sabato 31 agosto 2013

Siria: le prime vittime di ogni guerra sono verità e umanità


Menzogne, mezze verità, fatti manipolati, carneficina di civili. Mentre il mondo attende il passaggio in Siria dalla guerra per procura all'attacco diretto USA, i media proseguono la loro opera di disinformazione, distrazione, manipolazione di massa...


di Alessio Di Florio

I tamburi dei signori della guerra rullano sul destino della Siria. Mentre sullo schermo di un pc in Italia quest'articolo sta prendendo forma, mentre miliardi di persone nel mondo stanno proseguendo (lì dove la miseria, l'impoverimento, le guerre e i tantissimi altri frutti della barbarie umana lo permettono) la loro vita quotidiana, nelle loro chiuse stanze i Signori della Guerra stanno elaborando strategie, meditando azioni belliche, disegnando traccianti e segnando punti sulle mappe. Discutono di numeri, bombe, aerei, su una mappa che appare la pista del monopoli o un plastico di Bruno Vespa. Ma non è così. Perché sotto quei punti, dietro quegli asettici numeri, son nascosti la vita e il destino di migliaia, forse milioni, di persone. La prima vittima di ogni guerra, qualsiasi guerra, è l'umanità, la vita assassinata. Possiamo nasconderci dietro tutte le retoriche perifrasi dell'immensa ricchezza semantica delle lingue occidentali, ma il significato è sempre quello: le guerre sono solo un immenso genocidio, le armi assassinano. I signori della guerra, e il main stream in servizio permanente, potranno alzare alta qualsiasi propaganda, ma non riusciranno mai a rispondere ad una domanda immediata, semplice e lineare: come si può "difendere i civili", "esportare la democrazia" o colpire un "tiranno" massacrando un popolo?  Ogni nuova, crudele, macchina da guerra ancora una volta ci svela il vero volto delle nostre "democrazia", della nostra "civiltà". Se ancora una volta si ricorre ad una follia al di fuori della ragione (alienum est a ratione, come detto decenni fa), l'umanità non ha ancora compiuto alcun passo. Quale altra specie animale ha ideato qualcosa anche solo lontanamente paragonabile alla guerra? E' inutile invocare il progresso, la civiltà, lo sviluppo, la democrazia, la libertà. Sono tutte parole che suonano false se si pensa ancora che sia utile massacrare, uccidere, spargere sangue.

Ci stanno raccontando che la guerra civile è una fatalità, un mostro che non è stato possibile fermare prima e che nessun altro mezzo esiste oltre l'intervento bellico esterno. Le forniture di armi ai ribelli, gli affari dei mercanti di morte dimostrano esattamente il contrario: la guerra è stata fomentata, permessa, favorita da chi oggi afferma di essere costretto ad intervenire per fermarla. Continuano a raccontarci (esattamente come già ai tempi della Somalia, della Serbia, dell'Afghanistan, dell'Iraq e della Libia) che non ci sarebbe alternativa ad un intervento armato. Ed infatti non hanno mai speso nessuna parola, mai sostenuto in alcuna maniera Mussalah ("riconciliazione" in arabo), che da mesi tenta di costruire un'opzione nonviolenta alla guerra civile in corso.

Intanto, passano gli anni (e le guerre) e nessuno si prende la briga di andare a leggere cosa realmente dice il diritto internazionale (a partire dalla Carta di San Francisco, che esordisce con le parole "Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra", e i Covenants del 1966 sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali dove leggiamo che "la guerra è vietata, anzi proscritta") , dove non esiste alcuna legittimità alla  pretesa degli Stati Uniti di ergersi a gendarme e poliziotto del mondo con il potere di attaccare, bombardare, invadere altri Stati. Le uniche risposte le hanno fornite la "democratica"(esattamente come il mito dei progressisti europei Barack Obama) Madeleine Albright, quando considerò accettabile il quotidiano massacro di migliaia di iracheni per colpa dell'embargo, e l'Amministrazione Bush quando affermò che la guerra "contro il terrorismo" non si sarebbe fermata fin quando il resto del mondo non avesse accettato che gli USA potessero continuare a vivere secondo la loro volontà (quindi, fin quando tutto il resto del mondo non avesse accettato l'autorità imperiale a stelle e strisce e di fornire petrolio, altre fonti energetiche e tutto quello che l'Impero chiedeva a coloro che considera meno che sudditi).

La seconda vittima di ogni guerra è la verità, è la nuda realtà dei fatti. La guerra non accetta obiezioni, la macchina bellica non contempla nulla che non sia propaganda, yes-men, yes-women, collaborazionismo. Tutto dev'essere piegato ai suoi obiettivi, tutto quel che non è funzionale ai carri armati dei signori della guerra dev'essere manipolato, piegato, adattato, cancellato.

L'OPZIONE KOSOVO, LE BUFALE DI BUSH E BLAIR

In questi giorni ci stanno raccontando che Obama starebbe studiando un'opzione Kossovo per la Siria, la ripetizione del bombardamento su Belgrado del 1999. John Pilger in un articolo recente ( http://www.globalist.ch/Detail_News_Display?ID=48191&typeb=0&Venti-di-guerra-ricordando-le-bufale-del-Kosovo- ) ha ripercorso tutte le tappe di quell'azione Nato, a partire dalle tante menzogne. La prima delle quali fu addossare alla delegazione serba la colpa della fine dei negoziati di Rambouillet, "dimenticandosi" che Madeleine Albright (quando ormai  l'accordo era praticamente raggiunto) tentò di imporre l'occupazione militare di tutta la Jugoslavia da parte della NATO e degli USA. Blair e Clinton "giustificarono" il bombardamento di Belgrado (così chirurgico che, per bombardare 14 carrarmati, furono colpiti 372 centri industriali, la sede della televisione, ponti ed altri luoghi civili) con il massacro da parte delle milizie di Milosevic di almeno "225.000 uomini di etnia albanese di età compresa tra i 14 e i 59 anni". Dopo la fine dell'intervento armato l'FBI rimase diverse settimane in Kossovo senza trovare alcuna traccia di fosse comuni e di stermini di massa. Mentre, un anno dopo, il Tribunale Internazionale per i Crimini di Guerra (un ente di fatto istituito dalla Nato) affermò che il numero definitivo di corpi trovati nelle "fosse comuni" in Kosovo era 2.788, compresi i combattenti di entrambe le parti e i serbi e i rom uccisi dall'Esercito di Liberazione Albanese del Kosovo(KLA). Pilger sottolinea che "il Kosovo è oggi un criminoso e violento libero mercato di droga e prostituzione amministrato dalle Nazione Unite. Più di 200.000 serbi, rom, bosniaci, turchi, croati ed ebrei sono stati purificati etnicamente dal KLA mentre le forze della Nato rimanevano in attesa. Gli squadroni della morte della KLA hanno bruciato, saccheggiato o demolito 85 tra chiese ortodosse e monasteri, secondo quanto riportato dalle Nazioni Unite."

IL SOSTEGNO "INTERNAZIONALE" AI COMBATTENTI ANTI-ASSAD E LE FORNITURE DI ARMI EUROPEE

In Siria sta per scoppiare una nuova guerra. Nossignori, in Siria è già guerra da oltre due anni. Il Paese è già insanguinato dalla morte di migliaia di persone, vittime di un'atroce guerra civile. Una guerra civile dove le "Grandi Potenze" non arriveranno nelle prossime ore ma sono già presenti dall'inizio. Già un anno fa l'ottimo portale Sirialibia (http://http://www.sibialiria.org) ha redatto un elenco di tutti gli attori internazionali che stanno partecipando alla guerra civile in Siria. "Turchia e Libano del Nord (Tripoli e Akkar): offrono ospitalità a combattenti, servizi logistici e contrabbando di armi, spie e  uomini; inoltre ospitano le famiglie dei combattenti siriani come rifugiati e le utilizzano presso i media; Qatar: finanzia sia l’approvvigionamento in armi che la disinformazione attraverso la sua tivù satellitare Al-Jazeera e altri canali (Al Jadeed in Libano, On Tv in Egitto, Orient Tv ospitata in Egitto e in altri paesi); Giordania: lavoro di intelligence, contrabbando di combattenti, ospitalità per le loro famiglie come rifugiati, e loro uso presso i media; Egitto, Tunisia, Libia, Afghanistan, Pakistan, Cecenia: forniscono combattenti jihadisti (fra gli altri il giornalista britannico Robert Fisk ne ha incontrati molti ad Aleppo); Francia e Gran Bretagna: lavoro di intelligence, telecomunicazioni high-tech e spionaggio."  Il 28 Maggio di quest'anno la Rete Italiana per il Disarmo ha denunciato che i Paesi dell'Unione Europea hanno deciso di "cancellare l’embargo di armi verso la Siria" così da dare "la possibilità ai paesi membri di fornire armamenti ai ribelli in lotta con il regime di Assad".

A questo elenco andrebbe poi aggiunto il Sudan che, come denunciato dal Washington Post e dal settimanale Sud Sudanese The New Nation, fornisce armi ai "ribelli": armi automatiche, munizioni, fucili di precisione per i cecchini, missili anti carri armati, missili anti aerei FN-6 a ricerca automatica di calore, prodotti a Khartoum, acquistati dal Qatar e spedite in Siria tramite la Turchia.

L'Italia non è esente da questa partecipazione alla guerra civile siriana. Il 1° Agosto di due anni fa Giorgio Beretta denunciò su Unimondo ( http://www.unimondo.org/Notizie/Siria-ministro-Frattini-quei-carro-armati-sparano-italiano-sui-civili-di-Hama-131207 ) che sui "carri armati T72 di fabbricazione sovietica" in dotazione all'esercito di Assad (e accusati di aver sparato sulla folla ad Hama nelle settimane precedenti) "sono da anni installati i sistemi di puntamento e di controllo del tiro TURMS-T" prodotti da Selex Galileo, ex Galileo Avionica, una controllata di Finmeccanica. Il 28 Agosto OPAL, l'Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa di Brescia,  ha documentato che "Tranne quelle verso la Giordania e il Libano, le esportazioni dei paesi dell’Unione Europea di fucili, carabine, pistole e mitragliatrici sia automatiche che semiautomatiche verso le nazioni confinanti con la Siria sono raddoppiate o addirittura triplicate tra il 2010 e il 2011. Lo documentano i rapporti ufficiali dell’Unione Europea: la Turchia è passata dai poco più di 2,1 milioni di euro di importazioni di armi leggere europee del 2010 agli oltre 7,3 milioni del 2011; Israele da 6,6 milioni di euro ad oltre 11 milioni di euro e addirittura l’Iraq da meno 3,9 milioni di euro del 2010 a quasi 15 milioni nel 2011".
 
