domenica 26 febbraio 2017

Per il lavoro, con i tassisti contro Uber

di Alessandro Somma da Micromega 

 
Un conflitto tra il vecchio che difende i suoi privilegi, e il nuovo che avanza verso un futuro radioso: così è stata rappresentata la lotta dei tassisti contro il cosiddetto Milleproroghe, contenente norme a favore di Uber. Mai come in questo caso, però, le semplificazioni sono l’anticamera delle menzogna, in questo caso amplificata da complessi tecnicismi. È dunque opportuno chiarire i termini della questione per definire innanzi tutto l’attività svolta dai tassisti in quanto servizio pubblico. Vedremo poi chi è Uber, il tipo di servizi che offre e i danni che sta producendo ai consumatori e soprattutto ai lavoratori. Infine mostreremo come, ciò nonostante, si sia oramai consolidata un’apertura crescente verso le istanze di Uber, e come questo non mancherà di riaccendere la lotta tra i tassisti e il governo.
Servizio pubblico

Per la Costituzione italiana “l’iniziativa economica privata è libera”, e tuttavia si prevedono “programmi e controlli” per indirizzarla a “fini sociali” (art. 41). Si fonda su questo principio la disciplina del servizio taxi, che la legge quadro sul trasporto di persone, predisposta nel 1992, qualifica come “servizio non di linea”: effettuato cioè “a richiesta”, “in modo non continuativo o periodico, su itinerari e secondo orari stabiliti di volta in volta”[1]. Servizio non di linea e tuttavia servizio “pubblico”, perché deve essere garantito giorno e notte per tutto l’anno, perché i tassisti sono obbligati ad accettare le corse e a recarsi nel luogo richiesto, perché il prezzo della corsa viene stabilito dall’autorità amministrativa e calcolato con dispositivi controllati (i tassametri), e perché a tutela del cliente vi sono penetranti controlli sull’autista e il suo veicolo.

Insomma, il trasporto pubblico non di linea non funziona secondo le regole del mercato. Se così fosse i tassisti potrebbero rifiutare il cliente perché non gradito, o il tragitto perché poco remunerativo, o il lavoro in una fascia oraria scomoda. Inoltre il prezzo delle corse muterebbe in funzione della richiesta: non ci sarebbero corse con una domanda scarsa, e i costi sarebbero spropositati nei momenti di domanda particolarmente elevata. Infine non vi sarebbe garanzia alcuna sulle caratteristiche e dunque sulla sicurezza del veicolo, sulle capacità dell’autista e sull’adeguatezza delle coperture assicurative.

Proprio perché ci troviamo fuori dal libero mercato, le autorità amministrative limitano l’accesso alla professione di tassista: è una misura indispensabile a bilanciare gli oneri imposti dallo svolgimento di un servizio pubblico. Di qui il sistema delle licenze a numero chiuso, a cui si accede per concorso oppure acquistandole da un precedente titolare. E solo chi ha la licenza può contattare la clientela su strada, ovvero sostare o circolare alla ricerca di persone da trasportare.
Taxi abusivi

La legge quadro del 1992 prevede una seconda, e ultima, modalità di trasporto pubblico non di linea: il noleggio con conducente (ncc), ovvero il noleggio con autista di veicoli, solitamente di fascia alta, per il tempo e il corrispettivo concordato direttamente con il cliente.

La rilevanza pubblicistica di questo tipo di trasporto è minore rispetto a quella dei taxi, soprattutto in quanto non fornisce un servizio obbligatorio. Proprio per questo, però, gli ncc non possono contattare la loro clientela sulla pubblica via: devono stazionare nelle rimesse, dove ricevono la richiesta di servizio e dove devono fare ritorno dopo averlo completato. E nel merito non rileva il fatto che la tecnologia consente di assecondare richieste mentre si è fuori dalla rimessa: la limitazione di cui parliamo serve per riservare ai tassisti il contatto diretto con la clientela e dunque, come abbiamo detto, per bilanciare gli oneri legati all’assolvimento di un servizio pubblico.

Per rafforzare la distinzione tra taxi e ncc, nel 2008 il legislatore è intervenuto per meglio precisarla e per indicare alcune sanzioni per i taxi abusivi, e in particolare per gli ncc che contattano la clientela su strada[2].

Questo nuovo intervento è stato però considerato lesivo del principio di concorrenza[3], motivo per cui la sua efficacia è stata subito sospesa: nel frattempo si sarebbe ridefinita l’intera materia, comprese le misure di contrasto dell’abusivismo[4]. Il periodo di sospensione, però, è passato senza che nulla accadesse e non è stato più riproposto. In compenso si sono più volte fissati nuovi termini per emanare disposizioni destinate a colpire l’abusivismo, sino ad arrivare al Milleproroghe oggetto dell’attuale scontro, che lo fissa al 31 dicembre 2017. Il tutto mentre si torna a sospendere il provvedimento del 2008[5], che non cancella la legge quadro del 1992, ma che comunque agevola l’abusivismo e in particolare il dilagare di Uber.
Uber

Negli ultimi tempi lo sviluppo tecnologico ha condotto a nuove modalità di trasporto privato delle persone, e queste hanno rivoluzionato il tradizionale sistema del trasporto pubblico non di linea. Sono infatti pensate per la medesima platea di clienti, e quindi consentono di eludere la disciplina volta a reprimere gli abusi.

Protagonista assoluta in tutte queste vicende è Uber, multinazionale statunitense fondata nel 2009, attualmente presente in 70 Paesi e 520 città: dato assolutamente provvisorio perché in costante e rapida crescita. Uber ha elaborato una piattaforma informatica per mettere in comunicazione persone interessate a un servizio di trasporto, motivo per cui si presenta come un soggetto terzo rispetto ai trasportatori e ai trasportati. Il tutto per non garantire la sicurezza dei passeggeri e soprattutto per non tutelare gli autisti, che di fatto sono lavoratori dipendenti ma formalmente figurano come liberi professionisti. E questo provoca danni anche allo Stato sociale e al fisco, dal momento che Uber, attiva in Europa come società con sede ad Amsterdam, non paga contributi ed elude la disciplina fiscale.

I problemi sono sorti soprattutto con il servizio Uber-Pop, fornito da autisti privi di qualsiasi titolo, che semplicemente devono aver compiuto 21 anni di età, possedere una fedina penale pulita, una patente da almeno tre anni non sospesa di recente, oltre a un’auto a quattro porte immatricolata da non più di otto anni. Per la multinazionale si tratta di “un servizio di ride sharing e di economia collaborativa, dove l’individuo mette in condivisione il proprio bene, in questo caso l’auto, con chi ha l’esigenza di spostarsi nella città”[6]. Di diverso avviso il Tribunale di Milano, che ha inibito l’uso della piattaforma su tutto il territorio nazionale: è assimilabile a un servizio di radio taxi e dunque costituisce una pratica di concorrenza sleale[7].

E a nulla serve invocare l’economia collaborativa, che si ha solo in presenza di una “piattaforma solidale”, come quella che nel trasporto di persone si ritrova nei servizi di car pooling (come BlaBlaCar), dove si condividono i costi di un viaggio tra persone tutte direttamente interessate a compierlo. Gli autisti di Uber-Pop non hanno invece un interesse proprio a recarsi nel luogo indicato dal cliente: il servizio non ci sarebbe se non fosse retribuito. Siamo allora di fronte al “segmento low cost del trasporto pubblico non di linea”[8], che consente ai suoi clienti spostamenti a condizioni economiche particolarmente favorevoli, ottenute però in modo abusivo.

Non solo. Il prezzo della corsa viene adeguato al livello della domanda (surge pricing), come succede per l’acquisto in rete di biglietti ferroviari o aerei. Anche da questo punto di vista non regge la posizione di Uber, secondo cui la piattaforma si limita a formare un “gruppo chiuso” o community a cui prendono parte autisti e clienti interessati ad “abbattere i costi di impiego dell’auto privata” e a “ridurre l’inquinamento”. Come dicono i giudici milanesi, infatti, “ove ci sia un prezzo e questo si ponga come variabile a seconda dell’incontro fra domanda e offerta, si è in presenza di un mercato concorrenziale”.

Sin qui i problemi posti da Uber-Pop, che però non esaurisce l’offerta di Uber. C’è anche Uber-Black, un servizio fornito da autisti in possesso dell’autorizzazione ncc, che dunque non ha prezzi concorrenziali rispetto al taxi. Viene però svolto violando la disciplina del trasporto pubblico non di linea, e in particolare il divieto di contattare la clientela su strada[9]: soprattutto da quando è stato vietato l’utilizzo di Uber-Pop. Ecco perché il Milleproroghe, sospendendo la disciplina a tutela della distinzione tra servizio taxi e ncc, ha provocato la comprensibile rivolta dei tassisti. I quali sanno del resto che la piattaforma della multinazionale statunitense gestisce anche Uber-X: la versione economica di Uber-Black, che dunque insidia direttamente l’attività dei tassisti.
Dal cittadino al consumatore

Insomma, chi difende i tassisti per affermare l’idea di un mercato regolato per fini sociali, ha validi motivi per essere preoccupato. Del resto il Milleproroghe è solo l’ultimo di una lunga serie di attacchi alla disciplina del trasporto pubblico non di linea, e più in generale ai servizi tradizionalmente forniti seguendo regole diverse da quelle che governano il mercato concorrenziale. Prevale oramai l’impostazione neoliberale, quella per cui la migliore distribuzione di beni e risorse è quella assicurata dal mercato. Il compito principale dello Stato è allora garantire l’inclusione dei cittadini nel mercato: è tutelarli in quanto consumatori.

Ovviamente lo sfondo di questo schema è dato dall’Europa, la paladina del mercato pervasivo, che fallisce solo se lo Stato assume compiti ulteriori rispetto al mero presidio della concorrenza. Anche se, in materia di trasporto pubblico, invocare l’Europa è un errore, o meglio una scorrettezza: la famosa Direttiva Bolkestein, che ha liberalizzato i servizi, ha infatti escluso dal suo campo di applicazione “i servizi di trasporto, compresi i trasporti urbani e i taxi”[10].

Il primo serio tentativo di scavalcare a destra l’Europa si deve a Pierluigi Bersani, colui nel quale alcuni ripongono le speranze di rinascita di una sinistra non più prona ai diktat dei mercati. Nel 2006, da Ministro dello Sviluppo economico, ha varato un “pacchetto liberalizzazioni”[11], fortunatamente modificato rispetto i propositi iniziali: avrebbe altrimenti sensibilmente peggiorato, nel nome dei diritti dei consumatori, la posizione dei lavoratori del settore.

