venerdì 31 marzo 2017

Rifondazione addio




“La cosa più terribile è l’ignoranza attiva”. Goethe
Ugo Boghetta
Dopo una lunga militanza, la mia permanenza nel PRC finisce qui. C’è chi mi ha detto che è stato insensato andarsene prima del congresso. È un’obiezione ragionevole ma, prima o poi, bisogna guardare in faccia la realtà. In ogni caso, al massimo sarei arrivato alla prossima, inevitabile “listarella” elettoralistica.
Qusta decisione è stata lunga e sofferta. L’avevo deciso d’impulso al Cpn. Poi mi sono dato tempo: sono passati oltre due mesi. Ma quella sensazione di inutilità di questo congresso e, peggio ancora, di Rifondazione, non mi ha abbandonato.
Del resto, questi anni, dopo il congresso di Perugia, sono stati un continuo tormento, un continuo sforzo per rimanere. Che Rifondazione sia morta l’ho pensato data tempo, come altri che lo pensano ma non lo dicono. Sarebbe stato mecessario un miracolo per provocare una svolta, ma l’approccio al congresso ha dimostrato che Rifondazione è irriformabile.
Le gocce che hanno fatto traboccare il vaso sono molte.
La prima è il documento Ferrero-Fantozzi che omette qualsiasi bilancio del gruppo dirigente uscente. In pochi anni 20/25.000 compagni/e non si sono più tesserati, ma non è un problema!!! Fenomeno che è continuato anche nel 2016: non era mai successo in un anno precongressuale. Nessun bilancio della mezza dozzina di fallimenti dell’unica proposta politica: la sinistra plurale.
La gestione di Ferrero e del suo cerchio è malata di renzismo.
Chi fa così andrebbe preso a calci in culo; invece il 70% del Comitato Politico Nazionale, dei comitati politici federali (il gruppo dirigente largo) lo ha sottoscritto. I culi da prendere a calci sarebbero davvero troppi!
Il documento è così segnato dalla mancanza di una qualsiasi riflessione critica. Lo si vota per un atto di fede, di ignoranza o di stanchezza. Le pricipali motivazioni infatti sono: siamo insufficienti quindio dobbiamo allearci con il resto della sinistra. Prima si indiebolisce il partito, poi si afferma che per la sua debolezza bisogna unirsi con il resto della sinistra. È un comportamento simile a quello dei capitalisti: la cura della crisi è uguale alle cause che l’hanno prodotta! L’altra motivazione è che l’Italia è troppo piccola per uscire dall’Unione. Tutto è un problema di quantità. L’incapacità a costruire una linea politica è palese: è il pensiero che si fa piccolo piccolo. Povero Lenin; e siamo nel centenario!
Il documento, inoltre, sanziona il passaggio da una partito comunista ad uno genericamente di sinistra. La Rifondazione è ufficialmente morta. Il primo a saperlo è Ferrero che cerca di affrettarsi a depositarla data qualche parte prima che si squagli del tutto. Per altro, ha più volte affermato che condivide il 90% dei contenuti con il resto della sinistra. In effetti la cultura largamente maggioritaria nel PRC è il sinistrismo: un impasto di banalità, luoghi comuni, afflati umanitari. Unico impedimento è il simulacro del nome comunista da mantenere per motivi di tenuta interna.
In questo contesto, il comunismo diventa un sentimento, un vago “orizzonte”. Il socialismo del XXI secolo non ha nulla della pregnanza dei movimenti latino-americani: è un belletto. È un’identità debole, quella forte è rappresentata dall’elettoralismo.
Sul piano teorico – la questione dell’abbondanza – sposta defintivamente il PRC nell’economicismo: sviluppo delle forze produttive anziché rapporto fra forze produttive e rapporti sociali di produzione. È l’anticamera del tradimento di qualsiasi ipotesi rivoluzionaria. In merito alla lettura della fase il documento è già vecchio in quanto fa riferimento alla globalizzazione; eppure sono quasi ormai dieci anni che si sta arenando. E non è un caso che non si riesca a fare i conti con Tsipras, Brexit, Trump, Unione e la stessa vittoria dei No al referendum.
Anche l’obiettivo della sinistra plurale è vago perchè questa è sempre più impazzita. La scissione dal PD complica ulteriormente il quadro: l’unità della sinistra è ormai una arma di distrazione di massa. Il problema, infatti, non è se la sinistra deve essere una o plurale, ma che questa sinistra è autoreferenziale, inutile, dannosa: è l’ala sinistra del capitale.
In questo quadro sarebbe stata necessaria una proposta strategica alternativa: vera, complessiva. Senza ci si condanna, soprattutto in una fase di grande turbolenza, alla perpetuazione dell’inefficacia.
Putroppo chi non la pensa così ha deciso di emendare un documento inemendabile. Questo era già stata sperimentato la volta scorsa. Il tatticismo è sempre una rovina.
Una parte del documento 2: Forenza in primis, condivide con Ferrero l’unionismo europeo, la globalizzazione. È espressione del mainstream anarco-negriano. Condivide con Ferrero anche l’unità della sinistra che, però, va fatta dal basso, dai movimenti: Ci mancherebbe!?
In questa melassa scompare il paese in cui viviamo, la nuova fase geopolitica. Non si vedono i nodi vecchi e nuovi: tanto dobbiamo diventare un popolo europeo!?
I nodi politici che condannano il PRC, e non solo, all’irrilevanza sono sempre quelli.
Il primo sta nella necessità di affrontare l’analisi e la lotta a partire dalla propria realtà, dal proprio proletariato, dal proprio paese: base per qualsiasi internazionalismo concreto. Tanto più grave ora che, dopo il 4 dicembre, è emersa la Costituzione come potenziale punto catalizzatore del disagio sociale. Costituzione che necessiterebbe di una battaglia egemonica per strapparla di nuovo dall’oblio e da chi la uccide di nuovo come i D’Alema. L’attuazione della Costituzione comporta però l’uscita dell’Unione, dall’euro, dal liberoscambismo di capitali, merci e persone: un po’ troppo per le anime belle.
Il tema della nazione è uno psicodramma. Abbiamo sostenuto le lotte nazionali di tutto il mondo e di tutti i tempi, ma quella del nostro paese non si può fare!? Così si inventano tutte le fughe lessicali: sovranità popolare (che non significa nulla fuori dalla sovranità nazionale), i popoli (ma quelli veri in genere sono etnie). Parole che però suonano bene alle orecchie delicate della sinistra: sanno di sinistrese. Ovviamente tutti auspicano che l’Unione cambi per un movimento sinergico dei 27 paesi: un’illusione da idioti.
Ovviamente tutti sono per il popolo, i lavoratori ma non si vogliono affrontare temi difficili ma cruciali: la questione sicurezza (reale o presunta che sia), la corruzione, l’immigrazione. Eppure è attraverso questi problemi che gran parte dei lavoratori si sono allontanati dalla sinistra; anzi è la sinistra che si è allontanata da loro. Anche qui non mancano i cortocircuiti. La sicurezza è un tema di destra. La corruzione non basta. Se poi affermi che i giovani emigranti italiani (ora più numerosi degli immigrati) devono poter vivere in Italia è tutto Ok. Se affermi che gli immigrati devono poter rimane nel loro paese: questo è razzismo. Non si riesce a distinguere i migranti (degni di tutto il nostro appaggio) dal fenomeno immigrazione che è un problema da affrontare in termini marxisti: imperialismo, costruzione dell’esercito di riserva, uso politico del fenomeno stesso. Invece della soluzione da perseguire attraverso la lotta democratica e di classe anche nei paesi d’origine, la questione è diventata solo un problema di accoglienza e di coscienza.
Dinnanzi a cambiamenti di fondo, la questione del socialismo dovrebbe essere all’ordine del giorno, invece si rincorre una sinistra obosleta ed interna al sistema! Il nome rimane Rifondazione Comunista ma dentro c’è il vuoto. Come un tempo si diceva del Pci: rossi fuori e bianchi nel cervello.
Come si vede, la linea politica non si costruisce per analisi marxista delle contraddizioni, rapporti di forza, faglie di rottura ma per auspici, desideri, preferenze. È la sinistra benpensante!
Questa, del PRC, è tuttavia un impazzimento che condivide con gran parte della sinistra. E proprio qui sta il punto: le forze organizzate della sinistra in larga parte sono il problema e non la soluzione.
A gran parte del PRC, dei comunisti, della sinistra si potrebbe applicare la famosa definizione di Gramsci della crisi: “… il vecchio muore, il nuovo non nasce”.
Il risultato finale del congreesso è stato il 70% al documento Ferrero, il 30% al documento 2, e, mi dicono, il 7/8% agli emendamenti. Ciò denota un partito bloccato, dove a causa degli abbandoni di massa, il gruppo “dirigente” può continuare a spadroneggiare e a fare anche il magnanimo; ma non ci sarà nussuna dialettica vera.
È questa una situazione che deve interrogare profondamente una parte dei compagni/e che hanno votato il documento 2 e gli emendamenti. Bisogna chiedersi che senso abbia oggi un PRC: apparentmente comunista, politicamente inefficace, organizzativamente al collasso.
Nel percorso congressuale con alcuni compagni si era messa a tema la centralità del riferimento alla grande diaspora comunista e a come riunificarla. Appare definitivamente evidente che non sarà Rifondazione che lo potrà fare; ma si farà finta. Le prossime elezioni porteranno altre sofferenze. La legge elettorale potrebbe comportare anche un’alleanza con D’Alema: non ci sarebbe nulla di illogico.
E non è vero che al di fuori del PRC non c’è nulla.
Certo le difficoltà, le risistenze al cambiamento ci sono ovunque, ma Eurostop e la nascente Confederazione dei gruppi noeuro sono luoghi pubblici di vero confronto e di iniziativa.
Ma, al di là della permanenza o meno nel PRC, si tratta di mettere a tema nuove basi teoriche e politiche dei comunisti senza partito e di quelli i cui partiti vanno molto stretti. E di prospettare una strategia per ritornare ad essere efficaci e popolari.
Ugo