I MASSACRI E GLI STUPRI DEI "RIBELLI"

Ci hanno raccontato in questi mesi, e ancor più nelle ultime settimane e giorni, uno scontro tra il Male e il Bene, con i "ribelli" (sostenuti e fomentati dalle armi occidentali e delle petro-monarchie del Golfo Persico) civili, democratici, bastioni di civiltà. Nel luglio scorso sono nati in Siria i primi figli del jihad al nikah, il matrimonio ad ore che in alcuni casi rende lecito anche lo stupro. Nei mesi scorsi lo Sceicco wahabita Mohammed al-Arifi  ha fatto un appello per l'arruolamento delle donne per la jihad in Siria ed emanato una fatwa per il jihad al nikah, un matrimonio che - dopo averlo "consumato" - i miliziani possono sciogliere (anche dopo poche ore appunto) ripetendo per tre volte  la formula rituale del ripudio per annullare le nozze, così che queste vere e proprie "schiave del sesso" possano essere sposate da un altro miliziano. In tutto questo la volontà della donna non viene minimamente contemplata e, anzi, il jihad al nikah rende lecito al "marito temporaneo" lo stupro della donna che non volesse acconsentire. Nella notte tra  il 22 e il 23 luglio a Khan al-Asal, un villaggio a maggioranza sciita e alawita  a sud-ovest di Aleppo, è stato teatro di una terribile strage criminale. Secondo alcune dettagliate ricostruzioni (riportate al link http://www.sibialiria.org/wordpress/?p=1821 ) affiliati allo Stato islamico dell'Iraq e del Levante, Jabhat al-Nusra e sostenitori del califfato islamico hanno dapprima attaccato e poi invaso il villaggio e, dopo aver massacrato i militari siriani, hanno ucciso tutti quelli che si trovavano per le strade,  fatto irruzione nelle abitazioni e ucciso i giovani sparando alle loro teste, decapitato gli anziani e bruciato decine di donne, completando l'orrore criminale accanendosi sui corpi dei morti prima di gettarli in una fossa comune alla periferia del villaggio. Il quotidiano britannico Telegraph ha denunciato che a Deir Ezzor e Hassaké molti sono stati costretti a fuggire altrove, a convertirsi forzatamente o a “pagare per la rivoluzione". Un'altra strage (fonte: http://www.sibialiria.org/wordpress/?p=1835 ) è stata compiuta da Jabhat al-Nusra, Liberi del Levante, Brigate dei Mouhajirin, Aquile del Levante, Aquile della dignità e Brigata dei libici in 10 villaggi abitati prevalentemente da alawiti tra Kafrayya, Talla, Barmasse, Anbaté e Beit Shokouhi. A Balluta la popolazione è stata radunata fuori dalle case e sono stati uccisi tutti i giovani e i bambini con coltelli di fronte alle loro famiglie. Ad Abu Mecca sono stati sgozzati tutti gli abitanti, così come ad Istarba.


LE ARMI CHIMICHE

I media main-stream, ripetendo quando affermato da Obama, Cameron, Hollande e Letta, ci hanno raccontato in queste ore che non è più possibile attendere e che la Siria ha varcato la "linea rossa" utilizzando armi chimiche per massacrare la propria popolazione. La "linea rossa" sarebbe stata attraversata con l'attacco del 21 Agosto alle 3 del mattino. Il video che da giorni le televisioni italiane ci stanno mostrando a tutte le ore è stato caricato su youtube il 20 agosto. Alcuni esperti di armi non convenzionali hanno notato che le persone riprese nel video non mostrano i sintomi di intossicazione da gas sarin e i soccorritori "non hanno protezioni, quindi la tossicità del prodotto è più bassa" (Gwyn Winfiled intervistato da Repubblica per esempio il 22 Agosto). Secondo Jean Pascal Zanders, esperto in armi chimiche e biologiche per l'istituto dell'Unione europea per la sicurezza, i soccorritori (equipaggiati e non protetti come vediamo nel video) sarebbero dovuti morire all'istante a loro volta. Medici Senza Frontiere, nel suo comunicato (http://medicisenzafrontiere.it/msfinforma/comunicati_stampa.asp?id=3220&ref=listaHomepage) del 24 Agosto riferisce semplicemente di aver avuto notizie (che non ha avuto modo di verificare, in quanto " il personale di MSF non è stato in grado di accedere alle strutture") di "un gran numero di pazienti giunti con sintomi quali convulsioni, eccesso di salivazione, pupille ristrette, visione offuscata e difficoltà respiratorie" sottolineando che "MSF non può né confermare scientificamente la causa di questi sintomi, né stabilire chi è responsabile per l'attacco". Ben diverso dalla conferma dell'uso di gas sarin da parte di Assad, come vorrebbero farci credere. Secondo Jean Pascal Zanders, esperto in armi chimiche e biologiche per l'istituto dell'Unione europea per la sicurezza, i soccorritori sarebbero dovuti morire all'istante a loro volta. SyriaTruth (un sito di oppositori ad Assad non armati, coordinato da un esule) riferisce di progetti organizzati dalle "brigate turkmene" di Latakia e Damasco, in particolare "la bandiera dell'Islam" e "le brigate dei discendenti del Profeta", e che i villaggi di Zamalka e Ein Tarma (dove si sarebbe verificata la strage) sono poco distanti dalle zone residenziali principali della capitale, abitate per lo più da siriani filogovernativi, e dall'aeroporto militare di Mezzeh. Su youtube si trova anche questo video http://www.youtube.com/watch?v=XPXwGKDrMQw&feature=share , nella cui didascalia leggiamo "Da una conversazione tra dirigenti della società di mercenari britannica Britain Defence, pubblicata dal Daily Mail di Londra, viene la prova che gli Usa hanno sollecitato il Qatar a fornire armi chimiche ai "ribelli", in modo che gli Usa possano accusare il governo di Assad di ricorrere a tali armi, La fonte sono messaggi email tra i dirigenti di cui sopra scoperti da un hacker malesiano." Il  rappresentante ufficiale del Ministero degli Affari Esteri della Russia presso l'ONU ha fornito foto scattate da satelliti russi che documentano che è stato lanciato un razzo che conteneva sostanze chimiche tossiche sulle zone orientali nei pressi di Damasco dalle aree occupate dai ribelli. Carla Del Ponte (ex procuratore capo del Tribunale penale internazionale) già nel maggio scorso dichiarava in un'intervista alla Radio Svizzera Italiana "Abbiamo potuto raccogliere alcune testimonianze sull'utilizzo di armi chimiche, e in particolare di gas nervino, ma non da parte delle autorità governative, bensì da parte degli oppositori, dei resistenti". All'inizio di giugno in Turchia sono stati arrestati alcuni guerriglieri appartenenti al Fronte al-Nusra (la principale formazione jihadista attiva in Siria) nelle cui abitazioni sono state rinvenute sostanze chimiche come il sarin.


IL MUOS E IL RISCHIO CHE LA SICILIA DIVENTI UNA BASE USA

L'ultima manipolazione da parte del Governo Italiano (il Ministro Bonino sono giorni che ripete "senza l'ONU l'Italia non partecipa") e dei media main stream è sulla partecipazione italiana. Tutti "dimenticano" che in Italia sono presenti diverse basi USA (che quindi rispondono al governo statunitense e non al Parlamento italiano). E ovviamente (dopo aver trasformato la straordinaria manifestazione del 9 Agosto scorso in una giornata di scontri violenti) senza minimamente citare il MUOS, la cui costruzione ha subito una fortissima accelerazione nei giorni scorsi (http://www.nomuos.info/ricominciano-lavori-teniamo-alto-la-guardia/ ), dopo il precedente violento sgombero del presidio No Muos (https://www.youtube.com/watch?v=1iwa1Smd7MM&feature=youtube_gdata_player). L'accellerazione nella costruzione nel MUOS, la presenza di basi militari USA (attrezzate anche per i droni, gli aerei senza pilota) fanno temere che la Sicilia non sarà assolutamente estranea alla mobilitazione militare, anzi, così come avvenuto con la guerra in Libia (quando dall'isola partirono quasi tutte le operazioni) potrebbe essere una delle basi più importanti della "nuova" guerra USA.  Si considerano i baluardi della civiltà e della democrazia nel mondo, proclamano altissima la bandiera della libertà, dei diritti umani e della libertà. La Sicilia mostra la realtà: violentano l'ambiente, mettono a rischio la salute, s'impongono manu militari sulle popolazioni. Rullano i tamburi di guerra e le infowar dominano il mondo dell'informazione...

Associazione Antimafie Rita Atria
Associazione Culturale Peppino Impastato
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giovedì 29 agosto 2013

La Siria e la terza guerra mondiale

 

