sabato 30 novembre 2019

La sinistra e l’economia: da Sraffa e Keynes alla riforma del MES

Alba Vastano intervista Sergio Cesaratto da sinistrainrete.info

Incubo o Lincubo Johann Heinrich Füssli 1“Ora si rischia di allarmare nuovamente i mercati. Le banche italiane e straniere ci penserebbero due volte ad acquistare titoli di un Paese che potrebbe essere assoggettato a ristrutturazione del debito. Di qui i timori del governatore di Bankitalia Ignazio Visco, di Patuelli e dell’on. Giampaolo Galli e di tanti altri. Una ristrutturazione del debito colpirebbe duramente le banche e i risparmiatori. Ѐ una strategia folle” (Sergio Cesaratto)
Un mese e la riforma del MES, il fondo salva Stati, verrà attuata. Vorremmo così non fosse, ma ci sono tutti i presupposti che lasciano pensare ad un amarissimo dono di Natale che l’Europa sta per propinarci. Per comprendere i meccanismi della riforma e le conseguenze che piomberanno come una mannaia sull’economia italiana, già compromessa da un enorme debito, ne parliamo con Sergio Cesaratto, fra i più noti economisti critici internazionali. Tanto umile ed empatico nel privato, quanto serio e rigoroso nella professione. A lui, all’economista eterodosso, appellativo con cui ama definirsi, alla sua militanza universitaria, al suo sentirsi uomo di sinistra, pur criticandone le inadempienze, rivolgo le domande seguenti in questa lunga intervista. Concludendo con quelle più ‘mordaci’, sapendo che chi risponde, lo fa mantenendo la modestia e l’allure elegante del valente professionista. Grazie professor Cesaratto.
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Professor Cesaratto, entriamo subito nel vivo, ovvero l’attuale questione del MES , il fondo salva Stati. Anzitutto, per i profani in materia di economia, può spiegare cos’è il MES e come funziona questo meccanismo applicato all’economia europea?
Il Meccanismo europeo di stabilità (MES), detto anche fondo salva-Stati, fu creato nel 2011. Interviene a finanziare uno Stato quando per quest’ultimo non ha più senso finanziarsi sui mercati a causa di tassi di interesse troppo alti. Semplificando, quando i sottoscrittori del debito pubblico non rinnovano i prestiti, non trovando altri acquirenti a tassi ragionevoli, il Paese non può restituire i prestiti in scadenza ed è in default.
Il MES interverrebbe prestando quattrini al Paese, probabilmente in combinazione con la BCE che a sua volta comprerebbe titoli di Stato sotto il cappello dell’OMT (Outright Monetary Transactions), il programma annunciato da Draghi nel luglio 2012 nel famoso discorso in cui disse che la BCE avrebbe fatto tutto quanto necessario (“whatever it takes”) per preservare l’euro. L’aiuto di Draghi era subordinato a prestiti MES, e questi ultimi a un “memorandum of understanding”, un impegno del Paese a perseguire politiche di aggiustamento fiscale (leggi: austerità). Il MES ha un capitale fornito dai Paesi dell’eurozona (80 miliardi), e in caso di prestiti si può finanziare emettendo titoli.

La riforma del Mes dovrebbe avvenire entro fine anno. Nel sistema economico italiano sale la preoccupazione per questa riforma. Se, come prevedibile, verrà attuata,come prima risposta le banche italiane smetterebbero di acquistare titoli nazionali?
Il presidente dell’Associazione bancaria italiana (ABI) Patuelli ha detto di sì.

Per quale ragione?
Nel nuovo-MES si allude alla “ristrutturazione del debito” nel caso lo staff del MES non reputi il debito di quel Paese sostenibile. Ristrutturazione significa che i detentori dei titoli di Stato potrebbero vederne allungate le scadenze, o abbassato il rendimento, o infine addirittura vedere tagliato parte del loro credito (haircut).

Se si arrivasse a questo, quali saranno le conseguenze più pesanti sull’economia nazionale?
Tutti ricordano cosa accadde quando Merkel e Sarkozy, nell’autunno 2010 annunciarono che da quel momento i prestatori agli Stati in default avrebbero subito perdite – tanto nel maggio le banche tedesche e francesi che avevano prestato quattrini alla Grecia erano state già messe in sicurezza (anche coi nostri soldi) quindi al riparo da un haircut. Secondo molti osservatori, fu proprio questo annuncio a innescare la crisi di sfiducia verso i titoli italiani e spagnoli, ciò che ci costrinse all’emissioni di titoli a tassi esorbitanti, che ancora paghiamo. Ora si rischia di allarmare nuovamente i mercati. Le banche italiane e straniere ci penserebbero due volte ad acquistare titoli di un Paese che potrebbe essere assoggettato a ristrutturazione del debito. Di qui i timori del governatore di Bankitalia Ignazio Visco, di Patuelli e dell’on. Giampaolo Galli e di tanti altri. Una ristrutturazione del debito colpirebbe duramente le banche e i risparmiatori. E’ una strategia folle.

Ma qual è il giudizio politico?
Da tempo la Germania vuole sottrarre il giudizio sul rispetto delle regole fiscali alla giurisdizione della Commissione, essendo quest’ultima troppo sensibile agli equilibri politici (per esempio, non giudicando troppo severamente governi italiani considerati “amici”). Al MES verrebbero attribuito poteri molto forti. Sotto mentite spoglie è il Fondo monetario europeo desiderato da tempo dalla Germania. Insomma l’Europa, invece di trasmettere fiducia sui conti pubblici aiutando i Paesi a sostenerli attraverso bassi tassi di interesse, diffonde inquietudine e rischia di spingerli nel baratro. È una strategia che mira a mettere i Paesi ad alto debito alle corde per costringerli a “risanare” a colpi di austerità. Sappiamo benissimo quanto tale “risanamento” sia controproducente. Ma c’è in Europa, e specialmente in Germania ed Olanda, chi pensa che il mancato risanamento sia frutto della poca severità verso i Paesi debitori.

