mercoledì 31 agosto 2016

Il proletariato (non) ha nazione...

di Sergio Cesaratto da sinistrainrete

Pubblichiamo la traccia di un intervento a un dibattito con Giorgio Cremaschi a una straordinaria e affollatissima festa nei dintorni di Pisa. Il tema era: “La sovranità appartiene al popolo: i referendum momento di conflitto sociale fondamento di democrazia”, 18 Agosto 2016, Festa RossaPerignano (PI)
Re Luigi XIVPaese mio che stai sulla collina. Battaglioni internazionalisti o ordo-keynesismo?
Voi perdonerete se prenderò il tema di questa sera un po’ alla lontana. Non sono un giurista, e sono anche un po’ scettico sulla via giuridica al conflitto sociale, come sembra un po’ suggerire il tema della serata. In un certo senso mi riferirò di più alla prima parte del titolo: La sovranità appartiene al popolo. Giusto. Ma qual è l’ambito di questa sovranità? Lo Stato nazionale, il tuo continente, il mondo intero? Su questo come sinistra siamo molto reticenti, e su questo mi piacerebbe dire qualcosa. Esiste una democrazia che vada oltre i confini del tuo Stato nazionale? E siccome, almeno su questo si è d’accordo, il conflitto sociale è l’humus della democrazia, qual è lo spazio naturale per il conflitto sociale?
Presa alla lettera, la tradizione marxista respinge oltraggiosamente l’idea dell’identificazione della classe lavoratrice col proprio Stato nazionale. Come è stato osservato, secondo questa tradizione: “Proprio perché la classe operaia è priva di proprietà, non è più lacerata dai limiti dell’interesse privato, diventa per ciò stesso suscettibile di solidarietà” (Gallissot 1979, p. 26; v. anche Cesaratto 2015), insomma chi ha solo le catene da perdere non necessita di passaporto. Il principale ostacolo a tale solidarietà, ben noto a Marx ed Engels, era nella concorrenza fra le medesime classi lavoratrici nazionali, sia intermediata dalla concorrenza fra i capitalismo nazionali che diretta attraverso i fenomeni migratori. Ma sebbene procedendo in forma contraddittoria, l’internazionalismo proletario rappresentava per Marx ed Engels il contraltare del cosmopolitismo capitalistico, che essi avevano elogiato nelManifesto del partito comunista come una forza liberatrice per l’umanità, che avrebbe spazzato via, fra l’altro, i retaggi barbarici del legami nazionali o etnici (ibid, p. 805).[1] Naturalmente Marx ed Engels non potevano esulare dalle lotte nazionalistiche, a cominciare dalle aspirazioni tedesca e italiana all’unificazione. Ma la prospettiva dello Stato nazionale era per loro al massimo una tattica, e non una strategia. Purtuttavia, nella Critica al Programma di Gotha, dopo aver criticato i termini del tutto generici con cui il Programma della socialdemocrazia tedesca aveva affiancato la lotta internazionalista a quella nazionale, Marx ammette che: come classe
, e che l'interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma "per la forma."> (Marx 1975, mio corsivo). [2] [3] La si metta come si crede, il passaggio è un riconoscimento impegnativo. Nel lungo periodo siamo tutti morti, come dirà qualche anno dopo Keynes. E la “forma” è spesso “sostanza”, ci dice il buon senso.Fatto sta che da Marx ed Engels i concetti di Stato e (soprattutto) nazione, nelle loro varie declinazioni e intrecci, sono un buco nero della teoria marxista per la quale, nel lungo periodo, non dovrebbero neppure esistere.[4]
Un’analisi molto citata che, se non di impronta marxista, le è vicina nell’interpretare l’evoluzione delle istituzioni (la sovrastruttura) come funzionale all’evoluzione materiale della società (la struttura), è Ernest Gellner (1925-1995). Semplificando molto, egli vede l’emergere delle entità nazionali come funzionale allo sviluppo capitalistico che richiede l’omogeneizzazione culturale (in primis linguistica) della società per consentire l’educazione di massa (a sua volta strumento di quella omogeneizzazione), la comunicazione e il funzionamento degli apparati burocratici, l’unificazione del mercato, la mobilità sociale e quant’altro (per una introduzione a Gellner v. O’Leary, 1997). Come si vede nulla a che vedere con le giustificazione “romantiche” del nazionalismo - che naturalmente hanno avuto una funzione ideologica di leva delle rivoluzioni nazionali guidate soprattutto da componenti intellettuali della piccola borghesia insofferenti dell’immobilità sociale delle preesistenti forme istituzionali. Al contributo di Gellner fa riferimento un noto studioso marxista (e scozzese, questo non è un caso) del nazionalismo, Neil Davidson. In una intervista che ho trovato molto utile (Davidson 2016) egli si ricollega a Gellner ed estende il funzionalismo della teoria di quest’ultimo (l’unificazione nazionale come elemento di omogenizzazione culturale e modernizzazione delle più complesse società industriali) alla natura di collante ideologico che il nazionalismo svolgerebbe in particolare nei confronti delle classi lavoratrici.
In sostanza, la tesi di Davidson è che il nazionalismo assolverebbe alla necessità di una compensazione ideologica per le ferite apportate dal sistema capitalistico ai lavoratori. In tal senso esso svolgerebbe una funzione reazionaria, evitando che essi sviluppino una coscienza di classe che travalica i confini nazionali. Più specificatamente, Davidson associa nazionalismo e riformismo - “I lavoratori rimangono nazionalisti nella misura in cui rimangono riformisti” - vale a dire i lavoratori restano nazionalisti nella misura in cui identificano nello Stato nazionale lo spazio per il loro avanzamento e, naturalmente, lo Stato nazionale medesimo offra loro questa opportunità.[5]
Non voglio entrare nel merito ideologico di questa tesi – in fondo una ripetizione del punto di vista di Marx sullo Stato nazionale come falsa coscienza e quant’altro.[6] Siccome mi interessano di più gli avanzamenti concreti dei ceti popolari - anche perché ritengo che da essi possa solo scaturire una successiva contestazione più radicale del capitalismo - è interessante che posto di fronte a problematiche concrete, lo studioso scozzese faccia parecchie ammissioni (un po’ come Marx quando riconobbe che “l'interno di ogni paese è il campo immediato della … lotta”).
Più precisamente, riferendosi all’Unione Europea (EU), Davidson richiama un saggio di Hayek del 1939 in cui questi sostiene la costituzione di entità sovranazionali in quanto non possono che essere di natura liberista. Esse svolgerebbero dunque la doppia funzione di svuotare gli Stati-nazionali di ogni potere economico e dunque redistributivo, assegnando alla struttura sovranazionale un compito di mera ordinatrice delle attività economiche (un disegno che potremmo definire, con termine ormai popolare, “ordo-liberista”). Davidson giunge dunque a riconoscere che riforme favorevoli ai lavoratori, possibili nello Stato-nazionale, diventano impossibili una volta che le leve economiche siano trasferite presso istituzioni sovra-nazionali.[7] Ma non solo. Lo studioso scozzese critica anche l’argomento della sinistra radicale (forse noi diremmo “antagonista”) per cui istituzioni sovranazionali come quelle europee, sebbene volte a mortificare lo spazio conflittuale delle classi lavoratrici nazionali, costringerebbe queste ultime a mettersi assieme per cambiare quelle istituzioni. E al riguardo Davidson conclude: “La solidarietà fra i confini non dipende dalle costituzioni o dalle istituzioni, ma dalla volontà dei lavoratori di sostenersi a vicenda, persino se in Paesi diversi. Invece di invocare battaglioni immaginari di lavoratori organizzati a livello europeo, sarebbe più utile cominciare a costruire dove già siamo”. E in un iperbolico capovolgimento di prospettiva, Davidson conclude: “E’ improbabile che la battaglia contro il capitalismo neoliberista cominci simultaneamente attraverso l’intera UE, o che sia ristretta ai suoi confini. Quello che più probabilmente vedremo è una serie scostante di movimenti dalla differente intensità, entro i diversi Stati-nazionali che, se vittoriosi, potrebbero formare alleanze e, infine, gli Stati Uniti socialisti d’Europa. Tuttavia, questa visione non potrebbe essere realizzata entro la UE, ma solo costruita da capo sulle sue rovine”.
Dunque, lo Stato-nazionale da essere strumento di corruzione riformista dei lavoratori diventa strumento necessario per la rivoluzione socialista!
Quello che, infatti, mi sembra poco chiaro nelle menti del movimento per il No al referendum (parlo della sinistra naturalmente), è che qui non sia sta difendendo la “Costituzione più bella del mondo”, slogan che lasciamo alla stucchevole Boldrini,[8] ma le macerie (e solo quelle se non ci diamo una svegliata) di una nostro Stato-nazionale entro cui esercitare il conflitto sociale, che se regolato, è l’humus della democrazia (Hirschman 1994). Lo smantellamento delle istituzioni democratiche e il rafforzamento degli esecutivi – di per sé accettabile solo se si rafforzano al contempo le istituzioni di controllo, i poteri di “checks and balances”) – diventa funzionale al disegno ordoliberista europeo, in cui conflitto e democrazia non ci sono più, ma solo rigorose leggi di mercato tutelate dalle istituzioni sovranazionali che agiscono per tramite di supine istituzioni nazionali. Il no al referendum dovrebbe saldarsi al no all’Europa e al recupero della sovranità economica nazionale (che è la cosa che davvero conta). Purtroppo in questa consapevolezza siamo ancora molto indietro.
Così come siamo molto indietro nella consapevolezza delle problematiche economiche in cui la tematica dello Stato nazionale emerge in tutta la sua pregnanza. Su questo vorrei chiudere.
La crisi e il successivo crollo dell’Unione Sovietica hanno avuto due conseguenze nefaste per la sinistra, l’una a ben vedere simmetrica all’altra: l’apertura di spazi sconfinati per il neo-liberismo e la totale assenza a sinistra di una risposta a quest’ultimo - l’assenza di qualsiasi riflessione sul socialismo reale ne è la testimonianza. In verità delle risposte ci sono state, ne possiamo individuare addirittura tre:
(a) la terza via blairiana, ovvero la fondamentale resa al neoliberismo di cui si accetta la sostanziale vittoria sul socialismo; più che di terza via si doveva parlare di senso unico, il liberismo come unica prospettiva.
(b) La via cosmopolita: una confusa denuncia del neoliberismo e della globalizzazione capitalistica in nome di una “globalizzazione dei popoli”. Lo spettro coperto da questa risposta è amplissimo: dalla dama di San Vicenzo sig.ra Laura Boldrini, vuota quanto stucchevole; all’antagonismo No-questo e No-quello, in cui l’idea di fondo, se capisco bene, è che non tocchi a noi dare risposte o suggerire come governare i processi: le contraddizioni capitalistiche devono scoppiare e su quelle si deve lavorare (esemplare il tema dell’immigrazione). Se questo significa dare i ceti popolari in pasto alla destra, beh al tanto peggio tanto meglio non v’è limite.[9] In mezzo l’economia da Social Forum, quella del micro-credito, delle fabbriche recuperate (spesso presunte tali), del commercio equo e solidale. Tutte esperienze lodevoli, ma che si deve davvero essere ingenui per ritenerle tali da costituire un’alternativa sistemica al capitalismo.
(c) La terza via tradizionale, se mi si consente di riappropriarmi di quest’espressione, è quella socialdemocratica keynesiana basata su controllo dell’apparato pubblico da parte delle organizzazioni del lavoro e politiche di sostegno della domanda aggregata anche attraverso elevati salari diretti e indiretti, dunque attraverso la riduzione sostanziale delle diseguaglianze. Tutto questo nell’ambito di un compromesso di classe in cui la de-mercificazione dei rapporti fra i soggetti si arrestava ai cancelli della fabbrica (dento i quali si esercitava, purtuttavia, un controllo sindacale). Questa terza via, per quanto imperfettamente applicata in Paesi come il nostro, incontrerebbe oggi difficoltà sostanziali nell’assenza di un quadro internazionale di politiche economiche volte al cosiddetto keynesismo internazionale. Questo è vero. Il keynesismo in un Paese solo è infatti impossibile a fronte del vincolo di bilancia dei pagamenti. Le due esperienze relative a due grandi Paesi, il governo laburista britannico 1974-79 e il primo Mitterand del 1981-82 furono la pietra tombale su queste esperienze. Ci sono dei “però”, tuttavia.
Accantonate le utopie speranzose (ma è un termine generoso) dell’Altra Europa, o quelle dei battaglioni rivoluzionari di lavoratori e immigrati, non rimane che quella del proprio Stato-nazionale. Questa strategia non può che essere che quella dell’Economia dei controlli, controllo delle importazioni in primis. Non c’è alternativa (sebbene, naturalmente, qualche spazio di manovra possa essere offerto anche dal recupero della sovranità monetaria). Se mi si consente di coniare un neologismo, abbiamo bisogno di un “ordo-keynesismo”
Sento spesso accuse alla “sinistra” di aver da tempo dismesso i suoi panni. C’è molto di soggettivo, oltre che di generico, in questa accusa. Non ci si domanda veramente perché la sinistra è in una drammatica crisi. Non è per mutamenti soggettivi che non c’è più una sinistra – se non nei suoi opposti (i buonisti/antagonisti speranzosi che assecondando le contraddizioni del capitalismo si partorisca la rivoluzione, o il D’Alemismo/Renzismo anch’esso volto ad assecondare i processi, sebbene in maniera diversa). Ciò che non c’è è una sinistra che sappia proporre ai ceti popolari una prospettiva politica di cambiamento degna di questo nome, e non lo fa perché è maledettamente difficile. Ma in ciò dimostra una codardia intellettuale e politica spaventosa. Quello che dunque mi sorprende è quanto poco ragionamento vi sia su quali dovrebbero essere gli elementi di un progetto economico che in un Paese solo (magari con una politica estera attiva e spregiudicata) punti alla piena occupazione e alla giustizia distributiva (e magari con qualche elemento di gestione socialista della produzione). La sinistra, tutta la sinistra, ha ripudiato dopo la fine del socialismo reale, ogni idea di intervento pubblico nell’economia. Se devo essere onesto, trovo anche il dibattito sui referendum talvolta fuorviante dai veri temi, e in effetti è la gente comune che lo trova lontano e incomprensibile. E’ lontano e incomprensibile perché è oscuro il legame con i temi del lavoro e della giustizia. Ma la sinistra questi temi li evita, meglio il piccolo cabotaggio, oggi i referendum, domani chissà.