di Massimo Fini dal blog di Beppe Grillo 

"La politica di potenza imperiale che gli Stati Uniti stanno esercitando a tamburo battente da quando non c’è più il contraltare dell’Unione Sovietica, e hanno quindi le mani libere, si maschera dietro questioni morali. La Siria è un Paese che dà fastidio, perché legata all’Iran, che è l’arcinemico, non si capisce poi bene il perché, degli Stati Uniti e di Israele. Tra l’altro non si sa affatto se Assad ha usato armi chimiche, ci sono gli ispettori ONU per questo, o l’ONU non conta nulla? Evidentemente non conta nulla perché quando serve c’è il cappello ONU, se non c’è il cappello ONU si aggredisce lo stesso. Questo è avvenuto in Serbia nel '99, in Iraq nel 2003 e in Libia recentemente. Tutte azioni e aggressioni senza nessuna copertura ONU. Si dovrebbe per lo meno aspettare la relazione degli ispettori. C’è un precedente che dovrebbe consigliare prudenza, non dico agli Stati Uniti che non ne hanno, ma ai suoi alleati, ed è quello dell’Iraq, dove sostenevano che Saddam Hussein avesse le armi chimiche, di distruzione di massa, e poi non le aveva. Certo, lo sostenevano perché gliele avevano date loro a suo tempo, gli Stati Uniti, in funzione anti sciita e anti curda, però non le aveva più perché le aveva usate ad Halabja, gasando cinquemila curdi.
Chi sta combattendo in Siria?
Da una parte c’è il governo di Assad che, fino a prova contraria, è un governo legittimo, rappresentato all’ONU, e dall’altra parte c’è un coacervo di forze tra le più disparate, è difficile anche per gli analisti più attenti capire chi sono, sono tanti segmenti. Non Al Qaeda, che non esiste, ma ci sono gli jihadisti che sostengono una guerra totale all’Occidente, per esempio. Quindi l’intervento sarebbe controproducente, ma siccome gli americani si sono erti a poliziotti del mondo, che decidono chi ha torto e chi ragione, questo li spinge a intervenire comunque. Tra l’altro questa superiorità morale degli americani... John Kerry ha detto che quello che avviene in Siria è una oscenità morale, beh, l’oscenità morale secondo me è degli Stati Uniti. Chi ha usato veramente le armi di distruzione di massa? Parliamo del '900 e di adesso: gli Americani a Hiroshima e Nagasaki. C’è da tenere presente che Nagasaki, cosa che non si sa, fu bombardata tre giorni dopo Hiroshima, per cui si sapeva che strage si faceva con la bomba atomica. Questo diritto morale degli americani di intervenire ovunque, non è una storia che nasce oggi, nasce per lo meno dalla Serbia, cioè dal '99, continua con l’Iraq, con la Libia, senza contare le due aggressioni alla Somalia, una nel 2002 e l’altra attraverso l’Etiopia nel 2008 – 2009.
Chi finanzia i ribelli?
Li finanziano l'Arabia Saudita, la Francia, gli stessi Stati Uniti. Siccome utilizzano la loro potenza dietro lo schermo della moralità, il fatto che sia possibile che Assad abbia usato armi chimiche li costringe a intervenire, Obama aveva tracciato una linea rossa, ma chi lo autorizza a tracciare linee rosse in altri paesi? Gli americani hanno sfondato un principio di diritto internazionale che era valso fino a qualche decennio fa, della non ingerenza negli affari interni di uno Stato sovrano. I diritti umani sono il grimaldello con cui in realtà intervengono dove vogliono e quando vogliono, anche perché non hanno più contraltare, la Russia non è più una superpotenza. Siamo costretti a rimpiangere tutto, anche la vecchia e cara Unione Sovietica, perché almeno faceva da muro alla poi potenza di costoro. La cosa curiosa, che in questa diciamo compagnia di gente molto morale, molto democratica, c’è l’Arabia Saudita che è nota per essere un Paese rispettoso dei diritti umani, soprattutto quelli delle donne, quindi già questo dice quale sia la vera situazione?
Gli inglesi hanno responsabilità enormi in Medio Oriente, se tu vai, per esempio, a Teheran senti dire morte agli inglesi, comprendono anche gli americani, ma in particolare gli inglesi, perché? Perché hanno fatto il bello e cattivo tempo per un secolo in quella regione, potenza coloniale come erano. Mi ricordo che il sindaco di Londra, Livingstone, molto amato dai sui cittadini, dopo gli attentati londinesi, di qualche anno fa (attribuiti a Al Qaeda, in realtà erano terroristi locali) disse "Sì, certo, gli attentati terroristi sono inaccettabili, però se gli arabi avessero fatto in Gran Bretagna quello che abbiamo fatto noi per un secolo nel mondo arabo io sarei un terrorista inglese". Gli inglesi marciano di conserva con gli americani, si può anche capire per i legami, quello che non si capisce è la Francia, con queste sue idee di grandeur che abbiamo visto quanto valessero durante la seconda guerra mondiale, la linea Maginot aggirata in cinque giorni. Adesso che può agire liberamente siano socialisti, come Hollande, o conservatori come Sarkozy fa una politica di potenza.
In Libia è stata soprattutto la spinta francese a combinare il disastro, perché sparito Gheddafi si sono scatenate faide interne di tutti i tipi. Le armi di Gheddafi sono finite ovunque, poi i francesi sono intervenuti in Mali perché gli islamisti stavano conquistando il Mali e questo non gli andava bene perché il dittatore maliano era un loro alleato.
La superiorità tecnologica occidentale permette di tutto. Lo scandalo maggiore (non è argomento di questa conversazione) è l’Afghanistan, dove da 12 anni il segretario di stato americano John Kerry ha detto che dopo questa vicenda di Damasco, di questo quartiere, vedendo il padre che cercava di salvare i figli si è messo a piangere. Perché non piange per le migliaia di bambini e bambine uccisi in Afghanistan per a bombardamento dissennati della Nato, americani in testa, di cui noi peraltro italiani siamo complici!
Possibili sviluppi?
Se intervengono militarmente il rischio è che si scateni la terza guerra mondiale, perché credo che l’Iran, alleato della Siria, non resterà inerte, e anche la Russia non potrà rimanere ferma e comunque si incendia tutta la regione. Tutti questi interventi si sono sempre risolti in altri massacri, prendiamo l’Iraq, l’intervento americano ha causato direttamente o indirettamente tra i 650 mila e 750 mila morti! Il calcolo è stato fatto molto semplicemente da una rivista medica inglese che è andata a vedere i decessi durante l’epoca Saddam e i decessi durante il periodo dell’occupazione americana e quindi la cifra più o meno è questa. Quello che è peggio è che avendo squinternato questo paese si è scatenata una guerra tra sunniti e sciiti che causa centinaia di morti la settimana, di cui nessuno parla, perché intanto chi se ne frega! Ormai gli occupanti americani non ci sono più.
Quindi ogni intervento cosiddetto umanitario si risolve in una strage umanitaria. E' quello che è successo quando intervennero gli americani e parte degli europei nella guerra Iraq - Iran. Gli iraniani stavano per conquistare Bassora che avrebbe voluto dire la caduta immediata di Saddam Hussen. Si disse che non si poteva permettere alle orde iraniane di entrare a Bassora, perché quelle degli altri sono sempre orde, che cosa ha causato questo intervento? La guerra che sarebbe finita nell’85 con un bilancio di mezzo milione di morti è finita tre anni dopo con un bilancio di un milione e mezzo di morti. Saddam Hussein che sarebbe caduto all’istante con la conquista di Bassora è rimasto in piedi pieno di armi fornite dagli Stati Uniti e dagli occidentali. Che cosa fa una rana con un grattacielo di armi sopra? La rovescia nel primo posto che gli capita, quindi Kuwait e quindi Prima Guerra del Golfo.
La storia dei missili intelligenti è grottesca. La prima volta che comparvero questi bombe chirurgiche, missili intelligenti, fu nella Prima Guerra del Golfo, nel '90, ebbene questi missili intelligenti e bombe chirurgiche hanno fatto 166 mila morti civili, di 33 mila bambini, che non sono meno bambini dei nostri bambini. E' un dato che continuo a ripetere, quando posso, è un dato accertato, perché è uscito da una fonte insospettabile, che è il Pentagono. E questi sono i missili intelligenti e gli interventi mirati? Non si può credere agli americani né sulle armi chimiche, perché c’è il precedente Iraq, e non si può credere ai missili mirati perché mirati non sono affatto.
L’intervento è illegittimo da tutti i punti di vista. C’è sempre la storia dei due pesi e due misure. In Egitto un governo eletto democraticamente è stato abbattuto dall’esercito finanziato dagli Stati Uniti da sempre, per cui c’è stato un colpo di Stato, ma lì si sta zitti, perché i Fratelli Musulmani non sono nostri amici, anche se non sono affatto estremisti. Secondo me nelle guerre civili bisognerebbe che fosse il verdetto del campo a decidere, a un certo punto se Assad è effettivamente detestato dalla sua popolazione prima o poi cade, deve essere il campo a decidere, ma qualunque intervento esterno in realtà non fa che aggravare e complicare la situazione. Perché poi gli uni portano le armi a quelli, gli altri a quelli altri e così via e la cosa si prolunga invece di finire in tempi ragionevoli.
Le uniche soluzioni lecite sono quelle diplomatiche, quando si possono fare, se non ci sono le due parti hanno diritto di battersi.Adesso non c’è neanche più il diritto di battersi. Io non so se in Siria abbia più ragione Assad a difendere il suo potere o gli altri a volerlo abbattere, è il campo che deve decidere, perché sennò si creano sempre situazioni totalmente provvisorie. È come la Bosnia, appunto, che può esplodere in ogni momento, perché è stata una soluzione totalmente artificiale, anche se questo è un altro discorso."




martedì 27 agosto 2013

L'inutile movimento

Abbiamo fatto manifestazioni oceaniche di milioni di uomini e donne, abbiamo speso parole, sudore e impegno, abbiamo prodotto analisi accurate e favorito confronti aperti senza mai cedere all'ideologia, abbiamo messo sul tavolo un'unica irrinunciabile discriminante: il NO alla guerra. Non è servito a niente, noi anime belle, il movimento, non siamo riusciti a fermare la macchina della guerra. Adesso siamo pronti a dire no all'ennesima guerra, quella contro la Siria, portata avanti da quegli stessi potenti che ci siamo trovati di fronte in mille altre guerre e che indossano la maschera dei buoni e dei volenterosi. Ma non servirà a niente di nuovo. Se non compiamo il passaggio definitivo verso la maturità, non conteremo mai niente e non potremo mai sederci al tavolo dei potenti per imporre le nostre condizioni. Un tempo di chiamavano "la quarta potenza mondiale" noi del movimento, ma è stato un battito di ciglia, la nostra gloria è durata il tempo necessario perché il fiume carsico, che momentaneamente era emerso,  riprendesse il suo percorso abituale, alla fine la quarta potenza è diventata un ricordo impresso nei filmati e nella carta stampata. 
La nostra forza, il non volersi rispecchiare nel potere, noi che il potere lo combattiamo, è anche la nostra debolezza. Cosa siamo in fin dei conti? Siamo solo una moda passeggera, un fenomeno di costume, un libro di favole, un racconto buono per l'album dei ricordi e per dare un senso alla vita di chi non ha un Dio o non è abbastanza cinico. 
Bisogna fare subito ciò che è giusto fare: ci occorre un gruppo di menti raffinate a livello planetario capace di creare un'organizzazione ramificata, con un suo programma definito, un network che abbracci tutto il globo. Prendiamo il potere, dalle metropoli alle campagne. Prendiamo il potere con la fede, con il senso di giustizia, con la volontà e con il sapere. Niente più nichilismo né tentennamenti. 
Dobbiamo davvero diventare una potenza, allora si che potremo dire no alla guerra, sul serio.


lunedì 26 agosto 2013

Siria, la demonizzazione preventiva

 di Diego Fusaro da lospiffero

L’opera di demonizzazione preventiva è sempre la stessa. La si ritrova, ugualmente modulata, su tutti i quotidiani e in tutte le trasmissioni televisive, di destra come di sinistra. In quanto totalitario, il sistema della manipolazione organizzata e dell’industria culturale occupa integralmente la destra, il centro e la sinistra. Il messaggio dev’essere uno solo, indiscutibile.
Armi chimiche, armi di distruzione di massa, violazione dei diritti umani: con queste accuse, la Siria è oggi presentata mediaticamente come l’inferno in terra; per questa via, si prepara ideologicamente l’opinione pubblica alla necessità del bombardamento, naturalmente in nome dei diritti umani e della democrazia (la solita foglia di fico per occultare la natura imperialistica delle aggressioni statunitensi).

Alla demonizzazione preventiva come preambolo del “bombardamento etico” siamo abituati fin dall’inizio di questa “quarta guerra mondiale” (cfr. C. Preve, La quarta guerra mondiale, All’insegna del Veltro, Parma 2008). Successiva ai due conflitti mondiali e alla “guerra fredda”, la presente guerra mondiale si è aperta nel 1989 ed è di ordine geopolitico e culturale: è condotta dalla “monarchia universale” – uso quest’espressione, che è di Kant, per etichettare la forza uscita vincitrice dalla guerra fredda – contro the rest of the world, contro tutti i popoli e le nazioni che non siano disposti a sottomettersi al suo dominio.
Iraq 1991, Jugoslavia 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2004, Libia 2011: queste le principali fasi della nuova guerra mondiale come folle progetto di sottomissione dell’intero pianeta alla potenza militare, culturale ed economica della monarchia universale.

La Siria è il prossimo obiettivo. L’apparato dell’industria culturale si è già mobilitato, diffamando in ogni modo lo Stato siriano, in modo da porre in essere, a livello di opinione pubblica, le condizioni per il necessario bombardamento umanitario. Il presidente statunitense Obama non perde occasione per presentare la Siria come il luogo del terrorismo e delle armi di distruzione di massa, in modo che l’opinione pubblica occidentale sia pronta al bombardamento del nemico.
La provincia italiana – colonia della monarchia universale – ripete urbi et orbi il messaggio ideologico promosso dall’impero. È uno spettacolo vergognoso, la prova lampante (se ancora ve ne fosse bisogno) della subalternità culturale, oltre che geopolitica, dell’Italia e dell’Europa alla potenza mondiale che delegittima come terrorista la benemerita resistenza dei popoli e degli Stati che non si piegano al suo barbaro dominio.