I filo-europeisti governativi hanno però negato che nel nuovo Trattato si parli di “ristrutturazione del debito”.
In una sorta di preambolo al Trattato si dice: “(12B) in circostanze eccezionali una forma adeguata e proporzionata di coinvolgimento dei privati, in linea con le pratiche del Fondo Monetario Internazionale, verrà presa in considerazione nei casi in cui il sostegno alla stabilità [del debito] è concesso accompagnato da condizionalità nella forma di programmi di aggiustamento macroeconomico”). Per coinvolgimento del settore privato (Private sector involvement) si intende ristrutturazione del debito. Quest’ultimo non è automatico, questo va riconosciuto, ma è fra le opzioni possibili. Nell’articolato poi il punto non viene ripreso, ma nell’Annesso III dove si specificano le condizioni di accesso agli aiuti si menziona la clausola della sostenibilità del debito (senza entrare nei dettagli).

Pierre Moscovici, al termine del suo mandato come responsabile dell’economia in Ue, manda due messaggi importanti all’Italia. Se la riforma si blocca salta il sostegno alle banche. La frontiera è l’euro e il sovranismo deve arretrare. Che ne pensa?
Il nuovo-MES contempla la possibilità per questa agenzia europea di fungere da garanzia di ultima istanza nel caso di ristrutturazione delle banche europee. Ma ad essere nei guai sono soprattutto le banche tedesche, e il messaggio è a Berlino che dovrebbe essere indirizzato. C’è in verità una seconda discussione in corso e che riguarda l’assicurazione europea sui depositi bancari sotto i 100 mila euro. Questi sono oggi assicurati a livello nazionale, ma una vera sicurezza può solo provenire da una assicurazione europea (come negli Stati Uniti). L’Italia sta bloccando un accordo in questa direzione in quanto la Germania la subordina a un’altra misura destabilizzante per il nostro debito pubblico, ovvero che le banche italiane si liberino di buona parte dei 400 miliardi di titoli di Stato che hanno in pancia. Anche in questo caso l’Europa proibisce e non costruisce, come si è espresso il governatore Visco a proposito del MES. Circa euro e sovranismo, beh forse il quesito lo dovrei porre io a lei! Sarebbe bene che la sinistra si chiarisse le idee sull’Europa decidendo se davvero la considera la nuova frontiera dell’internazionalismo, oppure se intende privilegiare i problemi delle nostre masse popolari. Per gente come Moscovici l’Europa è la frontiera del liberismo, e la rivendicazione di spazi nazionali ne è la negazione. La sinistra italiana da che parte sta?

Philip Lane, economista Bce, afferma “ l’economia cresce meno velocemente di quanto sperassimo”. Assicurando però che nell’Eurozona non sono previste recessioni Lei come vede e prevede la situazione odierna e per il 2020?
La fase di rallentamento dell’economia mondiale sta già aggravando le nostre prospettive, e l’Europa a guida tedesca non sta facendo nulla per prepararsi. Con la fine del mandato di Draghi non c’è più la certezza di una guida adeguata alla BCE – Christine Lagarde ha dichiarato una continuità, ma chissà! La Germania prosegue sul cammino del rigore fiscale per sé e per gli altri. Una politica industriale europea non c’è (se non accordi franco-tedeschi che lasciano da parte gli altri). Se a questo aggiungiamo il disastro della nostra classe politica, inclusa l’assenza di una sinistra all’altezza dei problemi del nostro paese, le prospettive sono preoccupanti.

In questa ottica le scelte dei governi dovranno puntare alla flessibilità sul deficit o maggiormente a riforme strutturali ?
Riforme strutturali significa più laissez-faire. Non siamo più ai tempi del PCI quando aveva un altro significato. Flessibilità fiscale significa poco per l’Italia (a parte gli “zero virgola”) in quanto la leva fiscale dovrebbe essere impiegata in primo luogo dai Paesi che hanno spazio per espandere la spesa pubblica, Germania in primis – che ha conti in ordine non tanto per proprie virtù, ma per le disgrazie altrui per cui gli investitori si sono buttati sui titoli di Stato tedeschi sicché Berlino paga da anni tassi negativi. Un’espansione fiscale in un Paese solo è impossibile, non tanto per i parametri di Maastricht, ma soprattutto perché i mercati ci farebbero a pezzi. In ambito europeo, se Germania che espandesse, se la BCE che continuasse nella politica di acquisto dei titoli pubblici e, soprattutto, se si adottassero forme di europeizzazione del debito, uno spazio fiscale si aprirebbe anche per noi. Se, se , se…

Professore, un’ultima domanda sulla riforma del Mes. Per quali motivi si dovrebbero accettare ipotetici strumenti di sostegno che in realtà sembrano penalizzare ancor di più le economie degli Stati. Lo Stato spende per gli interessi del debito il doppio di quanto spende per investimenti pubblici. Il Mes non sembra essere un meccanismo che facilita il rientro del debito, ma al contrario questi strumenti di assistenza finanziaria potrebbero facilitare invece una nuova crisi del debito.
L’abbiamo detto: l’Europa, invece di trasmettere fiducia sui conti pubblici aiutando i Paesi attraverso bassi tassi di interesse, diffonde inquietudine e rischia di spingerci nel baratro. È una strategia che mira a mettere i Paesi ad alto debito alle corde per costringerli a “risanare” a colpi di austerità. Sappiamo benissimo come tale “risanamento” sia controproducente. Ma c’è in Europa, e specialmente in Germania, chi pensa che il mancato risanamento sia frutto della poca severità verso i Paesi debitori.
Nel caso di un’effettiva ristrutturazione del debito, questo colpirebbe le banche, in particolare quelle italiane che sono forti detentrici di nostri titoli di Stato. Cosa accadrebbe nel caso di una ristrutturazione del debito italiano? Interverrebbe lo stesso nuovo-MES dotato ora di potere diretto di prestare quattrini alle banche? Ma che pasticcio è?
Il debito pubblico italiano sarebbe perfettamente sostenibile con bassi tassi di interesse e una politica fiscale europea che sostenesse la crescita. Come ha proposto il prof. Paolo Savona, il MES dovrebbe essere utilizzato per “europeizzare” una parte del debito pubblico dei paesi europei. Il MES lo potrebbe fare emettendo titoli a tassi bassissimi (dato che ha una garanzia europea) e finanziando così l’acquisto di titoli di Stato Europei. I titoli emessi dal MES costituirebbero quel safe asset, quel titolo europeo ritenuto sicuro, molto gradito agli investitori internazionali e alle banche europee. Invece di riformare la propria assurda costituzione economica, l’Europa ne accentua invece i tratti più oppressivi. Il governo italiano farebbe bene a non firmare per il nuovo-MES, chiedendo un periodo di riflessione su tutto l’impianto economico dell’Eurozona. A proposito: chi lo spiega alle “sardine”?