Questo però è niente di fronte alle posizioni che la tecnocrazia mercatista, ovvero le varie autorità poste a presidio del cosiddetto libero mercato, ha assunto dopo lo sbarco di Uber in Italia.

La multinazionale ha tentato di accreditarsi come fornitrice di un terzo tipo di servizio: quello di trasporto privato non di linea, inammissibile alla luce della disciplina in vigore. E proprio qui si inserisce l’attività dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, sempre più insistente nel proporre il riconoscimento del trasporto privato non di linea, nel quadro di un sistema di regole capace forse di tutelare il consumatore, ma non certo di proteggere il lavoro.

Un primo intervento riguarda il disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza (ddl concorrenza), che il governo dovrebbe predisporre annualmente a partire dalle indicazioni fornite proprio dall’Autorità[12]. Ebbene, tra le indicazioni, nel 2014 compare l’invito a rivedere la legge quadro del 1992 in un suo aspetto qualificante: si vorrebbero “abolire gli elementi di discriminazione competitiva tra taxi e noleggio con conducente in una prospettiva di piena sostituibilità dei due servizi”. Il tutto per assecondare “le tendenze evolutive dei mercati guidate dal cambiamento tecnologico”, quindi con aperture ai servizi offerti dalla multinazionale statunitense: in particolare per la proposta di eliminare “l’obbligo di ricezione della prenotazione di trasporto per il servizio ncc presso la rimessa”[13].

Non sappiamo ancora se il legislatore accoglierà queste indicazioni. Il ddl concorrenza, dopo numerosi rinvii, verrà discusso la prossima settimana dall’aula del Senato. Speriamo non sia questa l’occasione per mettere mano alla disciplina del trasporto pubblico non di linea, promessa dal governo per mettere fine alla protesta dei tassisti contro il Milleproroghe, o che comunque ciò non avvenga nel solco della strada indicata dall’Autorità garante. Se così fosse le aspettative dei tassisti sono destinate a essere frustrate, e i conflitti con il governo a rifiorire più accesi che mai.
Consumatori contro lavoratori

Recentemente l’Autorità garante delle concorrenza e del mercato è tornata sull’applicabilità della disciplina del trasporto pubblico non di linea ai sevizi offerti da Uber[14]. Ha sostenuto fra l’altro che producono “evidenti benefici concorrenziali per i consumatori”, da amplificare mettendo in competizione i taxi e gli ncc (quindi Uber-Black), e accettando Uber-Pop come forma di “trasporto privato non di linea”.

Per l’Autorità questo tipo di trasporto deve essere valorizzato in quanto pratica di economia condivisa assimilabile al car pooling, da ammettere anche se “il servizio è reso ad un prezzo che non serve esclusivamente a coprire il costo dell’itinerario percorso”. E anche Uber-Black andrebbe favorito, almeno per aumentare la competizione tra ncc e taxi, da incentivare eliminando per il primo l’obbligo del rientro in rimessa[15].

Sembra dunque probabile che, nel ridefinire la disciplina del trasporto pubblico non di linea, il governo finirà quantomeno per riconoscere Uber-Black, e comunque per alimentare la concorrenza tra taxi e ncc. Certo, si potranno nel contempo definire standard accettabili di tutela del consumatore, oltre che apposite misure di tipo fiscale, ma difficilmente lo stesso avverrà per la tutela dei lavoratori. Questi ultimi saranno anzi ulteriormente precarizzati per effetto di una pratica utilizzata da Uber: quella per cui i passeggeri possono valutare gli autisti (cd. sistema reputazionale). Con il risultato che la loro capacità di produrre reddito, e al limite di conservare l’occupazione, dipenderà da non meglio definiti giudizi, e spesso pregiudizi, dei clienti circa la qualità del servizio ricevuto.

Insomma, la riduzione del cittadino a consumatore è l’anticamera del conflitto tra lavoratori e consumatori. Peraltro il consumatore è tale solo se ha i mezzi per esserlo, mezzi che possono derivare solo dal lavoro. E questo non è certo il caso di chi, per fare spazio al nuovo che avanza, viene precarizzato e svalutato, e in fin dei conti ridotto allo “schiavo ascetico ma produttivo” di marxiana memoria[16].

NOTE

[1] Legge 15 gennaio 1992, n. 21 (Legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea).
[2] Art. 28 c. 1quater Decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 207, convertito nella Legge 27 febbraio 2009, n. 14.
[3] V. in particolare la posizione dell’Autorità garante per la concorrenza e il mercato: Disciplina dell’attività di noleggio con conducente (Disegno di legge di conversione in legge, con modificazioni, del Decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 207), in Bollettino settimanale, 2009, 7 (www.agcm.it/component/joomdoc/bollettini/7-09.pdf/download.html), p. 60 ss.
[4] Art. 7bis Legge 9 aprile 2009, n. 33.
[5] Art. 9 comma 3 D.L. 244/2016 – A.C. 4304.
[6] Uber e l’economia collaborativa sempre più uniti, come? Semplicemente Uber Pop, https://newsroom.uber.com/italy/uber-e-leconomia-collaborativa-sempre-piu-uniti-come-semplicemente-uberpop.
[7] Prima in via cautelare e poi in via definitiva: v. rispettivamente Trib. Milano, Sezione specializzata in materia di impresa, ordinanze del 25 maggio 2015 (www.foroitaliano.it/wp-content/uploads/2015/05/trib..pdf) e del 9 luglio 2015 (www.ilsecoloxix.it/r/IlSecoloXIXWEB/genova/allegati/Audio%2023febb/16437690s%202.pdf).
[8] V.C. Romano, Nuove tecnologie per il mitridatismo regolamentare: il caso Uber Pop, in Mercato concorenza e regole, 2015, p. 136.
[9] Cfr. E. Mostacci e A. Somma, Il caso Uber. La sharing economy nel confronto tra common law e civil law, Milano, 2016, p. 130 ss.
[10] 21. considerando Direttiva 2006/123/Ce (relativa ai servizi nel mercato interno).
[11] Decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito nella Legge 4 agosto 2006, n. 248.
[12] Ai sensi dell’art. 47 Legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia). Ad oggi è entrata in vigore una sola “legge annuale”: il Decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito con modificazioni nella Legge 24 marzo 2012, n. 27.
[13] Proposta di riforma concorrenziale ai fini della legge annuale per il mercato e la concorrenza anno 2014, in Bollettino settimanale, 2014, 27 (www.agcm.it/component/joomdoc/bollettini/27-14.pdf/download.html), p. 18 ss.
[14] Legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea, in Bollettino settimanale, 2015, 39 (www.agcm.it/component/joomdoc/bollettini/39-15.pdf/download.html), p. 21 ss.
[15] Atto di segnalazione al Governo e al Parlamento sull’autotrasporto di persone non di linea:
taxi, noleggio con conducente e servizi tecnologici per la mobilità del 21 maggio 2015 (www.autorita-trasporti.it/wp-content/uploads/2015/06/Atto-di-segnalazione_signed.pdf).
[16] Cfr. E. Mostacci e A. Somma, Il caso Uber, cit., p. 220.