Il primo passo da compiere, per legittimare l’invasione imperialistica camuffata da interventismo umanitario, resta la reductio ad Hitlerum di chi è a capo degli Stati da invadere, non a caso detti rogue States, “Stati canaglia” (in una totale delegittimazione a priori della loro stessa esistenza): da Saddam Hussein a Gheddafi, da Chavez ad Ahmadinejad, la carnevalata è sempre la stessa. Vengono ridotti a nuovo Hitler e a nuovo nazismo tutte le forze che non si pieghino al nomos dell’economia di cui è alfiere la monarchia universale.
Del resto, l’invenzione mediatica di sempre nuovi Hitler sanguinari si rivela immancabilmente funzionale all’attivazione del “modello Hiroshima”, ossia del bombardamento legittimato come male necessario. Dove c’è un Hitler, lì deve esserci anche una nuova Hiroshima. L’ideologia della pax romana costituisce una costante del corso storico. Ogni impero qualifica come pace la propria guerra e delegittima come terrorismo e barbarie quella dei resistenti. Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant: il vecchio adagio di Tacito non è mai stato tanto attuale.

La reductio ad Hitlerum si accompagna pressoché sempre all’impiego ideologico del concetto di umanità come titolo volto a giustificare – come già sapeva Carl Schmitt (cfr. Il concetto del politico) – l’ampliamento imperialistico. La guerra che si autoproclama umanitaria serve non solo a glorificare se stessa, ma anche a delegittimare il nemico, a cui è negata in principio la qualità stessa di uomo. Contro un nemico ridotto a Hitler e a essere non umano, il conflitto può allora essere spinto fino al massimo grado di disumanità, in una completa neutralizzazione di ogni dispositivo inibitorio di una violenza chiamata a esercitarsi in forma illimitata. Vale la pena di leggere il profetico passo di Schmitt: «Un imperialismo fondato su basi economiche cercherà naturalmente di creare una situazione mondiale nella quale esso possa impiegare apertamente, nella misura che gli è necessaria, i suoi strumenti economici di potere, come restrizione dei crediti, blocco delle materie prime, svalutazione della valuta straniera e così via. Esso considererà come violenza extraeconomica il tentativo di un popolo o di un altro gruppo umano di sottrarsi agli effetti di questi metodi “pacifici”».

È questa l’essenza dell’odierna “quarta guerra mondiale”, puntualmente dichiarata contro i popoli che aspirano a sottrarsi all’imperialismo statunitense (e subito dichiarati terroristi, assassini, nemici dei diritti umani, “Stati canaglia”, ecc.).
In coerenza con la destoricizzazione tipica del nostro presente, l’epoca che si colloca sotto lo slogan dell’end of history, la dimensione storica viene sostituita, a livello di prestazione simbolica, ora dallo scontro religioso tra il Bene e il Male (identificati rispettivamente con l’Occidente a morfologia capitalistica e con le aree del pianeta che ancora resistono), ora dal canovaccio della commedia che, sempre uguale, viene impiegato per dare conto di quanto accade sullo scacchiere geopolitico: il popolo compattamente unito contro il dittatore sanguinario (Assad in Siria), il silenzio colpevole dell’Occidente, i dissidenti “buoni”, cui è riservato il diritto di parola, e, dulcis in fundo, l’intervento armato delle forze occidentali che donano la libertà al popolo e abbattono il dittatore mostrando con orgoglio al mondo intero il suo cadavere (Saddam Hussein, Gheddafi, ecc.).

Seguendo penosamente l’ideologia dominante, la sinistra italiana continua a rivelare, anche in questo, una subalternità culturale che farebbe ridere se non facesse piangere: da “L’Unità” a “Repubblica” l’allineamento con l’ideologia dominante è totale (ed è, per inciso, un’ulteriore prova a favore della tesi circa l’ormai avvenuta estinzione della dicotomia tra una destra e una sinistra perfettamente interscambiabili, composte da nietzscheani “ultimi uomini”). La parabola che porta dall’immenso Antonio Gramsci a Massimo D’Alema è sotto gli occhi di tutti e si commenta da sé.
Secondo questa patetica commedia, tutti i mali della società vengono imputati al feroce dittatore di turno (sempre identificato dal circo mediatico con il nuovo Hitler: da Saddam a Gheddafi, da Ahmadinejad a Chávez), che ancora non si è piegato alle sacre leggi di Monsieur le Capital; e, con movimento simmetrico, il popolo viene mediaticamente unificato come una sola forza che lotta per la propria libertà, ossia per la propria integrazione nel sistema della mondializzazione capitalistica.

Come se in Siria o a Cuba vi fossero solo dissidenti in attesa del bombardamento umanitario dell’Occidente! Come se la libertà coincidesse con la reificazione planetaria e con la violenza economica di marca capitalistica! Tra i molteplici esempi possibili, basti qui ricordare quello della blogger cubana Yoani Sánchez, ipocritamente presentata dal circo mediatico come se fosse l’unica voce autentica della Cuba castrista, la sola sostenitrice dell’unica libertà possibile (quella della società di mercato) dell’intera isola cubana!
L’aggressione imperialistica della monarchia universale può trionfalmente essere salutata come forma di interventismo umanitario, come gloriosa liberazione degli oppressi, essi stessi presentati come animati da un’unica passione politica: l’ingresso nel regime della produzione capitalistica e la sottomissione incondizionata alla monarchia universale.

La Siria, come si diceva, è uno dei prossimi obiettivi militari della monarchia universale. È, al momento, uno dei pochi Stati che ancora resistono alla loro annessione imperialistica all’ordine statunitense. E questo del tutto a prescindere dalla politica interna siriana, con tutti i suoi limiti lampanti, che nessuno si sogna di negare o anche solo di ridimensionare.

Con buona pace di Norberto Bobbio e di quanti, dopo di lui, si ostinano a legittimate le guerre “umanitarie” occidentali, la sola guerra legittima resta, oggi, quella di resistenza contro la barbarie imperialistica. Per questo, con buona pace del virtuoso coro politicamente corretto, addomesticato e gravido di ideologia, senza esitazioni occorre essere solidali con lo Stato siriano e con la sua eroica resistenza all’ormai prossima aggressione imperialistica.

La Siria, come Cuba e l’Iran, è uno Stato che resiste e che, così facendo, insegna anche a noi Occidentali che è possibile opporsi all’ordine globale che si pretende destinale e necessario. Diventa, allora, possibile sostenere degli Stati resistenti quanto Fenoglio, nel Partigiano Johnny, asseriva a proposito dei partigiani (anch’essi eroi della resistenza, come oggi i rogue States): “ecco l’importante: che ne restasse sempre uno”.

Finland Limps Down Road to Euro Treaty Failure

By  Kasper Viita from bloomberg


Finland is sliding down a recession-greased slope and risks building up more debt than euro-zone members are allowed to have.
As early as 2015, Finland “won’t really have the means” to keep debt below the 60 percent threshold of gross domestic product allowed in the euro area, according to Pasi Holm, managing director at Helsinki-based PTT Research Institute.
Pedestrians pass a giant smartphone in the window display of a Nokia Oyj store in Helsinki. The recession Finland sank into last year will continue through 2013, according to a Bloomberg survey of 11 economists. Photographer: Henrik Kettunen/Bloomberg
“Economic growth would help, but there’s none to be seen,” Holm said in an interview.
The recession Finland sank into last year will continue through 2013, according to a Bloomberg survey of 11 economists. The development threatens to deplete government revenue and make it more difficult for the nation to live up to Europe’s budget rules, Holm said. Prime Minister Jyrki Katainen, who says Finland’s AAA is at risk, is meeting with lawmakers and industry groups today to design a roadmap out of the country’s economic and fiscal plight.
“If adequate structural reforms aren’t made and if we don’t get a wage deal that improves our competitiveness, then we are running a great risk of losing our credit rating,” Katainen said on a radio channel of the national broadcaster YLE yesterday. “That would mean that government debt yields would begin to rise.”
Katainen’s six-party coalition said on Friday the 2013 budget deficit will be 1.2 billion euros ($1.6 billion) wider than previously estimated, at 9 billion euros, as Finland’s economic contraction cuts into government income.

Negative Returns

The yield on Finland’s benchmark 10-year bond rose two basis points on Friday to 2.21 percent, its highest in at least a year. Finnish government debt longer than one year has delivered investors a 2.7 percent loss this year, according to Bloomberg/EFFAS indexes. By contrast, bonds sold by the government of Spain yielded a positive return of 7.8 percent in the same period. Finland’s 10-year yield traded at about 2.2 percent as of 12:14 p.m. in Helsinki today.
“We need specified structural reforms with schedules that are committed to,” Holm said.
The Treaty on European Union, also known as the Maastricht Treaty after the Dutch town it was signed in, outlined the criteria that prospective and existing euro members are supposed to fulfill. The treaty requires governments to keep deficits within 3 percent of GDP and debt below a 60 percent threshold.
“These limits are important psychologically, they act as alarm bells to credit rating companies and others,” Holm said.

Failed Austerity

Finland has been one of the few nations to comply with the Maastricht rules, even when its economy contracted more than 8 percent in 2009. It’s the only remaining euro member to receive a stable AAA grade from the three major ratings companies. Katainen has said any policy steps he takes will be designed to safeguard the nation’s top credit rating.
“Finland has lost competitiveness for a long time,” Katainen said today. “Recognizing the facts must lead to corrective action. Time won’t solve our problems.”
The finance ministry said in June its debt-to-GDP ratio will grow to 59.9 percent in 2015 from 57.1 percent this year. The average debt ratio in the euro area increased to 92.2 percent in the first quarter, Eurostat said on July 22.
Finland’s failed attempts at austerity are to blame for its debt growth, according to Timo Tyrvaeinen, chief economist at Aktia Bank Oyj. The Nordic nation, which has struggled to rebound from the decline of flagship companies such as Nokia Oyj (NOK1V) as well as its paper industry, will “undoubtedly” breach the 60 percent debt ceiling at some point, he said.

‘Hung Up’

“Katainen’s government has perhaps hung up too much on the thought that a AAA rating can only be preserved by cutting spending and increasing tax revenue,” Tyrvaeinen said by phone. “Should our government announce that they’ve learned from austerity and chosen a different path, the Anglo-American market could well applaud such acumen.”
Katainen’s government will this month look into reform proposals backed by Finance Minister Jutta Urpilainen, who has pledged to strike an accord on a structural overhaul of the economy by the end of the year.
“It’s impossible for me to think that no significant decisions would be made,” Tyrvaeinen said. “In order to keep the markets’ confidence, we need the structural reforms.”

sabato 24 agosto 2013

Cari amici cinquestelle, siamo sotto attacco

Non condivido i toni apocalittici e in stile cospirazionista di Giulietto Chiesa, ma a conti fatti ha ragione, perlomeno dal lato aritmetico. Temo che Grillo, seppure si degnerà di rispondergli, gli farà una solenne pernacchia. Lui ha fattto una scommessa, vuole giocare d'azzardo. Il piatto o nulla, e nulla sarà.