Riferimenti bibliografici
Cesaratto, S. Alternative Interpretations of a Stateless Currency crisis, Asimmetrie.org/working-papers/wp-2015-08, in corso di pubblicazione sul Cambridge Journal of Economics.
Cesaratto, S., Fra Marx e List: sinistra, nazione e solidarietà internazionale a/ working papers 2015/02 www.asimmetrie.org
Cesaratto, S., The Classical ‘Surplus’ Approach and the Theory of the Welfare State and Public Pensions, in: G.Chiodi e L.Ditta (a cura di), Sraffa or An Alternative Economics, Palgrave Macmillan, 2007.
Davidson, N., State and Nation, An Interview with Neil Davidson, April 25, 2016, Viewpoint magazine, https://viewpointmag.com/2016/04/25/state-and-nation-an-interview-with-neil-davidson/
Engels, F. Lettera a Karl Kautsky, 1882, https://www.marxists.org/archive/marx/works/1882/letters/82_09_12.htm
Gallissot, R., Nazione e nazionalità nei dibattiti del movimento operaio, in AAVV, Storia del marxismo, vol. II, Einaudi, Torino, 1979.
Hirschman, A., Social conflicts as pillars of democratic market society, Political Theory, vol. 22, 1994
Marx, K., Critica del Programma di Gotha, 1875, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/index.htm
', B.,On the Nature
Nationalism: A Critical Appraisal Ernest Writings on Nationalism, Political Science 27 (2): 191-222.