Passiamo alla sua ultima opera, di cui è disponibile da pochi giorni la seconda edizione. Parliamo di “Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne)” (Diarkos). Perché leggerlo?
La prima edizione delle Sei lezioni ha avuto un ottimo riscontro (e la nuova edizione è già in ristampa mentre le edizioni in spagnolo ed inglese sono in preparazione, quest’ultima col colosso Springer) perché mostra come esistano diverse teorie economiche le quali ci portano a diverse visioni di come funziona il sistema economico e di come possa dunque essere migliorato. Semplificando, le prime tre lezioni del libro confrontano due teorie, quella “classico-keynesiana” che si rifà ai grandi economisti classici (come Smith, Ricardo e Marx) e alla lezione di John Maynard Keynes (1883-1946), il grande economista inglese dello scorso secolo, e quella “marginalista” (o “neoclassica”) che domina il pensiero economico dalla fine del XIX° secolo. Tale dominio è stato in taluni periodi indebolito dalla critica Keynesiana, ma anche da quella del grande economista italiano Piero Sraffa (1898-1983) che ha riscoperto la visione degli economisti classici. La figura di Sraffa è ignota alla maggioranza degli italiani, persino a quelli colti. Eppure è una figura essenziale per il percorso intellettuale di studiosi come Wittgenstein e Antonio Gramsci. Keynes offrì rifugio a Sraffa, personalmente inviso a Mussolini, accogliendolo nel suo circolo più ristretto a Cambridge. Ed a Sraffa dobbiamo l’innesto di una clamorosa controversia che negli anni sessanta e settanta dello scorso secolo scosse le fondamenta della teoria dominante. Sraffa dimostrò infatti i gravi errori concettuali del marginalismo che lo rendono una teoria analiticamente sbagliata. La controversia è nota come la “controversia fra le due Cambridge”, quella inglese e quella americana (sede del celebre MIT vicino a Boston). Ma protagonisti della Cambridge inglese erano dei giovani italiani, in particolare Pierangelo Garegnani (1930-2011) e Luigi Pasinetti. Garegnani fu l’allievo prediletto di Sraffa ed è stato il mio maestro. A lui devo la chiarezza concettuale delle Sei lezioni che credo sia ciò che ha colpito di più i lettori.
Semplificando molto, la teoria classica aveva al suo centro il concetto di sovrappiù sociale. Questo è definito come ciò che rimane del prodotto sociale una volta tolte le sussistenze per i lavoratori. Questo semplice concetto ci dà la chiave per ricostruire il funzionamento delle diverse “formazioni economiche” pre-capitalistiche, dall’economia neolitica alle civiltà antiche e successivamente al feudalesimo. A seconda delle diverse condizioni geografiche e storico-istituzionali diverse sono infatti state le modalità con cui le classi dominanti si sono appropriate de sovrappiù sociale. Non è un caso che tale concetto sia ampiamente utilizzato negli studi archeologici delle civiltà antiche e nell’antropologia.
La teoria economica marginalista ha invece al suo centro l’idea che il laissez faire conduca a una distribuzione del reddito fra i “fattori produttivi” (come lavoro, capitale e terra) in cui ciascuno ottiene una fetta di torta commisurata all’apporto di quel fattore alla produzione sociale. A ciascuno il suo, insomma. Il punto è che, come Sraffa dimostra, nella dimostrazione analitica di tali conclusioni essa compie gravi errori che ne inficiano i risultati. In aggiunta, Keynes dimostra come non sia vero come preteso da questa teoria che tutto ciò che si produce è venduto, ma che il capitalismo soffre di carenza di domanda aggregata. Tale carenza è da porsi in relazione proprio con la diseguale distribuzione del reddito che caratterizza anche il capitalismo. Chi ha i denti non ha il pane… come si usa dire.
L’economia è alla portata di tutti, con un po’ di sforzo. Purtroppo anche a sinistra prevale la pigrizia mentale. Altri temi che si prestano a più facili passioni prevalgono nel sentire comune. Basti guardare al fenomeno delle “sardine” dove prevale il generico, o addirittura si fa di quella europea la propria bandiera. Dunque si sventola uno dei simboli del liberismo. Oppure si guardi a Pancho Pardi, il nonno delle “sardine”, che in una trasmissione Rai a cui partecipavo ha detto che lui di economia non capisce nulla. Ma allora come ha fatto a fare politica? Questi sono i nostri leader e leaderini? Beh, le “Sei lezioni” sono state scritte anche per voi, soprattutto per voi. Ma c’è da mettere assieme Vangelo e Gramsci: serve la buona volontà.