giovedì 23 febbraio 2017

Contro la sinistra globalista

di Carlo Formenti da Micromega



I teorici operaisti italiani di matrice "negriana", che trovano spazio sulle colonne del giornale "Il Manifesto", detestano la sinistra che scommette su quelle lotte popolari che mirano alla riconquista di spazi di autonomia e sovranità, praticando il "delinking". Ma così facendo diventano l'ala sinistra del globalismo capitalistico.
Correva l’anno 1981 quando il Manifesto recensì il mio primo libro (“Fine del valore d’uso”). Era una stroncatura che non ne impedì il successo e, alla lunga, risultò più imbarazzante per il quotidiano che per l’autore. Quel breve saggio, uscito nella collana Opuscoli marxisti di Feltrinelli, analizzava infatti gli effetti delle tecnologie informatiche sull’organizzazione capitalistica del lavoro e, fra le altre cose, prevedeva – cogliendo con notevole anticipo alcune tendenze di fondo – che la nuova rivoluzione industriale avrebbe drasticamente ridotto il peso delle tute blu nei Paesi occidentali, favorendo i processi di terziarizzazione del lavoro, e avrebbe consentito un massiccio decentramento della produzione industriale nei Paesi del Terzo mondo. Il recensore (di cui non ricordo il nome) liquidò queste tesi come una ridicola profezia sulla fine della classe operaia. Sappiamo com’è andata a finire…
Si trattò di un incidente di percorso irrilevante rispetto al ruolo che il Manifesto svolgeva a quei tempi, ospitando un confronto alto fra le migliori intelligenze della sinistra italiana (e non solo). Oggi la sua capacità di assolvere a questo compito si è decisamente appannata, eppure una caduta di livello come quella della “recensione” che Marco Bascetta ha dedicato al mio ultimo lavoro (“La variante populista”, DeriveApprodi) fa ugualmente un certo effetto. Ho messo fra virgolette la parola recensione, perché – più che di questo – si tratta di una tirata ideologica contro i populismi - etichettati come protofascisti – che incarna il punto di vista d’una sinistra “globalista” schierata al fianco del liberismo “progressista” contro questo nemico comune.
Ma torniamo al libro: anche in questo caso l’intenzione è stroncatoria, ma la disarmante superficialità con cui ne vengono criticate le tesi stride con il notevole spazio dedicato all’impresa: una pagina intera per liquidare un saggio che viene definito confuso, contraddittorio e pretenziosamente ambizioso!? Non sarebbe bastato un colonnino o, meglio ancora, non era semplicemente il caso di ignorarlo? Evidentemente, c’è chi giudica le mie idee pericolose al punto da giustificare tanto impegno, peccato che il “killer” non si sia dimostrato all’altezza del compito, limitandosi a stiracchiare quattro ideuzze che avrebbero potuto stare comodamente in venti righe. Mi sono chiesto se valesse la pena di spendere energie per replicare visto che, da quando è uscito il libro, ho ricevuto tali e tanti attacchi -  e insulti - che ormai mi rimbalzano. Alla fine ho deciso di farlo, perché ritengo che le quattro ideuzze di cui sopra incarnino una visione che merita di essere duramente contrastata.
Prima ideuzza: Formenti è cattivo, insiste nell’adottare quello stile corrosivo della polemica politica che è sempre stato – da Marx in avanti – tipico di una certa sinistra anticapitalista, ma questa modalità reattiva (tornerò fra poco sul senso di tale aggettivo) “col passare del tempo” (stiamo parlando di mode letterarie?) ha finito per “prendere di aceto”. Analoga accusa mi era stata rivolta tre anni fa da Bifo, a proposito di un precedente lavoro (Utopie letali): Formenti è “antipatico”, fa le pulci a tutti e così via. È una critica che esprime bene la visione di quei seguaci della “svolta linguistica” che rifiutano apriori la possibilità/necessità di difendere la “verità” di un punto di vista di parte (di classe, politico, culturale): per costoro il conflitto non è mai ontologico, oppone solo opinioni, punti di vista soggettivi, “narrazioni” che non competono per il potere ma per “informare” di sé il mondo (è la concezione “debole” dell’egemonia gramsciana, tipica dei cultural studies angloamericani).
Seconda ideuzza: a questa modalità reattiva del discorso, corrisponde una pratica politica fondata sul rancore e sul risentimento che “sono il contrario esatto di ogni attitudine costituente”. Purtroppo Bascetta non ci illumina su quale dovrebbe essere questa “attitudine costituente”, in compenso ci fa capire: 1) che l’odio di classe e il rancore per i torti subiti sono incompatibili con qualsiasi progetto di trasformazione sociale; 2) che chi crede perfino di poter indicare i colpevoli dei torti in questione è destinato a finire nelle braccia dei demagoghi fascisti. Questo doppio passaggio è denso di significati impliciti: sul piano filosofico, implica l’abbandono della prospettiva marxista in favore di quella nietzschiana (da cui le pippe contro il risentimento e la natura reattiva dell’odio sociale), sul piano politico implica la negazione dell’esistenza stessa di un nemico di classe (effetto di un foucaultismo sui generis che neutralizza il conflitto fra soggettività antagoniste, sostituendolo con un percorso di autonomizzazione/autovalorizzazione).
Ma perché la visione antagonista del conflitto sarebbe destinata a portare acqua al mulino dei fascisti? Perché – terza ideuzza – chi ne è sedotto è portato ad affidare il proprio riscatto alla figura di un redentore, a un capo carismatico. Ergo, il populismo è un incubatore del fascismo. Nei giorni precedenti il Manifesto aveva pubblicato un interessante dossier su Podemos, seguito da un bell’articolo di Loris Caruso sul congresso di Vistalegre; invece nell’articolo di Bascetta non vengono fatte sostanziali distinzioni fra populismi di destra e di sinistra, al punto che, anche se ciò non viene esplicitamente detto, il lettore potrebbe dedurne che Trump e Sanders, Marine Le Pen e Podemos, Alba Dorata e M5S vanno considerati tutti sullo stesso piano, a prescindere dalle loro differenze (ivi compreso il ruolo diverso giocato dai rispettivi leader). Del resto, Bascetta si guarda bene dal discutere la mia analisi critica delle teorie sul populismo di Laclau e Mouffe, nonché il mio tentativo di reinterpretarle alla luce sia delle categorie gramsciane di egemonia, blocco sociale, guerra di posizione, ecc. sia delle esperienze pratiche della rivoluzione boliviana, di Podemos, e della campagna presidenziale di Sanders.
Insomma: i rancorosi e gli odiatori, quelli che oppongono alto e basso, popolo ed élite, che cercano a tutti costi il nemico (che se la prendono con le banche, con le multinazionali e con le caste politiche che ne gestiscono gli interessi), quelli che vogliono ricostruire comunità riunificando le disiecta membra di un corpo sociale fatto a pezzi dalla ristrutturazione e dalla finanziarizzazione capitalistiche, invece di godersi la libertà individuale e i diritti civili che la civiltà ordoliberista ci regala (o meglio, regala a un’esigua minoranza di “cognitari” e ai suoi intellettuali organici) non sono altro che una massa indifferenziata di bruti, un popolo bue (“demente” lo ha definito Bifo, riferendosi agli operai e alla classe media impoverita che ha votato Trump in America e Brexit in Inghilterra) pronto a militare sotto le insegne del “nazional operaismo” (altra definizione coniata da Bifo). A questo punto manca solo di prendere in esame la quarta e ultima ideuzza, quella relativa all’apologia del globalismo contro le mie tesi sul conflitto fra flussi e luoghi. Ma prima ritengo utile riprendere alcune recenti riflessioni di Nancy Fraser sulle responsabilità delle sinistre “sex and the city”.
Anche se differiscono per ideologia e obiettivi, scrive la Fraser riferendosi alle elezioni americane e alla Brexit, <>. Ma la vittoria di Trump, aggiunge, <progressista
>>. Ed ecco la definizione che dà di questo termine: <>. Attraverso questa alleanza, scrive ancora facendo eco alle tesi di Boltanski e Chiapello (“Il nuovo spirito del capitalismo”, Mimesis) , le prime prestano involontariamente il loro carisma ai secondi: <>. In questo modo l’assalto alla sicurezza sociale è stato nobilitato da una patina di significato emancipatorio e, mentre le classi subordinate sprofondavano nella miseria, il mondo brulicava di discorsi su “diversità”, “empowerment,” e “non-discriminazione.” L’”emancipazione” è stata identificata con l’ascesa di una élite di donne, minoranze e omosessuali “di talento” (la “classe creativa” celebrata da Richard Florida e dagli altri cantori della rivoluzione digitale) nella gerarchia dei vincenti. <>.
Ma nemmeno dopo che il Partito Democratico ha scippato la candidatura a Sanders, spianando la strada alla vittoria di Trump, questa sinistra ha aperto gli occhi: continua a cullarsi nel mito secondo cui avrebbe perso a causa di un “branco di miserabili” (razzisti, misogini, islamofobi e omofobi) aiutati da Vladimir Putin (sulle differenti interpretazioni delle cause della vittoria di Trump, vedi il corposo dossier curato da Infoaut). Nancy Fraser li invita invece a riconoscere la propria parte di colpa, che è consistita <>.
Invito inutile: Bascetta e soci sono ben lontani dal recitare un simile mea culpa. Se lo facessero, dovrebbero accettare l’invito di Nancy Fraser a riconoscersi nella campagna contro la globalizzazione capitalista lanciata dal populista/socialista Sanders. Vade retro! Per costoro i discorsi sulla necessità che popoli e territori lottino per riconquistare autonomia e sovranità praticando il “delinking” (ricordate Samir Amin: anche lui fascista?) dal mercato globale, sono eresie “rossobruniste”. Questo perché sono incapaci di distinguere fra mondializzazione dei mercati (che è una caratteristica immanente del capitalismo fin dalle sue origini) e globalizzazione, che è la narrazione legittimante (curioso errore per chi vede solo narrazioni…) su cui si fonda l’egemonia ordoliberista; per cui non riescono nemmeno a vedere la crisi della globalizzazione – della quale il vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera invita a prendere atto  in un suo recente articolo mentre Toni Negri ne ha negato l’evidenza in una penosa intervista televisiva. Una cecità che arriva al punto di paragonare (vedi l’ultima parte del pezzo di Bascetta) l’apprezzamento di Sanders nei confronti del ripudio dei trattati internazionali TTIP e TTP da parte di Trump, e quello di Corbyn nei confronti della Brexit, al voto dei crediti di guerra da parte dei partiti socialisti della Prima Internazionale (sic!).
Che altro aggiungere? Mi aspetto a momenti la loro adesione al manifesto con cui Zuckerberg si candida a leader dell’opposizione liberal a Trump e a punto di riferimento del globalismo dal volto umano (a presidente dell’umanità ha ironizzato qualcuno). Un Impero del Bene hi tech e ordoliberista che non mancherà di piacere alle élite cognitarie. Viste le premesse, potremmo perfino vederli inneggiare all’annunciato ritorno di Tony Blair, che minaccia di sfidare Corbyn per rianimare il New Labour e, perché no, aderire alla campagna promossa da media mainstream, caste politiche ed élite finanziarie contro le fake news veicolate dalla Rete infiltrata dai populisti. Così il politically correct assurgerà definitivamente a neolingua e quelli che, come il sottoscritto, spargono l’aceto della polemica, verranno finalmente messi a tacere.

lunedì 20 febbraio 2017

Il Capitale all'Assalto del Lavoro - Bagnai su Maastricht e Schengen - Parte III


L'Europa ordoliberista del "Corriere della Sera"