Note
[1] Il cosmopolitismo del capitale è peraltro assai à la carte: elevato quando si tratta di estendere geograficamente l’esercito industriale di riserva; scarso quando si ricorre al proprio Stato nazionale per sussidi e protezioni di vario genere.
[2] Così si esprimeva il documento esaminato da Marx: "La classe operaia agisce per la propria liberazione anzitutto nell'ambito dell'odierno Stato nazionale, essendo consapevole che il necessario risultato del suo sforzo, che è comune agli operai di tutti i paesi civili, sarà l'affratellamento internazionale dei popoli." Nonostante l’ammissione “che l'interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta”, in un pamphlet che rimase inedito, Marx ridicolizzò, da quello che egli riteneva fossero i veri interessi dei lavoratori, l’elemento progressista della via nazionale alla crescita economica prefigurata da Friedrich List (1789-1846) (v. Cesaratto 2015). Un economista inglese, molto famoso per i suoi studi sul cambiamento tecnologico, Chris Freeman, usava dire che il fatto che gli economisti giapponesi fossero per lo più marxisti fece la fortuna del Giappone, in quanto nel secondo dopoguerra le politiche industriali furono affidate agli ingegneri. Si può a questo aggiungere l’influenza di List, in Giappone e nel caso delle “tigri asiatiche”, e naturalmente in Germania e indirettamente in Italia.
[3] In un passo di una lettera di Engels (1882) a Kautsky, molto citata perché l’amico di Marx parla di imborghesimento della classe operaia inglese a fronte dello sfruttamento coloniale, afferma che: “ il proletariato vittorioso non può fare a forza la felicità di nessun popolo straniero, senza mettere in tal modo a repentaglio la sua propria vittoria” (cit. da Gallissot, 1979, p. 801). A Roma gira uno slogan antagonista: “Al mondo ci sono solo due classi: chi sfrutta e chi è sfruttato”. Come si vede il mondo è un pochino più complesso.
[4] Il concetto di Stato uno spazio sembra avercelo nella teoria marxista nella fase della “dittatura del proletariato”. Il concetto di nazione è quasi un tabù reazionario (se non come elemento tattico). Naturalmente qui avanzo dei giudizi molto tranchant. Per una rassegna delle posizioni nel marxismo classico (inclusi Kautsky, Rosa Luxemburg, Lenin e Stalin) si veda Gallissot (1979). In pratica, inoltre, sino a tempi recenti l’intreccio fra lotte per l’indipendenza nazionale e lotta per il socialismo non era posto in discussione. Ci riferiamo dunque soprattutto alla sinistra radicale odierna (non solo italiana) che, influenzata dai discorsi di origine liberista per cui la globalizzazione avrebbe reso obsoleto lo Stato nazionale, sposa un internazionalismo acritico avendo perso ogni dimensione nazionale delle lotte di emancipazione sociale. Contraddittoriamente, tuttavia, tale sinistra non si sognerebbe di mettere tale dimensione in discussione nel caso del popolo kurdo.
[5] Tale offerta può prendere la forma sia di una cooptazione “bismarkiana” della classe lavoratrice attraverso lo Stato sociale, che di lotte dei lavoratori per ottenerne un’estensione. Sulle origini dello Stato sociale, si veda Cesaratto (2007). Per Karl Polany (1886-1964), com’è noto, lo Stato sociale costituisce un’autodifesa dei ceti popolari a fronte della violenza del mercato.
[6] Davidson è sprezzante circa la nozione di “differenze etnico-culturali” che oscurerebbero “ciò che la gente ha in comune enfatizzando aspetti relativamente superficiali del nostro mondo sociale”. Ma il “multiculturalismo” non era un valore “di sinistra”? Forse quest’ultima dovrebbe un po’ chiarirsi le idee in merito.
[7] Per una trattazione più esaustiva si veda Cesaratto (2016). Viene lì spiegato come istituzioni sovra-nazionali fra nazioni economicamente disomogenee non potrebbe caricarsi di funzioni socialmente perequative, pena l’insubordinazione degli Stati più ricchi (incluse le loro classi lavoratrici).
[8] Se una “costituzione più bella del mondo” v’è stata, è stata probabilmente quella sovietica.
[9] E’ questa la prospettiva della sinistra militant/antagonista, cinica a mio avviso, poco interessata ai reali avanzamenti nel benessere dei ceti popolari quanto invece a che, di sconfitta in sconfitta, cresca una presunta coscienza rivoluzionaria.

lunedì 29 agosto 2016

UAAR - Il velo sui valori in gioco

di Raffaele Carcano e Adele Orioli da Micromega

A: Se non sottintendesse questioni ben più pregnanti e complesse, che sembrano però passare in secondo piano, l’odierno e pompato dibattito sul burkini sì - burkini no starebbe benissimo nell’elenco dei classici tormentoni estivi. Dai consigli antiafa, alle diete lampo, ai bollini sulle autostrade.
R: È proprio il caso di dirlo, una classica lettura da spiaggia! Ho personalmente sentito persone intelligenti definire il dibattito sul burkini “un’arma di distrazione di massa”. Purtroppo non è così: è anzi il caso che sta portando alla luce molti temi che si era cercato di nascondere sotto il tappeto. Da questo punto di vista, è benvenuto.
A: A guardarlo così, il burkini a me personalmente fa lo stesso identico effetto dello scomodo, incongruo e fronzoluto bikini che vedo imporre alle bambine dai due anni in poi sulle nostre spiagge. Una sorta di maliziosa e ipocrita pudicizia che rivela una paradossale impudicizia di fondo e che guarda caso colpisce, quale che sia la latitudine, il cromosoma xx in quanto tale.
R: Un po’ come le pecette sui cartelloni dei film porno, negli anni ’70. C’è anche questo elemento, nel dibattito in corso. A me è particolarmente piaciuta la provocatoria proposta di Caroline Fourest di rispondere praticando il nudismo di massa. http://www.marianne.net/caroline-fourest-face-au-burkini-optons-nudisme-100245094.html Uomini e donne insieme, beninteso. Un altro aspetto che non viene evidenziato è il retroterra del burkini: un marchio commerciale proposto ormai non solo alle musulmane, ma a tutte le donne che vogliono “sentirsi alla moda”. Veicolando in tal modo un vittorianesimo di ritorno di cui non si sentiva la mancanza.
A: Retroterra recentissimo, infatti, così come modernissimi i materiali utilizzati. http://www.askanews.it/esteri/burkini-la-stilista-che-l-ha-creato-non-e-simbolo-d-oppressione_711881422.htm
Lycra e integralismo modaiolo. Ed è proprio questa sorta di reflusso, una gigantesca ernia iatale reazionaria, che meriterebbe di essere analizzata più a fondo, non limitandosi alla facile comparazione delle foto delle spiagge di ieri e di oggi di molti paesi, compreso il nostro. In ogni caso non occulta i lineamenti di chi li indossa, a differenza del burka vero e proprio. Che “mostrare il volto sia dovere sociale” infatti, per usare le parole della Merkel, mi sembra onestamente scontato. http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08/19/burqa-merkel-frena-lintegrazione-si-a-divieto-parziale/2982939/
Come non entrare con il passamontagna alle poste o con il casco in farmacia.

R: Ma il casco non è un simbolo religioso. Il fattore ‘R’ https://blog.uaar.it/2016/08/19/il-fattore-r/ consente alle religioni e ai suoi fedeli privilegi sconosciuti ad altri. In Italia le suore e le musulmane possono velarsi il capo sulla carta d’identità, ma è un privilegio riservato a chi lo giustifica con la fede. Sono i frutti avvelenati dell’accomodazionismo, nato per proteggere le minoranze ma che è finito per proteggere cristianesimo e islam.
A: Beh dai, in qualche paese europeo anche i pastafariani e i loro scolapasta. http://www.corriere.it/cronache/11_luglio_13/scolapasta-in-testa-burchia_bdcd2f64-ad24-11e0-83b2-951b61194bdf.shtml Che, con irridente goliardia ben evidenziano il raccolto di quei frutti avvelenati ai quali ti riferivi. In ogni caso, alle Olimpiadi il burkini continua a sembrarmi del tutto fuori luogo. E anche in netta contrapposizione con la miriade di norme che regolano il ferreo dress code di ogni disciplina e di tutta la competizione in generale. Puoi gareggiare in mutande ma non puoi salire sul podio se non hai i pantaloni lunghi, per dirne una. Alcuni costumi sono stati oggetto di polemiche perché pericolosi o al contrario troppo facilitanti ma, se è in gioco l’eccezione religiosa, poco importa che si facciano competere atlete con palandrane improbabili. E che, mi sembra evidente, oltre ogni possibile altro aspetto e considerazione, penalizzano e non di poco la performance sportiva. Mettete un burkini a Simon Biles e ne riparliamo.
R: Vale quanto sopra. È probabile che le atlete egiziani fossero comunque poco performanti, ma in tal modo si sdoganano valori che con lo sport non hanno niente a che fare. Il problema è del resto istituzionale: alle Olimpiadi è addirittura all’opera un comitato interfedi, https://cruxnow.com/global-church/2016/08/15/brazils-african-faiths-beat-back-attempt-exclude-olympics/ ovviamente inventato a Torino.
A: Sarà che sono refrattaria alla logica del meno peggio, ma la contro argomentazione semplicisticamente feliciotta dell’“Almeno adesso possono... che bello!” ha il suono di un insulto. Quote rosa (di pelle scoperta).
R: La presidente dei giovani musulmani ha infatti risposto in questo modo, denunciando la negazione di un diritto. Come se vietare la poligamia (altra rivendicazione di questi giorni) significasse negare a una donna maggiori possibilità di trovare un marito. Remona Aly, sul Guardian, https://www.theguardian.com/commentisfree/2016/aug/15/five-reasons-wear-burkini-annoy-french-cannes-mayor-muslim ha addirittura invitato a indossare il burkini per “celebrare una liberazione”. Curioso che le donne musulmane non abbiano invece mai molto da dire sulla sottomissione di genere vigente nell’islam. Del resto, islam significa “sottomissione”: in qualche modo sono coerenti.
A: L'immagine che a non pochi maître à penser della nostra cosiddetta sinistra ha messo tanta allegria, “tanti colori e tante culture” (tra il folklore e il pittoresco, insomma) delle giocatrici di beach volley, due in bikini due modello spedizione polare, a me continua a sembrare una violazione quantomeno termica dei diritti umani.
R: È uno dei due corni del delirio comunitarista. È la posizione di chi vorrebbe che gli africani girino per sempre seminudi, perché così anche i suoi figli potranno in futuro mostrare agli amici foto esotiche. Il ghetto valorizzato come attrazione turistica. Come il caso-Capalbio, fa tutto molto gauche-caviar.
A: Non che a destra vada meglio; un altro po’ e le vorrebbero tutte nude per principio, se islamiche.  http://www.ansa.it/lombardia/notizie/2016/08/17/burkini-mozione-lega-per-vietarlo_78ecb242-7418-4c8b-be4f-5b350a26cc2b.html
Perché non si impongono simboli religiosi. Che non siano crocifissi o presepi, ovviamente.