Lei sostiene, nella prefazione del saggio, che la crisi europea e le motivazioni, che descrive ampliamente, hanno stimolato l’interesse di molti giovani che si sono avvicinati alle teorie economiche per capirne le ragioni. Sostiene anche che c’è stata una riscoperta di massa del pensiero di Keynes, di cui lei sembra essere grande fautore. E’ così?
Sì, moltissima gente, giovani in particolare, si sono avvicinati all’economia per capire ciò che stava accadendo. Ma le “Sei lezioni” hanno aperto la mente anche a tanti giovani che studiano economia in università dove il pluralismo delle idee è scomparso. Dopo i capitoli più “teorici” dedicati, rispettivamente, ai classici e Marx, ai marginalisti e a Keynes, il libro scivola verso i problemi della politica economica per arrivare a spiegare la crisi europea e, soprattutto, i misteri della politica monetaria (nella nuova edizione ho aggiornato l’esposizione e corretto qualche errore). Prevale naturalmente un pessimismo circa la riformabilità dell’Europa. Un pessimismo motivato, naturalmente, e con il quale non mi risulta che la sinistra abbia fatto i conti sino in fondo. (A mitigare il pessimismo, il libro cerca di essere anche divertente, e anche questo è stato apprezzato).

Lei vede quindi il pensiero e le teorie keynesiane più utili e applicabili di quelle marxiste, ad esempio riguardo la legge basata sul valore/lavoro che lei considera sbagliata?
Assolutamente no. Nel libro più che Keynes è centrale la teoria del sovrappiù che Marx riprende dagli economisti classici. La teoria del valore-lavoro è una particolare formulazione della teoria del sovrappiù che Ricardo e poi Marx adottarono per affrontare alcuni problemi analitici ben spiegati nel libro. Purtroppo entrambi si avvidero che tale soluzione non funzionava. Marx si indirizzò lungo un percorso che poi Sraffa, in grande misura autonomamente, portò a compimento. La teoria di Keynes è complementare a quella del sovrappiù. Essa va però liberata dai retaggi marginalisti, e anche qui l’opera di Sraffa-Garegnani ci è essenziale. Nella nuova edizione ne parlo con un po’ più di dettaglio.
In quanto a Keynes, è un personaggio che non è mai stato troppo popolare in Italia, tanto meno a sinistra. Il PCI non è mai stato né Keynesiano, né Sraffiano. Ma sul PCI e l’economia credo abbia detto già tutto Leonardo Paggi (I comunisti italiani e il riformismo, Einaudi 1986, scritto con M. D’Angelillo). Lo considero una bibbia. Anche da una seria riflessione sugli errori economici del PCI si dovrebbe ripartire (errori che sono poi errori politici di fondo).

Concluderei con una domanda che le può risultare provocatoria, ma utile a capire una definita posizione che ha preso il suo collega Bagnai, addirittura nelle fila della Lega. Posizione che più sovranista non si può. Lei scrive che “la sinistra se l’è lasciato sfuggire”. A cosa è dovuto questo suo ‘j’accuse’ verso la sinistra radicale che già è in sofferenza di suo. Non le sembra un tantino ingenerosa questa sua affermazione?
La sinistra radicale è in crisi precisamente perché si lascia sfuggire economisti dello spessore di Alberto Bagnai. Non sembra che, peraltro, presti grande ascolto a voci ben ferme a sinistra come Antonella Stirati, Massimo D’Antoni, Vladimiro Giacché o Sergio Cesaratto, si parva licet. Naturalmente la crisi della sinistra ha radici profondissime che io vedo nel fallimento del socialismo reale e nel conseguente scatenamento del capitalismo globale. Quest’ultimo ha comportato sia il decentramento del capitale in zone periferiche, ma anche l’incremento dei flussi migratori. Questi fenomeni hanno comportato un enorme allargamento dell’esercito industriale di riserva a livello globale che ha annichilito la forza contrattuale del movimento operaio. La socialdemocrazia, a sua volta, non ha saputo o voluto opporsi. Ripartire è drammaticamente difficile. Serve uno sforzo intellettuale formidabile. Non ne vedo segni, o ne vedo di opposti, come nel manifesto delle “sardine”. Ma tutti noi, economisti di sinistra, saremmo felicissimi di aprire un dialogo con questo movimento. Dalla mia esperienza universitaria ho però l’impressione che con i giovani cosmopoliti ed europeisti non ci sia grande dialogo, molto più facile aprirlo con giovani più semplici, che magari non han fatto mai politica e non sono andati in Erasmus, ma che scoprono un mondo ascoltando le mie lezioni o studiando le “Sei lezioni” (e mi ringraziano). Le “sardine” appaiono come una aspirante élite, come quest’ultima disturbata dal populismo, dalla rabbia del popolo vero a cui guardano con disprezzo e che lasciano così alla destra. Se non è così, la mia mail è pubblica.

Si può dedurre che ‘ci’ diventerà sovranista anche lei?
Cosa intende dire? Che essere per il proprio Paese è un valore di destra?

Fonte: Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), 2da edizione, Diarkos, Reggio Emilia, 2019.

Sergio Cesaratto insegna Politica monetaria e fiscale europea ed Economia internazionale presso l’Università di Siena. E’ uno dei più noti economisti “eterodossi” internazionali. Si è occupato fra l’altro di crescita economica, pensioni, innovazione e, ultimamente, della relazione fra teoria del sovrappiù, Polanyi e archeologia e antropologia economica. I suoi contributi sono stati pubblicati dalle principali riviste scientifiche eterodosse internazionali. Ѐ uno dei più noti partecipanti al dibattito pubblico italiano ed europeo sul tema della crisi dell’eurozona.

martedì 19 novembre 2019

Ilva, il liberismo duro e puro dell'Unione Europea ha causato deindustrializzazione