Il gasdotto Tap, il Corriere e una strana idea di democrazia

di Carlo Formenti da Micromega

 Il Corriere del 29 marzo dedica una doppia pagina agli incedenti sulla riviera salentina che hanno visto una dura repressione poliziesca contro alcune centinaia di cittadini (compresi alcuni sindaci dei comuni dell’area) che cercavano di opporsi all’espianto degli ulivi per lasciare posto al cantiere della TAP (Trans Adriatic Pipeline), un gasdotto che dovrebbe portare il gas dalle regioni del mar Caspio al nostro Paese attraverso i Balcani. Non sto a ricostruire tutta la storia del Comitato No Tap e delle lotte che negli ultimi anni hanno contrapposto cittadini salentini, azienda TAP e governo nazionale (da sempre allineato con gli interessi dell’azienda, mentre la Regione Puglia si è schierata con il movimento). A chi volesse approfondire le ragioni (ambientali, economiche e sociali) del No consiglio di visitare il sito del Comitato http://notransadriaticpiperline.blogspot.it. Qui mi limito a commentare il modo in cui il caso viene trattato giornalisticamente.
Cominciamo da un trafiletto firmato dall’ineffabile Pierluigi Battista, dal titolo significativo “Opporsi per ideologia. A che cosa? Poco importa”. Qui vengono riproposte paro paro le tesi che da anni sono utilizzate dai media di regime contro il movimento No Tav: 1) i motivi di opposizione al progetto sono del tutto pretestuosi (mai il minimo accenno ai contributi di scienziati, tecnici ed esperti che, in ambo i casi, dimostrano l’inutilità e la dannosità dei progetti contestati) e servono solo a mascherare l’ideologia dei mestatori antagonisti  che sobillano le popolazioni locali; 2) il progetto contestato è un’opera fondamentale che “porta energia e ricchezza” (leggere cosa pensano e dicono in merito i cittadini interessati); 3) se passasse la logica “nullista” del no generalizzato non avremmo ferrovie, elettricità, case comode, che non sporcano e il cui impatto ambientale “è stato studiato” (soprattutto dagli esperti delle aziende interessate!).
Peccato che tutte queste belle cose nel nostro Meridione non ci siano! Battista dovrebbe farsi un viaggio sulla statale ionica 106 o sulla parallela linea ferroviaria Taranto Reggio Calabria, respirare a pieni polmoni l’aria attorno all’Ilva, o abitare nelle “comode” case della Terra dei fuochi nel Casertano, forse così capirebbe che crescita e sviluppo nel Meridione ridotto a colonia non sono mai arrivati e che qui modernità, sviluppo e tecnologia hanno voluto dire soprattutto devastazione ambientale e degrado sociale e umano. Ma, argomenta Battista, “alla fin fine bisogna arrivare a una conclusione”, e una volta che questa conclusione “democraticamente decisa” è arrivata, ora va rispettata. Democratica come le decisioni di una Ue che risponde solo alle lobby industriali e finanziarie e non ai cittadini europei, o di uno stato italiano che di quelle istituzioni oligarchiche si è fatto mero e servile esecutore? Ma la democrazia non dovrebbe misurarsi e dialogare con la libera volontà e con gli interessi delle comunità che subiscono gli effetti delle scelte che le riguardano?
E l’opposizione della Regione? Il ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, (!?) Gian Luca Galletti, ha le idee chiarissime in proposito: “Ritengo di appartenere a una vecchia scuola di pensiero, secondo la quale un governatore regionale dovrebbe stare in ogni caso (sottolineatura mia) dalla parte dello Stato, pur facendosi carico delle rimostranze dei suoi cittadini”. Effettivamente la sua scuola di pensiero è assai vecchia: risale alle convinzioni degli elitisti del primo Novecento che ritenevano sbagliato consentire ai cittadini di avere voce in capitolo su argomenti “che non possono capire”, ed erano convinti che il ruolo dei funzionari di stato e degli amministratori locali fosse quello di obbedire tacendo ai comandi delle élite di governo.
Infine vediamo convocato – nel taglio basso di una delle due pagine – Guido Vitale, finanziere e membro del cda del Fai (Fondo ambiente italiano). Una curiosa commistione di ruoli rispetto alla quale è lecito dubitare che il cuore lo induca a privilegiare il primo. E infatti liquida con un’alzata di spalle gli argomenti degli ambientalisti e ribadisce (vedi sopra) che “su questioni di interesse nazionale le amministrazioni locali non devono avere poteri di veto”. Del resto, spiega l’intervistatore, Vitale, piemontese ma pugliese di adozione, conosce bene i problemi della regione visto che “ogni anno apre le porte della sua sontuosa dimora in valle d’Itria a imprenditori e banchieri”…