R: La destra, per giustificare i privilegi che concede alla propria religione, deve necessariamente applicare due pesi e due misure. In questa contrapposizione viene sempre meno preso sul serio l’universalismo: sia nel senso di uguaglianza di tutti davanti alla legge, sia nel senso di diritti condivisi che dovrebbero costituire il minimo comun denominatore del vivere insieme.
A: Eppure il cortocircuito c’è o quantomeno è pericolosamente vicino e latente. Illiberale vietare il burkini, a mio avviso, così come è illiberale per contro vietare il topless, checché ne pensino le donne di Comunione e Liberazione, favorevoli al primo ma non al secondo (strano). http://tv.ilfattoquotidiano.it/2016/08/21/burkini-piu-sensato-del-topless-le-donne-del-meeting-di-cl-contro-i-divieti/553844/ E ancor più nel complesso è illiberale e condannabile il restringere, sulla base poi dell’ordine pubblico, concetto pericolosissimamente elastico e strumentalizzabile,  l’ambito dell’autodeterminazione dell'individuo sul proprio corpo, in generale. L’ambito dell’abito, nello specifico.
R: Un’altra delle favole che gira è che le ordinanze francesi siano basate sul principio di laicità, anziché su quello di sicurezza come invece è in realtà. Al contrario, la laicità è basata su altri principi: l’autodeterminazione, appunto. Ma anche l’uguaglianza. Le religioni – pressoché tutte, anche se con modalità diverse – discriminano le donne. È un problema che le istituzioni perseverano cocciutamente a non voler vedere: vogliono sembrare laiche e, nello stesso tempo, favorire le religioni. Una quadratura del cerchio di cui la vicenda-burkini sta palesando l’insensatezza.
A: Esattamente il punto cruciale di tutta la questione. Illiberale vietare, ma quanta dose di autodeterminazione e libertà c’è, al contrario, nello scegliere il velo, il burka, il burkini? C’è tout court libertà di scegliere? Quanto è labile e tagliente il confine tra il volere e l’essere costretta a volere? Non parlo dei paesi islamici, parlo delle spiagge vip dal divieto facile del nostro occidente. Quanti e quali diritti ha una donna musulmana, oltre a quello di essere, per l'appunto, musulmana?
R: Il New York Times ha accusato le autorità francesi di paternalismo, http://www.nytimes.com/2016/08/19/opinion/frances-burkini-bigotry.html perché vorrebbero dire alle donne come si dovrebbero o non dovrebbero vestire. Ma non ha speso una parola per denunciare i tanti padri che battono le loro figlie perché si rifiutano di indossare il velo. La libertà, per essere tale, deve essere liberamente esprimibile: se sono d’accordo sul fatto che, andando in spiaggia, le donne musulmane potrebbero avere qualche chance in più di entrare in contatto con idee diverse, resta il fatto che ciò è precluso (talvolta duramente) all’interno della famiglia. Nelle comunità musulmano si passa per radicali quando ci si toglie il velo, non quando (nel caso degli uomini) ci si fa crescere la barba e si comincia a chattare con qualche jihadista.
A: Senza voler entrare nel difficile dibattito su identità e fede, quanto uno stato che si dice laico può o deve incidere? Quanto l'integrazione tanto nominata, sempre che sia necessaria e necessitata, si costruisce su divieti che giocoforza irrigidiscono tutte le posizioni in gioco, o al contrario su permissività di facciata, su diritti speciali e contingentati, che finiscono per quando non creare quantomeno spesso proteggere ghetti etnico-religiosi sempre più serrati? L’immagine dei poliziotti francesi che obbligano una donna a spogliarsi (levarsi strati di tessuto, ma l'effetto resta quello) è integrazione, imposizione di civiltà o sopraffazione?
R: Non è integrazione passare dal velo al topless, ma non lo è neanche lasciare che alla porta accanto si violino diritti umani – basta che tengano il volume abbassato. Se si “crede” realmente che i valori proclamati dalle Costituzioni europee siano da tradurre in pratica senza soluzione di continuità. Se si vuole realmente formare individui consapevoli, si deve allora dire senza troppi giri di parole che – per esempio – i veli sono simboli di sottomissione della donna, che le religioni trattano diversamente donne e uomini. A cominciare dalle scuole per proseguire sui mezzi di informazione. Capita invece che ogni critica all’islam sia tacciata (anche autorevolmente) di “islamofobia”. Non si dà spazio alle donne musulmane che si tolgono il velo, o che addirittura abbandonano la fede, né si parla dei rischi a cui vanno incontro. Però siamo ormai a un bivio. Negli anni ’70 la maggioranza delle musulmane andava a capo scoperto, mentre gay e lesbiche dovevano nascondere il loro orientamento sessuale. Oggi c’è il matrimonio omosessuale (anche se non da noi) e non si sono mai viste così tante donne velate. È un confronto a puro titolo di esempio, ma non possiamo far finta che non vi siano pezzi di società che prendono direzioni opposte e persino antagoniste. Soprattutto, non possono non tenerne conto i musulmani. Pena la legalizzazione dei ghetti e la ghettizzazione delle leggi. E non è solo un gioco di parole.

Quando la Modern Classical Theory incontra la Modern Monetary Theory

di Segio Cesarotto da  Politica&EconomiaBlog
 
Gli amici del CESPI hanno tradotto e riassunto alcune parti di un mio paper pubblicato sul Journal of Post Keynesian Economics. Su questi aspetti siamo tutti MMT, o meglio, siamo tutti keynesiani o kaleckiani. Su altri aspetti, com'è noto, c'è controversia e ci torneremo presto perché il tema è politicamente rilevante (vale a dire, basta riappropriarsi della banca centrale, e oplà le jeux sont fait, oppure si deve discutere del vincolo estero). Ma intanto godiamoci ciò che condividiamo. Qui sotto abstract e introduzione, qui il link.

Lo stato spende prima, poi incassa. Logica, fatti, finzioni
di  Sergio Cesaratto (Dipartimento di Economia Politica e Statistica - Università di Siena)

Traduzione a cura di: Jacopo Foggi - Ludovica Quaglieri.
Revisione: Aldo Scorrano, Fabio Di Lenola, Jacopo D'Alessio.

Questo articolo è un sommario di: Sergio Cesaratto (2016) "The state spends first: Logic, facts, fictions, open questions."
(Journal of Post Keynesian Economics, 39:1, 44-71, DOI: 10.1080/01603477.2016.1147333)
Sergio Cesaratto è professore ordinario di Economia


Abstract
La logica keynesiana (o kaleckiana) conduce gli economisti post-keynesiani a supporre che una variazione delle entrate dello Stato attraverso le imposte e le vendite di buoni del Tesoro sia il risultato di una variazione nella sua spesa e non viceversa. Negli ultimi due decenni, gli esponenti della teoria monetaria moderna (MMT) sono stati in prima linea nell’affermare la logica keynesiana (o kaleckiana) di questa proposizione e a riempire in generale un vuoto teorico del pensiero post-keynesiano. Il fatto che la MMT imposti la relazione fra Tesoro e Banca Centrale (BC) con la seconda che genera automaticamente potere d'acquisto (moneta) a favore delle decisioni di spesa del primo ha tuttavia suscitato obiezioni. I critici, infatti, hanno sottolineato che la maggior parte degli accordi istituzionali vietano alle BC di finanziare direttamente il Tesoro. Dopo Lavoie (2013), il dibattito è andato avanti e ha trovato un piano di convergenza.

