prime elezioni che si presentano (cioè a quelle in cui ancora si riescono a votare), in tutti i paesi della cosiddetta Unione arriva, in un modo o nell’altro, una profonda protesta “contro” i propri governi, anche se le maggioranze innaturali tengono. Persino Renzi lo ha capito e con la solita giravolta, tornando da Bratislava, si scaglia a parole contro l’austerity che invece persegue nei fatti, aspettando il prossimo voto del popolo italiano. Il primo, oltre alcune grosse sconfitte amministrative, è quello sulla sua nuova costituzione autoritaria che inficia la sovranità popolare, come richiestogli dai poteri oligarchici e “forti”, cioè non democratici, esterni al nostro paese.
Una volta capito questo, e le pressioni internazionali arrivano forti e puntuali, a dire il vero manca all’elenco qualche piccola strage (sempre arrivata puntuale nei momenti di svolta dell’Italia) che rimetta il popolo nella sua iconoclastica paura, diventa difficile non individuare in questo voto, procrastinato e allontanato al limite, è pur vero con tutti i vari regolamenti vigenti, ma già con un parere tardivo della Cassazione che glielo permette, un NO onnicomprensivo di tutti i problemi e gli scempi politici ed economici tragici sul tappeto. Può essere un NO cosiddetto “della pancia”. E forse più che altro dalle menzogne continue del governo (“punti di vista diversi sui dati”), su tutto, puntualmente scoperte da altre informazioni. Lavoro, jobs act fallito, emigrazione alle stelle (250/300.000 all’anno, come nel 1890 e più del dopoguerra), voucher invece di retribuzione e previdenza corrette tali da affossare anche il futuro dell’Inps, (tra l’altro continuamente derubato dal governo), disoccupazione giovanile e non, pensionati alla fame, come gran parte delle famiglie italiane, neo-pensionati nelle mani delle banche(da piangere per il ridicolo, se non fosse che sarà un altro flop), correntisti timorosi e allo sbando per i propri soldi (bail in), saccheggio della Cassa Depositi e Prestiti per regalare alle banche i risparmi degli italiani, tassazioni dirette e indirette alle stelle e sempre insufficienti, sanità allo sbando (cioè avviata alla privatizzazione) e specialistica vitale inaccessibile a molti, insegnanti che “viaggiano” in tutta Italia spaccando la vantata e non più reale sacralità della “famiglia”, privatizzazioni del pubblico a cooperative per pagare i lavoratori al ribasso, alta mortalità sul lavoro malgrado una enorme massa in disoccupazione. Paura dell’immigrazione, problema snobbato dall’Unione e gestito solo con il nostro pietismo francescano, che però ha anche un limite prima o poi. Tutti i giorni ci vengono forniti dai mass media informazioni sulla povertà degli italiani e il “benessere” degli immigrati, quanto costano al giorno, di sfratti e hotel, in un crescendo di irrazionalità rabbiosa. (Vedi soprattutto la Lega di Salvini ma sarei curioso di sentire il “popolo silenzioso”). Il problema andrà al voto come sta succedendo in tutti gli altri paesi europei?
Mi dite, in questo mix, perché se l’occasione si presenta (e sembra proprio l’ultima, date le deforme previste dalla nuova costituzione dei ragazzini sotto l’ombrello di un ultra decano ancora in fase di disastri politici) di mandare possibilmente a casa gran parte di questa fallita dirigenza politica con un NO pesante, non lo si debba fare? Non mischiamo le cose? Le cose sono mischiate e diventa difficile anche a quelli del Sì uscirne fuori. E’ come se sostenessero questa impossibilità di sperare in un futuro migliore. Anzi, da Ciampi in poi, tutti hanno mentito, e Padoan continua imperterrito, sulla “riduzione delle tasse”, nemmeno su una sua migliore gradualità. Sono diminuite solo quelle delle imprese. Le grandi però, quelle appetibili dall’estero, perché le piccole (con 85% della manodopera italiana) continuano a fallire.  C’è una menzogna enorme sul debito “pubblico” dove lo stato è obbligato a prendere i soldi al 5% dalle banche private, in funzione di strozzinaggio, che invece lo prendono a 0,5% dalla Bce. Non è ineluttabile, è semplicemente un furto ai danni del popolo che aggrava scientificamente “il debito pubblico” e lo tiene “prigioniero” da anni e per anni. Se ne è accorto?
Forse da noi non sarà un NO esplicito contro l’Unione, e molti tenderanno a minimizzare, ma poco ci manca, soprattutto se dovesse vincere. Il Sì è la continuità del disastro, velenosamente sancito nella deforma, perché chiude all’angolo con vari sofismi, proprio la pericolosa sovranità popolare. La popolazione che andrà a votare percepisce questo?  Se sì, allora hanno ragione le oligarchie politico-bancarie internazionali a preoccuparsi di un successivo Italexit, sicuramente più disastroso del Brexit, che pur ha fatto tremare l’establishment e continua a dimostrare contro tutti e contro tutto, una rinnovata vitalità di quel paese. Era solo un problema di identità di quel Regno confederale mai realmente Unito? O le imposizioni dell’Unione a egoistica trazione tedesca avevano creato un mix economico-finanziario altrettanto asfissiante di quello italiano, dei paesi mediterranei o dei paesi dell’est, tipo colonie? Hanno votato “con la pancia” contro i neoliberisti i lavoratori britannici, considerati dalle oligarchie della City “ignoranti e ubriaconi”? La mappa del voto dà una netta vittoria del Brexit nei quartieri popolari e dove il degrado e la povertà erano maggiori e non per grazia ricevuta.
A questo si può aggiungere che ogni partito (o spezzoni) rifiuta le modifiche perché ritiene le proprie prioritarie. In genere la destra, compresa F.I. e pezzi del NCD, dicono NO  e chiedono il presidenzialismo (così caro a Berlusconi e a Napolitano che l’ha esercitato senza “permesso” costituzionale per 10 anni), la Lega un nuovo federalismo (con l’arma “di pancia” dell’immigrazione così redditizia in tutta l’Unione), il M5S il decentramento e un ritorno al proporzionale per ribadire la sovranità popolare e di partecipazione il più diretta possibile, il PD francamente difende il suo segretario, e la troika di Bruxelles (con “ce lo chiede l’Europa” con ulteriore cessione di sovranità), con il Sì mentre una parte più tradizionale difende il NO. La Sinistra,tutti compresi, difendono la Costituzione così come definita dalla Resistenza, pur ritenendo parti tecniche migliorabili ma non sui principi generali di rappresentanza e dei diritti.
Certamente, se il NO si carica anche di tutte le frustrazioni nazionali, se non individuali, della difficoltà di vivere e meno sulla valutazione di merito, articolo su articolo, possiamo anche dire che sarà di “protesta”, e Renzi dovrà andare via, insieme al suo governo verdiniano e ambiguo, lasciando una scia terremotata con problemi di “ricostruzione”. Allora, affinché tutto cambi e niente cambi, invece di andare al voto, (anche perché l’Italicum è in fase di aggiustamento per l’asso piglia tutto, come la legge ungherese, controllate per favore), si dovrà designare un altro “tecnico” di “provata esperienza”, e non potrà essere che un banchiere di Goldman Sachs, Padoan, o qualche altro genio bancario. 