di Carlo Formenti da Micromega
 
 Il Corriere della Sera ha ospitato un “Appello per il rilancio dell’integrazione europea” lanciato da trecento intellettuali e presentato nella circostanza da sei firme, fra cui spiccavano quelle di Giuliano Amato e Anthony Giddens, esponenti di punta della “Terza via” blairiana e del pensiero unico ordoliberista.
Nel testo in questione: 1) si afferma che oggi la Ue è sotto attacco “sebbene abbia garantito pace, democrazia e benessere per decenni; 2) si esalta la “economia sociale di mercato”, affermando che essa può funzionare solo grazie a una governance multilivello e al principio di sussidiarietà; 3) si rivendica il ruolo di un’Europa “cosmopolita” nella costruzione di una “governance globale democratica ed efficiente”. Il tutto condito dall’invito a legittimare la Ue attraverso elezioni in cui i cittadini del continente possano liberamente sceglierne i vertici.
Proviamo a leggere in trasparenza il senso reale di tali affermazioni, sfruttando il contributo di quegli studiosi che hanno sviscerato i dispositivi della governance ordoliberista (mi riferisco, fra gli altri, ai lavori di Dardot e Laval e al più recente saggio di Giuliana Commisso, “La genealogia della governance”, Asterios editore).
La prima considerazione da fare è che l’affermazione secondo cui l’Europa avrebbe garantito pace, democrazia e benessere è smaccatamente falsa: 1) dai Balcani all’Ucraina, passando per la Libia, l’Europa è stata un costante fattore di guerra, 2) sulla democrazia chiedete cosa ne pensa il popolo greco, 3) il benessere poi è un miraggio per quei milioni di cittadini che hanno visto peggiorare drasticamente i livelli salariali e di occupazione, oltre a perdere gran parte dei diritti conquistati prima dell’avvio del processo di unificazione.
Seconda considerazione: associare l’economia sociale di mercato all’allargamento della democrazia è una contraddizione in termini. Dietro questo slogan si nasconde infatti quel progetto neoliberista che si è costantemente impegnato a sottrarre il compito della legittimazione al quadro costituzionale-parlamentare per affidarlo a organismi non eletti che rispondono esclusivamente agli imperativi del mercato. Inoltre la sussidiarietà di cui si parla è consistita nella proliferazione di enti, agenzie e autorità deputati a gestire localmente i bisogni sociali – proliferazione che è proceduta di pari passo con lo smantellamento del welfare e con l’assunzione dell’impresa privata quale modello universale di regolazione sociale, in base al principio secondo cui non bisogna ostacolare chi potrebbe erogare un servizio migliore del servizio pubblico (ciò che Colin Crouch ha definito la spoliticizzazione del servizio pubblico attraverso la riduzione del cittadino a cliente). Infine le reti multilivello, presentate come un modello di integrazione della società civile nella governance, sono di fatto servite a indebolire quei gruppi intermedi di pressione che rappresentavano e difendevano gli interessi delle classi subordinate.
Per il dogma ordoliberista, infatti, questi gruppi sono un ostacolo alla concorrenza che impedisce la libera formazione dei prezzi (a partire da quello della forza lavoro, che va tenuto il più basso possibile per evitare tensioni inflazionistiche). Sempre secondo tale dogma, vanno contrastate tutte quelle richieste di “elargizioni clientelari” che provocano un aumento della spesa pubblica in materia di previdenza, salute, ecc. Del resto non si capisce questa logica se non si comprende che per gli ordoliberisti – al contrario dei liberisti classici – il ruolo dello stato è fondamentale: sia in quanto garante dell’ordine giuridico che deve garantire il corretto funzionamento del mercato (che non è in grado di autoregolarsi), sia in quanto garante di un ordine sociale “post ideologico” in cui tutti i cittadini devono venire convinti di essere “imprenditori di sé stessi” e di vivere nel migliore dei mondi possibili.
Il riferimento alla natura cosmopolita dell’Europa – del resto smentito dai muri e dalle altre pratiche di contrasto ai flussi migratori, come il vergognoso accordo con il regime autoritario turco – va letto infine come “internazionalismo” delle élite, da contrapporre alle resistenze locali dei vari popoli europei alla colonizzazione da parte del capitale globale. Come conciliare tutto questo con la proposta di legittimare l’oligarchia di Bruxelles sottoponendola al vaglio degli elettori? Non è difficile immaginare quali alchimie giuridico istituzionali verrebbero escogitate per garantirsi apriori il trionfo di una grande coalizione europea “anti populista”, visto che, come spiega l’articolo di Goffredo Buccini nel taglio basso sotto l’Appello, occorre guardarsi le spalle da quel popolo bue che insiste a votare movimenti come l’M5S, in barba alle prove di volgarità, ignoranza e incompetenza offerte dai suoi dirigenti.

giovedì 16 febbraio 2017

Tesi sull’Europa. Di Carlo Galli

di Carlo Galli da ragionipolitiche


1.L’Europa come costruzione unitaria o presunta tale ha natura ibrida e oscillante. Nasce fortemente politica (il federalismo di Spinelli prevedeva una superpotenza europea neutrale fra Usa e Urss) poi diviene economica (con la CECA del 1951) per riproporsi come politica (con il tentativo della CED, abortita nel 1954); la reazione è stata di nuovo economica e funzionalistica (il MEC del 1957) e lo sviluppo successivo è nuovamente politico-economico-tecnocratico (l’Europa di Maastricht del 1992 governata dagli eurocrati della Commissione e dal Consiglio dei Capi di Stato e di governo, con il metodo intergovernativo), fino al Fiscal compact del 2012 che ha tolto sovranità agli Stati a favore di un trattato economico gestito da Bruxelles e interpretato autorevolmente dalla Germania. Questa oscillazione continua e la complessità contraddittoria della configurazione attuale spiega perché è impazzita la maionese europea, ovvero perché il calabrone si è accorto che non può volare (un tempo si diceva che l’Europa è come un calabrone, che per le leggi della fisica non potrebbe volare eppure vola ugualmente).
2.La possibile fine della Ue nella sua configurazione attuale (resa visibile dalla Brexit, e dalla scelta inglese per un modello imperiale finanziario informale, il cosiddetto global England che coesiste con un marcato neonazionalismo) sta insieme ad altre fini: della globalizzazione che la destra anglofona ha aperto e che ora chiude (oltre alla secessione del Regno Unito, la guerra di Trump a chi ha guadagnato troppo dalla globalizzazione: Cina e Germania), del doppio modello neoliberista e ordoliberale imposto all’Europa dall’euro (che ha portato o stagnazione o forti disuguaglianze economiche e sociali, o entrambe, e che ha fatto nascere i populismi); e in prospettiva della stessa democrazia occidentale postbellica.
3.L’euro è un dispositivo deflattivo che obbliga gli Stati dell’area euro a passare dalle svalutazioni competitive delle monete nazionali alle svalutazioni economiche e giuridiche del lavoro, e alla competizione sulle esportazioni, in una deriva neomercantilistica senza fine (ma, ovviamente, intrinsecamente limitata). Modellato su ipotesi francesi (culminanti nel memorandum Delors) in una pretesa di egemonia politica continentale della Francia in prospettiva post-statuale (e infatti non a caso la protesta francese contro l’Europa è oggi marcatamente statalista e protezionista/protettiva), l’euro è stato “occupato” dal marco tedesco e dall’ordoliberalismo sotteso (la «economia sociale di mercato altamente competitiva» citata dal trattato di Lisbona è appunto l’ordoliberalismo, con la sua teoria che il mercato e la società coincidono, e che lo Stato – ovvero, nel modello europeo, le istituzioni comunitarie – è garante del mercato). Il doppio cuore dell’Europa – la guida politica alla Francia, il traino economico alla Germania – ha qui l’origine dei suoi equivoci: la Francia ha un primato solo apparente, e la Germania traina soprattutto se stessa, le proprie esportazioni, e le economie incorporate in modo subalterno nel proprio spazio economico. La stessa Germania ha dovuto, peraltro, orientare l’ordoliberalismo verso il neoliberismo, abbandonando in parte le difese sociali dei lavoratori, con le riforme Schroeder-Hartz fra il 2003 e il 2005. Ne è nato un disagio sociale che sembra oggi orientarsi anche verso la SPD (che pure ne è stata a lungo responsabile).
4.Gli spazi politici in Europa (la questione centrale) sono multipli e intersecati. Vi sono gli spazi degli Stati, demarcati da muri fisici e giuridici; vi è lo spazio della NATO, che individua una frontiera calda a est, e che è a sua volta attraversato dalla tensione fra Paesi più oltranzisti in senso anti-russo (gli ex Stati-satellite dell’Urss) e Stati di più antica e moderata fedeltà atlantica (tra cui la Germania); vi è la frontiera fra area dell’euro e le aree di monete nazionali; e soprattutto vi sono i cleavages interni all’area euro – che non è un’area monetaria ottimale –, ovvero vi sono gli spread, e oltre a questi vi è la differenziazione cruciale fra Stati debitori e creditori; vi è poi uno spazio economico tedesco, il cuore dell’area dell’euro, che implica una macro-divisione del lavoro industriale e un’inclusione gerarchizzata di diverse economie nello spazio economico germanico. È decisivo capire che lo spazio economico tedesco e lo spazio politico tedesco non coincidono (molti Paesi inglobati di fatto nell’economia germanica hanno una politica estera lontana da quella tedesca): è questa mancata sovrapposizione a impedire l’affermarsi di un IV Reich, che peraltro neppure la Germania desidera. A questa complessità spaziale si aggiunga il fatto che la NATO ora non è più la priorità americana, e che gli Usa di Trump sembrano al riguardo un po’ più scettici (ma su questo punto è necessario attendere l’evoluzione degli eventi; probabilmente lo scopo statunitense è solo quello di far sostenere agli alleati un peso economico maggiore a quello attuale, e in ciò Trump è in linea con Obama).
5.È del tutto implausibile pensare che la Germania, anche in caso di vittoria socialdemocratica, possa avanzare verso l’assunzione di una maggiore responsabilità politica europea (ad esempio, accedendo a qualche forma di eurobond): anzi, la cancelliera Merkel verrà forse punita per il suo presunto lassismo verso la Grecia e verso i migranti. Del resto, la sua proposta di Europa a due velocità – qualunque cosa significhi – vuol dire proprio l’opposto di un’assunzione di maggiore responsabilità. In Europa convivono già diversi “regimi” su molteplici aspetti della politica internazionale; il punctum dolens è il regime dell’euro, che Draghi ha difeso come «irreversibile», richiamando così la Germania alle proprie responsabilità e implicitamente riproponendo la propria politica di Qe – che la Germania non gradisce, benché le porti sostanziosi vantaggi sulle intermediazioni, effettuate attraverso la BuBa –, che però non è in alcun modo risolutiva della crisi economica. In ogni caso, lo status quo benché complessivamente favorevole alla Germania presenta per quest’ultima qualche svantaggio: oltre al contenzioso politico con gli anelli deboli della catena dell’euro, anche l’inimicizia americana, motivata dal fatto che l’euro è mantenuto debole per facilitare le esportazioni tedesche (prevalentemente). Mentre un euro a due velocità – che nel segmento più forte verrebbe apprezzato rispetto all’attuale – risolverebbe qualche problema politico, non impedirebbe alla Germania (che ha grande fiducia nella propria base industriale) di continuare a esportare merci ad alto valore aggiunto e ad esercitare egemonia nel proprio spazio economico, e toglierebbe di mezzo alcune preoccupazioni di Trump. Insomma, un nuovo SME, benché non risolutivo, sarebbe probabilmente una boccata d’ossigeno per molti.
6.In Italia la UE è stata pensata come «vincolo esterno» per superare d’imperio le debolezze della nostra democrazia, e il nostro acceso europeismo è stato il sostituto compensativo della nostra scarsa efficacia politica sulla scena internazionale, diminuita ulteriormente da quando la fine del bipolarismo mondiale ci ha privato del pur modesto ruolo di mediatori, nel Mediterraneo, fra Occidente e mondo islamico. Il continuo acritico rilancio del nostro Paese sugli step successivi dell’integrazione europea – SME, euro, Fiscal compact – non è stato poi esente da aperti intenti punitivi: basti ricordare il sarcasmo di Monti sul posto fisso, da dimenticare perché «noioso», o gli auspici di Padoa-Schioppa sul fatto che l’euro avrebbe nuovamente insegnato ai giovani, a cui lo Stato sociale l’ha fatta dimenticare, la «durezza del vivere».
7.Impiccarci al «vincolo esterno» vuol quindi dire preservare una configurazione di spazi politici che vede la nostra sovranità compromessa dal nostro partecipare alla pluralità incontrollabile degli spazi politici europei. Anche quando eludiamo più o meno astutamente alcuni vincoli dell’euro, restiamo subalterni alle sue logiche economiche complessive, oltre che ai «guardiani dei trattati», più o meno benevoli o rigorosi – secondo i loro disegni. E soprattutto vuol dire privarci degli strumenti per invertire la nostra filosofia economica e politica, e quindi consegnare l’Italia alla protesta sociale causata dall’insostenibilità del modello economico.
8.Sono necessarie riforme che vadano in senso opposto a quello che si è affermato fino ad ora. Ci si deve porre come obiettivo non la crescita generica ma la piena occupazione, si deve far leva sulla domanda interna e non principalmente sulla esportazione, si deve perseguire la rivalutazione economica e giuridica del lavoro e scalzare la centralità sociale e politica del mercato e/o del pareggio di bilancio, si deve mirare alla redistribuzione della ricchezza e non solo all’aumento del Pil, alla giustizia e non alla indiscriminata diminuzione del carico fiscale (peraltro mai realizzata). Questi sono i veri problemi dell’Italia, non i vitalizi né le date dei congressi, che sono solo momenti della lotta politica di palazzo, e che servono a celare i conflitti politici fondamentali. Questi, una volta che la rivoluzione neoliberista ha esaurito la sua spinta propulsiva, e che l’ipotesi ordoliberista si è rivelata mera conservazione del potere tedesco, sono ormai una contrapposizione oggettiva tra ristrette élites economiche e massa impoverita della popolazione (ceti medi inclusi). Le leggi elettorali, altro tema che appassiona il ceto politico, a loro volta, sono certo importanti; ma il pericolo più grave – l’Italicum – è stato sventato.
9.Lo strumento principale per questa rivoluzione, per questa discontinuità – o se si vuole, più semplicemente, per rimettere ordine in casa nostra, per ridare l’Italia agli italiani, nella democrazia e non nel populismo –, è lo Stato e la sua rinnovata centralità. La Stato non è intrinsecamente portatore di nazionalismo e di egoismo: è invece uno spazio politico potenzialmente democratizzabile (soprattutto se in parallelo i cittadini si impegnano in un nuovo civismo, e non nella protesta populistica, incoraggiati in ciò dal constatare che non tutte le strade sono chiuse, che il destino non è segnato), una via importante per la riduzione della complessità dell’indecifrabile spazio europeo. Il termine dispregiativo «sovranista» non significa nulla se non un rifiuto di approfondire l’analisi del presente, e quindi denota una subalternità di fatto ai poteri dominanti (e declinanti).
10.L’Europa va ridefinita come spazio di pace, di democrazie, di libero scambio, ma anche secondo i suoi principi essenziali, che sono il pluralismo degli Stati e il conseguente dinamismo, l’immaginazione di futuri alternativi. Gli Stati uniti d’Europa sono un modello impraticabile (dove sta il popolo europeo col suo potere costituente?), che del resto nessuno in Europa vuole veramente. L’Europa deve insomma configurarsi come una fornitrice di «servizi» – anche giuridici –, come una cornice leggera che contorna Stati sovrani liberi di allearsi e di praticare modelli economici convergenti ma non unificati. Non si può pensare che finite le «cornici» delle due superpotenze vittoriose, che davano forma a due Europe, la nuova Europa libera dalla cortina di ferro debba essere a sua volta una gabbia d’acciaio, una potenza unitaria continentale – di fatto ciò non sta avvenendo –. È invece necessaria una nuova cultura del limite, della pluralità e della concretezza, dopo i sogni illimitati della globalizzazione che hanno prodotto contraddizioni gravissime e hanno messo a rischio la democrazia; cioè una cultura della politica democratica, non della tecnocrazia o dell’ipercapitalismo. Sotto il profilo storico e intellettuale Europa e democrazia si coappartengono, benché la prima democrazia moderna sia nata in America; ma per altri versi si escludono, se ci si attende la democrazia da un blocco continentale unificato da trattati monetari e dall’egemonia riluttante della Germania: di fatto la democrazia in Europa vive insieme agli Stati, e alla loro collaborazione. Dire che l’euro è irreversibile è in fondo un atto di disperazione intellettuale e politica, o almeno di scarsa immaginazione: un atto anti-europeo, in fondo. Di irreversibile, a questo mondo, c’è solo l’entropia, un destino fisico; ma ciò che la storia ha fatto può essere cambiato, soprattutto se il cambiamento deve salvare le nostre società e le nostre democrazie. Ed è appunto la politica quella che, posto che se lo proponga, serve a cambiare le cose, mentre al contrario le profezie catastrofiche – minacciate a chi pretende di percorrere una via difforme dal mainstream elevato a destino – non si sono avverate. Questo ci sia di conforto e di stimolo al pensiero e all’azione.