giovedì 30 marzo 2017

Perché la Brexit è la scelta migliore per il Regno Unito: una prospettiva di sinistra

Alan Johnson spiega sul New York Times perché la sinistra dovrebbe rallegrarsi della Brexit. L’abbandono dell’Unione Europea non è un’occasione per isolarsi dal mondo, bensì la decisione necessaria per rifiutare l’ideologia liberista di cui l’UE è impregnata. Gli inglesi hanno rifiutato il modello UE, fondato sulla subordinazione delle istituzioni democratiche e del benessere delle persone al capriccio delle élite e allo sfruttamento delle classi subalterne da parte di chi ne ha i mezzi. L’unico ambiente adatto per ripristinare la socialdemocrazia sono gli stati-nazione, in cui dovrà essere ridefinito il popolo – demos – non tanto in contrapposizione alle altre nazionalità, ma in contrapposizione alle élite neoliberiste predatrici.

di Alan Johnson da Vocidallestero


Londra — Mercoledì  il Primo Ministro del Regno Unito, Theresa May, manderà una lettera al Presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, per informarlo che, dopo 44 anni di appartenenza, il Regno Unito lascerà l’Unione Europea. Tra circa due anni, al termine delle negoziazioni sui termini dell’uscita, l’Unione perderà in un solo colpo “un ottavo della sua popolazione, un sesto del PIL, metà dell’arsenale militare e un seggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”, come ha fatto notare recentemente Susan Watkins, editrice della New Left Review.
La Watkins è una “Lexiteer”, ossia una sostenitrice di sinistra della “Brexit”, come me. Non siamo stati una forza significativa tra il 52% dei britannici che hanno votato a favore dell’uscita nel referendum del 23 giugno. Ma abbiamo avuto una certa influenza. I Lexiteers – un contrappeso a coloro che cavalcavano le paure anti-immigrazione come l’ex leader di destra dell’UKIP, Nigel Farage – sostengono la Brexit da un punto di vista democratico, internazionalista e di sinistra. Questa posizione è stata espressa perfettamente da Perry Anderson, l’ex editore di vecchia data della New Left Review:  “L’UE è ormai largamente vista per quello che è diventata: una struttura oligarchica, piena di corruzione, costruita sulla negazione di ogni tipo di sovranità popolare, sull’applicazione di un duro regime economico di privilegi per pochi e sacrifici per molti”.
Nonostante i Lexiteer non abbiano alcuna simpatia per il nichilismo nazionale degli “uomini di Davos”, ossia l’élite globalista, non siamo degli xenofobi. Abbiamo votato “Leave” perché crediamo che si essenziale preservare le due cose a cui crediamo di più: un sistema politico democratico e una società social-democratica. Temiamo che il progetto autoritario dell’Unione Europea di integrazione neoliberista sia il terreno di cultura dell’estrema destra. Sottraendo al processo democratico così tante decisioni politiche, inclusa l’imposizione di misure di austerità a lungo termine e di immigrazione di massa, l’unione ha rotto il patto tra i politici nazionali mainstream e i loro elettori. Questa situazione ha aperto le porte ai populisti di destra che ritengono di rappresentare “il popolo”, già arrabbiato a causa dell’austerità, contro gli immigrati.
È stato l’economista liberista Friedrich Hayek, l’architetto intellettuale del neoliberalismo, che nel 1939 invocava un “federalismo interstatale” in Europa per evitare che gli elettori potessero utilizzare la democrazia per interferire con le operazioni del libero mercato. In altre parole, come ha detto il Presidente della Commissione Europea (l’organo esecutivo dell’unione), Jean-Claude Juncker:  “Non ci possono essere decisioni democratiche che si oppongono ai Trattati Europei”.
Le istituzioni e i trattati dell’unione sono stati progettati di conseguenza. La Commissione Europea viene nominata, non eletta, ed è orgogliosamente libera da ogni responsabilità nei confronti degli elettori. “Non cambiamo le nostre decisioni a seconda di come vanno le elezioni ” così il vice presidente della Commissione Jyrki Katainen ha commentato la vittoria del partito anti-austerità Syriza, in Grecia, nel 2015.
Il Parlamento Europeo non è un vero Parlamento. Non ha vero potere legislativo; i suoi delegati non elaborano programmi politici  né portano avanti idee che propongono agli elettori. Le elezioni, tenute in collegi elettorali assurdamente estesi, con affluenze pietosamente basse, non cambiano nulla. Come ha detto un membro dello staff parlamentare a un Seminario per la Ricerca Europea alla London School of Economics: “Le uniche persone che ascoltano i Parlamentari Europei sono gli interpreti”.
Il Consiglio Europeo, un organo intergovernativo dove risiede il vero potere legislativo, specialmente se pensiamo alla tedesca Angela Merkel, è formato dai Capi di Stato dei vari Stati membri, che normalmente si incontrano quattro volte all’anno. Non sono eletti direttamente dagli abitanti delle Nazioni che governano. Se poi parliamo del principio di “sussidiarietà” dell’Unione, una presunta preferenza per il governo decentrato, esso viene ignorato in tutte le questioni pratiche.
I desideri dell’elettorato vengono regolarmente ignorati. Quando, nel 2005, la proposta di una Costituzione Europea è stata rigettata dagli elettori di Francia e Olanda (la maggior parte dei Governi non ha nemmeno permesso che avvenisse un voto popolare), questo fatto non ha cambiato niente per i sostenitori del Progetto Europeo. Con qualche cambiamento cosmetico, la Costituzione è stata comunque imposta; solo che è stata ridenominata Trattato di Lisbona (l’Irlanda, unico stato a consentire un referendum sul Trattato, votò contro. Di conseguenza fu chiesto agli irlandesi di rivotare, finché non avessero votato nella maniera giusta. Questa è la democrazia secondo l’Unione Europea).