Cari amici del M5S, siamo sotto attacco. E' un'offensiva scatenata dai "Masters of Universe" per liquidare ogni forma di democrazia reale. [Giulietto Chiesa]


di Giulietto Chiesa da megachip

Cari amici del Movimento 5 Stelle, siamo tutti sotto attacco. E' un'offensiva scatenata dai "Masters of Universe" e ha per obiettivo la liquidazione di ogni forma di democrazia reale. Il loro portavoce, la JP Morgan, ha scritto la dichiarazione di guerra il 28 maggio scorso dicendoci che le Costituzioni Europee, quelle che ancora hanno una parvenza di democrazia, tra cui la nostra, devono essere epurate. In nome della governance, cioè del potere dei più forti, che ormai non hanno tempo da perdere con i parlamenti. Finita l'era dell'abbondanza alla quale ci hanno addestrati perché consumassimo in modo forsennato, comincia l'epoca dell'austerità. E l'austerità prevede l'imposizione. L'imposizione prevede la cancellazione delle conquiste sociali e dei diritti conquistati negli ultimi cento anni. Questo è il quadro. Ed è chiarissimo. Non lo vedono solo coloro che non lo vogliono vedere. L'attacco sarà - è già - durissimo. Guardare la Grecia. La questione è come difenderci, qui, subito. Dalla loro parte c'è il monopolio della violenza e delle leggi che i maggiordomi hanno approvato per loro conto. Ma c'è anche l'intero sistema della comunicazione-informazione. Dalla loro parte c'è tutto il Palazzo. Chi pensa di poter andare alla battaglia in ordine sparso si condanna alla sconfitta. Io ho aderito alla manifestazione dell'8 settembre in difesa della Costituzione. Ma constato che lo schieramento che si è costituito è ancora debole, non rappresenta che una parte del popolo italiano. Milioni, la maggioranza, non sanno ancora cosa li aspetta. Invece sono milioni coloro che devono far sentire la loro voce. Per questo chiedo , e propongo, che il Movimento 5 Stelle, i suoi gruppi parlamentari, prendano in mano con decisione questa questione. Promuovano, sollecitino, chiamino a raccolta. Senza il M5S questa battaglia non si può vincere. Da solo, il M5S non può vincerla. Non resta che combatterla e vincerla tutti insieme. Poi ciascuno potrà riprendere, da solo o in compagnia, la strada che ritiene più utile. Ma oggi camminare da soli non si deve. 

Giulietto Chiesa 
Presidente Alternativa


venerdì 23 agosto 2013

Una provocazione di bassa lega

da marx21
 

Con un apposito comunicato del ministero degli esteri la Russia ha annunciato che secondo le ultime informazioni, nell’attacco del 21 agosto nei pressi di Damasco le armi chimiche sono state usate dall’opposizione e non dal regime del presidente Assad. Le accuse nei confronti dell’esercito si basano su informazioni non verificate e l’offensiva scatenata dai media occidentali e regionali conferma che si tratta dell’ennesima provocazione programmata in anticipo. La copertura mediatica dei continui scontri a Damasco e’ ben lontana dalla realta’. Chiariti i particolari e verificati i fatti esposti nei servizi dei telecanali regionali, il quadro sarebbe il seguente. Nella prima mattina del 21 agosto, si legge nel comunicato del ministero degli esteri, questa zona e’ stata colpita dall’opposizione con un missile rudimentale, analogo a quello lanciato dai terroristi il 19 marzo a Khan al-Asal (alle porte di Aleppo) e contenente una sostanza tossica non ancora individuata. Per indagare sulle armi chimiche il 20 agosto in Siria e’ iniziata la missione degli esperti delle Nazioni Unite. Secondo gli esperti russi, e’ possibile che i gruppi terroristici usino sarin o gas nervino, come quello utilizzato nel 1995 dalla setta Aum Shinrikyo nella metropolitana di Tokyo. Un commento del professor Ghennadij Prostakiscin, del Centro nazionale della medicina delle catastrofi: Non so se in Siria vi sia sarin o no. Ma ricordate tutti la storia di Saddam Hussein e le accuse a lui rivolte dagli americani che poi non sono riusciti a trovare ne’ sarin ne’ altre sostanze tossiche. E’ molto probabile che adesso con la Siria succeda la stessa cosa”. Alcuni esperti occidentali dubitano che si tratti del sarin e invitano a non affrettarsi a trarre conclusioni dai video pubblicati in rete subito dopo l’attacco. In essi, sottolinea Jean Pascal Zanders, esperto delle armi chimiche e biologiche presso l’Istituto dell’Unione Europea per la sicurezza, vediamo che i soccorritori non portano tute speciali. Se si trattasse veramente di sarin, sarebbero gia’ morti. Il fatto che questo attacco sia capitato subito dopo l’arrivo della commissione dell’Onu per le armi chimiche, secondo la diplomazia russa, induce a pensare che abbiamo a che fare con i tentativi di far saltare la conferenza di Ginevra, per la cui preparazione gli esperti russi e americani si riuniranno il 28 agosto. L’opposizione non ha niente da perdere e cerca di coinvolgere a tutti i costi l’Occidente perche’ non riesce a vincere. Per questo, dice l’analista Serghej Demidenko, cerca di convincere tutti che il regime di Assad sarebbe sanguinario e disumano. Gli attacchi chimici vengono immancabilmente segnalati dai telecanali finanziati dagli sponsor dell’opposizione, e cioe’ dalle monarchie petrolifere del Golfo Persico. Dice Serghej Demidenko: Appena l’America ha annunciato di essere pronta ad intervenire, qualora in Siria fossero trovate arme chimiche, Al-Jazeera annuncia di averle gia’ trovate. Appena il gruppo degli esperti si e’ sbarcato in Siria, al-Arabiya comunica che le armi chimiche vengono usate dall’esercito. Riunitosi d’emergenza il 21 agosto il Consiglio di sicurezza ha sottolineato la necessita di un’accurata indagine sull’ultima tragedia di Damasco. Secondo la Russia, per una minuziosa inchiesta sara’ sufficiente l’impegno dell’attuale gruppo degli esperti internazionali.

Europa

Oltre il no all’austerity, serve una sinistra euro-mediterranea 

 di Giuliana Beltrame, Sergio Labate, Daniela Passeri 

 In vista delle elezioni europee del 2014 si è aperta su queste pagine una discussione che, anche come Alba, riteniamo necessaria e guardiamo con attenzione. Essa deve confrontarsi però con alcune questioni che conviene non tacere. Innanzitutto il fatto che sempre più l’orizzonte europeo venga evocato come causa principale delle politiche di austerità e della impotenza delle politiche nazionali dinanzi alla crisi. Ma a questo riferimento persistente non consegue ciò che dovrebbe essere naturale: un investimento maggiore in termini democratici sull’appuntamento elettorale europeo. Nessuno sembra dare fiducia all’idea che le elezioni europee possano rappresentare un’occasione di incidere su quest’orizzonte più ampio e così dirimente. Questa sfiducia ha tante ottime ragioni: un generale scetticismo nella forza della democrazia, dal momento che anche laddove il voto dovrebbe segnare una direzione di marcia definita, esso viene smentito in nome delle grandi intese; inoltre, una legittima diffidenza nei confronti del potere decisionale del parlamento europeo, la cui forza non appare incrementarsi di pari passo con l’incremento della forza dell’Europa delle grandi banche e dei potentati finanziari. Tuttavia, se la crisi politica è europea, è attraverso la capacità di orientare i processi democratici europei che noi possiamo pensare di mettere in campo politiche di alternativa credibili. Queste politiche alternative sono, peraltro, facilmente individuabili. La critica ai partiti tradizionali – da noi sviluppata – non è soltanto di metodo, ma anche di contenuto. È evidente che tutti i partiti che fanno riferimento ad alcune grandi famiglie politiche europee, a cominciare dall’ex Partito socialista europeo, oggi Alleanza Progressista dei socialisti e dei democratici, sono del tutto interni all’orizzonte neoliberista non mettendo in discussione l’adesione al fiscal compact, al patto di stabilità, alla politica monetaria decisa dalla troika. Come le forze dei cosiddetti centro-sinistra europei, a partire dalla Spd, che condividono pressoché interamente l’austerità, anche il centrosinistra italiano, da Ciampi a Prodi a Monti fino a Letta, è stato orientato da questa bussola. Ancora alle ultime elezioni la coalizione Pd-Sel, Italia Bene Comune, aveva al centro della sua carta d’intenti il rispetto dei vincoli europei. Questo stesso vincolo è ciò che lega la coalizione fallita all’attuale governo di larghe intese. Insomma, si tratta di costruire progetti credibili che trovino la forza per mettere in discussione le cause profonde di queste politiche e l’idea perversa di società che ne sta a capo. Progetti che, ne siamo convinti, possono trarre respiro dalle buone pratiche messe in campo in questi anni da associazioni, movimenti, sindacati che, seppure in un contesto difficile e spesso frammentato, si oppongono alle politiche di austerità e nel contempo avanzano, in prospettiva euromediterranea, proposte alternative su diritti sociali, laicità, diritti dei migranti, democrazia (come hanno recentemente dimostrato il forum mondiale di Tunisi e l’Altersummit di Atene). Che errore storico imperdonabile non aver saputo opporre in questo decennio all’asse tradizionale franco-tedesco una seria costruzione di una sinistra euromediterranea! Se è vero che questo deposito di pensiero critico e progressivo in Italia sembra non acquisire più alcuna traduzione politica, sappiamo che altrove in Europa esistono movimenti o partiti con sufficiente rappresentanza che si oppongono decisamente al «pilota automatico». Il compito che dobbiamo assumerci è quello di utilizzare l’occasione delle elezioni europee come una possibilità per riprendere respiro, riconoscendo che ciò che appare privo di vita e di rappresentanza in Italia è un caso eccezionale e che, per questo, è possibile e auspicabile prendere esempio e connettersi ad esperienze europee non ambigue e ancora credibili. Ultime due notazioni. Se la prognosi è vera, le politiche europee sono oggi non lontane dalle nostre vite e dai nostri territori, ma vicinissime. Esse non opprimono gli stati e la loro sovranità ma la nuda vita di ciascuna/o e il suo potere di autodeterminarsi e di scegliere i luoghi e i modi di esistere. Da questa situazione non si esce con un aggiustamento dello status quo ma con una profonda rottura democratica. Questa Ue va disarticolata e riarticolata dal basso e per territori. Una nuova economia, ambientale, sociale e cooperativa deve contrapporsi al modello esportativo di stampo tedesco e deve trovare l’aiuto anche di monete alternative di supporto. Per fare ciò è necessario che prendano vita nuove coalizioni europee per il lavoro, il reddito, i beni comuni, la cittadinanza, l’ambiente. Abbiamo bisogno di un voto che sia europeo, e non una variante tatticistica della dimensione nazionale. Il nuovo modo di votare previsto per le europee chiede di avanzare proposte per candidati alla presidenza della Commissione europea e di aprire le liste in modo transnazionale. Una vocazione mediterranea e alternativa deve potersi palesare in modo evidente anche da qui. Non è il solito progetto massimalista, anacronistico e inopportuno. Non c’è nulla di meno massimalista che difendere i diritti (cioè la socialdemocrazia europea) e reclamare una politica capace di uscire dalla «libertà vigilata». Non c’è nulla di meno extraparlamentare che rivendicare che la sovranità ritorni ai parlamenti eletti. Difendere la loro funzione non significa accettare di diventare impotenti per poter starci dentro, ma rivendicare loro il potere che le nostre costituzioni assegnano e che il disegno europeo avrebbe dovuto amplificare, non interdire. E se l’Europa è il posto dove tutto ha avuto inizio, sarà dall’Europa che dobbiamo cominciare a dissequestrare i parlamenti. 