martedì 14 febbraio 2017

Triste America, Ovvero il Francese che Rimpiange di Non Aver Potuto Ammazzare Più Siriani

di Domenico D'Amico

Repetita iuvant, ho pensato di fronte al libro di Michel Floquet (Triste America, Neri Pozza 2016, pagg. 208, € 16,50). L'elenco di magagne ascrivibili all'impero janqui (l'individualismo sociopatico, la corruzione politica legalizzata, lo stato di guerra permanente, il demenziale apparato securitario, l'odio per i poveri, eccetera eccetera) per noi – sarebbe a dire i felici pochi che integrano i ranghi dei nostri 2,5 lettori – non rappresentano la minima novità, ma è comunque utile che ci sia chi si prende la briga di esporre in modo chiaro e sintetico simili argomenti, perché lo spirito è forte, la carne debole, e il colossale apparato della propaganda imperiale è più forte che mai.
Tutto bene? Sì, almeno finché non si arriva al capitolo dedicato al consuntivo (va da sé, negativo) dell'amministrazione Obama. Le pecche sono molte, e anche queste non sono una scoperta (impotenza di fronte alle lobby delle armi, implementazione del mostruoso apparato di sorveglianza, sostanziale inazione di fronte alla violenza sulle minoranze, eccetera eccetera), ma quello che Floquet rimprovera più aspramente a Obama (e qui, devo dirlo, sono rimasto davvero basito) è il suo mancato intervento sul campo contro Assad!
È affascinante: il giornalista Floquet, che giustamente stigmatizza l'asservimento dei media janqui alla propaganda menzognera di Washington, nel volgere di poche pagine ricicla tutta la serie di totali falsità che i media occidentali hanno diffuso sulla guerra contro la Siria. Gli attacchi chimici di Assad, i ribelli moderati, il pericolo russo, Floquet ripete tutte le frottole, tipiche di un Aleppo Media Center, allo sesso modo in cui il New York Times diffondeva le bufale sulle armi di distruzione di massa di Saddam. Non basta, nella sua “narrazione” vengono evocati, quasi con il magone, i militari francesi che stavano già scaldando i motori per andare a bombardare l'esercito siriano, e invece niente, quel pusillanime di Obama, pur con in mano le “prove schiaccianti” che Assad ammazzava i suoi concittadini a frotte (così, per sport), non dà il via libera! Che disdetta, dice Floquet, abbiamo perso l'occasione propizia, mentre

Un’opposizione multiforme sembra pronta a sferrare il colpo definitivo a Bashar al-Assad. In questo gruppo eterogeneo ci sono certamente islamisti, in particolare quelli del Fronte al-Nusra, versione locale di Al Qaeda, ma ci sono anche gruppi moderati, o addirittura democratici, che rappresentano la speranza di una Siria che aspira a congiungersi con il resto delle nazioni [sic!].

(…)Nell’agosto 2013, una Siria democratica è ancora possibile [sic!]. Tre anni dopo, il paese non esiste più e sulle sue macerie prospera lo Stato islamico.

(…)Mentre Barack Obama temporeggia, Putin avanza. L’annessione della Crimea e la destabilizzazione dell’Est dell’Ucraina senza una reale reazione statunitense portano subito un serio colpo alla credibilità del presidente americano. La gestione catastrofica della crisi siriana apre un’autostrada a Vladimir Putin, che non si lascia sfuggire l’occasione.

(…)Un asse Teheran-Mosca si crea nello spazio di qualche mese, nel vuoto siderale lasciato dal disinteresse e dalla mancanza di visione globale del presidente americano. Tutta la regione è destabilizzata [sic!], a cominciare dalle monarchie del Golfo, che vedono con orrore il nemico sciita prosperare alle loro frontiere sotto lo sguardo impotente del protettore americano [sic!].

Perdonate i [sic!], mi sono scappati. A parte la patetica sequela delle solite fregnacce sul super villain Putin, se avete letto l'inchiesta di Steven Gowans pubblicata su questo blog, saprete già che l'intera ricostruzione che Floquet fa della vicenda siriana è puro delirio. Cioè, lo sarebbe, se non coincidesse con la propaganda diffusa dai principali media occidentali nel corso degli ultimi anni.
In fondo, però, simpatizzo con lui: potevamo ammazzare un bel po' di siriani in più (ça va sans dire, in nome della democrazia) e invece niente.