A prescindere da cosa avrebbe potuto essere l’Unione, sin dagli anni ’80 essa ha integrato nel suo progetto l’economia neoliberista Nel farlo, si è trasformata in quello che il sociologo tedesco Wolfgang Streeck ha definitoun potente motore di liberalizzazione a servizio di una profonda ristrutturazione della vita sociale in senso prettamente economicista”. La combinazione di mercato unico, Trattato di Maastricht, moneta unica e Patto di Stabilità e Crescita ha imposto politiche di deregolamentazione, privatizzazione, regole contro il lavoro, regimi di tassazione regressivi, tagli al welfare e finanziarizzazione, e le hanno poste al di sopra della volontà dei popoli.
Occorre notare che gli strumenti economici Keynesiani, su cui poggia la socialdemocrazia, sono ora illegali in Europa, e perfino The Economist ne è nauseato, e ha scritto che queste regole “sembrano molto poco raccomandabili politicamente”. Per quanto riguarda l’accordo di scambio tra Unione Europea e USA, il TTIP, sembra di vedere le fantasie di Hayek prendere vita, dato che potenzialmente esso consente alle multinazionali di far causa ai governi democraticamente eletti se questi osano ascoltare quanto gli chiedono di fare gli elettori.
Un’altra istituzione chiave dell’unione neoliberale è la Banca Centrale Europea. I governatori della banca, persone non elette e che non devono rispondere a nessuno del proprio operato, sono vincolate per trattato a preferire la deflazione alla crescita, a proibire gli aiuti di stato alle industrie in difficoltà e a imporre le misure di austerità. Analogamente, la moneta unica agisce da cappio per intere regioni europee, che non possono né svalutare la propria moneta (come possono fare le nazioni sovrane) per recuperare competitività, né uscire dalla stagnazione attraverso la crescita, perché sono costrette tramite austerità a far crollare la propria economia.
Il costo umano è stato spaventoso. La tortura economica a cui l’Unione Europea ha sottoposto la Grecia ha causato il taglio del 25% degli stanziamenti per gli ospedali e del 50% della spesa in medicine, mentre il tasso di infezioni da HIV si è impennato, i casi di depressione grave sono raddoppiati, i tentativi di suicidio sono aumentati di un terzo e il numero dei bambini nati morti è aumentato del 21%. Quattro bambini greci su dieci sono stati spinti nella povertà e un sondaggio ha stimato che il 54% dei Greci oggi è sottoalimentato. Philippe Lagrain, un ex consulente di Manuel Barroso, allora Presidente della Commissione Europea, ha osservato che in quanto “creditore europeo per eccellenza” la Germania ha “calpestato valori come democrazia e sovranità nazionale e creato uno stato vassallo”.
In casi estremi, i governi nazionali vengono di fatto allontanati a forza e rimpiazzati con tecnocrati compiacenti, come George Papandreou in Grecia e Silvio Berlusconi in Italia hanno potuto constatare. In cima a tutto poi c’è la Corte Europea di Giustizia, che ha emesso sentenze che subordinano il diritto di sciopero dei lavoratori al diritto dei datori di lavoro di fare affari con le mani libere. Hayek sorriderebbe nel vedere cose come questa.
Anche se lo slogan del “Leave” è stato oggetto di scherno, la Brexit ha davvero significato la possibilità di “riprendere il controllo”. La Democrazia ha bisogno di un demos, un popolo, che sia l’origine, il tramite e l’obiettivo del suo Governo. Senza un demos, quello che rimane è una gestione elitaria, il diritto dei trattati e la redistribuzione verso l’alto della ricchezza. Ma come sarà costruito “il popolo”? La politica lo deciderà. Un populismo di sinistra non cercherà di definire il popolo come fa la destra, in contrapposizione con gli immigrati o altre categorie, ma in contrapposizione alle potenti élite neoliberiste, che non sono più in grado, usando le parole del Professor Streeck, “di formare una struttura sociale intorno al nucleo centrale della corsa al profitto capitalista.”
È stato un errore colossale da parte della gente di Davos di sinistra, pensare che gli Stati-nazione siano un anacronismo ostile alla democrazia. Anziché essere una minaccia alla democrazia, gli Stati-nazione sono l’unico fondamento stabile che abbiamo individuato per sostenere gli impegni, i sacrifici e la fiducia sociale di cui una democrazia e uno stato sociale hanno bisogno.
In questo momento, la sinistra europea sta giocando le sue carte seguendo il manuale di un’altra parte politica, in una competizione truccata. Una parte della Nazione, i vincitori, hanno “usato il mondo globalizzato come fosse il loro grande campo da gioco” come dice il professor Streeck. Uno, o forse l’unico, significato della Brexit è che, avendo perso la fiducia nelle sciocche promesse di una globalizzazione “che vada bene per tutti”, la rimanente parte della nazione – i perdenti, le vittime e gli esclusi – hanno deciso, per disperazione, di fare un gesto sovrano: cambiare le regole per ritornare alla politica degli Stati-nazione, per poter ritornare a una situazione equilibrata. “Cercano rifugio”, per usare le parole di Streeck, nella “protezione democratica, nelle leggi del popolo, nell’autonomia locale , nei beni collettivi e nelle tradizioni egualitarie”.
Anziché lasciare il campo alle destre “nativiste”, alcuni di noi della sinistra democratica si uniscono a loro.

How French “Intellectuals” Ruined the West: Postmodernism and Its Impact, Explained