di Guido Salerno Aletta - Milano Finanza da l'Antidiplomatico
 

La questione dell’Ilva di Taranto, tornata prepotentemente alla ribalta, è l’occasione buona per costringere i tanti predicatori dell’europeismo “senza se e senza ma” a tirare finalmente la testa dal secchio: per metterli di fronte alla realtà, per dimostrare come stanno tradendo tutti, ma proprio tutti, i principi che portarono alla creazione della Comunità Europea, iniziando con quella del carbone e dell’acciaio che risale al 1951. Di quei valori e di quegli strumenti non c’è più traccia.
Anche nel settore della siderurgia, altro che telecomunicazioni di quinta generazione ed intelligenza artificiale, l’Europa viene stritolata: se da una parte ci sono le pretese americane e dall’altra c’è lo strapotere produttivo cinese, l’Unione chiude gli occhi e lascia che i più deboli soccombano. Uno dopo l’altro, nel disinteresse più completo. Gli Stati, d’altra parte, non hanno più poteri: sono stati trasferiti a Bruxelles. I governi annaspano, mentre monta il livore.
La vicenda dell’ILVA di Taranto è di cruciale importanza per l’Italia: se per un verso la sua straordinaria complessità deriva dal porsi all’intersezione di molteplici e contrastanti dinamiche internazionali, per l’altro ci obbliga ad affrontare il tema dell’insicurezza giuridica, che penalizza chiunque abbia interessi in Italia, tra il volteggiare delle normative che si susseguono senza sosta in ogni settore e la sistematica sostituzione della Magistratura ai mancati controlli ed alle omesse determinazioni della Pubblica amministrazione.
In primo luogo, però, si deve chiarire quale è il contesto concorrenziale dell’acciaio, in un assetto caratterizzato da ben quattro fattori critici: una contrazione generalizzata della domanda a fronte di un eccesso di capacità produttiva, laddove la Cina da sola ne ha installata per la metà del mondo intero; un restringimento del mercato di sbocco negli Usa, visto che l’Amministrazione Trump ha imposto, a tutela della sicurezza nazionale, un dazio generalizzato del 10% sulle importazioni, elevandolo nei confronti della Turchia per via della svalutazione della lira e minacciando di portare la tariffa al 50% dopo l’ingresso delle truppe di Ankara in Siria; una differenziazione enorme dei fattori di costo negli stabilimenti dei diversi Paesi, per via delle molteplici cautele imposte alla produzione per la tutela ambientale, la salvaguardia della salute umana e la sicurezza dei lavoratori; le fusioni industriali tra operatori europei ed indiani, come Arcelor/ Mittal e TyssenKrupp/TataSteel, che non militano a favore di una decisa azione della Unione europea nella trattazione del dumping ambientale. E’ una sorta di colonizzazione a parti invertite.
Siamo di fronte ad una situazione di insostenibile disparità di costi rispetto a cui i Protocolli di Kioto e le roboanti promesse di un New Green Deal non pongono alcun rimedio concreto. Nella operatività quotidiana degli operatori multinazionali, in un contesto di eccesso di offerta, ad essere sacrificati sono gli investimenti di rinnovo degli impianti e quelli volti all’adeguamento a fini di tutela ambientale e del lavoro. Tutto ciò che è arrivato a fine ciclo va dismesso.
Abbattere i salari, anche azzerandoli, non basta. Si ferma la produzione di acciaio a Rothbury ed a Indiana Harbour negli Usa; non riprenderà più a Florange, in Francia, dove era già ferma dal 2012. A Trieste si spegne la ferriera, e così pure a Cracovia in Polonia ed a Baia Saldanha in Sudafrica. Cronache si questi giorni.
Si misura qui, ed è il punto di crisi ulteriore, la assoluta inconsistenza della politica monetaria cosiddetta espansiva, in particolare quella della Bce che ha imposto tassi negativi sui depositi bancari ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria, che sarebbe stata volta ad indurre la erogazione di credito piuttosto che trattenere inoperosamente la liquidità e quella dei rifinanziamenti (L-tro) a tre anni. In un periodo così breve si rimborsano a malapena i finanziamenti erogati per comprare uno smartphone.
Tutto, nell’Unione Europa, ha ormai tradito l’eredità della CECA. Tutto è stato fatto all’insegna del liberismo puro e duro: anche le quote sulle importazioni di prodotti siderurgici da taluni Paesi terzi, che pure sono state introdotte da poco più di un anno, non riescono affatto a colmare i baratri tra i costi di produzione. La stessa Carbon Tax sui prodotti siderurgici, che pure è stata ipotizzata per penalizzare le produzioni dei Paesi che non adottano livelli restrittivi in tema di inquinamento, è appena una nuvola che appare e scompare sui cieli di Bruxelles.
I prezzi internazionali dell’acciaio, come quelli di tanti altri prodotti, non tengono conto del differenziale dei maggiori costi di produzione nei Paesi che meglio cercano di tutelare maggiormente l’ambiente e la salute umana.
In Europa, sparita la Ceca, sono finite pure le linee di credito funzionali a questi investimenti.
Suonano irridenti le parole del suo Trattato istitutivo: Art. 53 -” L'Alta Autorità può facilitare la realizzazione di programmi di investimento accordando prestiti alle imprese o dando la propria garanzia ad altri prestiti che esse contraggano”. Ed ancora, art.55 – “… deve incoraggiare le ricerche tecniche ed economiche concernenti…la sicurezza del lavoro in dette industrie”.
Basta scorrere, poi, i poteri che erano stati attribuiti alla Ceca in materia di quote di produzione nazionale nel caso di una contrazione della domanda, e addirittura quelli di compensazione economica a favore dei lavoratori nel caso di un abbassamento dei salari a fini concorrenziali: “Quando l'Alta Autorità constata che un ribasso dei salari, mentre provoca un abbassamento del tenore di vita della mano d'opera, è anche impiegato come mezzo di adeguamento economico permanente delle imprese o di concorrenza fra imprese, essa rivolge all'impresa, o al Governo interessato, sentito il parere del Comitato Consultivo, una raccomandazione al fine di assicurare alla mano d'opera, a carico delle imprese, dei benefici che compensino tale ribasso”. La deflazione salariale, che da anni viene imposta dalla Commissione come strumento volto ad assicurare la competitività mercantilista, è una politica diametralmente opposta rispetto ai valori su cui si fondava alle origini la Comunità europea. All’Art 1, si stabiliva che fosse suo compito “promuovere il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della mano d'opera, consentendone la parificazione verso l'alto”. Testuale.
Il mondo, si sa, corre. In un anno, gli effetti dei dazi americani sulle importazioni di acciaio sono stati consistenti, nell’ordine del 13,5%: nei dodici mesi terminati a settembre scorso, sono scese a 20,5 milioni di tonnellate, rispetto ai 23,7 milioni del periodo precedente; in valore, si sono contratte da 22,7 a 19 miliardi di dollari. Per alcuni prodotti, come le lamiere, l’import americano è crollato del 24,3%. Ci sono retroazioni: l’export di acciaio della Turchia, che si è più che dimezzato verso gli Usa nel corso dell’anno, si è ridiretto verso l’UE, ed in particolare verso l’Italia che ne è diventata la principale acquirente. Ciò anche per una sorta di triangolazione dei rottami di ferro che, in uscita dall’Unione per essere rigenerati negli impianti turchi, vengono reimportati in Italia a prezzi vantaggiosi, visti i minori oneri ambientali in quel Paese.
L’America, a modo suo, con i dazi sull’acciaio e l’alluminio sta cercando di proteggere quel poco di Old Economy che le è rimasta. Recede formalmente anche dalla partecipazione agli Accordi di Parigi sul clima, pur di non aumentare ancora i costi interni di produzione che già la penalizzano nel commercio internazionale.
Anche qui, tornano le lezioni del passato: fu la violenta stretta monetaria della Fed all’inizio degli anni Ottanta a determinare la prima ondata di deindustrializzazione americana, con gli impianti delocalizzati in Messico, appena oltre la frontiera, dove i costi del lavoro e di ogni altro fattore normativo erano enormemente più bassi. Il ribaltamento di segno dei tassi di interesse reale, che passarono repentinamente da negativi a positivi, colpì in modo ancora più drammatico l’Italia: saltò per aria l’equilibrio finanziario dei colossali piani di investimento a lungo termine delle Partecipazioni statali, tra cui quelli del polo siderurgico di Bagnoli. Il nuovo treno di laminazione a caldo, appena installato, fu smontato per cederlo agli indiani: roba di quasi quarant’anni fa.
Con i nuovi tassi, il debito era divenuto, per ciò solo, incontrollabile. Da lì, la china inarrestabile che portò agli accordi Andreatta-Van Miert sul divieto di sostegni da parte dello Stato e poi alla liquidazione dell’azionariato pubblico. Si congelarono anche gli investimenti produttivi dei privati a favore degli impieghi in titoli di Stato, che rendevano alle aziende assai più di ogni roseo profitto operativo. Il cosiddetto divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia portò alla esplosione del debito pubblico.
Oggi sono ancora una volta i differenziali di costo che bloccano gli investimenti a lungo termine, e che portano alla chiusura degli impianti: non sono più gli oneri finanziari che fecero sballare i conti negli anni Ottanta, ma quelli derivanti dalla maggior tutela ambientale della vita umana e del lavoro. La precarizzazione e la svalutazione salariale, pure insieme alla contrazione delle tutele sociali, non bastano a colmare il divario dei costi: se dal piano industriale dell’Ilva di Taranto se ne scorporassero quelli relativi all’adeguamento ambientale e quelli imposti direttamente dalla magistratura per la sicurezza del lavoro, forse ci troveremmo di fronte ad una revoca del recesso.
A nessuno mai verrebbe in mente una ipotesi così balzana. Ma, se i prezzi dei beni prodotti inquinando liberamente sono comparati sul mercato a quelli dei prodotti che vengono realizzati rispettando vincoli severi, davvero non c’è partita. Se si chiude a Taranto, sarà un altro deserto, come a Bagnoli. Non basta piangere, né pregare: l’Amazzonia che brucia è qui, siamo noi. 