Fonte: Il Manifesto 20.08.2013

 

domenica 18 agosto 2013

Otto Settembre

di Marco Revelli da soggettopoliticonuovo

Un paese che prende anche solo lontanamente in considerazione l’idea che si debba «garantire l’agibilità politica» a un condannato in via definitiva per una «ciclopica frode fiscale» ai danni dello stato, è un paese che vale poco. Un mondo politico che, fin dai suoi massimi vertici, esprime comprensione per una tale esigenza, è un mondo che ha smarrito il senso del confine tra normalità e indecenza. O che ha fatto dell’indecenza la condizione della normalità. Un sistema dell’informazione che, salvo poche eccezioni, registra compiacente tutto ciò senza un unanime moto di ripulsa anzi mettendoci del suo (si leggano gli editoriali del Corriere della sera), è un sistema che ha smarrito la propria elementare funzione di controllo democratico (e anche il senso della dignità professionale). L’Italia si avvia ad affrontare un passaggio per molti versi drammatico della propria crisi economica e sociale logorata e paralizzata da una crisi morale senza precedenti. L’autunno presenterà conti salati: una disoccupazione che, nonostante la ripresina nord-europea, continuerà a peggiorare (con gli ammortizzatori sociali da rifinanziare). Una fragilità del sistema bancario che continua a strozzare il credito alle imprese e neutralizza anche i limitati vantaggi del tardivo e parzialissimo pagamento della montagna di miliardi dovuti dallo stato (che andranno nella stragrande maggioranza a ripianare i debiti contratti nel frattempo per sopravvivere). L’incombente aumento dell’Iva, che non ha ancora trovato voci alternative di copertura. La necessità di reperire entro l’inizio del prossimo anno i 50 miliardi di euro della prima delle venti rate imposte dal famigerato fiscal compact, vera e propria macina al collo di un paese che stenta a restare a galla. Un livello delle remunerazioni nei settori pubblico e privato bloccato da anni, su cifre ormai ai limiti inferiori della graduatoria Ocse. Da un buco nero di queste dimensioni non si esce senza una straordinaria quantità di energia politica e sociale. Senza uno scatto morale: o, se si preferisce, un’impennata d’orgoglio. Senza il senso di una rottura di continuità, che è cambio radicale di classe dirigente e di personale politico, percezione della possibilità di un «nuovo inizio», come è stato nei momenti cruciali della nostra storia, dalla «crisi di fine secolo» alla «ricostruzione» nel secondo dopoguerra. Invece ci tocca assistere allo spettacolo deprimente di una continuità ossessivamente riaffermata contro ogni «natura delle cose»: l’assemblaggio forzato dei vecchi protagonisti del disastro in una comune maggioranza di governo, uniti nell’unico imperativo di durare sopravvivendo ai propri vizi privati e alle proprie inesistenti pubbliche virtù. Consegnati in ostaggio a uomo finito e alla sua esigenza di prolungare la propria fine oltre ogni limite fisiologico, giorno per giorno, pronto al ricatto a ogni passaggio – l’ineleggibilità, la decadenza da senatore, l’applicazione della sentenza e le misure alternative… – giocando sull’unico atout che gli è rimasto: la golden share governativa. La minaccia del «muoia Sansone con tutti i filistei». Li possiamo già immaginare i prossimi mesi, con il tormentone osceno del «grazia sì, grazia no» («La chiedo, non la chiedo»…). Delle macchine del fango al lavoro e degli infiniti ricorsi fatti solo per guadagnare tempo. Degli aeroplanini in volo sulle spiagge con «Forza Silvio» e degli avversari politici trasformati in imbarazzati testimoni o omologhi complici. Il fatto è che il pasticciaccio brutto di questa primavera, la nascita del governo delle larghe intese, pesa come un macigno. Sta su solo perché le due forze che lo compongono – oltre a essere sostanzialmente omologhe nell’idea di società prodotta dall’establishment economico-finanziario e dalle tecnocrazie europee – sono entrambe fragilissime, sull’orlo di una simmetrica dissoluzione. Lo è il Pdl, di fatto già dissolto nella ri-nascitura Forza Italia, e identificato ormai senza residui nel destino politico del suo capo-padrone. Ma lo è anche il Pd, lacerato tra una miriade di cordate interne senza più alcun rapporto con le rispettive culture politiche (che la leadership del partito verrà contesa tra due ex democristiani, Letta e Renzi, in lotta tra loro, la dice lunga). Da due vuoti potenziali non può nascere un pieno d’azione politica. Ci si può limitare alla manutenzione del disastro, rinviando sine die i nodi da sciogliere, «guadagnando tempo», appunto. Ma con la manutenzione del disastro non si esce dal disastro: lo si può dilazionare. Si possono inventare mille bizantinismi, ma non si evita, prima o poi, la caduta di Bisanzio. È questo il gigantesco non detto del dibattito in corso sul destino della «sinistra» e in particolare del Pd (ma anche di Sel), a cominciare dall’intervento di Goffredo Bettini: la gravità della simmetrica crisi della «parte emersa» del nostro sistema politico (quella su cui sono permanentemente accesi i riflettori dell’informazione ufficiale). L’irrisolvibilità delle contraddizioni accumulate nel corpo di quei due soggetti politici che – ricordate? – nel famigerato passaggio veltroniano-berlusconiano del 2007 e 2008 avrebbero dovuto dar vita a un sistema politico Bipolare, Maggioritario ed Egemonico (si disse proprio così, nella neolingua di allora), monopolizzando l’intero spazio pubblico e bloccandolo rispetto a ogni idea alternativa di società. Quel progetto giace ora in frantumi (che Enrico Letta cerca di nascondere sotto il tappeto della propria azione di governo come la cattiva casalinga fa con la polvere). Ma non ho letto una sola riga di presa d’atto. O di autocritica. Né una sola proposta all’altezza della gravità, sul modo di uscire dall’impasse. E forse non per caso: perché probabilmente a quella crisi non c’è soluzione, se si rimane entro il cerchio magico dell’attuale classe politica, con come unici ed esclusivi protagonisti i soggetti politici esistenti (e potenzialmente falliti). Eugenio Scalfari, qualche giorno fa, su Repubblica, ha evocato il 25 luglio del 1943 (Il 25 luglio è arrivato, il Cavaliere si rassegni), quando appunto Benito Mussolini fu liquidato dal suo stesso partito e finì ai «domiciliari» sul Gran Sasso. Non ha ricordato, credo per scaramanzia, la breve parentesi badogliana e soprattutto la data successiva, l’8 settembre, quando tutto andò giù ed esplose la più grave crisi istituzionale del nostro paese. Eppure val la pena rifletterci, su quelle tormentate vicende. Non solo perché questi primi 100 giorni del governo Letta un po’ ricordano (fatte le debite proporzioni in termini di drammaticità) i «45 giorni di Badoglio», col suo «la guerra continua» a fianco del vecchio alleato e la tendenza a dilazionare la resa dei conti. Ma anche, e soprattutto perché l’8 settembre non è solo (o meglio, non è tanto) il momento della «morte della patria», come è stato affrettatamente definito. È la fine di «quella» patria indegna, e il punto d’origine di un’altra Italia. Fu, nel naufragio della vecchia Italia, un punto di rinascita e di selezione di una nuova classe dirigente, sulla base di una «scelta morale» che si trasformò in risorsa politica. Quella data ci dice che a volte, per ricominciare, bisogna finire. P.S. L’8 settembre è anche il giorno in cui Landini e Rodotà hanno convocato quanti sono consapevoli della gravità della situazione e dell’urgenza di una risposta (e proposta) credibile. Ci saremo in molti, per cogliere questo segnale di speranza. 

 Fonte il Manifesto 17 Agosto 2013

venerdì 16 agosto 2013

L’Egitto vittima delle parole

L'articolo è precedente agli sviluppi odierni della situazione egiziana, ma è interessante  leggerlo per  la parte concernente la descrizione degli assetti politici e sociali all'interno dei quali si svolge il conflitto, ed anche per la puntuale riscotruzione delle dinamiche che hanno portato alla deflagrazione del conflitto stesso

