martedì 31 maggio 2016

TTIP: il governo italiano è il più venduto d'Europa

di Giorgio Cremaschi

 
Carlo Calenda rappresenta al meglio la casta renziana. Esperienze manageriali sin dalla prima elementare e un'abilità, superiore a quella di Tarzan sulle liane, nel saltare tra le cordate di potere e da un incarico all'altro. Cosi il nostro è balzato agilmente da Montezemolo a Monti e poi da quest'ultimo a Renzi. Che lo ha nominato all'inizio dell'anno nella Commissione Europea, salvo poi ripensarci dopo pochi mesi e collocarlo al vertice del Ministero dello Sviluppo Economico.
Il nuovo salto di Calenda c'é stato il 10 maggio e già il 13, intervenendo da neo ministro a Bruxelles, il nostro ha subito schierato l'Italia tra gli ultras del TTIP. Mentre il governo francese e tedesco cominciavano ad esprimere dubbi sul micidiale trattato che concederebbe licenza di far tutto alle multinazionali, il nostro si è lamentato del fatto che le opinioni pubbliche ed i parlamenti nazionali abbiano rallentato il negoziato. I popoli a volte contano ancora qualcosa rispetto al mercato, che scandalosa arretratezza!
Ora il ministro chiarisce in una intervista sul Corriere della Sera la sua posizione, che evidentemente è anche quella del governo.
L'Italia, sostiene il ministro, è il paese che più avrebbe da guadagnare dalla piena attuazione del TTIP. Non solo non avremmo più il formaggio Asiago prodotto nel Minnesota, ma le nostre piccole imprese avrebbero la possibilità di sconfiggere la prepotenza e i privilegi delle multinazionali e quella di invadere i mercati del mondo, compresi quelli degli USA. E le preoccupazioni per gli OGM, i diritti sociali e del lavoro, le legislazioni ambientali non avrebbero alcuna ragione d'essere, in quanto queste materie non farebbero parte del negoziato.
Neppure l'addetto stampa di una multinazionale del petrolio oggi sarebbe capace di affermare seriamente un tale concentrato di sciocchezze. Per altro clamorosamente messe alla berlina dalle rivelazioni di GreenPeace sulle clausole segrete dei negoziati. Rivelazioni che, accanto alla crescente mobilitazione della opinione pubblica, hanno convinto diversi governi europei a mettere un freno ai negoziati.
Per altro le affermazioni del ministro risultano ancora più ridicole di fronte a ciò che si è sempre saputo essere il cuore del TTIP, cioè quella clausola di arbitrato che sottrarrebbe gli investimenti esteri alle legislazioni nazionali. Per il ministro Calenda tali clausole sarebbero utilizzabili meglio e con più risultati dalle Formaggerie Prealpine, piuttosto che dalla Monsanto. Neppure quando hanno istituito l'Euro, vantandone tutti i magnifici guadagni che ne avrebbe ricevuto l'Italia, i suoi sostenitori si erano spinti a tanto.
Ma ora c'è il rischio che tutto questo sia messo in discussione, lancia l'allarme Calenda, anche perché negli Stati Uniti le amministrazioni pubbliche intendono continuare a privilegiare le aziende del posto in tutti gli appalti. Ma guarda che strano....
Non comprendiamo se il Corriere della Sera condivida il pensiero del ministro in tutto, o in fondo si vergogni un poco della sua sconclusionata rozzezza. Elogi della globalizzazione come quelli che abbiamo letto nell'intervista, oggi farebbe fatica a farli, almeno senza ridere, persino un manager della Banca Morgan.
Ma ciò che dobbiamo purtroppo ricordare è che l'entusiasta fautore del TTIP, che oggi piange sui rischio che esso non si possa realizzare, non è un venditore di obbligazioni che deve convincere un pensionato a dargli i sui risparmi, ma un ministro della Repubblica che vuole convincere il suo paese a mettere in vendita sé stesso.
Sempre più spesso si afferma che Renzi voglia essere il leader di un moderno partito della nazione, e che a questo fine voglia trasformare il PD e smantellare la Costituzione. Ora Calenda chiarisce che quel partito, se si realizzasse ed avesse successo e noi speriamo di no, sarebbe quello della nazione in vendita.

giovedì 26 maggio 2016

Italexit: da vaga ipotesi potrebbe diventare realtà

da wallstreetitalia 



Da ipotesi velleitaria emersa quasi per caso nei sondaggi a realtà. Qualcosa si sta muovendo nella società civile e lo scenario di un’Italia indipendente fuori dall’Ue potrebbe un giorno concretizzarsi. Nel silenzio generale dei grandi media, a Napoli è iniziata una campagna per consentire all’Italia di uscire dalla “gabbia dell’Unione Europea”. Il convegno sociale sull’Italexit tenutosi il 21 maggio è stato convocato e organizzato dalla piattaforma sociale Eurostop con l’obiettivo di iniziare a organizzare proposte concrete su quali alternative offrire alla terza economia dell’area euro in un possibile futuro al di fuori del blocco a 29.
Al dibattito socio economico hanno partecipato diversi economisti (come Ernesto Screpanti dell’Università di Siena e Luciano Vasapollo dell’Università La Sapienza di Roma), organizzazioni sindacali inglesi favorevoli alla Brexit e altri analisti indipendenti. Al termine della tavola rotonda è stata approvata una breve mozione che lancia una mobilitazione di inizio autunno (“No Renzi Day”) una settimana prima del referendum sulla riforma della Costituzione e il sostegno allo Sciopero Generale indetto dai sindacati.
Secondo l’organizzazione di orientamento di sinistra l’appuntamento “è pienamente riuscito” in quanto ha “consentito il dipanarsi di un ricco ed articolato dibattito che ha prodotto sia un avanzamento dell’analisi strutturale dell’Unione Europea e sia l’enuclearsi di proposte e di campagne politiche per iniziare a costruire una alternativa a questa asfissiante costruzione antisociale, antidemocratica, autoritaria e militarista”.
“Il Convegno a Napoli si è reso necessario per concretizzare un momento di discussione e di socializzazione delle esperienze all’indomani della vicenda greca con il successivo cedimento del governo Tsipras alla Troika, dell’esplosione dell’emergenza immigrati ed il suo riverbero nei diversi paesi dell’Unione e del lievitare dei fattori di guerra fuori e dentro lo spazio europeo”.
Se ci si basa sui sondaggi, circa la metà degli italiani vorrebbe potersi esprimere sul futuro dell’Italia all’interno dell’area della moneta unica. Un rilevamento Ipsos Mori risalente ai primi di maggio mostra che il 58% dei cittadini interpellati vorrebbe infatti che fosse indetto un referendum sull’Italexit.
Simile è stato anche l’esito di un sondaggio diffuso da Renato Mannheimer ha evidenziato da parte sua che quasi la metà del campione vorrebbe avere la stessa possibilità dei britannici che il 23 giugno voteranno sulla Brexit. Potersi esprimere, attraverso un referendum, sulla permanenza nell’Unione europea è il chiaro sintomo di un malessere diffuso nei confronti delle istituzioni ed eurocrati Ue, visti come autorità sovranazionali che non vengono però elette direttamente dal popolo e sulle cui decisioni quindi la gente sente di non avere il potere di influire.
Anche se poi solo il 38% voterebbe per separarsi da Bruxelles, gli italiani vorrebbero chiaramente poter esprimere il proprio voto sulle questioni europee. Come diceva il presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln, “la democrazia è il governo del popolo, dal popolo, per il popolo”.
La Germania e le altre principali forze dell’Ue non accettano in realtà di essere subordinate a un’autorità europea sovranazionale, ma cercano semplicemente di trarre i massimi vantaggi e ottenere le condizioni più vantaggiose possibili per il prosperare della propria economia.