venerdì 15 novembre 2019

Bolivia: golpe o (contro) rivoluzione?

Un punto di vista




Di Fernando Molina da nuso.org

  Come interpretare ciò che è successo in Bolivia? Il movimento culminato con la rinuncia di Evo Morales e la polemica proclamazione di Jeanine Añez come presidente ad interim, è stato il prodotto di dinamiche diverse e preannuncia un capovolgimento politico-ideologico sostenuto da una torsione in senso conservatore. Nonostante tutto però, lo scenario boliviano è ancora aperto

Il presidente boliviano Evo Morales è stato spodestato. Secondo diversi paesi, migliaia di osservatori stranieri e molti boliviani, ciò è stato il frutto di un colpo di stato. I motivi a sostegno di questa tesi sono diversi, fra questi risalta la sequenza di eventi dello scorso 10 Novembre. Poco prima che Morales leggesse la sua rinuncia nella rete televisiva di stato, davanti alla stampa si è presentato l’alto comando militare, e il suo comandante in capo, il generale William Kaliman, “ha suggerito” al presidente di dimettersi- “ Post hoc ergo propter hoc”: quando un fatto succede a un altro, si suppone sia stato causato da questo. Tutto ciò non considera, fra le altre cose, che anche la Centrale Operaia Boliviana (COB), guidata da un dirigente vicino al partito di governo, il Movimento per il Socialismo (MAS), il minatore Juan Huarachi, ha chiesto a Morales di rinunciare. Perché Huarachi, certo al di sopra di ogni sospetto di simpatie imperialiste ha fatto una richiesta del genere? Perché nella mobilitazione contro Morales si sono mossi i minatori di Potosì, una regione che fino al 2015 è stata un bastione del MAS e che poi gli si è rivoltata contro, tanto che i suoi dirigenti lo hanno nominato “il nessuno” della regione

D’altro canto, molti altri boliviani ritengono che il processo che ha portato allo spodestamento di Morales sia una rivoluzione liberatrice contro “ un dittatore”. Un’idea che non tiene conto dei seguenti fattori: perché questa “ dittatura” non ha tentato di affidarsi ai militari per difendere il suo potere? Perché non ha tentato di zittire i mezzi di comunicazione, per mezzo dei quali, i dirigenti dei comitati civici hanno invocato insistentemente la messa al bando del presidente? E le domande seguono.

La verità non sta nelle interpretazioni ideologiche. Ciò nonostante, le dispute dottrinarie sui fatti boliviani -golpe o rivoluzione liberatrice- saranno tanto interminabile quanto inconciliabili. Quest’articolo, lungi dal tentare di chiudere la discussione, intende aprirla, dando il giusto peso a nuove prospettive. Vediamo.