by Helen Pluckrose from areomagazine 


Postmodernism presents a threat not only to liberal democracy but to modernity itself. That may sound like a bold or even hyperbolic claim, but the reality is that the cluster of ideas and values at the root of postmodernism have broken the bounds of academia and gained great cultural power in western society. The irrational and identitarian “symptoms” of postmodernism are easily recognizable and much criticized, but the ethos underlying them is not well understood. This is partly because postmodernists rarely explain themselves clearly and partly because of the inherent contradictions and inconsistencies of a way of thought which denies a stable reality or reliable knowledge to exist. However, there are consistent ideas at the root of postmodernism and understanding them is essential if we intend to counter them. They underlie the problems we see today in Social Justice Activism, undermine the credibility of the Left and threaten to return us to an irrational and tribal “pre-modern” culture.
Postmodernism, most simply, is an artistic and philosophical movement which began in France in the 1960s and produced bewildering art and even more bewildering  “theory.” It drew on avant-garde and surrealist art and earlier philosophical ideas, particularly those of Nietzsche and Heidegger, for its anti-realism and rejection of the concept of the unified and coherent individual. It reacted against the liberal humanism of the modernist artistic and intellectual movements, which its proponents saw as naïvely universalizing a western, middle-class and male experience.
It rejected philosophy which valued ethics, reason and clarity with the same accusation. Structuralism, a movement which (often over-confidently) attempted to analyze human culture and psychology according to consistent structures of relationships, came under attack. Marxism, with its understanding of society through class and economic structures was regarded as equally rigid and simplistic. Above all, postmodernists attacked science and its goal of attaining objective knowledge about a reality which exists independently of human perceptions which they saw as merely another form of constructed ideology dominated by bourgeois, western assumptions. Decidedly left-wing, postmodernism had both a nihilistic and a revolutionary ethos which resonated with a post-war, post-empire zeitgeist in the West. As postmodernism continued to develop and diversify, its initially stronger nihilistic deconstructive phase became secondary (but still fundamental) to its revolutionary “identity politics” phase.
It has been a matter of contention whether postmodernism is a reaction against modernity. The modern era is the period of history which saw Renaissance Humanism, the Enlightenment, the Scientific Revolution and the development of liberal values and human rights; the period when Western societies gradually came to value reason and science over faith and superstition as routes to knowledge, and developed a concept of the person as an individual member of the human race deserving of rights and freedoms rather than as part of various collectives subject to rigid hierarchical roles in society.
The Encyclopaedia Britannica says postmodernism “is largely a reaction against the philosophical assumptions and values of the modern period of Western (specifically European) history” whilst the Stanford Encyclopaedia of Philosophy denies this and says “Rather, its differences lie within modernity itself, and postmodernism is a continuation of modern thinking in another mode.” I’d suggest the difference lies in whether we see modernity in terms of what was produced or what was destroyed. If we see the essence of modernity as the development of science and reason as well as humanism and universal liberalism, postmodernists are opposed to it. If we see modernity as the tearing down of structures of power including feudalism, the Church, patriarchy, and Empire, postmodernists are attempting to continue it, but their targets are now science, reason, humanism and liberalism. Consequently, the roots of postmodernism are inherently political and revolutionary, albeit in a destructive or, as they would term it, deconstructive way.
The term “postmodern” was coined by Jean-François Lyotard in his 1979 book, The Postmodern Condition. He defined the postmodern condition as “an incredulity towards metanarratives.” A metanarrative is a wide-ranging and cohesive explanation for large phenomena. Religions and other totalizing ideologies are metanarratives in their attempts to explain the meaning of life or all of society’s ills. Lyotard advocated replacing these with “mininarratives” to get at smaller and more personal “truths.” He addressed Christianity and Marxism in this way but also science.
In his view, “there is a strict interlinkage between the kind of language called science and the kind called ethics and politics” (p8). By tying science and the knowledge it produces to government and power he rejects its claim to objectivity.  Lyotard describes this incredulous postmodern condition as a general one, and argues that from the end of the 19th century, “an internal erosion of the legitimacy principle of knowledge” began to cause a change in the status of knowledge (p39). By the 1960s, the resulting “doubt” and “demoralization” of scientists had made “an impact on the central problem of legitimization” (p8). No number of scientists telling him they are not demoralized nor any more doubtful than befits the practitioners of a method whose results are always provisional and whose hypotheses are never “proven” could sway him from this.
We see in Lyotard an explicit epistemic relativity (belief in personal or culturally specific truths or facts) and the advocacy of privileging  “lived experience” over empirical evidence. We see too the promotion of a version of pluralism which privileges the views of minority groups over the general consensus of scientists or liberal democratic ethics which are presented as authoritarian and dogmatic. This is consistent in postmodern thought.
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Jean-François Lyotard
Michel Foucault’s work is also centered on language and relativism although he applied this to history and culture. He called this approach “archeology” because he saw himself as “uncovering” aspects of historical culture through recorded discourses (speech which promotes or assumes a particular view). For Foucault, discourses control what can be “known” and in different periods and places, different systems of institutional power control discourses. Therefore, knowledge is a direct product of power. “In any given culture and at any given moment, there is always only one ‘episteme’ that defines the conditions of possibility of all knowledge, whether expressed in theory or silently invested in a practice.”[1]
Furthermore, people themselves were culturally constructed. “The individual, with his identity and characteristics, is the product of a relation of power exercised over bodies, multiplicities, movements, desires, forces.”[2]  He leaves almost no room for individual agency or autonomy. As Christopher Butler says, Foucault “relies on beliefs about the inherent evil of the individual’s class position, or professional position, seen as ‘discourse’, regardless of the morality of his or her individual conduct.”[3] He presents medieval feudalism and modern liberal democracy as equally oppressive, and advocates criticizing and attacking institutions to unmask the “political violence that has always exercised itself obscurely through them.” [4]
We see in Foucault the most extreme expression of cultural relativity read through structures of power in which shared humanity and individuality are almost entirely absent. Instead, people are constructed by their position in relation to dominant cultural ideas either as oppressors or oppressed. Judith Butler drew on Foucault for her foundational role in queer theory focusing on the culturally constructed nature of gender, as did Edward Said in his similar role in post-colonialism and “Orientalism” and Kimberlé Crenshaw in her development of “intersectionality” and advocacy of identity politics. We see too the equation of language with violence and coercion and the equation of reason and universal liberalism with oppression.
It was Jacques Derrida who introduced the concept of “deconstruction,” and he too argued for cultural constructivism and cultural and personal relativity. He focused even more explicitly on language. Derrida’s best-known pronouncement “There is no outside-text” relates to his rejection of the idea that words refer to anything straightforwardly. Rather, “there are only contexts without any center of absolute anchoring.” [5]