Introduzione*
La logica keynesiana (o kaleckiana) conduce gli economisti post-keynesiani a presumere che una variazione delle entrate dello Stato provenienti dalla tassazione o dalla vendita di buoni del Tesoro siano il risultato di una variazione della spesa pubblica, e non il contrario – date le altre componenti autonome che costituiscono la domanda aggregata (AD) e dati i parametri che regolano il moltiplicatore del reddito (oppure, in un’analisi di lungo periodo, del super-moltiplicatore)1. La logica di questa proposizione è la medesima applicata dagli economisti post-keynesiani alla teoria degli investimenti: la creazione di moneta endogena finanzia l'investimento (finanziamento iniziale), mentre il risparmio compare solo alla conclusione del processo del (super)moltiplicatore del reddito e costituisce un fondo per il cosiddetto finanziamento finale (o “funding”) (Cesaratto 2016).
Mentre la sequenza keynesiana moneta endogena --> investimento --> risparmio è generalmente accettato, almeno nei suoi termini generali, la proposizione che "lo Stato spende prima" invece non lo è. Come è noto, negli ultimi due decenni gli esponenti della Teoria della Moneta Moderna (MMT) sono stati in prima linea nel sostenere la logica keynesiana (o kaleckiana) di questa proposizione, riempiendo un vuoto teorico del pensiero post-keynesiano stesso. Considerando l’importanza della proposizione, si tratta di una lacuna davvero sorprendente.
La preposizione è stata forse data per scontata, ma non dovrebbe esserlo. Il modo in cui gli studiosi della MMT l’hanno sostenuta la proposta è stato d’altra parte controverso, e non ha forse facilitato una sua possibile penetrazione nell'ambito della teoria post-keynesiana. In breve, la questione è che la MMT consolida e unifica Ministero del Tesoro e Banca centrale (BC), in modo tale che quest'ultima crea automaticamente potere d’acquisto (crea moneta) a favore delle decisioni di spesa del primo. I critici, tuttavia, hanno sottolineato che nella maggior parte degli assetti istituzionali alle banche centrali è proibito finanziare direttamente il Tesoro, così che il presunto consolidamento, sostenuto dalla MMT, rimarrebbe solo fittizio, o ipotetico (vedi ad esempio Gnos e Rochon 2002). Dopo le recenti critiche "costruttive" di Marc Lavoie (2013; vedi anche 2005), gli studiosi della MMT, di fronte a tali obiezioni, hanno cercato di riarticolare meglio le loro spiegazioni, cercando di adattare la logica della loro teoria alle concrete contingenze istituzionali. Sembra che tale tentativo di chiarimento sia andato nella stessa direzione di quello proposto da Lavoie.
La posizione dei sostenitori della MMT, tuttavia, è che gli attuali accordi istituzionali possano facilmente trarre in inganno, dal momento che sono ostacoli (politici) deliberati, e perciò fittizi. Per questa ragione, difendono il consolidamento sopra citato in quanto esso ci consente di andare oltre la finzione istituzionale e di muoverci in modo più coerente con la logica keynesiana (e kaleckiana). Da un lato è quindi necessario filtrare le apparenze degli attuali assetti istituzionali attraverso le lenti logiche della teoria post-keynesiana, e decostruire le finzioni formali al fine di dimostrare che il consolidamento rivela la cosa reale al di là del labirinto. Dall’altro dovremmo però essere in grado di dimostrare come la logica keynesiana, secondo cui lo Stato spende prima, prevale anche in assenza di consolidamento tra Tesoro e Banca centrale.
 

L’anti impero



di Tonino D’Orazio, 29 agosto 2016

Quante feci hanno spalmato sul globo in nome di una holliwodiana pretesa di costruzione di un impero globale e armato Yankee. Altro che “democrazia”. Tutto quello che hanno toccato, sin dal secolo scorso si è rivelato solo morte in tutto il pianeta. Quante distruzioni! Quanta povertà! Quanti morti! Milioni di inermi cittadini ai quali rubare qualcosa, soprattutto petrolio, oltre la vita. Quando mi chiedono quanto consuma la mia macchina rispondo: 10 litri di sangue a cento chilometri. E’ il sangue irakeno, siriano, libico … e poi sarà quello venezuelano e poi brasiliano… se non quello russo e iraniano.
Quanto uranio impoverito, che non sapevano come smaltire, è stato spalmato su interi continenti con miliardi di pallottole e munizioni vaganti, in guerre e non, lasciando dappertutto scie cancerogene che terminano il lavoro mortale, col tempo. Mancava anche la vendita della bomba, e la tecnologia, atomica a paesi guerrafondai, dittatoriali e aggressivi come l’Arabia Saudita e, a suo tempo, a Israele. E chissà a quanti altri amici. A fine luglio, Erdogan ha preso il controllo dell’armamento atomico della Nato in Turchia. Non può sfuggire che i migliori amici siano tutti dittatori a favore.
Ma vi sono armi più sottili. Prendete per esempio le ONG, Organismi privati poiché Non Governativi. Il loro ruolo in un passato recente era tipicamente umanitario, successivamente sono diventate enormi cassa-forti e mano lunga di oligarchie economiche e finanziarie che guidano una loro politica di conquista al di fuori di qualsiasi consenso internazionale. Sono diventate velenosamente “opere missionarie occidentali per la democrazia”, più spesso “angeli della morte”. Dappertutto hanno portato al governo dei paesi nei quali sono intervenuti pesantemente delle labili e sottomesse opposizioni, hanno finanziato “rivoluzioni” nei paesi considerati “dittatoriali”, hanno provocato il sollevamento delle masse e hanno quindi preparato la strada alle guerre, alle distruzioni e alla morte, alle guerre civili, democrazia compresa. Non elenco i paesi, sono tanti e facilmente riconoscibili, spesso dal colore arancione. Solo in Europa mancano ancora all’appello la Serbia, la Macedonia e il Montenegro. E non sappiamo ancora veramente cosa sia successo in Turchia.
Tralasciamo l’informazione e la sua manipolazione. Nel secolo scorso abbiamo insegnato per bene al mondo la teoria del fascismo. Alla fine dello stesso secolo  anche quello della presa democratica del potere con televisioni e giornali. Altri hanno seguito, dai Blomberger (NY) a tutti i magnati sud americani attuali. Mentre si massacrano migliaia di bambini ogni tanto i cosiddetti “caschi bianchi” (manipolatori dell’informazione) ci fanno piangere “montando” la sorte e l’immagine di un povero piccolo, sotto i nostri bombardamenti (che è l’altra vera realtà nascosta) o poggiato come arenato sulle nostre rive marittime.
Si può anche essere contro i governi di una nazione, e ritenerli da genocidi, ma anche essere contro la maggioranza di un popolo che li sostiene, e ne diventa responsabile, in nome di una unica verità, il proprio benessere. Mors tua, vitae mea. Manco fossero rigorosi protestanti.
Ricordate il film Il dittatore di Charlot parlando di Hitler con il globo-palla? Immaginate al suo posto un presidente americano, uno dopo l’altro, e fate la sintesi delle guerre che hanno dichiarato, ritenendosi padroni del mondo e delle sue ricchezze. Ma dovrete farlo da soli, nessuno vi aiuterà, anzi, molti professionisti dell’informazione sorvolano, oppure, servilmente, con grande omertà, sono d’accordo. Ma possibile che tutte, o quasi, le nazioni del mondo siano “cattive” e da “democratizzare”?
In questo quadro o Trump o la Clinton, pari sono, chiacchiere e tifo a parte. Trump ha dichiarato: che ritirerà i soldati americani dalla Nato; che, se gli europei la vogliono, se la pagassero; che con la Russia preferisce fare accordi piuttosto che continuare l’operazione di strangolamento chiamato Anaconda. (Che in realtà sta strangolando economicamente l’Europa). E che Anaconda, se non è finalizzata alla guerra successiva, di cui la democratica Clinton è capace, è solo un misero balletto di muscoli con costi elevatissimi, poiché dall’altro lato non sembrano così “deboli”. Eppure la Clinton continua la sua aggressione verbale e di comizio contro la Russia, liberale, non più comunista, ma sempre nemica nella popolar-fantasia statunitense. La Clinton, dopo le sue responsabilità dirette nella distruzione della Libia, e tutte le conseguenze dell’invasione degli immigrati sulle coste italiane, ha dichiarato che attaccherà e invaderà l’Iran, adesso che sono quasi sicuri che non stanno costruendo bombe atomiche. Ma lo faranno tramite gli amici fascisti dell’Arabia Saudita. Da cosa si sta sganciando l’ex-amico Erdogan? Come fanno gli americani ad aiutare Erdogan nella conquista di pezzi del territorio siriano (ONU, dove sei?) bombardando i kurdi, e contemporaneamente aiutando i kurdi in azioni di guerra contro l’Isis, anche loro alleati? Ci sarà un po’ di confusione in quel vespaio che hanno creato?
Perché le nostre televisioni ci imboniscono di chiacchiere sulla pericolosità di Trump e non sulla Hillary? In quattro settimane sono morti suicidati, o perlomeno morti strane e sospetti, 5 accusatori della Clinton mentre si recavano all’Fbi per delle rivelazioni che secondo Trump l’avrebbe portata dietro le sbarre. Se vi interessano i nomi (Shawn Lucas, Victor Thorn, Seth Conrad Rich, John Ashe, Mike Flynn), chi erano, le circostanze e il perché, il sito è: http://algarath.com/2016/08/07/. 
Trump è un imprenditore, non un finanziere. Parla di lavoro, di lavoratori e di produzione, anche se un po’ in senso autarchico. Parla di mettere un freno alle speculazioni bancarie e a tutti i dati truccati di Wall Street, rivelandone l’estrema corruzione che facciamo finta di non sapere. Ha per nemico tutti i megaricchi della finanza, dai Rothchild, Goldman Sach, a Soros. Insomma gente  motivata dall’ideologia del capitalismo e adoratori di Mammon. Trump è un populista, cioè con il popolo, povero. Forse. I ricchi che si commuovono per i poveri hanno sempre lasciato il tempo che trovavano. Ancora oggi. Ma i poveri amano i ricchi. Chi sono quelli che lo sostengono finanziariamente? Sono gli stessi che sostengono la Clinton, “non si sa mai”? E’ il democratico piede in due staffe. Se il fascismo arriverà in America avrà il volto della democrazia. (Bertolt Brecht).