La prima causa della caduta di Morales è sta la sollevazione di settori sociali urbani e della classe media della popolazione, che ha paralizzato tutte le città del paese. Questa sollevazione è cominciata dopo che il Tribunale Elettorale aveva annunciato che il risultato delle elezioni del 20 Ottobre aveva visto la vittoria alla prima tornata di Morales – risultato che la giunta delle elezioni dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), ha considerato a posteriori illegittimo. Malgrado ciò le motivazioni che hanno spinto la gente a mobilitarsi vanno al di là “ dell’indignazione per la frode”.

La classe media “tradizionale” non ha mai accettato del tutto Morales. Le ragioni sono diverse, dalla sua condizione di indio, che è sempre stato un fattore di rifiuto, fino alla svalutazione, nel suo governo, del capitale educativo umano rispetto a un altro genere di”capitali” (essere dirigente sociale era più importante per ottenere una carica pubblica che possedere un dottorato), tutti motivi che pregiudicavano le sue aspirazioni.

Bene, questa opposizione più o meno costante di una classe a un governo, che le ha sottratto potere simbolico e politico, si è radicalizzata e si allargata alle classi popolari per due motivi: a) l’inganno generale per la manovra che Morales ha messo in atto per essere rieletto ancora una volta, malgrado avesse perso il referendum del 2016, convocato per rimuovere gli ostacoli istituzionali che lo impedivano; b) le irregolarità multiple e la contraddizione del processo elettorale del 20 Ottobre del 2019 e l’inettitudine della giunta del Tribunale Elettorale.

La complicata e travagliata applicazione istituzionale del primo motivo ha privato il Tribunale Elettorale di capacità tecnica e di attendibilità sociale. Allo stesso tempo ha generato nei boliviani di diverse classi sociali la convinzione che il governo era capace di ogni genere di triquiñuelas (cioè di comportarsi alla maniera della vernacolare “vivacità creola”) pur di restare al potere.

Per queste ragioni, non solo le opposizioni erano già predisposte a denunciare la frode prima ancora dello stesso espletamento delle elezioni, come ha denunciato il MAS, ma la denuncia ha avuto una tale presa da essere creduta da ampi strati della popolazione. La diffidenza della gente nei confronti del governo è stata determinante nella dinamica di radicalizzazione della protesta, malgrado le concessioni del presidente, ed è stata al tempo stesso la chiave di volta dell’adesione di certi settori popolari e indigeni alle dimostrazioni nelle aree del paese e delle classi più fortemente antieviste. Cosa ha provocato questa diffidenza? Nient’altro che l’attitudine “rielezionista” di Morales, che cozzava con la cultura politica boliviana, tradizionalmente favorevole all’alternanza.

L’elemento basilare della caduta di Morales è stata la sollevazione delle città unitamente ad alcuni settori dei lavoratori. Tuttavia il fattore scatenante è stata la ribellione della Polizia, dovuta a motivazioni radicate nella gestione dell’azione di governo (con Morales, la Polizia, ha perso privilegi e ha ricevuto meno benefici dei militari). Ciò nondimeno, considerando anche la condizione di parziale militarizzazione di questa istituzione, per forza di cose il suo comportamento deve aver avuto come premessa un processo di sfaldamento della disciplina, che è stato a sua volta il frutto di “forti pressioni sociali e ambientali”, come accade in tutte le insurrezioni.

Il popolo travolge gli agenti del potere con la sua sollecitudine e i suoi ricatti emotivi. In questo modo l’hanno rappresentato i grandi teorici della presa violenta del potere. In anticipo di quasi un secolo, Lenin ha descritto gli avvenimenti degli ultimi giorni e delle ultime ore di Morales, quando disse che una situazione rivoluzionaria si caratterizza per il fatto che “che quelli di sopra non riescono più a esercitare il comando su quelli di sotto, come hanno sempre fatto”.

In effetti, l’ultima molla del potere, i corpi militari, inizialmente subordinati al governo, alla fine si sono resi autonomi da questo e hanno iniziato ad agire in maniera imprevedibile, contraddittoria e in definitiva sediziosa almeno quanto i manifestanti: la Polizia attivamente, unendosi a questi, i militari passivamente, prima negando al presidente la difesa e poi chiedendogli di andarsene.

Sciopero generale, paralisi della vita urbana, organizzazioni spontanee delle masse al fine di amministrare i servizi basilari e i mezzi di trasporto, sviluppo di forme embrionali di organismi coercitivi, presa di istituzioni statali, “ doppio potere” in vaste aree del territorio: tutti questi fenomeni, che compongono un quadro familiare per la sinistra come elementi di insurrezioni spontanee care alla sua storia (ad esempio quelle del 1905 e del Febbraio del 2017 in Russia), in maniera analoga si sono manifestati in Bolivia durante le due settimane e oltre della durata della crisi.

Bene, “insurrezione” è solo il nome di una forma, la più estrema, di alterazione dell’ordine sociale, quando questo va in frantumi e cede a una pressione proveniente dal basso. Il concetto non dice nulla riguardo alla naturalità di questo ordine né riguardo alla direzione della forza in ascesa che lo infrange.

La Bolivia è un paese di insurrezioni: Renè Zavaleta diceva che era la Francia del Sudamerica, dove la politica si dispiegava nel suo svolgimento classico: per mezzo di rivoluzioni e contro rivoluzioni. Sedici anni fa, un’altra sollevazione, simile a quella attuale, ma di segno contrario, spodestò il presidente Gonzalo Sanchez de Lozada. Nel Giugno del 2015 un’altra insurrezione finì con il governo di Carlos Mesa.