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Qui di seguito è riportata la relazione introduttiva del sindacalista Giorgio Cremaschi, ex presidente del Comitato Centrale della Fiom, l’associazione sindacale dei metalmeccanici:
“Sono convinto che in un futuro, speriamo più vicino possibile, ci si chiederà con compassione ed incredulità come sia stato possibile che le decisioni fondamentali del nostro paese, e di molti altri, siano state sottoposte al vaglio ed al giudizio meticoloso di controllori esterni. Come sia stato possibile che un parlamento eletto, seppure con un sistema truffaldino, abbia accettato di rinunciare alla sua sovranità per delegarla ad autorità esterne non elette da nessuno. E soprattutto ci si chiederà come sia stato possibile che le decisioni sul lavoro, sulle pensioni, sulla sanità, sulla scuola, sul sistema produttivo, sulle stesse regole democratiche, siano state prese in funzione del giudizio su di esse da parte di sconosciuti burocrati installati e Bruxelles dalla finanza, dalle banche, dal potere economico multinazionale. Ci si chiederà come sia stato possibile che le generazioni precedenti abbiano rinunciato a decidere sugli aspetti fondamentali della propria vita sociale, economica e politica, accettando il potere quasi assoluto di una entità astratta chiamata Europa. Entità astratta dietro la quale si sono nascosti gli interessi concreti delle élites economiche, delle classi più ricche e delle caste politiche e burocratiche di tutti paesi del continente. Tutte queste élites non avrebbero mai avuto la forza di imporre paese per paese, ognuna direttamente contro il proprio popolo, quella drammatica distruzione delle conquiste sociali e democratiche che oggi stiamo vivendo. Da sole non ce l’avrebbero fatta a smantellare la più importante conquista dei popoli del continente, il patrimonio storico politico che l’Europa avrebbe dovuto accrescere e contribuire ad estendere in tutto il mondo: lo stato sociale. Un sistema che assegna diritti sociali, lavoro e reddito, casa, istruzione, salute, pensione, vita dignitosa e sicura, un sistema che assegna questi diritti alle persone per il solo fatto di essere cittadini dello stato. Oggi pare che anche questi diritti sociali fondamentali debbano essere conseguiti secondo il merito. Questa parola falsa ed ingannatrice, gran parte di coloro che la proclamano come nuova guida della società non meritano di stare là dove stanno, questa parola, merito, ha sostituito la parola diritto nella ideologia di regime. In fondo ci si deve meritare di vivere.
Lo stato sociale era stato sancito dalle costituzioni antifasciste del dopoguerra. Quelle costituzioni che, come la nostra, si erano date l’obiettivo non della semplice eguaglianza giuridica contenuto nei vecchi statuti liberali, ma quello della eguaglianza sociale. Eguaglianza da perseguire prima di tutto attraverso il potere pubblico, e poi con l’azione sociale diretta delle classi subalterne e dei popoli, che veniva costituzionalmente protetta. Questo sistema costituzionale non poteva piacere alla finanza internazionale. Nel 2013 la Banca Morgan aveva affermato in un suo documento ufficiale che le costituzioni antifasciste, con la loro marcata impronta sociale, erano un ostacolo verso il pieno dispiegarsi della controriforma liberista. Bisognava abbatterle e a questo è servito il nuovo mantra della politica senza alternative: lo vuole l’Europa!
La giustificazione lo vuole l’Europa, dietro la quale sono passate le peggiori sopraffazioni e ingiustizie sociali, ha quasi sostituito quella precedentemente abusata: lo vuole il mercato. Evidentemente quest’ultima era considerata non in grado di reggere. Un puro principio di interesse economico si logora, se non corrisponde agli interessi reali o confligge con essi . Il richiamo al mercato non bastava più, occorreva quindi una immagine più forte che in qualche modo comunicasse dei valori extra economici. Gramsci ha ben spiegato come il capitalismo abbia sempre bisogno di valori esterni alla pura logica del mercato , per giustificare la più feroce ricerca del massimo profitto.
Nel Medio Evo era con Deus vult, Dio lo vuole, che si giustificavano le sopraffazioni del potere. Laicamente ora si afferma che lo vuole l’Europa, ma i fini sono gli stessi che in quell’epoca apparentemente lontana.
Dietro il mito dell’Europa, dietro il messaggio nazionalista continentale che dovrebbe assorbire i nazionalismi di ogni singolo paese con l’orgoglio di essere sudditi di una superpotenza, sta un sistema di potere burocratico imperiale.
Questa è la realtà della Unione Europea, che è prima di tutto un sistema politico di potere sovranazionale progettato per distruggere le resistenze sociali e democratiche dei diversi paesi che ne fanno parte. Non c’è sciocchezza ideologica più fuorviante dell’affermazione secondo la quale il limite del progetto europeo è che esso sia solo economico e non politico. È vero sostanzialmente il contrario. Il sistema europeo è un sistema politico, costruito per agevolare il dominio dei mercati sulle nostre vite e per affermare il liberismo estremo nelle relazioni economiche e sociali. La costituzione della Unione Europea, i trattati e i patti che la istituiscono e governano, da quello di Maastricht al fiscal compact, disegnano una architettura rigorosa di un sistema di potere con scopi chiarissimi. L’articolo uno della costituzione della Unione Europea, se paragonato a quello equivalente di quella italiana, potrebbe così essere letto:
“L’Unione Europea è una oligarchia fondata sul mercato, la sovranità appartiene al potere economico e finanziario che la esercita secondo le regole della competitività e del massimo profitto.”
Questo è il vero primo articolo della costituzione europea; chi esaminasse attentamente i trattati, le loro regole i loro poteri lo troverebbe rigorosamente e coerentemente applicato. Poi, naturalmente, ci sono le coperture di facciata e qui si spreca il ricorso a quei diritti dell’uomo sul cui uso sfacciatamente ipocrita Karl Marx aveva speso il suo migliore sarcasmo.
A dire la verità oggi anche questa copertura è notevolmente a rischio. Il comportamento della ricchissima Unione Europea nei confronti di rifugiati e migranti calpesta non solo i fondamentali diritti umani, ma persino elementari regole di solidarietà. La compravendita di persone con la Turchia finanziata da miliardi di euro, di più di quelli che si negano alla Grecia, è stata decisa dai governanti democristiani e socialisti della Unione Europa e non da LePen o Salvini. La costruzione a tappeto di Hotspot, solito uso dell’inglese per coprire porcherie, cioè di campi di concentramento persino in mare per migranti, è stata sempre opera degli stessi. I muri li costruiscono tutti i governi senza distinzione di appartenenza politica. La civilissima Danimarca impone il pizzo di stato sui beni personali dei migranti, come scafisti che si facessero consegnare gli orologi e gli anelli prima di imbarcare. L’altrettanto civilissima Svezia ha programmato il rimpatrio forzato di decine di migliaia di migranti. Rimpatrio dove, a Mosul in mano all’ IS? Nelle pianure afghane? Sulle coste della Libia? Nei campi di concentramento turchi?
L’Unione Europea ha concordato con il governo Cameron, per fargli vincere il referendum e respingere la Brexit, misure restrittive per i migranti. Non solo per quelli extracomunitari, ma anche per gli stessi cittadini della Unione. Gli italiani che andranno a lavorare in Gran Bretagna non godranno degli stessi diritti sociali dei lavoratori britannici, saranno un po’ come i nostri gastarbeiter nella Germania Occidentale degli anni 50 del secolo scorso. Altro che cittadinanza europea!
Il governo europeo non può che assumere queste misure feroci contro i migranti, perché esse servono a giustificare la ferocia quotidiana verso i propri cittadini. Se si perseguono la disoccupazione di massa e la distruzione dello stato sociale, si deve necessariamente alimentare la convinzione di massa che siamo già in troppi per accogliere altri. Se in Europa ci fossero piena occupazione e eguaglianza sociale, non ci sarebbero grosse difficoltà ad aggiungere posti a tavola in mezzo a 500 milioni di abitanti. Ma quando la vita quotidiana viene minacciata dalla precarietà e dalla disoccupazione e di massa e quando i diritti sociali fondamentali sono negati a milioni di persone, il migrante viene visto come colui che viene a contendere il pane e l’elemosina del povero. Claudio Magris ha scritto che non si possono accogliere tutti, che anche un ospedale deve chiudere ad un certo punto gli accessi. Ha dimenticato che dire che gli ospedali pubblici chiudono e riducono i posti ed i servizi per le politiche di austerità europee, che la Grecia non ha più una sanità pubblica da spartire eventualmente con i migranti.
Sono le politiche di austerità normate dalla costituzione europea che producono e alimentano le guerre tra poveri per diritti sempre più scarsi e aleatori, e che spargono il seme della xenofobia e del razzismo. I partiti reazionari e razzisti sono il prodotto, a volte persino utile come spauracchio, delle politiche di rigore economico da parte dei governanti democristiani e socialisti.È dovere contrastare ovunque i rigurgiti neofascisti e razzisti, ma senza dimenticare che la loro fonte sta nel potere autoritario e liberista di Bruxelles. Se non si taglia la testa al potere che alimenta i tentacoli del razzismo, questi continueranno a riprodursi.
Oggi invece l’Europa pare avere dimenticato le ragioni sociali ed economiche del dilagare del fascismo e poi del nazismo negli anni 30 del secolo scorso. E soprattutto pare avere dimenticato che le costituzioni sociali antifasciste sono nate proprio con lo scopo di estirpare le radici economiche e sociali di quel dilagare. Oggi l’Unione Europea fa la stessa politica economica della Germania democratica di Weimar e sta facendo rinascere gli stessi mostri. Viene il dubbio che di fronte alla ferocia antisociale delle politiche economiche della Unione il comparire delle forze reazionarie non sia proprio inaspettato. Come la storia insegna esse sono sempre il Piano B del capitale.
Cameron ha minacciato i britannici che se voteranno a favore della Brexit saranno responsabili del ritorno della guerra in Europa. Sfacciato. In Europa la guerra c’è già stata con le centinaia di migliaia di vittime della distruzione della Jugoslavia, grazie alle quali l’Unione Europea ha potuto consolidare la sua espansione verso Est. La guerra c’è oggi nella Ucraina dove l’Unione Europea finanzia ed arma il primo governo del continente, che dal 1945 abbia ministri dichiaratamente nazifascisti.
E poi l’Unione Europea, da 25 anni, praticamente dalla sua organizzazione nella forma attuale, partecipa a quella guerra mondiale a pezzi di cui parla Papa Francesco. Una guerra che alimenta il terrorismo mentre proclama combatterlo, una guerra che rischia di di non finire mai perché si alimenta di sé stessa. Quanto a Cameron, egli è direttamente responsabile della catastrofe della Libia, catastrofe che oggi assieme ad Hollande, Obama ed Erdogan tenta di riprodurre in Siria.
L’Unione Europea è sempre più coinvolta nella guerra e negli affari della guerra e sempre di più si identifica con la NATO e la sua politica imperial militare. Se dovesse essere approvato il TTIP, Unione Europea e Stati Uniti sarebbero assieme in una Nato economia dopo quella militare. Eppure a sinistra è più facile dire no al TTIP e anche no alla NATO, piuttosto che affermare il no alla Unione Europea. Come se fosse possibile davvero separare le tre colonne portanti della stessa costruzione.
Oggi l’Unione Europea gestisce e alimenta tre guerre contemporaneamente. Quella militare per difendere ed estendere i propri confini e gli interessi dei propri poteri economici. Quella contro i migranti da usare come moderni iloti o da deportare a seconda delle necessità degli stessi poteri economici. Quella contro i propri popoli, che distrugge lo stato sociale nel nome della competitività e del profitto, naturalmente sempre degli stessi.
La domanda è: come si fa a fermare queste tre guerre senza rovesciare il potere tirannico che le gestisce?
Qui la sinistra in gran parte si ferma, si paralizza. Pare a quel punto che dominino le paure.