di Marco Alloni da Nazione Indiana



Mohammad Morsi è stato democraticamente eletto. Non è vero. Le elezioni che l’hanno portato alla presidenza non erano né trasparenti né democratiche. Le irregolarità andavano dalle pressioni esercitate davanti alle urne da membri della Fratellanza per impedire l’accesso ai sostenitori di Shafiq, a decine di migliaia di voti multipli, a decine di migliaia di voti di elettori non registrati, a massive diserzioni da parte degli ispettori, a una pressoché totale latitanza dei cosiddetti osservatori stranieri. Per non parlare dei 30 milioni di regalie in forma di cibarie offerte in un capillare voto di scambio all’elettorato più indigente e a quella che lo scrittore Alaa Al-Aswani chiama la “manipolazione degli analfabeti” (40% del paese), la circuizione sistematica di centinaia di migliaia di cittadini a cui veniva incultata la convinzione che un voto contro Morsi rappresentava un “insulto all’Islam”. Ma soprattutto non va dimenticato che, non esaurendosi una democrazia nelle urne, un presidente “democraticamente eletto” non per questo è un presidente democratico. E siamo quindi al secondo punto.
Morsi è stato deposto da un colpo di Stato. Non è vero, o almeno non è corretto affermarlo aproblematicamente. Rigore per rigore, un colpo di Stato non viene infatti soltanto concluso da una giunta militare, ma promosso da una giunta militare. E in Egitto a promuovere il cosiddetto “golpe” non è stato l’esercito, ma il popolo. D’altra parte le modalità e le dinamiche della destituzione di Morsi erano identiche a quelle della deposizione di Mubarak, tant’è che in un caso come nell’altro si è parlato di “rivoluzione”: di “prima” rivoluzione e di “seconda” rivoluzione. Ironia vuole però che l’Occidente non abbia alcuna difficoltà a qualificare come “rivoluzione” il colpo di Stato di Nasser del 1952, come “rivoluzione” l’abbattimento del regime di Mubarak, ma non riesca a non qualificare “golpe” la seconda grande ondata rivoluzionaria del 30 giugno (la più massiccia nella storia egiziana). L’argomento più specioso non è tuttavia quello secondo cui andrebbe definito “golpe” qualsiasi intervento militare porti alla deposizione di un presidente “democraticamente eletto” – andrebbe altrimenti, semanticamente parlando e a rigore, definita tale anche la Resistenza italiana supportata delle truppe americane – ma quello che vorrebbe la sollevazione egiziana un effimero fenomeno di facciata per coprire presunti piani eversivi dell’esercito. E siamo al terzo punto.
Il generale El-Sisi ha assunto le redini del potere. Non è vero, o almeno non è vero per il momento e non lo è istituzionalmente. E se non è vero per il momento e non lo è istituzionalmente – il presidente ad interim si chiama infatti Adly Mansur ed è un ex presidente della Corte Costituzionale – è d’obbligo considerare i dovuti distinguo. Tanto per cominciare non si capisce perché i media occidentali non parlino mai della piazza come una nuova entità storica e politica. Nemmeno di fronte a 33 milioni di manifestanti pacifici – tale è stato il sommovimento del 30 giugno – si vuole riconoscere che a partire dal 25 gennaio 2011 il destino politico dell’Egitto non può estromettere il popolo e né può prescindere da esso. Con singolare paternalismo si vorrebbe invece che dopo 60 anni di dittatura l’Egitto transitasse verso la democrazia senza colpo ferire: dimenticando che né Zapata né Lenin realizzarono le loro rivoluzioni con i mazzi di fiori. La vulgata secondo cui la democratizzazione dell’Egitto dovrebbe prescindere – caso unico nella storia – dal sostegno delle armi ha dunque qualcosa di così virginale da rasentare il grottesco. Chi dovrebbe infatti, in questa delicatissima fase in cui ci troviamo oggi, difendere le istanze rivoluzionarie e accompagnare la transizione, se non l’esercito e la polizia? Qualcuno può responsabilmente immaginare che Morsi si sarebbe fatto da parte – come d’altronde richiestogli a più riprese dalla stessa giunta militare prima del 30 giugno – attraverso una cortese supplica in carta bollata? Dire che El-Sisi ha assunto le redini del potere significa ignorare che l’alternativa era la guerra civile e che, all’infuori di una astratta petizione di principio pacifista, una soluzione meno indolore non esisteva. Ma soprattutto significa ignorare che il processo rivoluzionario non si era concluso con la caduta di Mubarak e non si concluderà con la caduta di Morsi, anche se entrambe fondamentali per la sua realizzazione. Il suo compimento – lungo, faticoso, doloroso – non può prescindere quindi, almen per ora, dal sostegno militare. A meno che si voglia sostenere che nel corso di un anno Morsi abbia davvero promosso la democratizzazione del paese – cioè risposto alle richieste rivoluzionarie della piazza – e non viceversa egemonizzato tutte le istituzioni replicando, di fatto, in forma islamica, il regime illiberale di Mubarak. E che quindi – a dispetto di ogni Realpolitik – dovesse concludere il proprio mandato e portare il paese a uno sfascio definitivo. Nel qual caso non servirebbe ricordare che: ha islamizzato la Consulta e le due camere del Parlamento (poi disciolto), ha collocato i suoi uomini in quasi tutti i governatorati, ha fatto redigere una Carta costituzionale respinta da tutti i più esimi costituzionalisti del paese, ha promosso una delegittimazione della magistratura, ha occupato tutti ministeri e i media, ha “fratellizzato” tutti gli organi di garanzia del paese, ha favorito la discriminazione delle minoranze e il conflitto interconfessionale, ha riportato in auge le torture e le incarcerazioni arbitrarie, ha condotto a morte oltre cento persone in un solo anno e in definitiva ha realizzato quindi, invece di un progetto politico, una serie di “piccoli golpe” che nessuno in Occidente si è sognato di riconoscere né di stigmatizzare (perché finché non ci scappa il morto di Egitto non si parla e perché l’impressione ipnotica suscitata dalle “elezioni democratiche” ha steso una sorta di cappa misericordiosa sopra tutti i soprusi successivi). Non si dimentichino poi le varie imputazioni di ordine penale che la magistratura sta in questi giorni valutando: fuga dal penitenziario con l’appoggio di membri di Hamas, scarcerazione di terroristi e loro legittimazione sociale, favoreggiamento delle formazioni integraliste (nel solo Sinai si contano tra i 4000 e i 6000 jihadisti in libera circolazione), custodia di arsenali nelle sedi della Fratellanza, accordi segreti con l’amministrazione Obama per cedere 40% del Sinai ai palestinesi in cambio di 8 miliardi di dollari in consonanza con il piano di colonizzazione dei Territori da parte di Israele... Insomma, quel che si dice un presidente di specchiata democraticità. Al quale, appunto, non solo si sarebbe dovuto concedere di concludere il proprio mandato ma, una volta deposto, offrire anche l’agio di guidare la rivolta anti-Sisi in piena libertà – come richiesto dall’irreprensibile Catherine Ashton e dall’incomprensibile Emma Bonino – nonché il diritto di considerare “legittimo” rispondere con la violenza alla sua destituzione. E siamo al quarto punto.
Molti sostenitori di Morsi sono stati uccisi dalla polizia con colpi di arma da fuoco. Non è vero. O almeno non che una simile notizia possa veicolare un messaggio cogente. Riferita in questi termini e senza l’opportuna contestualizzazione – ed è qui che si annida l’equivoco terminologico – si direbbe infatti che la polizia abbia usato il pugno di ferro assecondando la propria tradizionale intolleranza e astenendosi da ogni tentativo di soluzione pacifica. In verità i fatti sono più sfumati e una lettura meno categoriale ci impone di riconoscere che: a) Il raduno in piazza Rabaa Al-Adawyia dei sostenitori di Morsi non è mai stato attaccato b) Il loro sit-in era stato arginato dai blindati perché i manifestanti non potessero avere accesso alle vicinanze della sede della Guardia Repubblicana, già presa d’assalto in precedenza, e ai luoghi in cui erano in corso le manifestazioni in sostegno a El-Sisi c) Ai manifestanti era stato chiesto di sgomberare il presidio di Rabaa Al-Adawyia entro 48 ore d) Gruppi di sostenitori di Morsi hanno aggirato la cintura dei militari e, attraverso vie laterali, raggiunto la lunga arteria in cui sorge il mausoleo di Sadat cercando di spingersi fino al secondo cinturone di militari che presidiava il ponte 6 Ottobre e) Tali gruppi hanno tentato di ostruire il ponte con blocchi di cemento e lanciato pietre conto le forze dell’ordine f) Le forze dell’ordine hanno cercato di disperderli con gas lacrimogeni g) I rivoltosi non sono arretrati e sono cominciati gli spari, dalle due parti (i manifestanti erano dunque armati). A questo punto le versioni si dividono: i pro-Morsi affermano che la polizia avrebbe aperto il fuoco per prima, il ministero degli Interni assicura invece che gli agenti non hanno sparato un solo colpo e il centinaio di morti (sulle cifre non c’è chiarezza) sarebbe stato provocato da abitanti anti-Morsi del quartiere adiacente. Tutte e due le versioni sono probabilmente false, ma quel che conta è che gli islamisti hanno cercato lo scontro e con ogni probabilità – secondo una lettura condivisa da tutti gli studiosi dell’Islam politico – mirato al martirio: forma tradizionale di delegittimazione delle forze armate e garanzia (tanto più nel mese di Ramadan) di un accesso privilegiato al Paradiso (“La morte sulla via di Dio” aizzava la piazza nei giorni precedenti il confratello Asim Abdel Meguid “è la più dolce delle morti”). Ora, le interpretazioni esulano da una lettura oggettiva dei fatti. Ma le ovvietà precedono le interpretazioni: che interesse avevano la polizia o l’esercito a compiere una mattanza? L’informazione evenemenzialista non se ne cura, ma proprio questo evenemenzialismo – lungi dal favorire una comprensione degli eventi – veicola il loro fraintendimento: se la polizia spara ad altezza d’uomo commette un crimine. Punto. Senonché di fronte a un’aggressione armata, di fronte a un tentativo di sabotaggio, gli agenti americani sparano, mentre quelli egiziani dovrebbero limitarsi alla dissuasione verbale o all’uso di lacrimogeni (forse qualcuno ricorderà che i lacrimogeni del 25 gennaio 2011 inasprirono la rivolta molto più di quanto la contennero). Un singolare apriorismo vorrebbe dunque che se un’azione violenta è promossa da cittadini comuni sia da rubricare come “protesta”, mentre se è respinta da agenti in divisa sia imperativo stigmatizzarla con il protocollare “condanniamo l’uso eccessivo della forza”. Un monito a corrente alternata in cui l’aggettivo eccessivo ha una sonorità al limite del caricaturale. Che cos’è eccessivo, signora Ashton? Sparare alla fronte o uccidere più di dieci persone? Da qualche parte deve esserci un manuale a cui non abbiamo accesso: lì è indicato se di fronte a un’aggressione armata bisogna sparare alle gambe, alle braccia, alle orecchie o astenersi dallo sparare per non incorrere in un atto eccessivo. E siamo al nostro quinto punto.
Il paese è spaccato in due e si trova sull’orlo di una guerra civile. Nemmeno questo è vero. Il paese non è affatto spaccato in due, se non sugli schermi di Al-Jazeera e sulle pagine del sito Ikhwanonline, e non è affatto sull’orlo di una guerra civile. Perché da una parte ci sono 33 milioni di persone e dall’altra al massimo 2. E se spaccato in due lo è stato, questo è accaduto nel corso della presidenza Morsi, quando la polarizzazione è stata perseguita sistematicamente attraverso quell’interminabile serie di colpi di mano – di “piccoli golpe” come li abbiamo chiamati – che hanno trascinato il paese (allora sì) sull’orlo di una guerra civile. Cioè quando una singolare visione della democrazia determinò l’esclusione dalla vita politica di tutti coloro che non si riconoscevano nel progetto di “fratellizzazione” e “islamizzazione” del presidente Morsi e quando, lungi dal promuovere un piano di conciliazione nazionale, anche a una porzione nutritissima dei votanti di Morsi apparve finalmente chiaro che il disegno del nuovo raìs – e della confraternita da cui prendeva ordini (altro fatto risaputo ma taciuto) – mirava alla mainmise di tutte le istituzioni possibili e, con dilettantesco opportunismo, al mero possesso del potere. Un disegno in così palese contraddizione con le promesse di governare solo “in nome di Dio” che finì per levare a Morsi anche il consenso di una gran parte dei suoi: a partire dai salafiti e dalle nuove generazioni della Fratellanza. Allora sì il paese era spaccato in due. Allora sì c’era ancora chi sperava che Morsi non avrebbe sbagliato l’ennesima mossa, allora sì c’era chi si illudeva che avrebbe risollevato dal tracollo l’economia, allora sì c’era chi si illudeva che avrebbe incorporato le istanze laiche nella politica, che avrebbe onorato il patto elettorale. Ma adesso? A parte Al-Jazeera, cioè il Qatar che finanzia la Fratellanza, a parte gli irriducibili, cioè i simpatizzanti della teocrazia e del califfato, a parte l’imprenditoria islamica, cioè la piccola borghesia clientelista e affarista che tradizionalmente costituisce l’ossatura della Fratellanza, a parte gli sprovveduti che ancora si fanno incantare dalle scatole di riso e olio in cambio del loro appoggio... chi resta con Morsi? Quale fantasmatica metà del paese gli accorda ancora la sua fiducia? L’esercito non sta più con Morsi. E se mai stette con lui fu perché i Fratelli musulmani erano l’unico movimento radicato e organizzato del paese al termine della rivoluzione del 2011, mentre la trentina di pariti laici sorti dalla sollevazione non potevano garantire una politica stabile e strutturata: condizioni tradizionalmente vincolanti affinché l’esercito offra il proprio appoggio. La polizia non sta più con i Fratelli da tempo. Perché ha trovato nel popolo di Tahrir l’espressione della propria dignità nazionale e perché non intende comprometterla. Sa inoltre che una transizione democratica favorirà un rapporto di prossimità e rispetto con la popolazione mentre un governo a matrice islamista non potrà che alimentare le tensioni. Le formazioni laiche non sono mai state con gli islamisti e non lo saranno mai. Ma soprattutto: 33 milioni di cittadini sono scesi nelle piazze per gridarlo a gran voce: “Basta con gli islamisti”. Quanto alla guerra civile, l’esercito l’ha scongiurata e lo scenario algerino non ha nessuna attinenza con quello egiziano. È vero invece, con ogni probabilità, che l’Islam politico sia definitivamente morto e che la sola e unica grande incognita che adombra l’avvenire dell’Egitto sia il posto che i militari assumeranno nella futura configurazione del paese. Disponendo di enormi ricchezze – il 35% del patrimonio nazionale – è evidente che cercheranno di conservare i loro privilegi. Ma come non mi stancherò di ricordare: ora il nuovo protagonista della storia egiziana è il popolo. E che in Occidente lo si creda o meno – o meglio, che all’Occidente piaccia o non piaccia crederlo – questo popolo non tornerà indietro. La sua non è stata solo una metamorfosi politica o sociale, storica o culturale: la sua è stata una metamorfosi antropologica. E quando un popolo conosce una simile metamorfosi un ritorno al passato – alla solita congettura l’Egitto è tornato a un regime militare, la giunta ha strumentalizzato la piazza per riprendere il potere, il popolo egiziano non è pronto per la democrazia – è quanto di più inverosimile si possa prospettare. Certo, la rivoluzione è un cammino irto di ostacoli, lungo, doloroso, spesso violento, pieno di ricadute e contraccolpi. È anche un cammino in cui la forza del revanscismo e l’ostinazione dei nostalgici producono quel persistente stato di instabilità che contraddistingue tutte le democrazie ai primi passi. Ed è anche un cammino in cui l’informazione internazionale congiura, con strano e compiaciuto accanimento, affinché alla volontà del popolo, alle sue rivendicazioni, al suo coraggio, alla nobiltà dei suoi propositi, ai suoi sogni, alla sua dignità, alla sua cultura e alla sua identità, siano anteposte le formulette generiche che ne qualificano i limiti e i difetti, e contrapposte le certezze della presunta oggettività. Ed è soprattutto un cammino in cui le parole, i nomi delle cose, la loro complessità, saranno sempre insidiati dalla violenza del preconcetto e dalla voluttà di declinarle all’europea o all’occidentale, come se Mussolini, Hitler, Franco, Stalin, Salazar e Tito fossero perle di una collana dimenticata, l’imperialismo la forma ante litteram dell’esportazione della democrazia e Nagasaki e Hiroshima due petardi sparati a una fiera di paese. Ma malgrado tutto questo cammino è segnato, e prima o poi si avrà l’umiltà di riconoscergli quel che rappresenta di prezioso per la storia. Una pagina come quella che è stata aperta il 25 gennaio 2011, e che al suo secondo capitolo segna la data del 30 giugno 2013, non potrà essere strappata nemmeno se l’amministrazione americana decidesse di scoprire finalmente le carte e, invece dei solerti corrispondenti della Cnn, mandasse al Cairo l’intero Pentagono. 