Coraggio, Michel: domani è un altro giorno.

lunedì 13 febbraio 2017

Nancy Fraser: La fine del neoliberismo progressista

da rifondazione.it 

[Pubblichiamo la traduzione di due articoli della femminista americana Nancy Fraser dal sito della rivista DISSENT. Il primo The end of “progressive neoliberalism” è del 2 gennaio 2017, il secondo Against Progressive Neoliberalism, A New Progressive Populism è stato pubblicato il 28 gennaio ed è una replica a un articolo critico di Johanna Brenner There Was No Such Thing as “Progressive Neoliberalism” del 14 gennaio. Nancy Fraser ha lanciato insieme a Angela Davis e altre femministe americane l'appello per uno sciopero internazionale e militante per l'8 marzo]
L’elezione di Donald Trump rappresenta una della serie di drammatiche rivolte politiche che insieme segnalano un crollo dell’egemonia neoliberista. Queste rivolte comprendono tra le altre il voto per la Brexit nel Regno Unito, il rifiuto delle riforme di Renzi in Italia, la campagna di Bernie Sanders per la nomination del Partito Democratico negli Stati Uniti e il sostegno crescente per il Fronte Nazionale in Francia. Anche se differiscono per  ideologia e obiettivi, questi ammutinamenti elettorali condividono un bersaglio comune: sono tutti dei rifiuti della globalizzazione delle multinazionali, del neoliberismo e delle istituzioni politiche che li hanno promossi. In ogni caso, gli elettori stanno dicendo “No!” alla combinazione letale di austerità, libero commercio, debito predatorio e lavoro precario mal pagato che caratterizza il capitalismo finanziarizzato oggi. I loro voti sono una risposta alla crisi strutturale di questa forma di capitalismo che si è prima materializzata con il quasi crollo dell’ordine finanziario globale nel 2008.
Fino a tempi recenti, però, la risposta principale alla crisi era la protesta sociale – drammatica e vivace, di sicuro, ma in gran parte effimera. I sistemi politici, al contrario, sembravano relativamente immuni, ancora controllati da funzionari di partito e dalle élite dell’establishment, almeno negli stati capitalistici potenti come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Germania. Ora, però, le onde d’urto elettorali si riverberano in tutto il mondo, anche nelle cittadelle della finanza globale. Coloro che hanno votato per Trump, come quelli che hanno votato per la Brexit e contro le riforme italiane, sono insorti contro i loro padroni politici. Prendendo per il naso la classe dirigente di partito, hanno ripudiato il sistema che ha eroso le loro condizioni di vita negli ultimi trent’anni. La sorpresa non è che lo hanno fatto, ma che ci abbiano messo così tanto tempo.
Tuttavia, la vittoria di Trump non è solo una rivolta contro la finanza globale. Ciò che i suoi elettori hanno respinto non era il neoliberismo tout court, ma il neoliberismo progressista. Questo può sembrare ad alcuni come un ossimoro, ma è un reale, anche se perverso, allineamento politico che costituisce la chiave per comprendere i risultati elettorali degli Stati Uniti e forse alcuni sviluppi anche altrove. Nella sua forma degli Stati Uniti, il neoliberismo progressista è un’alleanza tra correnti mainstream dei nuovi movimenti sociali (femminismo, anti-razzismo, multiculturalismo, e diritti LGBTQ), da un lato, e settori di business di fascia alta “simbolica” e basati sui servizi (Wall Street, Silicon Valley, e Hollywood), dall’altro. In questa alleanza, le forze progressiste sono effettivamente unite con le forze del capitalismo cognitivo, in particolare della finanziarizzazione. Tuttavia involontariamente le prime prestano il loro carisma a quest’ultima. Ideali come la diversità e la responsabilizzazione, che potrebbero in linea di principio servire scopi diversi, ora danno lustro a politiche che hanno devastato la produzione e quelle che un tempo erano le vite della classe media.
Il neoliberismo progressista si è sviluppato negli Stati Uniti nel corso degli ultimi tre decenni ed è stato ratificato con l’elezione di Bill Clinton nel 1992. Clinton è stato il principale artefice e portabandiera dei “Nuovi Democratici”, l’equivalente statunitense del “New Labour” di Tony Blair. Al posto della coalizione di lavoratori manifatturieri sindacalizzati, afro-americani e classi medie urbane del New Deal, ha forgiato una nuova alleanza di imprenditori, abitanti dei suburbi, nuovi movimenti sociali e giovani che proclamano tutti la loro buona fede moderna, progressista abbracciando la diversità, il multiculturalismo e i diritti delle donne. Mentre appoggiava questi concetti progressisti, l’amministrazione Clinton corteggiava Wall Street. Consegnando l’economia a Goldman Sachs, ha liberalizzato il sistema bancario e negoziato gli accordi di libero scambio che accelerarono la deindustrializzazione. Ad essere abbandonata fu la Rust Belt – un tempo roccaforte della democrazia sociale del New Deal, e ora la regione che ha consegnato il collegio elettorale a Donald Trump.
Quella regione, insieme ai nuovi centri industriali del sud, ha subito un grande colpo quando la finanziarizzazione galoppante si è dispiegata nel corso degli ultimi due decenni. Continuate dai suoi successori, tra cui Barack Obama, le politiche di Clinton hanno degradato le condizioni di vita di tutti i lavoratori, ma soprattutto degli occupati nella produzione industriale. In breve, il clintonismo ha una quota pesante di responsabilità per l’indebolimento dei sindacati, il declino dei salari reali, la crescente precarietà del lavoro e l’ascesa della famiglia a doppio stipendio (two–earner family) al posto del defunto salario familiare.
Come suggerisce questo ultimo punto, l’assalto alla sicurezza sociale è stato lucidato con una patina di carisma emancipatorio, preso in prestito dai nuovi movimenti sociali. Nel corso degli anni in cui la produzione si craterizzava, il paese brulicava di discorsi su “diversità”, “empowerment,” e “non-discriminazione.” Identificando il “progresso” con la meritocrazia, invece che con l’uguaglianza, questi termini hanno equiparato l’”emancipazione” con l’ascesa di una piccola elite di donne, minoranze e omosessuali “di talento” nella gerarchia aziendale dei vincenti che prendono tutto invece che con l’abolizione di quest’ultima. Queste interpretazioni liberal-individualiste del “progresso” gradualmente hanno sostituito le interpretazioni dell’emancipazione  più espansive, anti-gerarchiche, egualitarie, sensibili alla classe, anti-capitaliste che erano fiorite negli anni ’60 e ’70. Mentre la New Left declinava, la sua critica strutturale della società capitalistica sbiadiva, e la caratteristica mentalità liberal-individualista del paese si riaffermava, riducendo impercettibilmente le aspirazioni dei “progressisti” e degli autoproclamati esponenti della sinistra. Quella che sigillò l’accordo, però, è stata la coincidenza di questa evoluzione con l’ascesa del neoliberismo. Un partito dedito alla liberalizzazione dell’economia capitalistica trovò il suo compagno perfetto in un femminismo aziendale meritocratico focalizzato sul “farsi avanti” e “rompere il soffitto di cristallo”.
Il risultato è stato un “neoliberismo progressista” che mixava insieme ideali troncati di emancipazione e forme letali di finanziarizzazione. E’ stato quel mix che è stato respinto in toto dagli elettori di Trump. In prima fila tra coloro che sono stati abbandonati in questo nuovo mondo cosmopolita sono stati di sicuro gli operai industriali, ma anche manager, piccoli imprenditori, e tutti coloro che si basavano sull’industria nel Rust Belt e nel Sud, così come le popolazioni rurali devastate dalla disoccupazione e dalla droga. Per queste popolazioni, al danno della deindustrializzazione si è aggiunta la beffa del moralismo progressista, che li etichetta regolarmente come culturalmente arretrati. Rifiutando la globalizzazione, gli elettori di Trump hanno anche ripudiato il cosmopolitismo liberal identificato con essa. Per alcuni (se non tutti), è stato breve il passo a incolpare per il peggioramento delle loro condizioni la correttezza politica, le persone di colore, gli immigrati e i musulmani. Ai loro occhi, le femministe e Wall Street erano due gocce d’acqua, perfettamente unite nella persona di Hillary Clinton.
Ciò che ha reso possibile quella fusione è stata l’assenza di qualsiasi vera sinistra. Nonostante esplosioni periodiche, come Occupy Wall Street, che si è rivelata di breve durata, non vi era stata alcuna presenza prolungata della sinistra negli Stati Uniti per diversi decenni. Né c’è stata alcuna narrazione esauriente di sinistra che avrebbe potuto collegare le legittime rivendicazioni dei sostenitori di Trump con una critica smaccata della finanziarizzazione, da un lato, e con una visione anti-razzista, anti-sessista, e anti-gerarchica di emancipazione, dall’altro. Ugualmente devastanti, i potenziali legami tra lavoro e nuovi movimenti sociali sono stati lasciati languire. Scissi l’uno dall’altro, quei poli indispensabili di una valida sinistra sono stati a miglia di distanza, in attesa di essere contrapposti come antitetici. Almeno fino alla straordinaria campagna per le primarie di Bernie Sanders che ha lottato per unirli dopo qualche incitamento da Black Lives Matter. Facendo esplodere il buon senso neoliberista dominante, la rivolta di Sanders è stata il parallelo sul lato democratico di quella di Trump. Proprio mentre Trump stava rovesciando l’establishment repubblicano, Bernie non è riuscito per un soffio a sconfiggere la successora consacrata di Obama, i cui burocrati controllavano ogni leva di potere nel Partito Democratico. Tra di loro, Sanders e Trump hanno galvanizzato una grande maggioranza degli elettori americani. Ma solo il populismo reazionario di Trump è sopravvissuto.
Mentre lui ha facilmente rovesciato i suoi rivali repubblicani, compresi quelli favoriti dai grandi donatori e dai boss di partito, l’insurrezione di Sanders è stata effettivamente bloccata da un molto meno democratico Partito Democratico. Al momento delle elezioni generali, l’alternativa di sinistra era stata soppressa. Ciò che restava era la scelta di Hobson tra il populismo reazionario e il neoliberismo progressista. Quando la cosiddetta sinistra ha serrato le fila attorno a Hillary Clinton, il dado era tratto.
Ciononostante, e da questo punto in poi, questa è una scelta che la sinistra dovrebbe rifiutare. Invece di accettare i termini presentati a noi da parte delle classi politiche, che oppongono l’emancipazione alla protezione sociale, dobbiamo lavorare per ridefinirli attingendo al fondo vasto e crescente di repulsione sociale contro l’attuale ordine. Piuttosto che schierarsi con la finanziarizzazione-cum-emancipazione contro la protezione sociale, dovremmo costruire una nuova alleanza di emancipazione e di protezione sociale contro la finanziarizzazione. In questo progetto, che si basa su quello di Sanders, l’emancipazione non significa diversificare la gerarchia aziendale, ma piuttosto abolirla. E la prosperità non significa aumentare il valore delle azioni o il profitto aziendale, ma i prerequisiti materiali di una buona vita per tutti. Questa combinazione rimane l’unica risposta di principio e vincente nella congiuntura.
Io non ho versato lacrime per la sconfitta del neoliberismo progressista. Certo, c’è molto da temere da un’amministrazione Trump, razzista, anti-immigrati, anti-ecologica. Ma non dovremmo piangere né l’implosione dell’egemonia neoliberista, né la frantumazione del pugno di ferro del clintonismo sul Partito democratico. La vittoria di Trump ha segnato una sconfitta per l’alleanza di emancipazione e finanziarizzazione. Ma la sua presidenza non offre alcuna soluzione alla crisi attuale, nessuna promessa di un nuovo regime, nessuna egemonia sicura. Quello che abbiamo di fronte, piuttosto, è un interregno, una situazione aperta e instabile in cui i cuori e le menti sono in palio. In questa situazione, non c’è solo pericolo, ma anche opportunità: la possibilità di costruire una nuova new left.
Se questo avviene dipenderà in parte da alcuni gravi di coscienza tra i progressisti che hanno sostenuto la campagna della Clinton. Dovranno abbandonare il mito confortante, ma falso che hanno perso a causa di un “branco di miserabili”* (razzisti, misogini, islamofobi e omofobi) aiutati da Vladimir Putin e dall’FBI. Dovranno riconoscere la propria parte di colpa nel sacrificare la causa della tutela sociale, del benessere materiale, e della dignità della classe lavoratrice a false interpretazioni dell’emancipazione in termini di meritocrazia, diversità, e empowerment. Dovranno riflettere profondamente su come potremmo trasformare l’economia politica del capitalismo finanziarizzato, facendo rivivere lo slogan “socialismo democratico” di Sanders e capire cosa possa significare nel ventunesimo secolo. Dovranno, soprattutto, raggiungere la massa degli elettori di Trump che non sono né razzisti, né impegnati esponenti della destra, ma essi stessi vittime di un “sistema truccato”, che possono e devono essere reclutati per il progetto anti-neoliberista di una sinistra rinnovata. Questo non significa silenziare le pressanti preoccupazioni per il razzismo o il sessismo. Ma significa dimostrare come queste oppressioni storiche di vecchia data trovano nuove espressioni e motivi oggi, nel capitalismo finanziarizzato. Rifiutando il falso pensiero a somma zero che ha dominato la campagna elettorale, dobbiamo collegare le offese subite dalle donne e dalle persone di colore a quelle subite dai tanti che hanno votato per Trump. In questo modo, una rivitalizzata sinistra potrebbe gettare le basi per una nuova e potente coalizione impegnata nella lotta per tutti.
*“Basket of deplorables”, solitamente tradotto dai giornali  italiani come “branco di miserabili” è il termine con il quale la Clinton etichettò i sostenitori di Trump durante la campagna elettorale
women_march_13
 …………………………………………………..
Contro il neoliberismo progressista, un nuovo populismo progressista
La lettura del mio saggio da parte di Johanna Brenner non coglie la centralità del problema dell’egemonia. Il punto centrale è che il capitale finanziario ha raggiunto il dominio odierno, oltre che con la forza, anche attraverso il “consenso”, come lo chiama Gramsci. Forze che favoriscono la finanziarizzazione, la globalizzazione delle imprese e la deindustrializzazione sono riuscite a conquistare il Partito Democratico statunitense, ho affermato, perché hanno presentato queste politiche, palesemente contrarie ai lavoratori, come progressiste. I neoliberisti hanno conquistato potere ammantando il loro progetto in una nuova etica cosmopolita, che privilegia la diversità, l’emancipazione delle donne, e i diritti LGBTQ. Adescando chi professa questi ideali, i neoliberisti hanno forgiato un nuovo blocco egemonico, che ho battezzato neoliberismo progressista. Nell’identificare e analizzare questo blocco, non ho perso di vista il potere del capitale finanziario, come mi rimprovera Johanna Brenner, ma ho tentato di spiegare la sua supremazia politica.
L’ottica dell’egemonia fa luce anche sulla posizione dei movimenti nei confronti del neoliberismo. Invece di isolare collusi e cooptati, mi sono concentrata sul diffuso slittamento dall’uguaglianza alla meritocrazia nel pensiero progressista. Negli ultimi decenni, questo pensiero ha sovraccaricato la comunicazione e ha influenzato non solo le femministe liberali e i sostenitori della diversità, che ne hanno abbracciato con consapevolezza l’etica individualista, ma ha influenzato anche molti all’interno dei movimenti. Anche quelle che Brenner chiama femministe del “social welfare” hanno trovato nel neoliberismo progressista elementi in cui identificarsi, e hanno chiuso un occhio sulle sue contraddizioni. Ciò non significa dar loro la colpa, come sostiene Brenner, ma chiarire come funziona l’egemonia, cioè attirandoci e seducendoci, al fine di capire come meglio costruire una controegemonia.
Quest’idea è il canone di valutazione delle sorti della sinistra dagli anni ottanta ad oggi. Rivisitando questi anni, Johanna Brenner esamina una mole impressionante di attivismo di sinistra, che lei appoggia ed ammira al pari di me. Ma l’ammirazione non viene meno quando si osserva che l’attivismo non è assurto ad una controegemonia. Non è riuscito a presentarsi come un’alternativa credibile al neoliberismo progressista, né a sostituire i “noi” e i “loro” del neoliberismo con dei propri “noi” e “loro”. Il perché richiederebbe un lungo studio, ma una cosa è chiara: restii alla sfida frontale con le varianti progressiste-neoliberiste del femminismo, dell’antirazzismo e del multiculturalismo, gli attivisti di sinistra non sono mai stati in grado di raggiungere i “reazionari populisti” (vale a dire, i bianchi della classe operaia industriale), che hanno finito per votare per Trump.
Bernie Sanders è l’eccezione che conferma la regola. La sua campagna elettorale, con tutte le imperfezioni del caso, ha contestato direttamente le linee consolidate di separazione politica. Ha preso di mira “la classe dei miliardari”, ha teso la mano ai derelitti del neoliberismo progressista, si è rivolta alle comunità che si aggrappano al loro tenore di vita da “classe media”, le ha considerate alla stregua di vittime di una “economia truccata”, che meritano rispetto e possono fare causa comune con altre vittime, molte delle quali non hanno mai avuto accesso ai posti di lavoro della “classe media”. Nel contempo, Sanders ha strappato via una buona fetta di coloro che gravitavano verso il neoliberismo progressista. Anche se sconfitto da Hillary Clinton, Sanders ci ha indicato la strada verso una controegemonia possibile: ci ha fatto intravedere, invece dell’alleanza progressista-neoliberista fra finanziarizzazione ed emancipazione, un nuovo blocco “progressista-populista” che unisce emancipazione e protezione sociale.
A mio parere, nell’era di Trump la scelta di Sanders resta l’unica strategia onesta e vincente.  A coloro che adesso si mobilitano con la bandiera della “resistenza”, suggerisco il contro-progetto della “correzione di rotta”. Invece di ostinarsi nella definizione progressista-neoliberista di “noi” (progressisti) contro “loro” (i “deplorevoli” partigiani di Trump), questo contro-progetto ridisegna la mappa politica, e fa causa comune con tutti quelli che l’amministrazione Trump si accinge a tradire: non solo gli immigrati, le femministe, e le persone di colore che gli hanno votato contro, ma anche quegli strati della classe operaia della “Rust Belt” e del Sud che hanno votato per lui. Johanna Brenner mi rinfaccia di dissolvere la “politica dell’identità” nella “politica di classe.” Al contrario, la questione è identificare chiaramente le radici comuni delle ingiustizie di classe e di status nel capitalismo finanziario, e costruire alleanze tra coloro che devono unirsi per combattere entrambe.
traduzione di Maurizio Acerbo e Ludovico Fischer
per aderire alla brigata traduttori mandare una mail a traduttori@rifondazione.it
chicagocomegetmyvotebobsimpson2_11_16666