Quella che se si rompesse con l’Unione Europea tornerebbe il fascismo nei singoli stati. Ma davvero crediamo che i popoli sarebbero così deboli di fronte ad un potere tirannico locale, non sostenuto da poteri esterni? Davvero si crede che i banchieri e la Troika ci difendano meglio da svolte reazionarie di quanto potremmo fare noi stessi? Se si pensa che in fondo questa Unione Europea ci protegga dal peggio, allora siamo destinati ad esserne schiavi. Il governo greco è lì a testimoniare che la paura di rompere con la dittatura europea porta a subirne tutti i comandi. Si dice che la Grecia fosse troppo piccola per resistere da sola. Questo accusa noi e tutti popoli europei di non aver fatto abbastanza per sostenere quel popolo contro la Troika, ma non assolve la resa del governo Tsipras. C’è sempre l’alternativa di resistere a quella di collaborare con il tuo oppressore. In ogni caso non è vero che il collaborazionismo con la Troika serva a prendere tempo in attesa della grande riforma democratica dell’Europa. Questa riforma non ci sarà mai.
L’altra grande paura dopo quella politica è quella economica, che è persino più forte della prima e ha un suo totem: l’euro. L’euro non è solo una moneta, ha detto il ministro delle finanze della Germania Schauble. L’euro è la politica economica di austerità, se non c’è l’una non c’è l’altro. Il ministro più potente d’Europa ha ragione, è così ma non è ancora tutto. L’euro è anche uno strumento ideologico di consenso. Ai popoli del sud si fa credere di essere eguali ai ricchi popoli del nord perché si possiede la stessa moneta. Anche noi abbiamo il solido marco, si sarebbe detto una volta. La moneta unica alimenta l’autorazzismo dei popoli meridionali, in cui si instilla il terrore di essere ricacciati tra i popoli di pelle scura dell’altra sponda del Mediterraneo, invece che essere ammessi nel consesso di quelli ricchi e virtuosi, biondi e con gli occhi azzurri. A loro volta ai lavoratori e ai popoli del nord, i loro governi impongono di tenere fermi i salari e di non avere pretese sociali eccessive, visto che il loro sistema è ambìto ed invidiato dai popoli del sud. La deflazione salariale in Germania ha permesso al grande capitale di quel paese di far man bassa di mercati ed imprese in tutta Europa. Se i paesi più forti hanno la stessa moneta dei paesi più deboli e tengono pure sotto controllo salari e prestazioni sociali, i paesi più deboli vengono mangiati. È stata così la dollarizzazione dell’economia contro cui si sono ribellati i popoli dell’America Latina. È nazionalismo non voler essere una colonia del grande capitale tedesco? L’euro è un vincolo economico e ideologico costruito apposta per rendere irreversibili le politiche di austerità. E serve a ricattare paesi e persone. Abbiamo visto in Grecia il modo terrorista con cui è stato usato per minacciare un intero popolo. Non avrete più la moneta vera, dovrete tornare al baratto, hanno ricattato. La Grecia è rimasta nell’euro, ma i greci non hanno più euro in tasca per mangiare.
Infine c’è una paura più piccola, ma presentata spesso in maniera piuttosto arrogante. La paura di non essere sufficientemente avanzati ed aperti. Ci si dice che l’Europa è l’Erasmus che unisce gli studenti del continente. Però si dimentica che in nome dell’Europa si sta distruggendo in ogni paese la scuola pubblica. Si esalta la possibilità di viaggiare facilmente e a basso costo e la Ryan Air si è ufficialmente pronunciata contro la Brexit. Eppure se la compagnia low-cost fosse costretta ad applicare ai suoi dipendenti un vero contratto nazionale non sarebbe poi una disgrazia.
Bisogna rompere con le paure se si vuole rompere la gabbia del sistema di potere europeo.
Certo, sarebbe meglio se in tutta Europa contemporaneamente scoppiasse la rivoluzione socialista. Allora il sistema di potere dell’Unione verrebbe travolto da tutti i lati. Ma francamente non possiamo aspettare una mitica ora x. Oggi è in piazza il popolo francese contro il Jobsact di Hollande, mentre incredibilmente quello greco continua a lottare.Tutto questo segna anche una condanna senza appello per la pavidità eIl collaborazionismo di CGILCISLUIL qui da noi. Le resistenze all’oppressione sono sempre nazionali e proprio partendo da questa loro dimensione parlano a tutti e diventano internazionali. Il primo popolo che si riappropri della propria sovranità democratica diventerà esempio da emulare in fretta per tutti gli altri. Ci sarà il contagio.
La rottura che noi proponiamo parte dunque da una dimensione nazionale, e si proietta subito in un dimensione di solidarietà internazionalista e cooperazione tra tutti i popoli che fanno e faranno la stessa scelta. Ciò che va abbattuto è Il superstato imperiale europeo che schiaccia democrazia e diritti sociali nel nome del mercato. Questo è l’avversario non riformabile.
Si deve abbattere il superstato Europeo non nel nome della efficienza economica, come vaneggia una certa destra, ma nel nome della democrazia. Si tratta di riconquistare il potere democratico di decidere sulle politiche economiche e sociali, e di avere gli strumenti reali per realizzare quelle scelte. Per questo, mentre è possibile che l’Unione Europea sia governata sempre più a destra, basta conoscere la legge antisciopero dell’europeista Cameron e come essa piaccia alla Commissione Europea, mentre questa svolta a destra della Unione è possibile e in corso, non è credibile un’uscita da destra da essa.
Uscire da UE ed Euro significa e richiede adottare misure di stampo socialista, sicuramente di rottura con i vincoli del mercato globale. Le prime sono il controllo rigido del mercato dei capitali, la lotta alla evasione fiscale dei ricchi, la nazionalizzazione della banca centrale e delle principali banche. Questo fa saltare l’euro. Perché una banca centrale che la smetta di ricorrere ai mercati finanziari e stampi moneta per le attività pubbliche e l’economia, così era in Italia fino al 1981, una banca centrale di stato che riprenda a sostenere il paese, questa banca è incompatibile con il sistema Euro.
Si rompe con UE ed Euro per fare una politica economica d’assalto contro la disoccupazione di massa, per far crescere salari e redditi, per colpire le diseguaglianze sociali, per difendere l’ambiente dalla devastazione delle grandi opere.
Si rompe con la UE e l’euro, per affermare i principi della Costituzione del 1948, totalmente incompatibili con i principi e le regole della costituzione europea. Lo può fare la destra questo? No.
In America Latina è in atto uno scontro terribile tra la spinta golpista e restauratrice dell’imperialismo USA, alleato con le caste corrotte e la borghesia compradora di quei paesi, ed il fronte sociale e politico che ha guidato, anche con grandi contraddizioni, il cambiamento progressista di tutto quel continente in questi due decenni. Lì le cose sono chiarissime, la destra rivuole le dollarizzazione dell’economia e il ritorno del liberismo selvaggio guidato dalle multinazionali USA, le sinistra, più o meno radicalmente, una economia governata dallo stato democratico che abbia come obiettivo l’eguaglianza sociale. Sono nazionalisti e assieme internazionalisti i popoli e le forze che seguono questa via.
In Europa la destra ha fintamente occupato lo spazio della contestazione al potere oligarchico europeo perché la sinistra neoliberale si è ritirata da esso così come si è ritirata dal popolo, anzi in molti casi essa è stata semplicemente cooptata in quella oligarchia. Renzi, Hollande, Gabriel non sono compagni che sbagliano, sono avversari. Dopo la resa di Tsipras è chiaro che sinistra europeista diventa un ossimoro politico. Se si vuole restare europeisti si deve rinunciare ad essere sinistra sociale, popolare, di classe. Se invece si vuole restare questo tipo di sinistra, si deve rinunciare ad essere europeisti.
Ogni volta che una lotta o un movimento sociale o politico acquisiscono la dimensione e la forza per confrontarsi con il sistema di potere, questi reagisce minacciando in nome dell’Europa. A questo punto finora abbiamo visto solo giustificazioni ed arretramenti che alla fine hanno indebolito o addirittura portato alla sconfitta quel movimento, quella lotta.
È giunto il momento di cambiare registro. Di fronte a quella minaccia si deve avere la forza di rispondere: che l’Europa vada al diavolo.
Un’altra Europa è possibile solo rovesciando l’attuale sistema di potere europeo, solo rivendicando la rottura con la UE, l’euro e naturalmente con la NATO. Questa è la inevitabile la conclusione politica dei percorsi dei movimenti sociali e politici radicali che non vogliano fermarsi.
Per questo oggi ci dobbiamo schierare senza paura a sostegno della Brexit, se il popolo britannico votasse SI ad essa aprirebbe uno squarcio di speranza per tutti noi. Se invece dovesse vincere il No il potere imperial finanziario europeo, che sta spendendo tutte le sue minacce contro la scelta di rottura, ne uscirebbe rinfrancato ed incattivito contro tutti i popoli. Brexit oggi per Italexit domani, non dobbiamo avere paura di questa parola. Molti sondaggi dicono che la parola Italexit stia diventando popolare, un sentimento, di massa. Oggi questo sentimento non ha dalla sua un vero progetto politico. Ora questo progetto va costruito. Dobbiamo fare il passo decisivo di scegliere la rottura e non discutere più sul se, ma solo sul come realizzarla. La rottura è prima di tutto una scelta politica per la democrazia e l’eguaglianza sociale, per riprendere la marcia interrotta verso il socialismo; parola scomparsa dal lessico della sinistra europea, mentre paradossalmente viene assunta da un candidato alle primarie presidenziali USA.
Il Mezzogiorno d’Italia con la crisi e le politiche di austerità europee è stato già ridotto in molte sue aree a condizioni eguali o peggiori di quelle della Grecia. E in questa devastazione prosperano le mafie. Siamo qui perché pensiamo che i tanti segnali di lotta e ribellione che vengono da queste terre e da queste città, possano crescere fino a diventare l’elemento portante di un blocco sociale e politico alternativo a quello dominante. Siamo qui a Napoli perché qui c’e una realtà sociale politica che pur tra enormi difficoltà è giunta al punto di rottura con il sistema di potere del PD. Ad essa, come a tutte e tutti coloro che oggi lottano per il lavoro e il reddito, per l’ambiente, per i diritti sociali, per la democrazia, è rivolta la proposta di scegliere esplicitamente la rottura con la UE e l’Euro.
Con questa posizione partecipiamo come Eurostop alla campagna per il No nel referendum sulla controriforma della Costituzione voluta da Renzi. Siamo parte di un fronte molto vasto e anche ovviamente contraddittorio, come necessariamente deve essere per un referendum costituzionale. Proprio per questo però dobbiamo affermare che quella controriforma è la realizzazione del progetto, europeo e della finanza internazionale, di distruggere nel nostro paese la resistenza costituzionale al liberismo. La controriforma della Costituzione, assieme al Jobsact, alla legge Fornero, alle privatizzazioni, alla distruzione della scuola e dei servizi pubblici, sono state offerte da Renzi e Padoan al tavolo europeo come pegni sacrificali, in cambio di qualche miliardo di flessibilità sui bilanci per finanziare le mance da distribuire nelle campagne elettorali del presidente del consiglio. I burocrati europei hanno apprezzato e forse concesso.
Così quando Renzi affermerà che la sua controriforma la vuole e la sostiene l’Europa, dirà forse per la prima volta una cosa vera. Il fronte del No dovrà essere pronto a rispondere senza impelagarsi nella confusione, noi comunque lo faremo.
Il referendum sulla Costituzione e il più importante appuntamento che abbiamo di fronte, anzi quello decisivo. Ad esso dobbiamo dedicare tutte le nostre forze nei prossimi i mesi. Con la vittoria del No nel nostro paese si aprirà una fase nuova e per la prima volta da anni con possibilità positive. Subito dopo dovremo aggredire la modifica non sottoposta a voto, ma altrettanto grave, dell’articolo 81 della Costituzione che ha imposto il pareggio di bilancio e così costituzionalizzato l’austerità. C’è tutta una lunga china da risalire. Allora Eurostop dovrà lanciare con tutta la forza possibile la proposta dell’Italexit come passo successivo conseguente e necessario.
Ma ora dobbiamo costruire le condizioni di quella vittoria e a tale fine è necessaria la più vasta e diffusa mobilitazione di massa, che faccia uscire la campagna dagli spazi televisivi e che superi la grande disaffezione politica popolare, sulla quale invece conta Renzi per vincere.
Per questo lanciamo la proposta di concludere la mobilitazione di massa con una grande manifestazione a Roma una settimana prima del voto referendario. Una giornata per la Costituzione del 1948 che sia anche un No Renzi Day. Ogni forza democratica a antifascista venga a quella manifestazione con la sua piattaforma, noi andremo con la nostra, ci unirà il rifiuto del regime renziano, espressione ilare della Troika.
Compagne e compagni è ora finirla di piangere e di ripartire”.