Therefore the author of a text is not the authority on its meaning. The reader or listener makes their own equally valid meaning and every text “engenders infinitely new contexts in an absolutely nonsaturable fashion.” Derrida coined the term différance which he derived from the verb “differer” which means both “to defer” and “to differ.” This was to indicate that not only is meaning never final but it is constructed by differences, specifically by oppositions. The word “young” only makes sense in its relationship with the word “old” and he argued, following Saussure, that meaning is constructed by the conflict of these elemental oppositions which, to him, always form a positive and negative. “Man” is positive and ‘woman’ negative. “Occident” is positive and “Orient” negative. He insisted that “We are not dealing with the peaceful co-existence of a vis-a-vis, but rather with a violent hierarchy. One of the two terms governs the other (axiologically, logically, etc.), or has the upper hand. To deconstruct the opposition, first of all, is to overturn the hierarchy at a given moment.”[6] Deconstruction, therefore, involves inverting these perceived hierarchies, making “woman” and “Orient” positive and “man” and “Occident” negative. This is to be done ironically to reveal the culturally constructed and arbitrary nature of these perceived oppositions in unequal conflict.
We see in Derrida further relativity, both cultural and epistemic, and further justification for identity politics. There is an explicit denial that differences can be other than oppositional and therefore a rejection of Enlightenment liberalism’s values of overcoming differences and focusing on universal human rights and individual freedom and empowerment. We see here the basis of “ironic misandry” and the mantra “reverse racism isn’t real” and the idea that identity dictates what can be understood. We see too a rejection of the need for clarity in speech and argument and to understand the other’s point of view and avoid minterpretation. The intention of the speaker is irrelevant. What matters is the impact of speech. This, along with Foucauldian ideas, underlies the current belief in the deeply damaging nature of “microaggressions” and misuse of terminology related to gender, race or sexuality.
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Jacques Derrida
Lyotard, Foucault, and Derrida are just three of the “founding fathers” of postmodernism but their ideas share common themes with other influential “theorists” and were taken up by later postmodernists who applied them to an increasingly diverse range of disciplines within the social sciences and humanities. We’ve seen that this includes an intense sensitivity to language on the level of the word and a feeling that what the speaker means is less important than how it is received, no matter how radical the interpretation. Shared humanity and individuality are essentially illusions and people are propagators or victims of discourses depending on their social position; a position which is dependent on identity far more than their individual engagement with society. Morality is culturally relative, as is reality itself. Empirical evidence is suspect and so are any culturally dominant ideas including science, reason, and universal liberalism. These are Enlightenment values which are naïve, totalizing and oppressive, and there is a moral necessity to smash them. Far more important is the lived experience, narratives and beliefs of “marginalized” groups all of which are equally “true” but must now be privileged over Enlightenment values to reverse an oppressive, unjust and entirely arbitrary social construction of reality, morality and knowledge.
The desire to “smash” the status quo, challenge widely held values and institutions and champion the marginalized is absolutely liberal in ethos. Opposing it is resolutely conservative. This is the historical reality, but we are at a unique point in history where the status quo is fairly consistently liberal, with a liberalism that upholds the values of freedom, equal rights and opportunities for everyone regardless of gender, race and sexuality. The result is confusion in which life-long liberals wishing to conserve this kind of liberal status quo find themselves considered conservative and those wishing to avoid conservatism at all costs find themselves defending irrationalism and illiberalism. Whilst the first postmodernists mostly challenged discourse with discourse, the activists motivated by their ideas are becoming more authoritarian and following those ideas to their logical conclusion. Freedom of speech is under threat because speech is now dangerous. So dangerous that people considering themselves liberal can now justify responding to it with violence. The need to argue a case persuasively using reasoned argument is now often replaced with references to identity and pure rage.
Despite all the evidence that racism, sexism, homophobia, transphobia and xenophobia are at an all-time low in Western societies, Leftist academics and SocJus activists display a fatalistic pessimism, enabled by postmodern interpretative “reading” practices which valorize confirmation bias. The authoritarian power of the postmodern academics and activists seems to be invisible to them whilst being apparent to everyone else. As Andrew Sullivan says of intersectionality:
“It posits a classic orthodoxy through which all of human experience is explained — and through which all speech must be filtered. … Like the Puritanism once familiar in New England, intersectionality controls language and the very terms of discourse.” [7]
Postmodernism has become a Lyotardian metanarrative, a Foucauldian system of discursive power, and a Derridean oppressive hierarchy.
The logical problem of self-referentiality has been pointed out to postmodernists by philosophers fairly constantly but it is one they have yet to address convincingly. As Christopher Butler points out, “the plausibility of Lyotard’s claim for the decline of metanarratives in the late 20th century ultimately depends upon an appeal to the cultural condition of an intellectual minority.” In other words, Lyotard’s claim comes directly from the discourses surrounding him in his bourgeois academic bubble and is, in fact, a metanarrative towards which he is not remotely incredulous. Equally, Foucault’s argument that knowledge is historically contingent must itself be historically contingent, and one wonders why Derrida bothered to explain the infinite malleability of texts at such length if I could read his entire body of work and claim it to be a story about bunny rabbits with the same degree of authority.
This is, of course, not the only criticism commonly made of postmodernism. The most glaring problem of epistemic cultural relativity has been addressed by philosophers and scientists. The philosopher, David Detmer, in Challenging Postmodernism, says
“Consider this example, provided by Erazim Kohak, ‘When I try, unsuccessfully, to squeeze a tennis ball into a wine bottle, I need not try several wine bottles and several tennis balls before, using Mill’s canons of induction, I arrive inductively at the hypothesis that tennis balls do not fit into wine bottles’… We are now in a position to turn the tables on [postmodernist claims of cultural relativity] and ask, ‘If I judge that tennis balls do not fit into wine bottles, can you show precisely how it is that my gender, historical and spatial location, class, ethnicity, etc., undermine the objectivity of this judgement?” [8]
However, he has not found postmodernists committed to explaining their reasoning and describes a bewildering conversation with postmodern philosopher, Laurie Calhoun,
“When I had occasion to ask her whether or not it was a fact that giraffes are taller than ants, she replied that it was not a fact, but rather an article of religious faith in our culture.”
Physicists Alan Sokal and Jean Bricmont address the same problem from the perspective of science in Fashionable Nonsense: Postmodern Intellectuals’ Abuse of Science:
“Who could now seriously deny the ‘grand narrative’ of evolution, except someone in the grip of a far less plausible master narrative such as Creationism? And who would wish to deny the truth of basic physics? The answer was, ‘some postmodernists.’”
and
“There is something very odd indeed in the belief that in looking, say, for causal laws or a unified theory, or in asking whether atoms really do obey the laws of quantum mechanics, the activities of scientists are somehow inherently ‘bourgeois’ or ‘Eurocentric’ or ‘masculinist’, or even ‘militarist.'”
How much of a threat is postmodernism to science? There are certainly some external attacks. In the recent protests against a talk given by Charles Murray at Middlebury, the protesters chanted, as one,
“Science has always been used to legitimize racism, sexism, classism, transphobia, ableism, and homophobia, all veiled as rational and fact, and supported by the government and state. In this world today, there is little that is true ‘fact.'”[9]
When the organizers of the March for Science tweeted:
“colonization, racism, immigration, native rights, sexism, ableism, queer-, trans-, intersex-phobia, & econ justice are scientific issues,”[10] many scientists immediately criticized this politicization of science and derailment of the focus on preservation of science to intersectional ideology. In South Africa, the #ScienceMustFall and #DecolonizeScience progressive student movement announced that science was only one way of knowing that people had been taught to accept. They suggested witchcraft as one alternative. [11]