Eppure l’impero sta perdendo colpi. I presidenti, nell’ultimo semestre in carica, non contano più nulla, anzi per niente per gran parte del mandato se sono in minoranza nel Congresso. Noi siamo salvi (da Obama), per un po’ (dalla Clinton), a detta del ministro dell’economia tedesco, Sigmar Gabriel, che ha ribadito che per il TTIP (Trattato di libero scambio Usa-UE): “I negoziati con gli Stati Uniti sono effettivamente falliti perché come europei non possiamo accettare supinamente le richieste americane”. Quando c’è gente che conta e non svende il proprio paese a nessuno! L’estensione dell’impero prevedeva : “Obiettivo del TTIP è integrare i mercati Ue e Usa, riducendo i dazi doganali e rimuovendo le barriere non tariffarie, le differenze sui regolamenti tecnici, norme e iter di omologazione, standard applicati ai prodotti, regole sanitarie e fitosanitarie”, insomma la resa dell’Europa alle oligarchie economiche e bancarie statunitensi. Invece indovinate cosa dice il nostro (diciamo il loro) ministro Calenda?  Il TTIP secondo me salta perché siamo arrivati troppo lunghi sulla negoziazione” (caspita), quindi “sarà molto difficile che passi e sarà una sconfitta per tutti”. Per non perdere la bussola, in Italia, dobbiamo sempre porci la domanda su cosa significhi “per tutti”.
Che piacere, questa volta, di non esserci incluso.
  

lunedì 22 agosto 2016

Burkini, la confusione tra scelta e imposizione

di Monica Lanfranco da ilfattoquotidiano


La vicenda del burkini si potrebbe anche raccontare così: in Australia c’è un’imprenditrice islamica praticante molto felice che ha fatto la sua fortuna fabbricando l’indumento per donne modeste (sono le sue parole), per cui ringrazia di cuore la Francia per l’inaspettata pubblicità.
Perché sì: in barba al fatto che l’abito sotto i riflettori sia un potente simbolo dell’islam fondamentalista salafita, che teorizza e pratica, con violenza, il dovere della modestia in tutti i comportamenti femminili, dall’abito alla relazione con gli uomini e quindi con la società: pecunia non olet, mai, e non confligge con la modestia.
Una decina di anni fa a Riccione fu accolta dalla giunta comunale la proposta di riservare pezzi di arenile per permettere a ricche saudite di fare il bagno lontano da occhi indiscreti, visto che la zona è molto apprezzata dalle famiglie facoltose del potente emirato. Tutto bene: si tratta di far girare l’economia.
Dal mio punto di vista il ringraziamento alla Francia è per averci messo dinnanzi due evidenze: la prima è che, nella rete ma non solo, è quasi impossibile svolgere discussioni senza che prevalga lo storm shit (la tempesta di feci) evocata da B. Chul Han nel suo Nello sciame-visioni del digitale. Odiatori e odiatrici per partito preso sono dovunque, poco o nulla si sta sul tema con motivazioni e argomentazioni documentate, pur diverse ed oppositive, e spopolano rancore, insulto e offesa.
Quanto a confusione surreale cito l’esempio delle suore, postate copiosamente nei social per dire che burkini e tonaca sono la stessa cosa, dimenticando che le suore fanno un voto di fede, che prevede castità, (molte tra l’altro non vestono l’abito) e non sono una indicazione religiosa di come tutte le donne devono andare vestite nella società.
La seconda evidenza è che, non da ora ma in questo caso potentemente, pezzi di sinistra e alcune femministe hanno espresso adesione incondizionata alla visione multiculturalista e al relativismo culturale e politico.
Quindi: senza se e senza ma, (giustamente su molti temi), ma quando si tratta del corpo delle donne ecco sbriciolarsi le granitiche certezze. La parola magica è: scelta. Si tratta di un passaggio molto interessante: da antiliberisti si diventa liberali, per cui si critica l’occidente imperialista e coloniale, ma si difende un simbolo religioso fondamentalista caro a teocrazie imperialiste, nel nome della libera scelta individuale. Dettaglio non di poco conto: parliamo dell’unico ‘simbolo’ religioso (declinato in vari stadi, dal velo all’jihab al burka al burkini), che come ci ricorda Giuliana Sgrena è un prodotto recente che diventa corpo, che insiste, più efficacemente di una bandiera sventolata, nell’evidenziare una alterità. A cosa? Ai (presunti) diritti occidentali, che secondo lo sguardo relativista sono appunto di una parte sola: peccato che tutti i movimenti laici che lottano contro l’integralismo si sgolino nel dire che i diritti conquistati dalle donne sono universali.
La sociologa algerina Helie Lucas scrive, a proposito della giornata dell’orgoglio del velo: ”In Europa si tratterebbe sarebbe solo una scelta personale ‘di moda’ mentre nel resto del mondo sarebbe un’imposizione, e la disobbedienza o la resistenza sarebbero punite con la morte? In Europa si potrebbe indossare qualsiasi abito, mentre nel resto del mondo si fronteggiano limitazioni nel diritto allo studio, o nell’accedere ai servizi sanitari quando sono forniti da personale maschile, o nella libertà di movimento o di altri diritti umani fondamentali negati alle donne e alle ragazze? Come si può ignorare che nelle periferie di Parigi o Marsiglia controllate dai fondamentalisti delle ragazze sono state uccise per non avere indossato il velo?”. (L’articolo integrale sarà pubblicato a settembre nel nuovo numero di Marea)
Il relativismo culturale e politico porta anche a questo: si può, giustamente, confliggere duramente con le Sentinelle in piedi, con l’autrice di Sposati e sii sottomessa, con la senatrice Binetti ma non con l’autrice di Porto il velo e amo i Queens, perché mettere in discussione le scelte di un’islamica alimenta l’islamofobia. Sottolineare la responsabilità di alimentare visioni regressive, discriminatorie, patriarcali, sessiste e misogine quali sono le tesi delle succitate persone e gruppi non si applica alle donne islamiche che ‘scelgono’ i vari sistemi di copertura. Perché questa autocensura? Nel complicato presente penso che l’unica strada, prima che sia tardi e vincano i fondamentalisti di ogni tipo, (in Gran Bretagna si chiede da anni di applicare la sharia accanto al sistema di legge statali), sia aprire conflitti culturali con chi fa politica, (perché di questo si tratta), invocando disposizioni religiose come ‘libera scelta’, riattivando pericolosi déjà vu, quali la modestia e il pudore femminile. Il sito internazionale Siawi  mi appare molto importante già dal suo enunciare come “la laicità sia un problema delle donne”.
I video che v’invito a vedere raccontano in cosa consista (l’apparente) inoffensivo ‘scegliere’ per le donne fedeli islamiche di coprirsi: vogliamo continuare a nasconderci dietro la simmetria perfetta secondo la quale anche da ‘noi’ c’è l’imposizione della taglia 42, e quindi è giusto riservare, (come avviene a Torino), momenti in piscina solo per le donne, così che senza gli uomini le islamiche praticanti possano nuotare, senza mettere in discussione nulla?

Il no al burkini in nome dell'eguaglianza


di Marco Marzano, da il Fatto quotidiano, 22 agosto 2016




Nella balneare e battaglia d’opinione sul burkini è forte la tentazione di abbracciare un approccio pragmatico: vietare il burkini è una decisione autoritaria che non servirà certo a scoraggiare l’atavica subordinazione femminile nella cultura musulmana e anzi finirà con l’apparire un atto di ostilità verso l’Islam, che accrescerà il risentimento verso la cultura e la politica occidentali. Seguendo quest’approccio, l’emancipazione femminile nel mondo musulmano dovrà far seguito esclusivamente a un cambiamento sociale spontaneo interno, che il resto della comunità politica non potrà che attendere in rispettoso silenzio, consentendo nel frattempo anche alle donne arabe più religiose e tradizionaliste una nuotata nel Mediterraneo.