domenica 12 febbraio 2017

La Madre di tutte le menzogne di guerra: le mani mozzate ai bambini in Belgio

Francesco Santoianni - Redazione di Sibialiria
(da cento anni di guerre, via l'antidiplomatico)
Questo articolo è stato redatto dalla Redazione del sito www.sibialiria.org quale contributo istituendo Comitato contro le celebrazioni della Prima guerra mondiale.



Incombe il governativo Centenario della Grande Guerra che già si annuncia all’insegna della esaltazione del sacrificio per la Patria, dell’onore di essere “Italiani brava gente”, al richiamo alla compattezza nazionale contro i nemici interni ed esterni, alla necessità di rafforzare il nostro apparato militare contro le “forze ostili”… Temiamo quindi che la quantità enorme di celebrazioni metterà in secondo piano un aspetto fondamentale di quel conflitto e cioè l’irrompere di una propaganda basata su menzogne che servirono a spingere verso la guerra una opinione pubblica che , fino a quel momento, sembrava riluttante. La più famosa di queste menzogne fu, certamente, la sbalorditiva malvagità esternata dalle truppe tedesche in Belgio, malvagità di cui le mani mozzate ai bambini rappresenta l’apice.
Se Sibialiria si sofferma su questa bufala, vecchia ormai di cento anni, non è certo per velleità enciclopediche o per additare una recente pubblicazione che, incredibilmente, la riprende come vera. Da sempre le guerre sono accompagnate o precedute da accuse al nemico di turno, presentato come un mostro capace di qualsiasi crimine : ma è solo con la Prima guerra mondiale – con l’irrompere dei quotidiani e delle cartoline a colori – che la creazione di falsi di guerra diventa una vera e propria industria che assolda grafici di talento, scrittori famosi, giornalisti… Il primo prodotto di successo di questa industria è stata, appunto, la leggenda dei bambini belgi con le mani mozzate dai tedeschi. Una bufala, una menzogna, che ha avuto un impatto emotivo enorme (il compianto giornalista Alessandro Curzi, ad esempio, ricordava che suo padre, socialista e da sempre contrario alla guerra, nel 1915 divenne interventista, quando apprese dai giornali questa notizia) e che ha contribuito in modo determinante a far precipitare l’umanità in una guerra costata milioni di morti.
E dire che se c’era una nazione che, veramente, faceva mozzare le mani ai bambini, questo era il Belgio.