sabato 21 maggio 2016

La mia relazione all'Assemblea Eurostop di Napoli per l'Italexit

di Giorgio Cremaschi

Sono convinto che in un futuro, speriamo più vicino possibile, ci si chiederà con compassione ed incredulità come sia stato possibile che le decisioni fondamentali del nostro paese, e di molti altri, siano state sottoposte al vaglio ed al giudizio meticoloso di controllori esterni. Come sia stato possibile che un parlamento eletto, seppure con un sistema truffaldino, abbia accettato di rinunciare alla sua sovranità per delegarla ad autorità esterne non elette da nessuno. E soprattutto ci si chiederà come sia stato possibile che le decisioni sul lavoro, sulle pensioni, sulla sanità, sulla scuola, sul sistema produttivo, sulle stesse regole democratiche, siano state prese in funzione del giudizio su di esse da parte di sconosciuti burocrati installati e Bruxelles dalla finanza, dalle banche, dal potere economico multinazionale. Ci si chiederà come sia stato possibile che le generazioni precedenti abbiano rinunciato a decidere sugli aspetti fondamentali della propria vita sociale, economica e politica, accettando il potere quasi assoluto di una entità astratta chiamata Europa. Entità astratta dietro la quale si sono nascosti gli interessi concreti delle élites economiche, delle classi più ricche e delle caste politiche e burocratiche di tutti paesi del continente. Tutte queste élites non avrebbero mai avuto la forza di imporre paese per paese, ognuna direttamente contro il proprio popolo, quella drammatica distruzione delle conquiste sociali e democratiche che oggi stiamo vivendo. Da sole non ce l'avrebbero fatta a smantellare la più importante conquista dei popoli del continente, il patrimonio storico politico che l'Europa avrebbe dovuto accrescere e contribuire ad estendere in tutto il mondo: lo stato sociale. Un sistema che assegna diritti sociali, lavoro e reddito, casa, istruzione, salute, pensione, vita dignitosa e sicura, un sistema che assegna questi diritti alle persone per il solo fatto di essere cittadini dello stato. Oggi pare che anche questi diritti sociali fondamentali debbano essere conseguiti secondo il merito. Questa parola falsa ed ingannatrice, gran parte di coloro che la proclamano come nuova guida della società non meritano di stare là dove stanno, questa parola, merito, ha sostituito la parola diritto nella ideologia di regime. In fondo ci si deve meritare di vivere.
Lo stato sociale era stato sancito dalle costituzioni antifasciste del dopoguerra. Quelle costituzioni che, come la nostra, si erano date l'obiettivo non della semplice eguaglianza giuridica contenuto nei vecchi statuti liberali, ma quello della eguaglianza sociale. Eguaglianza da perseguire prima di tutto attraverso il potere pubblico, e poi con l'azione sociale diretta delle classi subalterne e dei popoli, che veniva costituzionalmente protetta. Questo sistema costituzionale non poteva piacere alla finanza internazionale. Nel 2013 la Banca Morgan aveva affermato in un suo documento ufficiale che le costituzioni antifasciste, con la loro marcata impronta sociale, erano un ostacolo verso il pieno dispiegarsi della controriforma liberista. Bisognava abbatterle e a questo è servito il nuovo mantra della politica senza alternative: lo vuole l'Europa!
La giustificazione lo vuole l'Europa, dietro la quale sono passate le peggiori sopraffazioni e ingiustizie sociali, ha quasi sostituito quella precedentemente abusata: lo vuole il mercato. Evidentemente quest'ultima era considerata non in grado di reggere. Un puro principio di interesse economico si logora, se non corrisponde agli interessi reali o confligge con essi . Il richiamo al mercato non bastava più, occorreva quindi una immagine più forte che in qualche modo comunicasse dei valori extra economici. Gramsci ha ben spiegato come il capitalismo abbia sempre bisogno di valori esterni alla pura logica del mercato , per giustificare la più feroce ricerca del massimo profitto.
Nel Medio Evo era con Deus vult, Dio lo vuole, che si giustificavano le sopraffazioni del potere. Laicamente ora si afferma che lo vuole l'Europa, ma i fini sono gli stessi che in quell'epoca apparentemente lontana.
Dietro il mito dell'Europa, dietro il messaggio nazionalista continentale che dovrebbe assorbire i nazionalismi di ogni singolo paese con l'orgoglio di essere sudditi di una superpotenza, sta un sistema di potere burocratico imperiale.
Questa è la realtà della Unione Europea, che è prima di tutto un sistema politico di potere sovranazionale progettato per distruggere le resistenze sociali e democratiche dei diversi paesi che ne fanno parte. Non c'è sciocchezza ideologica più fuorviante dell'affermazione secondo la quale il limite del progetto europeo è che esso sia solo economico e non politico. È vero sostanzialmente il contrario. Il sistema europeo è un sistema politico, costruito per agevolare il dominio dei mercati sulle nostre vite e per affermare il liberismo estremo nelle relazioni economiche e sociali. La costituzione della Unione Europea, i trattati e i patti che la istituiscono e governano, da quello di Maastricht al fiscal compact, disegnano una architettura rigorosa di un sistema di potere con scopi chiarissimi. L'articolo uno della costituzione della Unione Europea, se paragonato a quello equivalente di quella italiana, potrebbe così essere letto:
"L'Unione Europea è una oligarchia fondata sul mercato, la sovranità appartiene al potere economico e finanziario che la esercita secondo le regole della competitività e del massimo profitto."
Questo è il vero primo articolo della costituzione europea; chi esaminasse attentamente i trattati, le loro regole i loro poteri lo troverebbe rigorosamente e coerentemente applicato. Poi, naturalmente, ci sono le coperture di facciata e qui si spreca il ricorso a quei diritti dell'uomo sul cui uso sfacciatamente ipocrita Karl Marx aveva speso il suo migliore sarcasmo.
A dire la verità oggi anche questa copertura è notevolmente a rischio. Il comportamento della ricchissima Unione Europea nei confronti di rifugiati e migranti calpesta non solo i fondamentali diritti umani, ma persino elementari regole di solidarietà. La compravendita di persone con la Turchia finanziata da miliardi di euro, di più di quelli che si negano alla Grecia, è stata decisa dai governanti democristiani e socialisti della Unione Europa e non da LePen o Salvini. La costruzione a tappeto di Hotspot, solito uso dell'inglese per coprire porcherie, cioè di campi di concentramento persino in mare per migranti, è stata sempre opera degli stessi. I muri li costruiscono tutti i governi senza distinzione di appartenenza politica. La civilissima Danimarca impone il pizzo di stato sui beni personali dei migranti, come scafisti che si facessero consegnare gli orologi e gli anelli prima di imbarcare. L'altrettanto civilissima Svezia ha programmato il rimpatrio forzato di decine di migliaia di migranti. Rimpatrio dove, a Mosul in mano all' IS? Nelle pianure afghane? Sulle coste della Libia? Nei campi di concentramento turchi?
L'Unione Europea ha concordato con il governo Cameron, per fargli vincere il referendum e respingere la Brexit, misure restrittive per i migranti. Non solo per quelli extracomunitari, ma anche per gli stessi cittadini della Unione. Gli italiani che andranno a lavorare in Gran Bretagna non godranno degli stessi diritti sociali dei lavoratori britannici, saranno un po' come i nostri gastarbeiter nella Germania Occidentale degli anni 50 del secolo scorso. Altro che cittadinanza europea!
Il governo europeo non può che assumere queste misure feroci contro i migranti, perché esse servono a giustificare la ferocia quotidiana verso i propri cittadini. Se si perseguono la disoccupazione di massa e la distruzione dello stato sociale, si deve necessariamente alimentare la convinzione di massa che siamo già in troppi per accogliere altri. Se in Europa ci fossero piena occupazione e eguaglianza sociale, non ci sarebbero grosse difficoltà ad aggiungere posti a tavola in mezzo a 500 milioni di abitanti. Ma quando la vita quotidiana viene minacciata dalla precarietà e dalla disoccupazione e di massa e quando i diritti sociali fondamentali sono negati a milioni di persone, il migrante viene visto come colui che viene a contendere il pane e l'elemosina del povero. Claudio Magris ha scritto che non si possono accogliere tutti, che anche un ospedale deve chiudere ad un certo punto gli accessi. Ha dimenticato che dire che gli ospedali pubblici chiudono e riducono i posti ed i servizi per le politiche di austerità europee, che la Grecia non ha più una sanità pubblica da spartire eventualmente con i migranti.
Sono le politiche di austerità normate dalla costituzione europea che producono e alimentano le guerre tra poveri per diritti sempre più scarsi e aleatori, e che spargono il seme della xenofobia e del razzismo. I partiti reazionari e razzisti sono il prodotto, a volte persino utile come spauracchio, delle politiche di rigore economico da parte dei governanti democristiani e socialisti.È dovere contrastare ovunque i rigurgiti neofascisti e razzisti, ma senza dimenticare che la loro fonte sta nel potere autoritario e liberista di Bruxelles. Se non si taglia la testa al potere che alimenta i tentacoli del razzismo, questi continueranno a riprodursi.
Oggi invece l'Europa pare avere dimenticato le ragioni sociali ed economiche del dilagare del fascismo e poi del nazismo negli anni 30 del secolo scorso. E soprattutto pare avere dimenticato che le costituzioni sociali antifasciste sono nate proprio con lo scopo di estirpare le radici economiche e sociali di quel dilagare. Oggi l'Unione Europea fa la stessa politica economica della Germania democratica di Weimar e sta facendo rinascere gli stessi mostri. Viene il dubbio che di fronte alla ferocia antisociale delle politiche economiche della Unione il comparire delle forze reazionarie non sia proprio inaspettato. Come la storia insegna esse sono sempre il Piano B del capitale.
Cameron ha minacciato i britannici che se voteranno a favore della Brexit saranno responsabili del ritorno della guerra in Europa. Sfacciato. In Europa la guerra c'è già stata con le centinaia di migliaia di vittime della distruzione della Jugoslavia, grazie alle quali l'Unione Europea ha potuto consolidare la sua espansione verso Est. La guerra c'è oggi nella Ucraina dove l'Unione Europea finanzia ed arma il primo governo del continente, che dal 1945 abbia ministri dichiaratamente nazifascisti.
E poi l'Unione Europea, da 25 anni, praticamente dalla sua organizzazione nella forma attuale, partecipa a quella guerra mondiale a pezzi di cui parla Papa Francesco. Una guerra che alimenta il terrorismo mentre proclama combatterlo, una guerra che rischia di di non finire mai perché si alimenta di sé stessa. Quanto a Cameron, egli è direttamente responsabile della catastrofe della Libia, catastrofe che oggi assieme ad Hollande, Obama ed Erdogan tenta di riprodurre in Siria.
L'Unione Europea è sempre più coinvolta nella guerra e negli affari della guerra e sempre di più si identifica con la NATO e la sua politica imperial militare. Se dovesse essere approvato il TTIP, Unione Europea e Stati Uniti sarebbero assieme in una Nato economia dopo quella militare. Eppure a sinistra è più facile dire no al TTIP e anche no alla NATO, piuttosto che affermare il no alla Unione Europea. Come se fosse possibile davvero separare le tre colonne portanti della stessa costruzione.
Oggi l'Unione Europea gestisce e alimenta tre guerre contemporaneamente. Quella militare per difendere ed estendere i propri confini e gli interessi dei propri poteri economici. Quella contro i migranti da usare come moderni iloti o da deportare a seconda delle necessità degli stessi poteri economici. Quella contro i propri popoli, che distrugge lo stato sociale nel nome della competitività e del profitto, naturalmente sempre degli stessi.
La domanda è: come si fa a fermare queste tre guerre senza rovesciare il potere tirannico che le gestisce?
Qui la sinistra in gran parte si ferma, si paralizza. Pare a quel punto che dominino le paure.