Il punto di vista pragmatico sul burkini è ragionevole, ma io credo che nel complesso sia sbagliato: vieta allo Stato di farsi parte attiva nel promuovere un mutamento sociale così importante come quello che riguarda la parità di genere. Per quale ragione lo stato dovrebbe rimanere neutrale e assistere alla riproduzione di un’evidente discriminazione di genere? Perché non può essere l’autorità politica a promuovere l’abbattimento di una disparità così visibile? Non in nome di una fantomatica ideologia laicista, ma in quello dell’impegno a perseguire valori universali (e non occidentali, né tantomeno cristiani) nei quali ogni cittadino di una democrazia può e deve riconoscersi. L’eguaglianza tra uomini e donne è certamente uno di questi.

Vi sarebbero laicismo ideologico e totalitarismo etico solo se lo Stato, come avveniva ad esempio nell’Albania di Hoxha, promuovesse l’ateismo, scoraggiasse i cittadini dal recarsi nei templi o dal seguire i precetti delle diverse religioni. Ma non è questo quello che è avvenuto in Francia negli ultimi anni con i provvedimenti che hanno limitato l’esibizione di simboli religiosi negli spazi pubblici. La legislazione francese non ha mai scoraggiato l’appartenenza religiosa, ma ha solo impedito che l’esibizione ostentata di simboli identitari (dalle croci alle kippah, ai veli e oggi ai burkini) divenisse un’offesa alla civile convivenza, trasformandosi in un tentativo di occupazione e conquista di un ambito (lo spazio pubblico) che deve rimanere comune e condiviso.

La cultura della laicità francese non merita molte delle critiche che le sono state mosse, ma dovrebbe essere esportata rapidamente in altri luoghi d’Europa. Per scoraggiare la discesa lungo quel piano inclinato che porta, nel nome di un malinteso multiculturalismo, ad accettare un numero crescente di eccezioni al rispetto dei valori fondanti della convivenza sociale. Si inizia con l’accettare il burkini e si finisce con il trangugiare la schiavitù. Sempre in nome del rispetto per la diversità culturale. Una deriva da evitare, ad esempio, ispezionando con attenzione, e sempre seguendo l’esempio di una legge francese del 2001, la vita interna delle tante organizzazioni settarie proliferate nel cristianesimo occidentale nell’ultimo mezzo secolo.

“Ma le donne musulmane che vanno in spiaggia in burkini scelgono di farlo liberamente, perché lo ritengono giusto”. Con questo argomento dal pragmatismo si passa a un’istanza genericamente liberale che prevede il rispetto per le scelte altrui compiute in piena coscienza e liberamente maturate. Il principio è giusto, ma siamo sicuri che si possa applicare a questo come ad altri casi nei quali le pressioni culturali e psichiche a conformarsi agiscono con forza inaudita?

E anche se si trattasse di una scelta apparentemente libera da parte delle donne musulmane, non potremmo concludere che si tratta di uno degli innumerevoli casi storici nei quali le persone compiono delle scelte lesive della loro dignità umana e contrarie ai loro interessi a non essere discriminate? Non possiamo considerarle vittime di quella stessa subordinazione psicologica e culturale che ha fatto sì che tanti dei nostri avi braccianti poveri e ignoranti accettassero come parte dell’ordine naturale e volute da Dio le tante umiliazioni che subivano dai potenti? Erano davvero libere, in un altro contesto culturale e religioso, le donne che “volontariamente” si gettavano nella pira dove ardeva il cadavere del coniuge? Sono libere le donne che si sottopongono “volontariamente” alla mutilazione genitale?

Il no al burkini appare quindi comprensibile e sostanzialmente giusto. A patto che sia accompagnato da motivazioni razionali e non da una forma di discriminazione verso l’Islam o dal tentativo di ingraziarsi le simpatie dell’elettorato lepenista in vista delle elezioni presidenziali. Perché sia così è necessario che si accompagni ad una lotta verso tutte le altre forme di discriminazione (economica, politica, culturale, materiale e simbolica) delle donne e di qualsiasi altro gruppo sociale, in qualunque contesto (non solo religioso).

Quel programma semplice, ma straordinario presentato a Parigi nel 1789 è ancora lontano dall’essere realizzato.

(22 agosto 2016)

venerdì 12 agosto 2016

L’uscita dall’euro non è un tema da “oracoli”

di Nadia Garbellini da economiaepolitica

 
La controversia sulla possibile implosione dell’attuale eurozona e sulle conseguenze di un abbandono della moneta unica risulta tuttora pervasa da un diffuso dogmatismo. I fautori dell’uscita dall’euro sono accusati di semplificare il problema e di restare volutamente nell’ambiguità per non affrontare la questione decisiva inerente a quale politica economica adottare e quali interessi sociali difendere una volta fuori dall’Unione. In alcuni casi si tratta di una critica assolutamente fondata. Tuttavia, è soprattutto tra i sostenitori della permanenza nell’euro che sembra prevalere una retorica banalizzatrice, che in alcune circostanze rasenta la superstizione. Molti di questi, infatti, continuano ad agitare lo spauracchio della catastrofe economica in caso di uscita dall’euro senza prendersi la briga di fornire la minima evidenza scientifica a sostegno delle loro predizioni. Questa tendenza all’oracolismo caratterizza non solo i giornalisti ma sembra diffondersi anche tra alcuni economisti e policymakers coinvolti nella discussione. Un celebre esempio è fornito dal Presidente della BCE Mario Draghi, che in un’intervista del 2011 sostenne che «i paesi che lasciano l’eurozona e svalutano il cambio creano una grande inflazione» (Draghi 2011). Da queste poche parole diversi commentatori hanno tratto l’implicazione che uscire dall’eurozona determinerebbe una violenta caduta del potere d’acquisto dei redditi fissi, in particolare dei salari dei lavoratori. Nessuno, per quel che ci risulta, si è posto il problema di verificarle empiricamente.
In due studi realizzati con Emiliano Brancaccio e pubblicati sulla Rivista di Politica Economica e sullo European Journal of Economics and Economic Policies, abbiamo cercato di affrontare il tema dei possibili effetti di un’uscita dall’euro alla luce delle evidenze storiche disponibili. Basate su una statistica descrittiva e un’analisi inferenziale di un campione di 28 episodi di uscita da regimi di cambio fisso tra il 1980 e il 2013, le nostre ricerche si sono soffermate sulle ripercussioni di tali eventi su tre variabili: l’inflazione, i salari reali e le quote di reddito nazionale spettante ai lavoratori (Brancaccio e Garbellini 2014; 2015). Più di recente, da una applicazione di quella metodologia è scaturito il contributo di Realfonzo e Viscione (2015) i quali hanno esteso l’analisi ad altre variabili macroeconomiche, tra cui le esportazioni nette, la crescita del Pil e l’occupazione. La conclusione di Realfonzo e Viscione è la seguente: “ […] a meno di un auspicabile cambiamento in senso espansivo e redistributivo delle politiche europee, l’uscita dall’euro potrebbe essere la soluzione scelta da alcuni paesi in un futuro non lontano. E ciò potrebbe anche rianimare l’economia. Ma non è sufficiente un ritorno alla sovranità monetaria e alle manovre di cambio per cancellare, come d’incanto, i problemi legati alle inadeguatezze degli apparati produttivi o alla sottodotazione di infrastrutture materiali e immateriali. La lezione più importante che possiamo trarre dall’esperienza storica è che i risultati in termini di crescita, distribuzione e occupazione dipendono […] più che dall’abbandono del vecchio sistema di cambio in sé, dalla qualità delle politiche economiche che si varano una volta tornati in possesso delle leve monetarie e fiscali”. Tali considerazioni hanno dato avvio a un interessante dibattito su questa rivista. Alcune delle repliche a Realfonzo e Viscione, però, sembrano avere eluso lo sforzo dei due autori, che condividiamo, di legare ogni giudizio sull’euro a precisi riferimenti analitici. In questo senso tali repliche rischiano anch’esse di assecondare una retorica di tipo “oracolistico”. A valle della discussione può dunque essere utile tornare sul terreno della ricerca, approfondendo ulteriormente alcuni aspetti salienti dei due studi la cui metodologia ha ispirato il recente contributo di Realfonzo e Viscione.
Provo innanzitutto a riassumere i risultati chiave dei nostri due lavori. In primo luogo, guardando i paesi ad alto reddito procapite, abbiamo rilevato che gli episodi di abbandono di regimi di cambio fisso sono associati a una crescita dell’inflazione di poco superiore a due punti percentuali nell’anno dell’uscita dal regime di cambio, e addirittura a una riduzione dell’inflazione nei cinque anni successivi all’uscita rispetto ai cinque anni precedenti. Siamo giunti così alla conclusione che, per quanto riguarda i paesi ad alto reddito, il pericolo di una «grande inflazione» evocato da Draghi non trova riscontri storici adeguati. In secondo luogo, dalla parte inferenziale dei nostri studi è emerso che pure in presenza di aumenti dell’inflazione contenuti e temporanei, le uscite da regimi di cambio fisso risultano correlate in media a riduzioni non trascurabili dei salari reali e della quota di reddito nazionale spettante ai salari. D’altro canto, abbiamo fatto notare che si tratta di riduzioni non troppo diverse da quelle che già si stanno registrando dentro l’eurozona nei paesi maggiormente colpiti dalla crisi. In terzo luogo, al di là degli andamenti medi, abbiamo segnalato che la dinamica dei salari reali e della quota di reddito spettante al lavoro è caratterizzata da un’alta variabilità tra paesi. In particolare, l’impatto sulle due variabili sembra cambiare molto a seconda dei diversi indirizzi di politica economica con cui i vari paesi affrontano l’abbandono dei cambi fissi: controlli sui movimenti di capitale, nazionalizzazioni e maggiori protezioni del lavoro potrebbero in questo senso essere associate a una sostanziale tenuta delle retribuzioni reali e delle quote salari, e talvolta addirittura a loro aumenti. L’importanza dei diversi modi in cui l’uscita viene gestita risulta confermata anche dall’analisi di Realfonzo e Viscione sugli andamenti della bilancia commerciale, del prodotto e degli occupati.
A quanto pare, dunque, le evidenze disponibili da un lato indicano che l’abbandono di un regime di cambio solleva svariati problemi, ma dall’altro segnalano che lo si può affrontare governando le variabili macroeconomiche, in particolare salvaguardando le retribuzioni dei lavoratori. E’ interessante notare che la letteratura mainstream non esclude questa eventualità ma tende ad associarla a un andamento negativo della produzione e dell’occupazione. Basti citare gli studi di Eichengreen e Sachs (1984) e di Fallon e Lucas (2002), dai quali emerge la tesi secondo cui l’abbandono di un cambio fisso e la conseguente svalutazione possono favorire la ripresa economica solo nella misura in cui siano accompagnati da una riduzione dei salari reali. Considerazioni simili sono state recentemente avanzate anche da altri economisti impegnati nel dibattito sull’euro, tra cui Michele Boldrin. Tali conclusioni vengono tuttavia criticate nel secondo dei due papers che abbiamo pubblicato: applicando la tecnica di Eichengreen e Sachs al nostro campione di episodi abbiamo rilevato che, dopo l’abbandono del cambio fisso, se una relazione tra salario reale e produzione esiste, essa non è affatto negativa ma al limite è positiva (vedi figura 1).
Figura 1 – Salario reale e indice di produzione industriale a seguito di crisi valutarie