Quale ordine era messo in crisi in quelle circostanze? L’ordine democratico elitario/elitista neoliberista. Qual era il senso della forza in ascesa che lo ha messo in crisi? Progressista, democratico-comunitarista e antielitista. Nel trionfare, questa forza ascendente ha consumato una rivoluzione politica (non sociale, secondo la celebre differenziazione marxista) di carattere antielitista, di sinistra, nazional-popolare e indigenista. Per una serie di contingenze si è riusciti a contenere questa forza dentro una cornice democratico-liberale. Date le sue caratteristiche, questa rivoluzione, sul piano geopolitico ha imposto le ragioni del nord ( in maggioranza indigeno e indigenista) su quelle del sud-est ( in maggioranza bianco e conservatore); come dire La Paz ed El Alto sopra Sucre-Tarija.

Bene, quale ordine è caduto con Morales? Quello democratico, corporativo, rielezionista e plurinazionale. E qual è il senso di quella forza ascendente che lo ha abbattuto ?Non lo sappiamo ancora del tutto, sebbene esistano già alcuni indizi:


- Una forza diretta da rappresentanti delle classi elevate ma populiste, capace di rivolgersi alla popolazione in generale e interessate a influire su tutti gli strati sociali;


- Un’alleanza fra due segmenti sociali: uno prevalentemente bianco e urbano, con scarsa connessione con i segmenti indigeni, e l’altro popolare e indigeno, soprattutto di Potosì;


- Una forza che proviene dal sud-est del paese e si avvale di un’adesione precaria di La Paz, El Alto e Cochabamba, che però non si è ancora consolidata in queste città;
 

- Una forza antagonista al modello economico e politico di Evo Morales. Pertanto antistatalista (fino a che punto?) e opposta (fino a dove?) allo stato Plurinazionale o stato con diritti speciali per gli indigeni. In questo senso è importante capire cosa è successo con la bandiera indigena o wiphala. Durante tutta la mobilitazione è stata il simbolo del MAS e chi la portava si rivelava come simpatizzante di questo partito e come nemico. Dopo la rinuncia presidenziale però e prima della violenta reazione di certi gruppi indigeni alla caduta di Morales e soprattutto prima dell’incendio della wiphala e dello sfregio di questa che si è verificato durante la rivolta, i leader di questa non si sono fatti problemi a incorporare questo simbolo nel loro repertorio di agitazione politica;
 

- Una forza conservatrice che cerca di “ far tornare Dio e la Bibbia nel Palazzo”, che raccoglie seguaci e che rappresenta la propria mobilitazione – nel significato teatrale della parola “rappresentare”- con un cerimoniale religioso;
 

- Una forza che si pone all’insegna della democrazia liberale anticorporativa, che ancora non sappiamo se saprà dispiegarsi in un contesto democratico e se riuscirà o no a formare un governo legittimo.

In definitiva, possiamo dire che il trionfo di questa forza per mezzo di un’insurrezione è simmetrico, ma inverso, al trionfo insurrezionale del ciclo nazional-popolare (2006-2019). La storia boliviana oscilla a mo’ di pendolo: un cambiamento di elite – una rivoluzione politica- si dispiega e prepara le condizioni per un altro cambio di elite –un’altra rivoluzione politica- che allora funziona rispetto alla prima come una controrivoluzione.

Si tratta, insisto di quel movimento di pendolo, osservato innumerevoli volten ella storia boliviana, che va da un progetto di una elite a un progetto contro elitario, e viceversa. Si tratta per dirlo con un altro esempio del “ ciclo nazionalismo-privatismo-nazionalismo”. O per usare dei termini noti nel dibattito boliviano, si tratta di uno “stallo catastrofico” fra due blocchi sociali, due tipi di elite, due aree geografiche, due visioni del paese, che i dirigenti boliviani, impegnati fin a ora in gioco vinci-vinci, non sono stati capaci di conciliare e riconciliare.

Morales è riuscito a mantenere l’egemonia politica fra il 2009 e il 2014, ma non è riuscito a conservala perché non ha saputo fare le concessioni chiave all’altra parte: sacrificare la sua rielezione, che avrebbe permesso di istituzionalizzare il potere del MAS. Da parte loro, le forze ascendenti del momento hanno avuto l’opportunità di pattuire con Morales un’uscita ordinata del suo governo, quando fino alla fine questi ha chiesto una riunione per definire che fare con la crisi, ma hanno preferito non scendere a patti e togliere tutto l’ossigeno al presidente, perché ingolositi dalla possibilità di una vittoria “finale” sul grande rivale di tanti anni. Il risultato è stato una vittoria per loro, ma una dura sconfitta per le forze opposte, e pertanto una situazione instabile e potenzialmente esplosiva, come si è potuto vedere nei primi giorni del nuovo potere. 

La mancanza di un sistema di regole che permetta di risanare la “ crepa” fra le elite plebee e le elite antiche o tradizionali: questa è la ragione per la quale il paese non raggiunge un “consenso nazionale” e precipita in un circolo vizioso di rivoluzione e controrivoluzione.

Colpo di Stato, rivoluzione e controrivoluzione sono tre forme di rottura del flusso democratico; possono dar luogo, come nel 2003-2005, a processi politici che poi vengono reinseriti in tale flusso, soddisfacendo un requisito urgente del tempo attuale, e a processi che non hanno successo, un fallimento che, in questi stessi tempi, porta al fallimento a livello internazionale. Ognuna di queste categorie ha delle implicazioni precettive o di “dover essere”. Si suppone che “non dovrebbe” essere colpo di stato, non dovrebbe essere rivoluzione, ecc. E’ da qui che questi concetti politologici, questi artefatti teorici, si convertono in strumenti di battaglia politica.

Al di là di queste strumentalizzazioni, noi possiamo recuperare un senso lessicale autentico.

Scarteremo quindi, il concetto di “colpo di stato” inteso nel suo significato di putsch, “blanquismo” o cospirazione esterna al processo politico concreto, e pertanto senza responsabili, un prodotto esclusivo di una volontà aliena, concetto che assolve il governo di Morales da tutti gli errori e che minimizza l’usura di quattordici anni di potere. Noi rimaniamo piuttosto con l'idea di pendolo rivoluzione-controrivoluzione, come espressione della frattura sociale che divide la società boliviana.


Traduzione per doppiocieco di Franco Cilli



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