Quella che se si rompesse con l'Unione Europea tornerebbe il fascismo nei singoli stati. Ma davvero crediamo che i popoli sarebbero così deboli di fronte ad un potere tirannico locale, non sostenuto da poteri esterni? Davvero si crede che i banchieri e la Troika ci difendano meglio da svolte reazionarie di quanto potremmo fare noi stessi? Se si pensa che in fondo questa Unione Europea ci protegga dal peggio, allora siamo destinati ad esserne schiavi. Il governo greco è lì a testimoniare che la paura di rompere con la dittatura europea porta a subirne tutti i comandi. Si dice che la Grecia fosse troppo piccola per resistere da sola. Questo accusa noi e tutti popoli europei di non aver fatto abbastanza per sostenere quel popolo contro la Troika, ma non assolve la resa del governo Tsipras. C'è sempre l'alternativa di resistere a quella di collaborare con il tuo oppressore. In ogni caso non è vero che il collaborazionismo con la Troika serva a prendere tempo in attesa della grande riforma democratica dell'Europa. Questa riforma non ci sarà mai.
L'altra grande paura dopo quella politica è quella economica, che è persino più forte della prima e ha un suo totem: l'euro. L'euro non è solo una moneta, ha detto il ministro delle finanze della Germania Schauble. L'euro è la politica economica di austerità, se non c'è l'una non c'è l'altro. Il ministro più potente d'Europa ha ragione, è così ma non è ancora tutto. L'euro è anche uno strumento ideologico di consenso. Ai popoli del sud si fa credere di essere eguali ai ricchi popoli del nord perché si possiede la stessa moneta. Anche noi abbiamo il solido marco, si sarebbe detto una volta. La moneta unica alimenta l'autorazzismo dei popoli meridionali, in cui si instilla il terrore di essere ricacciati tra i popoli di pelle scura dell'altra sponda del Mediterraneo, invece che essere ammessi nel consesso di quelli ricchi e virtuosi, biondi e con gli occhi azzurri. A loro volta ai lavoratori e ai popoli del nord, i loro governi impongono di tenere fermi i salari e di non avere pretese sociali eccessive, visto che il loro sistema è ambìto ed invidiato dai popoli del sud. La deflazione salariale in Germania ha permesso al grande capitale di quel paese di far man bassa di mercati ed imprese in tutta Europa. Se i paesi più forti hanno la stessa moneta dei paesi più deboli e tengono pure sotto controllo salari e prestazioni sociali, i paesi più deboli vengono mangiati. È stata così la dollarizzazione dell'economia contro cui si sono ribellati i popoli dell'America Latina. È nazionalismo non voler essere una colonia del grande capitale tedesco? L'euro è un vincolo economico e ideologico costruito apposta per rendere irreversibili le politiche di austerità. E serve a ricattare paesi e persone. Abbiamo visto in Grecia il modo terrorista con cui è stato usato per minacciare un intero popolo. Non avrete più la moneta vera, dovrete tornare al baratto, hanno ricattato. La Grecia è rimasta nell'euro, ma i greci non hanno più euro in tasca per mangiare.
Infine c'è una paura più piccola, ma presentata spesso in maniera piuttosto arrogante. La paura di non essere sufficientemente avanzati ed aperti. Ci si dice che l'Europa è l'Erasmus che unisce gli studenti del continente. Però si dimentica che in nome dell'Europa si sta distruggendo in ogni paese la scuola pubblica. Si esalta la possibilità di viaggiare facilmente e a basso costo e la Ryan Air si è ufficialmente pronunciata contro la Brexit. Eppure se la compagnia low-cost fosse costretta ad applicare ai suoi dipendenti un vero contratto nazionale non sarebbe poi una disgrazia.
Bisogna rompere con le paure se si vuole rompere la gabbia del sistema di potere europeo.
Certo, sarebbe meglio se in tutta Europa contemporaneamente scoppiasse la rivoluzione socialista. Allora il sistema di potere dell'Unione verrebbe travolto da tutti i lati. Ma francamente non possiamo aspettare una mitica ora x. Oggi è in piazza il popolo francese contro il Jobsact di Hollande, mentre incredibilmente quello greco continua a lottare.Tutto questo segna anche una condanna senza appello per la pavidità eIl collaborazionismo di CGILCISLUIL qui da noi. Le resistenze all'oppressione sono sempre nazionali e proprio partendo da questa loro dimensione parlano a tutti e diventano internazionali. Il primo popolo che si riappropri della propria sovranità democratica diventerà esempio da emulare in fretta per tutti gli altri. Ci sarà il contagio.
La rottura che noi proponiamo parte dunque da una dimensione nazionale, e si proietta subito in un dimensione di solidarietà internazionalista e cooperazione tra tutti i popoli che fanno e faranno la stessa scelta. Ciò che va abbattuto è Il superstato imperiale europeo che schiaccia democrazia e diritti sociali nel nome del mercato. Questo è l'avversario non riformabile.
Si deve abbattere il superstato Europeo non nel nome della efficienza economica, come vaneggia una certa destra, ma nel nome della democrazia. Si tratta di riconquistare il potere democratico di decidere sulle politiche economiche e sociali, e di avere gli strumenti reali per realizzare quelle scelte. Per questo, mentre è possibile che l'Unione Europea sia governata sempre più a destra, basta conoscere la legge antisciopero dell'europeista Cameron e come essa piaccia alla Commissione Europea, mentre questa svolta a destra della Unione è possibile e in corso, non è credibile un'uscita da destra da essa.
Uscire da UE ed Euro significa e richiede adottare misure di stampo socialista, sicuramente di rottura con i vincoli del mercato globale. Le prime sono il controllo rigido del mercato dei capitali, la lotta alla evasione fiscale dei ricchi, la nazionalizzazione della banca centrale e delle principali banche. Questo fa saltare l'euro. Perché una banca centrale che la smetta di ricorrere ai mercati finanziari e stampi moneta per le attività pubbliche e l'economia, così era in Italia fino al 1981, una banca centrale di stato che riprenda a sostenere il paese, questa banca è incompatibile con il sistema Euro.
Si rompe con UE ed Euro per fare una politica economica d'assalto contro la disoccupazione di massa, per far crescere salari e redditi, per colpire le diseguaglianze sociali, per difendere l'ambiente dalla devastazione delle grandi opere.
Si rompe con la UE e l'euro, per affermare i principi della Costituzione del 1948, totalmente incompatibili con i principi e le regole della costituzione europea. Lo può fare la destra questo? No.
In America Latina è in atto uno scontro terribile tra la spinta golpista e restauratrice dell'imperialismo USA, alleato con le caste corrotte e la borghesia compradora di quei paesi, ed il fronte sociale e politico che ha guidato, anche con grandi contraddizioni, il cambiamento progressista di tutto quel continente in questi due decenni. Lì le cose sono chiarissime, la destra rivuole le dollarizzazione dell'economia e il ritorno del liberismo selvaggio guidato dalle multinazionali USA, le sinistra, più o meno radicalmente, una economia governata dallo stato democratico che abbia come obiettivo l'eguaglianza sociale. Sono nazionalisti e assieme internazionalisti i popoli e le forze che seguono questa via.
In Europa la destra ha fintamente occupato lo spazio della contestazione al potere oligarchico europeo perché la sinistra neoliberale si è ritirata da esso così come si è ritirata dal popolo, anzi in molti casi essa è stata semplicemente cooptata in quella oligarchia. Renzi, Hollande, Gabriel non sono compagni che sbagliano, sono avversari. Dopo la resa di Tsipras è chiaro che sinistra europeista diventa un ossimoro politico. Se si vuole restare europeisti si deve rinunciare ad essere sinistra sociale, popolare, di classe. Se invece si vuole restare questo tipo di sinistra, si deve rinunciare ad essere europeisti.
Ogni volta che una lotta o un movimento sociale o politico acquisiscono la dimensione e la forza per confrontarsi con il sistema di potere, questi reagisce minacciando in nome dell'Europa. A questo punto finora abbiamo visto solo giustificazioni ed arretramenti che alla fine hanno indebolito o addirittura portato alla sconfitta quel movimento, quella lotta.
È giunto il momento di cambiare registro. Di fronte a quella minaccia si deve avere la forza di rispondere: che l'Europa vada al diavolo.
Un'altra Europa è possibile solo rovesciando l'attuale sistema di potere europeo, solo rivendicando la rottura con la UE, l'euro e naturalmente con la NATO. Questa è la inevitabile la conclusione politica dei percorsi dei movimenti sociali e politici radicali che non vogliano fermarsi.
Per questo oggi ci dobbiamo schierare senza paura a sostegno della Brexit, se il popolo britannico votasse SI ad essa aprirebbe uno squarcio di speranza per tutti noi. Se invece dovesse vincere il No il potere imperial finanziario europeo, che sta spendendo tutte le sue minacce contro la scelta di rottura, ne uscirebbe rinfrancato ed incattivito contro tutti i popoli. Brexit oggi per Italexit domani, non dobbiamo avere paura di questa parola. Molti sondaggi dicono che la parola Italexit stia diventando popolare, un sentimento, di massa. Oggi questo sentimento non ha dalla sua un vero progetto politico. Ora questo progetto va costruito. Dobbiamo fare il passo decisivo di scegliere la rottura e non discutere più sul se, ma solo sul come realizzarla. La rottura è prima di tutto una scelta politica per la democrazia e l'eguaglianza sociale, per riprendere la marcia interrotta verso il socialismo; parola scomparsa dal lessico della sinistra europea, mentre paradossalmente viene assunta da un candidato alle primarie presidenziali USA.
Il Mezzogiorno d'Italia con la crisi e le politiche di austerità europee è stato già ridotto in molte sue aree a condizioni eguali o peggiori di quelle della Grecia. E in questa devastazione prosperano le mafie. Siamo qui perché pensiamo che i tanti segnali di lotta e ribellione che vengono da queste terre e da queste città, possano crescere fino a diventare l'elemento portante di un blocco sociale e politico alternativo a quello dominante. Siamo qui a Napoli perché qui c'e una realtà sociale politica che pur tra enormi difficoltà è giunta al punto di rottura con il sistema di potere del PD. Ad essa, come a tutte e tutti coloro che oggi lottano per il lavoro e il reddito, per l'ambiente, per i diritti sociali, per la democrazia, è rivolta la proposta di scegliere esplicitamente la rottura con la UE e l'Euro.
Con questa posizione partecipiamo come Eurostop alla campagna per il No nel referendum sulla controriforma della Costituzione voluta da Renzi. Siamo parte di un fronte molto vasto e anche ovviamente contraddittorio, come necessariamente deve essere per un referendum costituzionale. Proprio per questo però dobbiamo affermare che quella controriforma è la realizzazione del progetto, europeo e della finanza internazionale, di distruggere nel nostro paese la resistenza costituzionale al liberismo. La controriforma della Costituzione, assieme al Jobsact, alla legge Fornero, alle privatizzazioni, alla distruzione della scuola e dei servizi pubblici, sono state offerte da Renzi e Padoan al tavolo europeo come pegni sacrificali, in cambio di qualche miliardo di flessibilità sui bilanci per finanziare le mance da distribuire nelle campagne elettorali del presidente del consiglio. I burocrati europei hanno apprezzato e forse concesso.
Così quando Renzi affermerà che la sua controriforma la vuole e la sostiene l'Europa, dirà forse per la prima volta una cosa vera. Il fronte del No dovrà essere pronto a rispondere senza impelagarsi nella confusione, noi comunque lo faremo.
Il referendum sulla Costituzione e il più importante appuntamento che abbiamo di fronte, anzi quello decisivo. Ad esso dobbiamo dedicare tutte le nostre forze nei prossimi i mesi. Con la vittoria del No nel nostro paese si aprirà una fase nuova e per la prima volta da anni con possibilità positive. Subito dopo dovremo aggredire la modifica non sottoposta a voto, ma altrettanto grave, dell'articolo 81 della Costituzione che ha imposto il pareggio di bilancio e così costituzionalizzato l'austerità. C'è tutta una lunga china da risalire. Allora Eurostop dovrà lanciare con tutta la forza possibile la proposta dell'Italexit come passo successivo conseguente e necessario.
Ma ora dobbiamo costruire le condizioni di quella vittoria e a tale fine è necessaria la più vasta e diffusa mobilitazione di massa, che faccia uscire la campagna dagli spazi televisivi e che superi la grande disaffezione politica popolare, sulla quale invece conta Renzi per vincere.
Per questo lanciamo la proposta di concludere la mobilitazione di massa con una grande manifestazione a Roma una settimana prima del voto referendario. Una giornata per la Costituzione del 1948 che sia anche un No Renzi Day. Ogni forza democratica a antifascista venga a quella manifestazione con la sua piattaforma, noi andremo con la nostra, ci unirà il rifiuto del regime renziano, espressione ilare della Troika.
Compagne e compagni è ora finirla di piangere e di ripartire.