Fonte: Brancaccio e Garbellini (2015)
E’ opportuno chiarire che le tecniche adoperate nei nostri studi non necessitano di alcuna ipotesi teorica del tipo “ceteris paribus”; esse pertanto non sono soggette alla critica che Paolo Guerrieri ha rivolto a quelle indagini sugli effetti dell’uscita dall’euro basate su una logica di “equilibrio parziale” (Guerrieri 2015). Una critica diretta alla nostra metodologia è invece provenuta da Angelo Baglioni dell’Università Cattolica, che in un dibattito televisivo  ha sostenuto che le passate esperienze di crisi dei regimi di cambio fisso non costituiscono un valido punto di riferimento per indagare sulle conseguenze che deriverebbero da un evento assolutamente eccezionale come l’uscita dall’euro. In particolare, Baglioni ha affermato che l’eventuale abbandono dell’euro da parte di un paese darebbe inizio a una sequenza di uscite a catena anche di altri paesi, determinando così effetti sistemici impossibili da prevedere sulla base delle evidenze passate. Questa tesi è stata in parte ripresa anche da Mauro Gallegati, con argomenti robusti e per più di un verso condivisibili (Gallegati 2015). Nel complesso, tuttavia, essa non può essere accolta. La rilevanza della storia passata nell’esame di possibili eventi futuri non va mai esagerata ma rinunciarvi completamente significherebbe rinchiudersi nello spazio fondamentale ma insufficiente della pura analisi teorica, senza alcun supporto proveniente dall’indagine empirica. Del resto, la stessa idea di Baglioni secondo cui l’uscita dall’euro provocherebbe abbandoni a catena della moneta unica e quindi costituirebbe per questo un evento eccezionale, è contestabile alla luce della stessa evidenza storica: uscite da regimi di cambio fisso che abbiano provocato tracolli valutari a catena si sono più volte verificate in passato, al punto da caratterizzare quella che in letteratura va sotto il nome di “terza generazione” di modelli sulle crisi valutarie.
Ovviamente, laddove gli “oracoli” possono agevolmente spaziare nella totalità dello scibile umano, la ricerca scientifica procede sempre a piccoli passi e su obiettivi circoscritti. In questo senso bisogna riconoscere che le nostre analisi gettano luce solo su alcune delle possibili conseguenze di un’uscita dall’Unione monetaria europea. Esse potranno quindi non soddisfare chi, come Salvatore Biasco, oggi sembra insistere sul convincimento che i principali effetti negativi di un abbandono dell’euro deriverebbero da una grave crisi sui mercati finanziari (Biasco 2015). Il problema è che queste, come altre obiezioni, non potranno mai essere valutate sul piano analitico se rimangono a un livello meramente narrativo. Più pregnante, a questo proposito, mi sembra il contributo di chi in questi mesi ha preso spunto da un modello del Levy Economics Institute per sostenere che anche le ripercussioni finanziarie di una eventuale uscita dall’euro dipenderebbero principalmente dalla capacità o meno di controllare i conti verso l’estero. La Grecia, da questo punto di vista, sembra trovarsi in una situazione di relativa difficoltà (Brancaccio e Zezza 2015). E l’Italia? Ecco una domanda alla quale sarebbe utile rispondere, possibilmente su robuste basi analitiche.
In definitiva, le evidenze di cui disponiamo sollevano una questione essenziale che viene troppo spesso trascurata sia dai nemici dell’euro che dai suoi apologeti e che è stata invece sottolineata dal “monito degli economisti” pubblicato sul Financial Times nel 2013: l’abbandono della moneta unica porrebbe i decisori politici di fronte a una scelta cruciale tra varie possibili modalità di gestione dell’uscita, ognuna delle quali avrebbe ripercussioni diverse sulle diverse classi sociali (AA.VV. 2013). E’ opportuno notare, a questo proposito, che in Italia e altrove le piattaforme politiche espressamente avverse all’euro si stanno sempre più intrecciando a proposte palesemente reazionarie, come la flat tax o la guerra agli immigrati. Gli interessi di classe che queste piattaforme intendono rappresentare sono in parte diversi da quelli che attualmente dominano la scena politica europea, ma non c’è nessun motivo logico per sperare che sarebbero maggiormente in sintonia con le istanze dei lavoratori e delle fasce più deboli della società. Anzi, è possibile che tali soluzioni reazionarie trovino a un certo punto una sintesi con quelle oggi prevalenti, in un accrocco perverso tra liberismo e xenofobia che è stato giustamente definito “gattopardesco”. Se la crisi europea dovesse intensificarsi, c’è motivo di ritenere che tali posizioni finirebbero per rafforzarsi. Se così andasse, un pezzettino di responsabilità ricadrebbe anche su quegli “oracoli” che pur di difendere la moneta unica hanno abbandonato il difficile campo della riflessione analitica preferendo quello ben più comodo del dogmatismo.

*Università di Bergamo

Bibliografia
AA.VV. (2013), The Economists’ Warning: European governments repeat mistakes of the Treaty of Versailles, Financial Times, 23 september. Sito web: www.theeconomistswarning.com.
Biasco, S. (2015). Euroexit, la domanda chiave è: cosa succederebbe ai mercati finanziari?, economiaepolitica.it, 9 febbraio.
Brancaccio, E., Garbellini N. (2014). Sugli effetti salariali e distributivi delle crisi dei regimi di cambio. Rivista di Politica Economica, luglio-settembre.
Brancaccio, E., Garbellini, N. (2015). Currency regime crises, real wages, functional income distribution and production. European Journal of Economics and Economic Policies: Intervention, 2.
Brancaccio, E., Zezza, G. (2015), La Grecia può uscire dall’euro?, Il Mattino, 2 febbraio.
Draghi, M. (2011), FT Interview Transcript, Financial Times, edited by  Lionel Barber and Ralph Atkins, 18 December.
Eichengreen, B., Sachs, J. (1984). Exchange rates and economic recovery in the 1930s, NBER Working Paper Series, National Bureau of Economic Research, 1498.
Fallon, P.R., Lucas, R.E. (2002). The impact of financial crises on labor markets, household incomes, and poverty: a review of evidence, The World Bank Research Observer, 17, 1, p. 21-45.
Gallegati, M. (2015). Europa politica o fine dell’euro, economiaepolitica.it, 10 marzo.
Guerrieri, P. (2015). Uscire dall’euro non conviene all’Italia e all’Europa, economiaepolitica.it, 20 aprile.
Realfonzo, R., Viscione A. (2015). Gli effetti di un’uscita dall’euro su crescita, occupazione e salari, economiaepolitica.it,22 gennaio.
 

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