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Photo by Drew Hayes
Despite this, science as a methodology is not going anywhere. It cannot be “adapted” to include epistemic relativity and “alternative ways of knowing.” It can, however, lose public confidence and thereby, state funding, and this is a threat not to be underestimated. Also, at a time in which world rulers doubt climate change, parents believe false claims that vaccines cause autism and people turn to homeopaths and naturopaths for solutions to serious medical conditions, it is dangerous to the degree of an existential threat to further damage people’s confidence in the empirical sciences.
The social sciences and humanities, however, are in danger of changing out of all recognition. Some disciplines within the social sciences already have. Cultural anthropology, sociology, cultural studies and gender studies, for example, have succumbed almost entirely not only to moral relativity but epistemic relativity. English (literature) too, in my experience, is teaching a thoroughly postmodern orthodoxy. Philosophy, as we have seen, is divided. So is history.
Empirical historians are often criticized by the postmodernists among us for claiming to know what really happened in the past. Christopher Butler recalls Diane Purkiss’ accusation that Keith Thomas was enabling a myth that grounded men’s historical identity in “the powerlessness and speechlessness of women” when he provided evidence that accused witches were usually powerless beggar women. Presumably, he should have claimed, against the evidence, that they were wealthy women or better still, men. As Butler says,
“It seems as though Thomas’s empirical claims here have simply run foul of Purkiss’s rival organizing principle for historical narrative – that it should be used to support contemporary notions of female empowerment” (p36)
I encountered the same problem when trying to write about race and gender at the turn of the seventeenth century. I’d argued that Shakespeare’s audience’s would not have found Desdemona’s attraction to Black Othello, who was Christian and a soldier for Venice, so difficult to understand because prejudice against skin color did not become prevalent until a little later in the seventeenth century when the Atlantic Slave Trade gained steam, and that religious and national differences were far more profound before that. I was told this was problematic by an eminent professor and asked how Black communities in contemporary America would feel about my claim. If today’s African Americans felt badly about it, it was implied, it either could not have been true in the seventeenth century or it is morally wrong to mention it. As Christopher Butler says,
“Postmodernist thought sees the culture as containing a number of perpetually competing stories, whose effectiveness depends not so much on an appeal to an independent standard of judgement, as upon their appeal to the communities in which they circulate.”
I fear for the future of the humanities.
The dangers of postmodernism are not limited to pockets of society which center around academia and Social Justice, however. Relativist ideas, sensitivity to language and focus on identity over humanity or individuality have gained dominance in wider society. It is much easier to say what you feel than rigorously examine the evidence. The freedom to “interpret” reality according to one’s own values feeds into the very human tendency towards confirmation bias and motivated reasoning.
It has become commonplace to note that the far-Right is now using identity politics and epistemic relativism in a very similar way to the postmodern-Left. Of course, elements of the far-Right have always been divisive on the grounds of race, gender and sexuality and prone to irrational and anti-science views but postmodernism has produced a culture more widely receptive to this. Kenan Malik describes this shift,
“When I suggested earlier that the idea of ‘alternative facts’ draws upon ‘a set of concepts that in recent decades have been used by radicals’, I was not suggesting that Kellyanne Conway, or Steve Bannon, still less Donald Trump, have been reading up on Foucault or Baudrillard… It is rather that sections of academia and of the left have in recent decades helped create a culture in which relativized views of facts and knowledge seem untroubling, and hence made it easier for the reactionary right not just to re-appropriate but also to promote reactionary ideas.”[12]
This “set of concepts” threaten to take us back to a time before the Enlightenment, when “reason” was regarded as not only inferior to faith but as a sin. James K. A. Smith, Reformed theologian and professor of philosophy, has been quick to see the advantages for Christianity and regards postmodernism as “a fresh wind of the Spirit sent to revitalize the dry bones of the church” (p18). In Who’s Afraid of Postmodernism?: Taking Derrida, Lyotard, and Foucault to Church, he says,
“A thoughtful engagement with postmodernism will encourage us to look backward. We will see that much that goes under the banner of postmodern philosophy has one eye on ancient and medieval sources and constitutes a significant recovery of premodern ways of knowing, being, and doing.” (p25)
and
“Postmodernism can be a catalyst for the church to reclaim its faith not as a system of truth dictated by a neutral reason but rather as a story that requires ‘eyes to see and ears to hear’ (p125)
We on the Left should be very afraid of what “our side” has produced. Of course, not every problem in society today is the fault of postmodern thinking, and it is not helpful to suggest that it is. The rise of populism and nationalism in the US and across Europe are also due to a strong existing far-Right and the fear of Islamism produced by the refugee crisis. Taking a rigidly “anti-SJW” stance and blaming everything on this element of the Left is itself rife with motivated reasoning and confirmation bias. The Left is not responsible for the far-Right or the religious-Right or secular nationalism, but it is responsible for not engaging with reasonable concerns reasonably and thereby making itself harder for reasonable people to support. It is responsible for its own fragmentation, purity demands and divisiveness which make even the far-Right appear comparatively coherent and cohesive.
In order to regain credibility, the Left needs to recover a strong, coherent and reasonable liberalism. To do this, we need to out-discourse the postmodern-Left. We need to meet their oppositions, divisions and hierarchies with universal principles of freedom, equality and justice. There must be a consistency of liberal principles in opposition to all attempts to evaluate or limit people by race, gender or sexuality. We must address concerns about immigration, globalism and authoritarian identity politics currently empowering the far- Right rather than calling people who express them “racist,” “sexist” or “homophobic” and accusing them of wanting to commit verbal violence. We can do this whilst continuing to oppose authoritarian factions of the Right who genuinely are racist, sexist and homophobic, but can now hide behind a façade of reasonable opposition to the postmodern-Left.
Our current crisis is not one of Left versus Right but of consistency, reason, humility and universal liberalism versus inconsistency, irrationalism, zealous certainty and tribal authoritarianism. The future of freedom, equality and justice looks equally bleak whether the postmodern Left or the post-truth Right wins this current war. Those of us who value liberal democracy and the fruits of the Enlightenment and Scientific Revolution and modernity itself must provide a better option.
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Helen Pluckrose is a researcher in the humanities who focuses on late medieval/early modern religious writing for and about women. She is critical of postmodernism and cultural constructivism which she sees as currently dominating the humanities. You can connect with her on Twitter @HPluckrose
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Notes
[1] The Order of Things: An Archaeology of the Human Sciences (2011) Routledge. p183
[2] ‘About the Beginning of the Hermeneutics of the Self: Two Lectures at Dartmouth.’ Political Theory, 21, 198-227
[3] Postmodernism: A Very Short Introduction. (2002) Oxford University Press. p49
[4] The Chomsky – Foucault Debate: On Human Nature (2006) The New Press. P41
[5] http://hydra.humanities.uci.edu/derrida/sec.html
[6] Positions. (1981) University of Chicago Press p41
[7] http://hotair.com/archives/2017/03/10/is-intersectionality-a-religion/
[8] Challenging Postmodernism: Philosophy and the Politics of Truth (2003) Prometheus Press. p 26.
[9] In Sullivan http://hotair.com/archives/2017/03/10/is-intersectionality-a-religion/
[10]  http://dailycaller.com/2017/01/30/anti-trump-march-for-science-maintains-that-racism-ableism-and-native-rights-are-scientific-issues/#ixzz4bPD4TA1o
[11] http://blogs.spectator.co.uk/2016/10/science-must-fall-time-decolonise-science/
[12] https://kenanmalik.wordpress.com/2017/02/05/not-post-truth-as-too-many-truths/