mercoledì 18 maggio 2016

La socialdemocrazia senza i social democratici

di Tonino D’Orazio

Da nessuna parte ormai, nemmeno nel PSE cioè i socialisti europei, vi sono ideologicamente i socialdemocratici, né di programmazione né di organizzazione. Nulla in confronto a quello che abbiamo conosciuto. La crisi non è più ciclica ma esistenziale, è radicata nei profondi cambiamenti culturali e tecnologici che hanno bruciato loro l’erba sotto i piedi. La socialdemocrazia, la convinzione che un partito, in una nazione, e che in gran parte attraverso lo stato, sia in grado di creare un insediamento che favorisca l'interesse del lavoro sul capitale, sta morendo (eufemismo) come pratica politica.
Eppure ovunque le persone sono alla ricerca di nuove risposte e nuovi modi di realizzare la loro umanità comune e condivisa, la partecipazione, fino alla sopravvivenza del pianeta. Un mondo che sia sociale e democratico è più urgente che mai. La democrazia “abbonda”, ma non nella nostra farsa bipartitica (o bipolare al centro) di un sistema all’americana “esportato” nel mondo. Questo spiega la nascita di nuovi partiti e tanti nuovi movimenti on e off-line, e però anche la crescita esponenziale delle destre in Europa. Potente rigurgito nazionalista contro una globalizzazione imposta da banche e oligarchie finanziarie?
Corresponsabilità della socialdemocrazia nella situazione, poiché sappiamo bene che le destre non lotteranno mai contro il neoliberismo, un ceppo infettivo e virulente del capitalismo. Non solo ne fanno parte ma ne saranno i migliori garanti nel futuro, quando ci sarà bisogno di autoritarismo. Ukraina e Turchia docet. Questo lo sanno anche i destroidi della troika di Bruxelles, come ultima carta eventualmente da giocare.
Ma lo sa anche il PSE? Oppure pensa di massacrare i lavoratori e lo stato sociale in tutta Europa, che i loro padri hanno costruito nel sangue, pur di sembrare “moderni” e “riformisti”? Sono i lavoratori che devono votare a destra, passando dalla padella alla brace, per fare ricordare loro che esistono?
Se sta succedendo questo, allora la socialdemocrazia, alcuni dicono già dalla fine del secolo scorso, è in via di forte declino. Con loro tutte le considerazioni, gli ideali e gli acquisiti sociali conquistati nel secolo scorso, quando contavano qualcosa, insieme ai lavoratori che li sostenevano, sono sperperati. Oggi sono in modo particolare loro che li smantellano al posto degli avversari storici. Fanno il lavoro “sporco” che mai i capitalisti avrebbero potuto fare così facilmente. Sporco perché è un lavoro di autoritarismo, di forza, bypassando Parlamenti (ricatto del voto di fiducia, oppure l’art.49.3 del diritto di decisione esclusivo del presidente francese, non a caso, il socialista Hollande per varare il suo Jobs Act), i referendum, i corpi sociali e i sindacati, cioè tutta la struttura democratica e partecipativa di un Paese, alla Napolitano maniera.
I nemici, perché incompatibili con la democrazia, i capitalisti, hanno cercato sistematicamente di sradicare tutte le alternative alla loro visione del libero mercato. Hanno eroso e smantellato tutti i luoghi e gli spazi in cui il bene comune potrebbe mettere radici. La privatizzazione non è stato solo un programma per le imprese, ma sia per le nostre menti, e sia per le nostre identità in quanto consumatori individualistici. Tant’è che riescono a farci comperare le cose che non sapevamo che ci servissero, con i soldi che non abbiamo, in uno spreco infinito di risorse. A sua volta, questo consumo turbo ha un enorme impatto sull'ambiente. Oggi siamo sull'orlo di un cambiamento climatico galoppante. Nel Pacifico già scompaiono alcuni atolli. Ma la fame, la povertà e la disperazione si sta installando in tutta Europa. Le soluzioni, nel passato, sono state le decimazioni per guerra, oggi qualche minaccia, se costruiscono bene l’orco designato, c’è già in giro.
Una società basata sul turbo-consumo rompe ogni legame sociale di solidarietà ed empatia, perché è, per definizione, egoista e competitiva. Il turbo consumismo uccide il bene comune e con esso le antiche speranze ideali, anche dei socialdemocratici al potere, per una società più giusta.
Il che non cambia nulla con la rivoluzione digitale, i social media, il passaggio ad una società in rete che tenta di rivoluzionare il nostro modo di vedere, di pensare e di agire perché viene citato con faciloneria irresponsabile e fatale come: “è la globalizzazione,bellezza!”. Il mondo è diventato plurale, complesso, disperso e diversificato, con più opportunità, probabilmente più ricco di contatti, con informazioni meno pilotate, ma non per questo deve diventare meno umano e barattare solo sfruttamento e massacro di vite. Solo il sociale condiviso e la cooperazione sono umani. Il resto è rapina e sfruttamento.
Di fronte alla drammaticità delle questioni, ci vorrebbe uno scatto rinnovato e forte sulle questioni di vita, di uguaglianza e di benessere, vecchio cavallo di battaglia di idealità socialiste, libertarie e popolari mai sopite. Ma la socialdemocrazia, il PSE, non ha più né la forza, né la capacità e forse nemmeno la voglia. Sta lasciando in mano ad altri, (l’avversario ritenuto troppo spesso “amico”), la sua storia e un pezzo della nostra, del mondo che produce.
Un’altra difficoltà della socialdemocrazia attuale è quella della democrazia stessa. La crisi della democrazia che abbiamo di fronte è quella della democrazia rappresentativa. Sempre più persone non hanno bisogno o non vogliono gli altri a rappresentarli. A costo di non votare più. Possono “fare da sé”. Questo è uno dei motivi per cui stanno emergendo nuove forme dirette e deliberative della democrazia. Nascono sulla sfiducia totale del vulnus democratico del bipolarismo che fa le stesse cose contro il popolo per il bene di pochi.
L'universalità della crisi, anche se i suoi effetti sono irregolari, ci dice che qualcosa di grosso sta accadendo. La crisi si manifesta sotto forma di Pasokificazione in Grecia, di ascesa di Podemos in Spagna e la relativa caduta del PSOE, di profilo basso della SPD in Germania, di debolezza di governo dei socialisti francesi, anche della crisi sociale, e della democrazia liquida nei paesi nordici. Nel Regno Unito la crisi si manifesta prima nel dominio del SNP in Scozia, in sostituzione del partito del lavoro e della sinistra, e poi attraverso la straordinaria ascesa del Corbynismo, l’anno scorso all'interno del Labour, che, insieme con il Bernie Sanders in rivolta negli Stati Uniti parla al fallimento della socialdemocrazia, dei democrat proni e guerrafondai. Ma nessuna di queste rivolte dall'interno è ancora riuscito ad irrompere in modo significativo con un processo democratico essenzialmente sociale e fortemente condiviso. Anche se l'accento è posto maggiormente sui movimenti sociali, la priorità rimane ancora il processo legislativo non ancora nelle loro mani. Per cui anche la sinistra socialdemocrazia è ormai fatalmente compromessa e rischia di promettere ciò che non può.
In quanto al mondo del lavoro, che dovrebbero rappresentare, non riescono a addomesticare il nuovo che avanza, anche nei modi di produzione. Seguono quello che viene chiesto loro dai padroni, semplicemente.
Di questo mondo del lavoro, dove la fusione di diversi filoni di tecnologia sta cambiando del tutto come, dove e anche se lavoriamo. I dati variano da 10 a 46% dei posti di lavoro persi, a secondo dei paesi, a causa della convergenza di intelligenza artificiale, robot, algoritmi avanzati, big data, stampa 3D, e quindi un drammatico cambiamento sta avvenendo nella natura dei mercati del lavoro e della produzione di merci e servizi. A sinistra nessuno gestisce niente. Il partito decisionista del lavoro in Italia è diventato Marchionne e i padroni non lavorano più per il benessere della società (art. 41 della Costituzione: Responsabilità sociale di impresa) ma per loro stessi. Lo sviluppo di nuove (?) idee politiche di trasformazione, come ad esempio una settimana corta di lavoro, e per tutti, un reddito di base e la democratizzazione dei poteri dello stato, tutto questo e altro ancora si potrebbero prestare a una nuova prospettiva sociale, tipicamente loro nel quadro comunque di un capitalismo borghese meno arrogante. I socialdemocratici dovrebbero valutare la qualità post-materiale di questioni di vita e non solo il materiale e la quantità di consumo. Dovrebbero impostare una politica per limitare il tempo di lavoro, di democrazia sul posto di lavoro se non di proprietà, un reddito di base e controlli rigorosi sia sull’inquinamento che sulla de-crescita. La seconda sfida sarebbe quella di un cambiamento radicale in termini di internazionalità. Se il capitalismo è andato al di là della nazione, anche la socialdemocrazia non ha altra scelta che seguire. C’è la necessità di regolare e controllare i mercati, ovunque si fanno danni a persone o al pianeta. Se al PSE fossero diversi potrebbero cominciare dall’Europa. Magari su temi come i salari minimi a livello continentale, o meglio ancora un reddito di base, fondi di solidarietà e aliquote armonizzate d'imposta sulle società e le persone fisiche. Ricondurre la funzione democratica tutta al Parlamento europeo.
Ma di che parlo?
In termini gramsciani classici siamo in un interregno, definito dal fatto che “il vecchio non è ancora morto e il nuovo non è ancora nato”. E’ la sfida della modernità è già persa. In questa fase storica la socialdemocrazia non c’è, e la sinistra nemmeno. Arrancano.

martedì 17 maggio 2016

Noam Chomsky: Brazil's President Dilma Rousseff "Impeached by a Gang of Thieves"

 from democracynow


 As protests continue in Brazil over the Legislature’s vote to suspend President Dilma Rousseff and put her on trial, Noam Chomsky notes that "we have the one leading politician who hasn’t stolen to enrich herself, who’s being impeached by a gang of thieves, who have done so. That does count as a kind of soft coup." Rousseff’s replacement, Brazil’s former vice president, Michel Temer, is a member of the opposition PMDB party who is implicated in Brazil’s massive corruption scandal involving state-owned oil company Petrobras, and has now appointed an all-white male Cabinet charged with implementing corporate-friendly policies.