giovedì 22 settembre 2016

Valutazione di una nota agenzia letteraria di "Spinoza Rosso Sangue". Poi ditemi che non è un capolavoro

Di seguito la valutazione di una nota agenzia letteraria, della quale preferiamo non fare il nome, del nostro romanzo

Valutazione del testo “Spinoza rosso sangue”

Gentili signori Cilli e D’Amico,
come da Vostra richiesta, abbiamo letto e valutato il romanzo “Spinoza rosso sangue”, che reputiamo idoneo agli standard qualitativi che ...omissis


Si tratta di un romanzo trasversale e che si inserisce nell’ambito di un ventaglio di generi letterari, dal fantasy gotico al noir al romanzo puro, di cui gli autori hanno sapientemente utilizzato i codici linguistici ed espressivi.
Difficile e limitante, darne una definizione univoca.
Il target in cui potrebbe essere inserito, tuttavia, sembrerebbe essere (efficacemente) quello del fantasy.

La scrittura è caratterizzata da un ritmo e un taglio cinematografici particolarmente efficaci; lo stile appare brillante; il linguaggio, colto e dal tono spesso ironico.
Si ravvisa, in alcuni passaggi, una certa “frenesia narrativa” che porta a una sovrapposizione poco fluida degli scenari e dei personaggi.
Il mood della narrazione è permeato da una atemporalità latente, che tuttavia non si esprime in maniera esplicita: da qui, la sensazione di trovarsi di fronte a scenari spazio/temporali paralleli.


“Sensazione” e non certezza, perché l’elemento temporale resta la grossa incognita di tutto il romanzo.
“Quando” e “Dove” sono i due interrogativi che un ipotetico lettore si pone costantemente.

Ottima ci è parsa la caratterizzazione dei personaggi.
Il ritmo e il tono dei dialoghi appaiono adeguati al contesto e conferiscono vivacità e brio alla narrazione.

L’alternanza di scenari si sussegue con perizia narrativa coinvolgente ed efficace, che non annoia perché il cambio di fronte sposta continuamente l’attenzione da una vicenda all’altra.
Tuttavia, occorre fare attenzione affinché il lettore non resti disorientato da salti spazio/temporali repentini quanto affollati di personaggi.

L’apparente leggerezza della scrittura, che non diventa mai superficialità, accompagna la lettura inducendo una sempre rinnovata curiosità.

Nell’opera in visione si ravvisano notevoli margini di miglioramento stilistico/formale, che renderebbe il linguaggio più fluido e le sequenze narrative meno stridenti.

Si evidenzia, inoltre, la necessità delle note a piè di pagina che aiutino il lettore nella comprensione della terminologia adottata, nonché un indice dei personaggi e dei ruoli, particolarmente utile in un romanzo ricco come questo.



Si tratta di un testo interessante, che si legge piacevolmente, espressione di uno stile originale che ha ottimi margini di miglioramento e perfezionamento.

Siamo perciò lieti di comunicare che l’esito della prima valutazione è positivo e il nostro studio è disponibile ad annoverarVi eventualmente fra i suoi autori assistiti sul panorama editoriale italiano.

Nel caso desideraste procedere ad una prima definizione di percorsi e condizioni, Vi invitiamo a contattarci all’e-mail...omissis

                                                                      
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Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...