Fonte: Il Corriere del Ticino 29 Luglio 2013

Tasse e usura: salvare l’Italia dall’orrore dell’Eurozona

da libreidee

L’Italia uscì dalla seconda guerra mondiale povera, distrutta, semi-analfabeta, ma ricca di tre doti immense: la Costituzione del 1948, lo Stato democratico a Parlamento sovrano, una propria moneta. Nell’arco di meno di trent’anni, questa penisola priva di grandi risorse, senza petrolio, finanziariamente arretrata, diventa la settima potenza economica del mondo, prima fra tutte per risparmio delle famiglie. Fu il ‘miracolo italiano’ scaturito dalle tre immense doti di cui sopra. Oggi quelle doti sono state distrutte, e il paese è sprofondato nella vergogna dei Piigs, i ‘maiali’ d’Europa. I trattati europei, in particolare quelli associati all’Eurozona, ci hanno tolto la sovranità costituzionale, quella parlamentare e quella monetaria. Ci hanno tolto tutto. La crisi che oggi sta distruggendo l’economia e i diritti delle famiglie e delle aziende italiane come mai dal 1945 a oggi, viene da questo.
Si segua questo percorso: viene creata una valuta che non è di alcuno Stato. Viene emessa da banche centrali direttamente nelle riserve dei mercati di capitali privati (banche, assicurazioni, fondi pensione privati, ecc.). Si uniscono 17 Stati sotto questa valuta, e li si priva delle loro precedenti valute nazionali. I 17 governi dovranno sempre batter cassa presso i mercati di cui sopra per ottenere la moneta con cui attuare la spesa pubblica, esattamente come un cittadino che fosse sempre costretto a indebitarsi con la finanziaria sotto casa per mantenere la famiglia. Ecco nata l’Eurozona. Così funziona la moneta euro. I debiti pubblici di questi Stati, precedentemente denominati in una valuta di loro proprietà, vanno ora ripagati in quella valuta ‘estera’, cioè di qualcun altro, come se all’improvviso l’intero debito degli Usa fosse trasformato da dollari in yen. Ne consegue che alcune economie fra quei 17 paesi si ritrovano schiacciate non da eccessivi debiti pubblici, ma da debiti pubblici divenuti eccessivi perché denominati di colpo in una valuta ‘straniera’.
Ogni prestito concesso dai mercati ai governi resi a rischio d’insolvenza dall’artificio sopra descritto alimenta un circolo vizioso di tassi che aumentano sempre, così come la finanziaria applica a quel cittadino già indebitato un tasso sempre più usuraio per ulteriori prestiti. E più aumentano i tassi, più i debiti sono insostenibili; e più sono insostenibili, più aumentano i tassi. Schiacciati da questo paradosso, i governi in oggetto hanno una sola scelta: usare tagli alla spesa e una tassazione soffocante per ripianare quei debiti denominati in quella moneta ‘estera’, cioè l’euro. Di conseguenza il risparmio di cittadini e aziende si prosciuga, calano i consumi, da cui precipitano i profitti, da cui derivano tagli di salari e occupazione, con ulteriori crolli dei consumi, che deflazionano l’economia; cala così il Pil, da cui minori gettiti fiscali, e ciò peggiora il debito, ma questo preoccupa i mercati che aumentano i tassi, che… È una spirale distruttiva senza fine.
Benvenuti nell’Eurozona. Nasce da un progetto del 1943 per sottomettere le economie dei concorrenti industriali di Francia e Germania, e oggi ha purtroppo raggiunto quell’obiettivo. Le prove a sostegno di questa affermazione sono pubblicate in studi di statura accademica, in inchieste giornalistiche apparse sui maggiori quotidiani internazionali, ma sono insite anche nell’operato di grandi tecnocrati europei come, fra gli altri, Perroux, Hayek, Rueff, Attali, Delors, Schäuble, Juncker, Issing, Ciampi, Scognamiglio, Padoa Schioppa, Draghi, Prodi, cioè dei padri ideologici della moneta unica euro al servizio (talvolta non inconsapevolmente) di esigue élites di grandi industriali franco-tedeschi, di speculatori e delle banche d’affari internazionali.
Invitiamo il cittadino a pensare a chi sono oggi i ‘vincitori’ nel sistema Eurozona: 1) gli speculatori che hanno scommesso sul crollo dei titoli di Stato di Italia, Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna, con profitti incalcolabili; 2) le grandi banche d’affari che guadagnano parcelle parassitarie di miliardi come intermediari nelle privatizzazioni selvagge dei beni di Stato nel sud Europa, imposteci da questa crisi del tutto artificiosa; 3) ma soprattutto le corporation franco-tedesche (a discapito dei loro stessi lavoratori), che hanno visto, grazie ai complessi meccanismi imposti dall’euro, disintegrarsi la temibile concorrenza delle aziende italiane, da sempre le uniche in Europa a impensierire Berlino e Parigi.
Infatti l’Italia della lira era nel 2000 la prima in Europa per produzione industriale; oggi siamo fra gli ultimi. Nel 2000 la Germania era ultima in Europa per produzione industriale, oggi è prima. È forse possibile che l’intero sistema industriale italiano, che per decenni ha fatto la nostra ricchezza, si sia ‘suicidato’ in soli 12 anni? O l’Eurozona ne è la vera causa? Ci si pensi. Prima dell’euro eravamo primi al mondo per risparmio privato; oggi ce lo stanno divorando, è ridotto a un quarto di allora. Abbiamo ora i redditi più bassi dell’Eurozona, le tasse sono fra il 47 e il 60%, abbiamo pensioni che al 50% non arrivano ai 1.000 euro mensili, la disoccupazione giovanile è al 35% e falliscono 40.000 aziende all’anno. La nostra economia è quindi ‘deflazionata’, così che gli investitori franco-tedeschi possano fare shopping delle nostre migliori marche a prezzi stracciati, citando il fatto che siamo in crisi. E sta accadendo ogni giorno.
Il costrutto dell’Eurozona, cioè una moneta non posseduta da alcuno Stato, è un’aberrazione monetaria che non ha precedenti in 5.000 anni di storia. Non deve sopravvivere. Ne va del destino di milioni di famiglie e aziende del nostro paese, che già patiscono sofferenze sociali inenarrabili. Nel 2002 la prestigiosa Federal Reserve americana titolò uno studio “L’euro: non è possibile, è una pessima idea, non durerà”. Gli autori, decine di economisti tra i più autorevoli al mondo, avevano seguito la creazione di questa moneta dal 1989, e così avevano sentenziato. Andavano ascoltati. Al contrario, riacquisire la sovranità monetaria uscendo dall’Eurozona significherebbe per l’Italia la salvezza dell’economia nonostante il suo alto debito.
I nostri macroeconomisti internazionali lo spiegano in questo programma. Il Giappone oggi ha circa il 240% debito/Pil ma paga tassi d’interesse vicini allo 0, ha un tasso d’inflazione vicino allo 0. E non è nei Piigs. Il suo debito di Stato enorme non è un problema, e non è il debito dei cittadini; al contrario, è l’attivo dei cittadini che ne detengono una grossa fetta. Lo Stato giapponese non ha alcun problema a ripagare i suoi creditori nonostante l’immenso indebitamento, e nulla cambierebbe se i creditori fossero stranieri. Inoltre la valuta giapponese, lo yen, è tra le più richieste come valuta di riserva sui mercati internazionali. Questo perché Tokyo possiede la sua moneta sovrana. E dunque, come detto dal Nobel Krugman, «nazioni che hanno una moneta sovrana non soffrono i danni dell’Eurozona, infatti l’America che ha una moneta propria non ha questo tipo di problemi». Ma possiamo uscirne, possiamo salvare il nostro paese e riportarlo dove stava, fra le maggiori economie del mondo.
(Paolo Barnard, “Non eravamo Piigs, torneremo italiana”, introduzione al programma “Me-Mmt di salvezza economica per il paese”, basato sulla Modern Money Theory rielaborata dall’economista statunitense Warren Mosler).
La Mmt “Mosler Economics” è una scuola di economia democratica che eredita 100 anni di sapere economico da giganti come Friedrich Knapp, John Maynard Keynes, Abba Lerner, Michal Kalecki, Wynne Godley, Hyman Minsky. Il programma elaborato per l’Italia, assicura Barnard, «è una guida di massima autorevolezza che spiega in ogni dettaglio di finanza dello Stato come l’uscita pilotata del paese dalla sciagura dell’Eurozona non solo non costerebbe alla nazione miliardi, ma rilancerebbe la ricchezza nazionale di miliardi, con la piena occupazione e la piena produzione aziendale, col rilancio delle infrastrutture, l’arrivo di investimenti internazionali e, non ultimo, il recupero delle sovranità monetaria e parlamentare totalmente perdute per volere di trattati europei mai votati dagli italiani». Conclusione: «Ne va del nostro futuro, della democrazia stessa: torniamo Italia».

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...