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AMY GOODMAN: What about what’s happening right now in Brazil, where protests are continuing over the Legislature’s vote to suspend President Dilma Rousseff and put her on trial? Now El Salvador has refused to recognize the new Brazilian government. The Brazilian—the Salvadoran president, Cerén, said Rousseff’s ouster had, quote, "the appearance of a coup d’état." What’s happening there? And what about the difference between—it looked like perhaps Bush saved Latin America simply by not focusing on it, totally wrapped up in Iraq and Afghanistan. It looks like the Obama administration is paying a bit more attention.
NOAM CHOMSKY: Well, I don’t think it’s just a matter of not paying attention. Latin America has, to a significant extent, liberated itself from foreign—meaning mostly U.S.—domination in the past 10 or 15 years. That’s a dramatic development in world affairs. It’s the first time in 500 years. It’s a big change. So the so-called lack of attention is partly the fact that the U.S. is kind of being driven out of the hemisphere, less that it can do. It used to be able to overthrow governments, carry out coups at will and so on. It tries. There have been three—maybe it depends how you count them—coups, coup attempts this century. One in Venezuela in 2002 succeeded for a couple of days, backed by the U.S., overthrown by popular reaction. A second in Haiti, 2004, succeeded. The U.S. and France—Canada helped—kidnapped the president, sent him off to Central Africa, won’t permit his party to run in elections. That was a successful coup. Honduras, under Obama, there was a military coup, overthrew a reformist president. The United States was almost alone in pretty much legitimizing the coup, you know, claiming that the elections under the coup regime were legitimate. Honduras, always a very poor, repressed society, became a total horror chamber. Huge flow of refugees, we throw them back in the border, back to the violence, which we helped create. Paraguay, there was a kind of a semi-coup. What’s happening—also to get rid of a progressive priest who was running the country briefly.
What’s happening in Brazil now is extremely unfortunate in many ways. First of all, there has been a massive level of corruption. Regrettably, the Workers’ Party, Lula’s party, which had a real opportunity to achieve something extremely significant, and did make some considerable positive changes, nevertheless joined the rest—the traditional elite in just wholesale robbery. And that should—that should be punished. On the other hand, what’s happening now, what you quoted from El Salvador, I think, is pretty accurate. It’s a kind of a soft coup. The elite detested the Workers’ Party and is using this opportunity to get rid of the party that won the elections. They’re not waiting for the elections, which they’d probably lose, but they want to get rid of it, exploiting an economic recession, which is serious, and the massive corruption that’s been exposed. But as even The New York Times pointed out, Dilma Rousseff is maybe the one politician who hasn’t—leading politician who hasn’t stolen in order to benefit herself. She’s being charged with manipulations in the budget, which are pretty standard in many countries, taking from one pocket and putting it into another. Maybe it’s a misdeed of some kind, but certainly doesn’t justify impeachment. In fact, she’s—we have the one leading politician who hasn’t stolen to enrich herself, who’s being impeached by a gang of thieves, who have done so. That does count as a kind of soft coup. I think that’s correct.


domenica 15 maggio 2016

Keynes, Draghi, Gollum, e i tassi negativi

 
(...scritto a 30000 piedi, da dove si vede più lontano...)


Come forse starete vedendo, sui media di regime è tutta una scoperta dell’acqua calda. Il Sole 24 Ore, il Corriere, la Stampa, scoprono quello che qui da sempre ci siamo detti: che il surplus tedesco più che dimostrazione di virtù è causa di problemi; che il debito privato, non quello pubblico, è origine della crisi; che curare il debito pubblico con l’austerity trasforma una situazione fisiologica in una patologica. Insomma: tutto quello da cui siamo partiti, parola per parola, viene oggi dato come assodato, come “mainstream”, da persone che spesse volte ci hanno denigrato, singolarmente o collettivamente, per averlo detto quando c’era ancora qualcosa da salvare.

Naturalmente nessuno è disposto a fare per primo l’ultimo passo, vale a dire che siccome solo la crescita potrebbe risolvere i nostri problemi, e siccome l’euro è nemico della crescita, perché la svalutazione interna (taglio dei salari) imposta dalla rigidità del cambio condanna alla deflazione, condizione necessaria per uscire dall’impasse è superare il sogno di una moneta imperiale ed evolvere verso un sistema monetario più flessibile.

Faranno questo ultimo passo quando sarà loro chiesto di farlo.

Noi, intanto, possiamo guardare avanti.

Per rendervi più agevole questo compito, e aiutarvi a perdonare chi con le sue menzogne ha distrutto un paese, vorrei oggi con voi allargare le prospettive, facendovi leggere qui quello che fra un anno leggerete sul Financial Times.

Avrete visto le polemiche fra un certo establishment tedesco e Draghi, accusato di fare politiche troppo espansive, di praticare tassi di interessi troppo bassi. Certo, al creditore tedesco i tassi di interesse troppo bassi danno fastidio, anzi, fanno paura, e questo per due motivi. Il primo è che tassi nulli o negativi compromettono la redditività del sistema bancario. Se le banche devono pagare la Bce quando depositano presso di essa liquidità in eccesso, e al contempo devono pagare i propri clienti affinché questi accettino prestiti (cioè si indebitino), capite bene che fare il banchiere non conviene più molto. Il secondo è che il sistema previdenziale tedesco ha un secondo pilastro basato sulla capitalizzazione. Con tassi di interesse bassi, se non negativi, i fondi non sono in grado di assicurare le prestazioni promesse ai risparmiatori/pensionati. Questa cosa, in un paese dalla demografia non florida, rischia di essere devastante, e, come qui sappiamo da tempo, a livello di istituzioni europee (cioè tedesche) la consapevolezza di queste dinamiche è piena.

Draghi ha risposto una cosa molto giusta: i tassi di interesse sono bassi perché non c'è crescita e la produttività langue. Tradotto: se non crei valore, non puoi distribuirlo né come reddito da lavoro, né come reddito da capitale (interessi). Naturalmente Draghi omette un passaggio, anzi due: il primo è che il valore non si riesce più a crearlo perché con cambi intraeuropei rigidi a una situazione di crisi non si può rispondere che creando disoccupazione (se le imprese del Sud non abbassano i prezzi chiudono, ma per abbassare i prezzi devono tagliare il “costo del lavoro”, e per convincere i lavoratori ad accettare questo passaggio normalmente occorre licenziarne un po’: motivo per il quale ovunque si fanno riforme che precarizzano il lavoro). Il valore si crea lavorando, l’euro impone la disoccupazione come risposta alle crisi, l’euro distrugge valore, e quindi i creditori in euro non devono lamentarsi.

Tanto più che (e questo è il secondo passaggio) le élite tedesche questo sistema lo hanno voluto nel loro interesse, e proprio per tutelare il valore del loro risparmio. La rigidità del cambio intraeuropeo aveva diverse dimensioni (da quella simbolica a quella commerciale a quella politica), ma la più importante era certamente la dimensione finanziaria: il cambio fisso serviva a rendere “credibili” i paesi del Sud, cioè a evitare che in caso di crisi la loro valuta fisiologicamente cedesse, ledendo l’interesse dei creditori. Insomma: il cambio rigido verso il Sud, e sottovalutato per il Nord, è servito al Nord non solo ad accumulare crediti verso il Sud, ma anche e soprattutto a difenderne il valore. L’euro non solo ha causato, come ormai è evidente, gli squilibri intraeuropei, ma è servito anche e soprattutto a difendere la posizione patrimoniale di chi ne aveva beneficiato, il quale ora, però, dato che il gioco si è spinto troppo in là, comincia a patirne anche lui le conseguenze.

Vedete, qui il discorso merita di essere ampliato un po’. Quando si parla di “leggi” economiche lo si fa (o lo si dovrebbe fare) con la consapevolezza che l’economia è una scienza sociale, non una scienza naturale. La legge di gravità non ammette eccezioni ed agisce in modo piuttosto cogente: se all’aereo che mi trasporta si stacca un’ala, è certo che voi questo post non lo leggerete. L’energia potenziale si trasforma in energia cinetica appena le viene consentito di farlo, portando un corpo verso una nuova situazione di equilibrio, mentre gli equilibri economici, come ad esempio quello negli scambi fra paesi, possono essere alterati a lungo da decisioni politiche, che possono trovare consenso, nonostante siano contro la “natura” economica, per diversi e complessi motivi sociali, culturali, antropologici. Solo che poi, alla fine, la razionalità individuale fatalmente deve sottostare alle regolarità empiriche collettive, che immancabilmente frustrano i tentativi individuali di violentare la natura economica.

Vi ricordate la proposta di Keynes a Bretton Woods?

Era una proposta molto razionale: i paesi creditori (cioè detentori di posizioni nette sull’estero positive) avrebbero dovuto pagare, anziché percepire, un interesse sui propri crediti. Una proposta che, come vi ho spiegato in due libri e innumerevoli post, e come meglio di me hanno chiarito Fantacci e Amato, aveva una razionalità economica intrinseca. Lo scambio avviene nell’interesse delle due parti. Il paese esportatore trae beneficio dal fatto che il paese importatore acquisti, e quindi nel momento in cui finanzia quest’ultimo non fa un favore solo a lui: fa un favore anche a se stesso. Dato che la finanza internazionale fa comodo a entrambi, è giusto che entrambi la paghino. Non solo: tesaurizzando i propri crediti internazionali per percepire su di essi un interesse positivo, il paese esportatore esporta anche disoccupazione e deflazione (Draghi rimprovera anche questo ai tedeschi: se il denaro costa poco, dice lui, è perché la Germania risparmia troppo). Se il creditore internazionale pagasse un interesse negativo sui suoi crediti, sarebbe invogliato a spenderli per l’acquisto di merci altrui, favorendo un riequilibrio degli scambi esteri. In tal modo, promuoverebbe la crescita dei paesi più deboli.

Una finanza più equilibrata per un mondo più equilibrato richiede una simmetrica penalizzazione degli squilibri finanziari internazionali.

Questa idea così semplice, purtroppo, non fa comodo a chi sa di essere destinato al ruolo di esportatore, cioè di creditore, il quale quindi naturalmente si oppone. Al tempo di Bretton Woods gli Stati Uniti si opposero alla proposta di Keynes, e oggi, qui da noi, la Germania si oppone a spendere il suo surplus per rianimare il circuito economico europeo.

Vedete però il paradosso? Alla fine l’economia si vendica.