Il Rapporto Bryce

Tutti le campagne mediatiche per avere successo devono contenere almeno due elementi: una storytelling, – e cioè un episodio di grande impatto emotivo che suggerisce un corpus di credenze – e l’autorevolezza di chi questo episodio narra (che, solitamente dissuade il pubblico dal verificarne la veridicità). Ad esempio, la storytelling dei “neonati strappati alle incubatrici nel Kuwait dai soldati iracheni” raccontata da Nayirah – una infermiera del Kuwait – fu considerata da molti attendibile non già dalla dichiarazione di questa anonima infermiera (che poi si scoprì essere la figlia di Saud Nasir al-Sabah, ambasciatore del Kuwait negli USA, e istruita dall’agenzia di pubbliche relazioni Hill & Knowlton,) ma dalla circostanza che nessuno della Commissione senatoriale USA (davanti alla quale fu pronunciata) osò metterla in dubbio. Oggi, generalmente, la veridicità della notizia è garantita dalla televisione e dai suoi ineffabili corrispondenti di guerra che, in qualche caso, dopo aver diffuso evidentissimi falsi – ad esempio, le “Fosse comuni di Gheddafi” – quando questi falsi sono universalmente riconosciuti tali, per garantirsi una verginità, dichiarano di essere stati ingannati.
Cento anni fa l’autorevolezza della notizia fu garantita dal ponderoso Rapporto Bryce, (qui è possibile leggere il documento in originale) – redatto, nel dicembre 1914, dal Comitato per indagare le voci sulle atrocità in Belgio istituito dal primo ministro inglese Herbert Asquith e diretto dal visconte Lord James Bryce – che riportante mostruose atrocità commesse dai soldati tedeschi in Belgio (persone stuprate, crocifisse, impalate, accecate… donne sgozzate e/o con mammelle amputate… e, soprattutto, bambini con mani mozzate) divenne, in poche settimane, un best seller.
Subito tradotto in 30 lingue dal governo inglese, il Rapporto Bryce, (anche grazie a veementi promotori come lo scrittore Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes) conobbe varie versioni. In Italia, ad esempio, sia il Corriere della sera sia Il Messaggero ne stamparono una edizione popolare arricchita con varie illustrazioni. Da qui il libro di Achille De Marco Sangue belga che descriveva, con una fantasia davvero perversa, tutta una serie di mutilazioni tra cui “bimbe mutilate dei piedi e obbligate a correre sui moncherini per il passatempo spirituale della soldataglia tedesca”. Curiosamente, questo episodio non era riportato nel Rapporto Bryce – che il De Marco assicurava essere la fonte del suo libro – ma fu comunque ampiamente ripreso dalle successive “edizioni popolari” del Rapporto.
Innumerevoli sono state poi le raffigurazioni attestanti le atrocità riportate nel Rapporto. Soprattutto cartoline illustrate a colori; le più famose quelle commissionate dallo Stato maggiore francese al disegnatore Francisque Poulbot: si stima che la serie più famosa delle sue cartoline sia stata stampata in un milione di copie.



L’attendibilità del Rapporto Bryce

Finita la prima guerra mondiale, i documenti originali delle deposizioni dei presunti testimoni belgi (tutti anonimi) che costituivano il Rapporto Bryce rimasero secretati. Non fu questa l’unica stranezza che insospettì gli storici. Verosimilmente, c’era anche la curiosità di sapere come avessero fatto i membri della commissione di indagine coordinata da Bryce a gironzolare in un Belgio occupato dall’esercito tedesco e a incontrare così tante persone disposte (se pur anonimamente) a testimoniare. Fu per questo che alcuni ricercatori – tra cui Arthur Ponsonby e Fernand van Langenhove – ripercorsero le aree del Belgio (distretto di Liegi, Valle della Meuse, Aarschot,, Mechelen, Louvain…) menzionate nel Rapporto come teatro degli efferati crimini commessi dai tedeschi. Ma non trovarono alcuna conferma di questi supposti episodi. Analogo risultato quando indagarono su un famoso (cinque prime pagine sul Times) evento riportato nel Rapporto Bryce: tredici bambini del villaggio di Sempst violentati e poi finiti con le baionette. Poi passarono in esame l’evento clou: i bambini con le mani mozzate. Da cosa era nata questa leggenda? Sostanzialmente, da due rumors. Nel primo, un anonimo sacerdote del distretto di Termonde, in una predica, avrebbe raccontato di un bambino che lo aveva avvicinato per chiedergli quale preghiera innalzare a Gesù per fargli crescere le mani mozzate dai Tedeschi. Nel secondo, che sarebbe avvenuto in un ospedale del nord del Belgio, una bambina di sei anni con le mani mozzate avrebbe composto questa straziante preghiera (riportata nel periodico Semaine religieuse di l’Ille-et-Vilaine): “Signore non ho più le mani. Un crudele soldato tedesco me le ha prese, dicendo che i bambini belgi e francesi non hanno diritto ad avere le mani; che questo diritto lo hanno solo i bambini dei tedeschi. E me le ha tagliate. E mi ha fatto molto male. Ma il soldato rideva e diceva che i bambini che non sono tedeschi non sanno soffrire. Da quel giorno, Signore, la mamma è diventata pazza ed io sono sola. Il babbo è stato portato via dai soldati tedeschi il primo giorno di guerra. Non ha mai scritto. Certamente, lo avranno fucilato”. Le puntigliose ricerche di van Langenhove e di altri non trovarono alcuna conferma di questi episodi. Analogo risultato ottenuto da Francesco Saverio Nitti, già ministro durante la guerra e in seguito, presidente del Consiglio: “Abbiamo sentito raccontare la storia dei piccoli infanti belgi ai quali gli unni avevano mozzato le mani. Dopo la guerra, un ricco americano, scosso dalla propaganda francese, inviò in Belgio un emissario per provvedere al mantenimento dei bambini cui erano state tagliate le povere manine. Non riuscì ad incontrarne nemmeno uno. Mister Lloyd George e io stesso, quando ero capo del governo italiano, abbiamo fatto eseguire delle minuziose ricerche per verificare la veridicità di queste accuse, nelle quali, in certi casi, si specificavano nomi e luoghi. Fu rilevato che tutti i casi oggetto delle nostre ricerche, erano stati inventati.”
L’inattendibilità del Rapporto Bryce non significa, certo, che non vi furono esecuzioni sommarie, o altri crimini, commessi dalle truppe di occupazione tedesche. Esecuzioni dettate anche dalla psicosi imperante tra le truppe tedesche che vedevano nelle numerose feritoie che costellavano i muri delle case belghe (in realtà “fori in muratura” destinati a fissare le impalcature per gli imbianchini delle facciate) una postazione per cecchini. Psicosi, tra l’altro, istituzionalizzata da autorevoli opinionisti tedeschi come il professore universitario B. Händecke che sul quotidiano Nationale Rundschau spiegava che la crudeltà belga era già iscritta nell’arte fiamminga.

Scudi umani!

I falsi di guerra

La leggenda dei bambini con le mani mozzate, oltre che per il suo enorme impatto nell’opinione pubblica (In Italia, uno dei pochissimi studiosi che ne denunciò la falsità fu Benedetto Croce) merita di essere analizzata perché si basa su un aspetto che caratterizzerà fino ai nostri giorni i falsi di guerra: l’illogicità del gesto.
L’occupazione tedesca del Belgio era finalizzata all’invasione della Francia, non certo all’attuazione di una qualche pulizia etnica, per la quale, cioè, bisogna terrorizzare la popolazione autoctona per costringerla a fuggire. Corollario di questa strategia era l’esigenza per la Germania di garantirsi un Belgio relativamente tranquillo dopo che – già nei primi giorni dell’invasione – era stata neutralizzata gran parte della resistenza. In questo contesto – come fece notare van Langenhove – sarebbe stato del tutto illogico per la Germania non solo organizzare (secondo il Financial Times veniva direttamente dal Kaiser la direttiva di torturare i bambini, specificando – tra l’altro – quali torture dovessero essere eseguite) ma anche permettere ufficialmente il compiersi di tali gratuite atrocità contro la fascia più inerme della popolazione. In altri termini “…(di fronte a queste atrocità)…cosa altro avrebbero fatto gli abitanti dei paesini teatro di tali infamie se non avventarsi, magari con qualche coltello da cucina, sul primo tedesco che passava?” Se questo si fosse verificato, la Germania si sarebbe trovata ad affrontare una resistenza immensamente più feroce di quella che caratterizzo l’invasione del Belgio, durante la guerra franco-prussiana, nel 1870.
Nonostante ciò, innumerevoli, illogiche, menzogne di guerra (basti pensare ai cecchini di Assad che sparano sulle donne incinte), anche oggi, vengono prese per buone da gran parte dell’opinione pubblica. Come è possibile? Tra gli studiosi che si occuparono di questo fenomeno, un posto di rilievo spetta, certamente allo storico Marc Bloch che, nel 1921, pubblicò Riflessioni d’uno storico sulle false notizie della guerra un testo breve ma ancora oggi illuminante per capire su quali meccanismi i creatori di falsi di guerra basino il loro agire. “Solo grandi stati d’animo collettivi hanno il potere di trasformare in leggenda una cattiva percezione. – dichiara BlochUna falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; la sua messa in moto ha luogo soltanto perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento.”
Una menzogna di guerra, quindi , serve sostanzialmente a cementare tutto un corpus di credenze già imposte all’opinione pubblica e a trasformare in paranoia il diffuso senso di insicurezza. Paranoia che, quindi, impone di fermare il nemico di turno prima che possa colpire anche l’inerme consumatore della menzogna (oggi, solitamente, un telespettatore). E bisogna agire subito, perché il nemico dispone, nel paese del consumatore, di una quinta colonna (pacifisti, disfattisti, comunità etnico-religiose…) o è dotato di imperscrutabili armi capaci di seminare ovunque distruzione.
Agli albori della Prima guerra mondiale la costruzione di un nemico capace delle più turpi efferatezze, che, se non lo si fosse fermato in tempo sarebbero dilagate dovunque, fu affidata in Italia (fino ai primi mesi del 1915 alleata dell’Impero austro-ungarico) ad una torma di giornalisti i quali furono letteralmente comprati da emissari del governo francese o inglese e/o da gruppi industriali interessati alle commesse militari. E così, in pochi mesi, fu imbastita una gigantesca campagna mediatica – imperniata sullo “stupro del piccolo e pacifico Belgio” – fatta propria da non pochi intellettuali e accompagnata da innumerevoli manifestazioni, culminate nel Maggio radioso, che chiedevano l’entrata in guerra.


Ironia della sorte, anche in quei giorni, “il Belgio”continuava a mozzare le mani ai bambini. Nel Congo, fino al 1909 proprietà privata di Leopoldo II re del Belgio. Per costringere le popolazioni a raccogliere nelle foreste il Caucciù e consegnarlo agli agenti della Société Générale de Belgique. Un abominio, accompagnato dallo sterminio – in 23 anni – di circa 9 milioni di congolesi, che aspetta ancora di essere ricordato in qualche museo o Giornata della Memoria.


Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...