I creditori esteri si sono rifiutati di costruire un sistema in cui, per prevenire gli squilibri, fosse loro chiesto di pagare un tasso di interesse negativo, e ora, a valle della creazione di enormi squilibri, la situazione qual è? Ma semplicemente quella che i creditori hanno disperatamente cercato di evitare: si ritrovano a percepire tassi di interesse nulli o negativi sul loro “tessssoro”. La ZIRP (zero interest rate policy) è l’unica possibilità per tenere insieme un sistema nel quale si sono accumulati squilibri finanziari enormi. Se la si abbandonasse, le posizioni debitorie a fronte del “tesssssoro” diventerebbero insostenibili, e i simpatici Gollum transalpini si troverebbero comunque con un pugno di mosche in mano. Loro se la prendono con Draghi, ma, oggettivamente, Draghi non può fare altro (se non andarsene, cosa che legittimamente non vuole fare).

Spettacolare, no? Keynes, cacciato dalla porta, è rientrato dalla finestra!

Rientrato, ma, aggiungo, non in ottima forma. La differenza fra quello che voleva lui e quello che si sta verificando dovrebbe essere chiara. Lui voleva che i paesi forti, penalizzati da un tasso di interesse negativo sui loro crediti, venissero incentivati a spendere nei paesi deboli. I tassi negativi odierni invece si applicano a tutti: ai forti e ai deboli. Alla fine quindi essi servono per lo più a incentivare i paesi (e in generale gli agenti economici) deboli ad assumere nuovi debiti per rilanciare l’economia. Stiamo trasformando l’Eurozona in un posto in cui la banca ti paga perché tu ti indebiti: è così che è nata la crisi dei subprimes (come saprete), ed è così che stiamo risolvendo la crisi europea. Se il pensionato tedesco si preoccupa non ha torto. Peccato che questo sia il sistema che la Bild gli ha insegnato ad appoggiare politicamente! Tu l’as voulu, Hans Maier...

Quanto sarebbe meglio evolvere verso un sistema monetario maggiormente flessibile, come del resto sta facendo il resto del mondo, e come chiede il chief economist del Fondo Monetario Internazionale? Certo, nelle condizioni attuali ci sarebbe qualche mal di pancia da gestire: chi per tanti anni ha beneficiato del sistema, sarà riluttante a pagare la sua parte del conto, sotto forma di svalutazione dei propri crediti esteri. Succede sempre così: l’economia, alla fine, penalizza chi si è indebitamente avvantaggiato. Ricordate i mutui in ECU? Costavano poco, i tassi erano bassi, la rata era stabile perché eravamo agganciati allo SME... Ma quell’aggancio, che faceva bene al debitore, faceva male ad altri: le imprese esportatrici, ad esempio. Il debitore di questo non era consapevole, e se lo era se ne infischiava. Alla fine il mercato pareggiò i conti: chi aveva pagato tassi bassi si ritrovo una rata alta, e chi aveva accettato tassi alti (indebitandosi in lire) non subì perdite in conto capitale. Il pensionato tedesco che oggi si lamenta è, ahimè, nella stessa situazione, e i suoi mal di pancia li capisco. Ma tanto lì dobbiamo andare a parare, allo smantellamento del sistema, perché, come la storia che vi ho raccontato dimostra, alle leggi dell’economia si può sfuggire per un certo tempo, ma non per sempre. E più il tempo passa, più il contesto politico si degrada, e l’acredine si accumula, rendendo più arduo il componimento pacifico degli squilibri.


(...e naturalmente il componimento pacifico degli squilibri è impedito anche da un'altra cosa, ma inutile insistere: come vi ho detto, quello della menzogna è un problema che si risolverà da sé, come vi avevo preannunciato, e come state vedendo...
 
 

giovedì 12 maggio 2016

Il terrore del Brexit



di Tonino D’Orazio

Non c’entra l’Europa storica dei popoli, della Comunità che la compongono e che vorremmo, ma si tratta solo di pura economia mercantile, come sempre. Tralasciando il terrorismo popolar-nazionale, introdotto da un intervento a gamba tesa di Obama con velate minacce (sicuramente stupide conoscendo l’orgoglio dei britannici verso la ex-colonia); tralasciando anche il “al lupo, al lupo” su una vicinissima terza guerra mondiale, (Cameron: “Europa a rischio di guerra”) che non si sa ancora con chi, ma si può pensare alle ricorrenze secolari con la Germania, essendo l’ultima ancora impressa nella memoria dei più anziani, oppure al solito “blocco economico” (sempre sfociato in guerre) questa volta alla Russia, cosa resta veramente?
A meno che si riferiscono al fatto che due paesi guerrafondai come Israele e gli Emirati arabi hanno appena aderito (4 maggio) all’organizzazione Nato, che sposta sempre più ad est il proprio “impegno” democratico in compagnia di veri e propri stati canaglia.
I britannici, a suo tempo, si erano già opportunamente sganciati dalla predominanza europea €uro-Germania, rimane ora un semplice passo per sganciarsi da una Unione che comunque si sta sfaldando sia nei principi che nella ormai stanziale economia dell’austerità, con in appendice un rigurgito nazifascista impressionante, che inizia a lambire anche il Regno tramite gli euroscettici.
Lo scontro, e non poteva essere da meno, si sviluppa sull’economia e quindi sul futuro del Regno Unito. Sui soldi.
Due recenti valutazioni di economia di Brexit, dal Tesoro e da un nuovo Gruppo che si autodefinisce “economisti per Brexit”, si sono scontrate e arrivano a conclusioni diametralmente opposte, ammettendo in effetti come l’economia non sia una scienza esatta. Cioè abbastanza aleatoria e adattabile in autoconservazione di volta in volta. Molte rivendicazioni vengono pubblicate con previsioni quasi meteorologiche, con sottili differenze che rendono difficile il confronto diretto, per cui gli elettori, ormai confusi, si chiedono a chi credere. Se nemmeno i numeri portano certezza, allora che fare?
Infatti gli economisti utilizzano sofisticati modelli per generare le proiezioni di futuri sviluppi dell'economia. In genere, questi modelli si basano su una serie di ipotesi fisse su ciò che potrebbe accadere in assenza di qualsiasi cambiamento. Vi inseriscono poi, di volta in volta, un elemento per valutare come la modifica potrebbe influenzare l'economia, incrociando successivamente altri elementi ipotetici.
Salvaguardando le debite proporzioni penso sia la stessa tecnica utilizzata dalla cartomante dell’angolo, che ricade successivamente sempre in piedi sulle previsioni anche se sballate.
Lo studio del Tesoro rappresenta il punto di vista del governo. George Osborne, il Cancelliere dello Scacchiere, dice che a lungo termine, (2030), se si lascia l’Unione, una famiglia media ci rimetterebbe circa 7.000€/annui. Il dato rappresenta una serie di stime basate su diversi scenari su come il rapporto commerciale del Regno Unito con l'UE si evolverebbe dopo un Brexit. La proiezione di fondo è che il PIL sarebbe 6,2 per cento più basso di quello attuale, da cui la perdita delle famiglie. Insomma una buona iniezione di paura individuale, tenuto conto del già dimagrimento dei redditi famigliari di questi ultimi 20 anni, (dalla Thatcher e Blair in poi) oltre ovviamente la guerra.
Il Cancelliere è nettamente contraddetto dal nuovo Gruppo di economisti che sostengono che Brexit si tradurrà in un risultato economico migliore che rimanere nell'Unione europea, visti anche i risultati economici positivi dei paesi fuori dall’€uro. Non forniscono lo stesso tipo di dati come quelli del  Cancelliere, ma uno dei suoi membri, Patrick Minford, calcola il 3,5/3,7 % di perdita del PIL in “costi correnti” continuando invece l'adesione all'UE. Essi sottolineano altresì, nel rimaneerci, effetti molto negativi a lungo termine sul PIL del Regno Unito, derivanti da impegni pensionistici a ripartizione in molti Paesi dell'Unione Europea, una volta che i comunitari saranno rientrati nei loro paesi, con la sterlina come moneta forte. Un po’ quello che paventa in prospettiva l’Inps da noi per gli immigrati.
Nell'esercizio del Tesoro, l'obiettivo principale è su come il commercio aumenterà il PIL e parte dal concetto abbastanza fondato che il commercio è sempre più intenso tra paesi geograficamente vicini l'uno all'altro. Cioè che comunque il Regno Unito manterrà il suo accesso ai mercati dei paesi terzi, anche se diminuisce l'accesso diretto alla UE. Il rischio è che vi sia una riduzione degli investimenti esteri diretti nel Regno Unito e una diminuzione della produttività che rallenterebbe la sua crescita e un nuovo concetto ritrovato di dazi. Rischio inesistente invece per il Gruppo, vista la forza mondiale, la ricchezza e le capacità storiche della Borsa di Londra.
Gli otto economisti del Gruppo Brexit valutano una serie di effetti positivi sulle prospettive economiche del Regno Unito, tra cui la deregolamentazione, il regime commerciale, l'immigrazione, la posizione comunque sempre mondialmente preminente della City di Londra e le finanze pubbliche. Gli assunti di base sono che i prezzi scenderanno, a vantaggio dei consumatori, vi sarà un guadagno enorme svincolandosi dalle regolamentazioni UE (-2% in tasse) e vi sarà, inoltre, un guadagno immediato per le finanze pubbliche nel non dover più contribuire al bilancio dell'UE. Ipotesi ritenuta discutibile poiché il bilancio dell’Unione è un dare e un avere, pari per i britannici, se non con qualche beneficio, al contrario degli italiani che ci rimettono miliardi.
Anche sulla eventuale perdita di reddito delle famiglie i dati non concordano, perché se si intende il “procapite”, invece che il “nucleo famigliare”, potrebbe essere di appena 2.000€, sempre considerando il Brexit un peggioramento e non un vantaggio. In quest’ultimo caso il rischio verrebbe annullato e ci sarebbe invece maggiore redistribuzione.
In sintesi, le due relazioni sono solo ipotesi e gli elettori si pongono la domanda se questi presupposti sono credibili o sono un sacco di sciocchezze. E chissà quante ce ne saranno fino al 23 giugno.
Intanto la paura del Brexit si sta estendendo a tutti gli altri paesi dell’Unione, anche se pochi ne parlano per scaramanzia. IPSOS Mori è la più grande società di ricerche politiche e sociali in Gran Bretagna, ed una delle prime al mondo. Dice, per esempio, che sugli effetti traumatici dell' Unione monetaria per l'Italia, quasi in fallimento bancario, Roma determinerà il destino dell'euro. Il sondaggio MORI mostra che il 58% dei francesi vogliono il referendum ed il 41% dicono che voterebbero per lasciare l'U€. Il sentimento Swexit in Svezia è al 39%. la metà degli intervistati nei paesi che compongono l'80% della popolazione europea pensa che il Brexit scatenerebbe un effetto domino; il 51% ha detto che il Brexit avrebbe un impatto negativo sull'economia europea, rispetto al 36% che pensa che sarebbe un male per l'economia della Gran Bretagna.
Non si sa ancora cosa pensa il popolo olandese, dopo che Bruxelles lo prende in giro già per tre referendum.
Ma gli effetti non farebbero che confermare la diaspora e le diatribe profonde attuali, e forse irreversibili visti i partiti nazionalisti alla riscossa, tra i vari paesi che  compongono la stanca, disastrata e dissanguata Unione. E non più solo di soldi si tratta se ormai viene meno la fiducia e la democrazia.

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...