martedì 28 marzo 2017

La Ue chiama alle armi

di Carlo Formenti da Micromega


Avete presente quel manifesto di propaganda dal quale occhieggia un marziale zio Sam, puntando il suo ditone contro chi lo guarda per invitarlo ad arruolarsi? Ebbene: ormai l’intera stampa europea sembra essersi trasformata in una variante di quel manifesto, chiamando il cittadino europeo a mobilitarsi contro i nemici esterni (Putin a Est e Trump a Ovest) e interni (i movimenti antieuropeisti).  Vedi, per esempio, Il Corriere di lunedì 27 marzo che schiera nell’ordine: Angelo Panebianco (attenti all’orso russo: se ci dividiamo diventeremo suoi protettorati); Sergio Romano (se Trump ci abbandona attrezziamoci per autogestire la nostra sicurezza); Michele Salvati (avanti con le riforme istituzionali per garantire la “governabilità” – leggi: per concentrare tutto il potere nelle mani di una minoranza oligarchica!). Il tutto condito da servizi sulla repressione della dissidenza in Russia e dalle sempre più frequenti frecciate nei confronti di un Renzi che, tentato dal populismo, non ascolta più i saggi inviti di Padoan a chinare la testa davanti agli ordini di Frau Merkel (ormai il tifo dei media di regime è tutto per il malleabile Gentiloni).
Prima di passare al discorso sui nemici interni, chiariamo meglio chi è questa zia Ue che vorrebbe imitare lo zio Sam. Lo fa Alessandro Somma in un bell’articolo apparso qualche giorno fa su queste stesse pagine, nel quale chiarisce che l’annunciata Europa a due velocità non è altro che la costituzione del nocciolo duro dell’imperialismo europeo, che chiama a raccolta i più fedeli vassalli (Francia, Italia e Spagna) intorno alla Germania, decisa a sfidare Usa e Russia, a imporre un’accelerazione delle riforme (privatizzazioni, attacco al welfare e ai salari ecc.) e a gestire una combinazione di chiusure e aperture (le prime per le persone le seconde per merci e capitali) o, per dirla con le parole di Somma, a costruire “un Superstato di polizia economica”. Polizia appunto: un ministro di cui sentiamo sempre più spesso tessere le lodi è l’ineffabile Minniti, che si è appuntato nuove medaglie con la gestione della giornata del 26 marzo scorso a Roma (se va avanti così Putin ce lo chiederà in prestito).
Veniamo dunque al nemico interno, cioè alle forze come la piattaforma Eurostop e le altre realtà politiche e sociali che hanno organizzato la manifestazione contro la Ue in occasione delle celebrazioni per il sessantesimo anniversario della Comunità. Dopo aver inscenato una campagna terroristica che paventava devastazioni urbi et orbi (contribuendo a desertificare Roma, e a far sì che i 27 euro papaveri fossero i soli abitanti di un centro blindato, assieme alle loro guardie del corpo e ai giornalisti che ne hanno immortalato la firma sull’ennesima sacra alleanza contro i rispettivi popoli) tutti i media hanno difeso la tesi della polizia, secondo cui le cose sono andate bene solo grazie a un’efficace azione di prevenzione, mentre esistono prove di un piano (fortunatamente fallito) per "devastare la città". In effetti un piano c’era, ma non dalla parte dei manifestanti: lo confermano il mostruoso schieramento di forze, le ripetute provocazioni (dal "sequestro" di più di cento manifestanti, trattenuti per ore in un centro di identificazione, alla rottura in due spezzoni del corteo alla fine del percorso, al primo dei quali si è cercato di impedire di defluire pacificamente, mentre il secondo veniva circondato e bloccato senza che fosse stato lanciato nemmeno un tappo di bottiglia - e solo grazie alla pazienza degli organizzatori la situazione si è sbloccata senza incidenti). È chiaro che c’era una precisa volontà di provocare lo scontro, trasformando gli annunci di sventura in profezie autoavverantesi (centinaia di telecamere accompagnavano il corteo, nella speranza di documentare il sangue versato e i danni alla città).
Infine la falsificazione dei numeri: si è parlato di mobilitazione fallita e si è detto che i manifestanti erano 2000 (ma altrove si dice che si sono effettuati 2000 controlli e che nel secondo spezzone del corteo – quello circondato alla fine - c'erano 2000 “facinorosi” pronti a entrare in azione: i soliti duemila che andavo avanti e indietro?). La verità è che il corteo non contava meno di 8/10.000 persone: tantissime ove si consideri la campagna terroristica di dissuasione, ma soprattutto molti di più di quelli dei rachitici cortei pro euro di federalisti e "sinistre radicali" (quelli che vorrebbero riformare la Ue dall’interno). Sempre Somma, nell’articolo sopracitato, invita queste ultime a prendere atto dell’irriformabilità della Ue, e della necessità che si liberino della convinzione dogmatica che la dimensione sovranazionale sia di per sé preferibile a quella nazionale. Mi associo, e mi permetto di mettere in luce un curioso paradosso: nel 1914 le socialdemocrazie si arresero agli argomenti nazionalisti legittimando la Prima guerra mondiale, oggi le sinistre si arrendono al capitale globale legittimandone la guerra di classe contro i proletariati nazionali.

lunedì 27 marzo 2017

La guerra ai poveri

di Tonino D'Orazio  27 marzo 2017.

Bisogna capire prima di tutto cos’è la ricchezza. Esiste la “soglia di povertà” e tutte le sue suddivisioni molto precise. Non esiste la “soglia di ricchezza”. Spesso, dal gossip, siamo interessati dai più ricchi tra i ricchi e vi sono molti giornali e riviste che non fanno altro che costruire un mondo di sogno, o di invidia indotta, per intere popolazioni. La parola “ricchi” è un amalgama di ceti e ambienti molto diversi, ma in genere raggruppa quelli che sono al top di tutte le varie aree economiche e sociali: i grandi padroni, i finanzieri, i palazzinari, gli uomini politici, i proprietari di giornali e televisioni, gente di lettera (scrittori, giornalisti, opinionisti …), showman televisivi, showgirl famose, i boiardi di stato … Comunque, malgrado la loro eterogeneità, questi “ricchi” sono una “classe” mobilitata a difendere solo i propri interessi a tutti i costi.
Spesso a fianco alla ricchezza economica c’è anche quella culturale: mondo dei musei, vendite all’asta, collezionisti, musica operistica, cantanti, scrittori best seller … nei cocktails, nelle mostre pittoriche e cinematografiche. Nei luoghi dove “bisogna esserci”.
C’è anche un’altra ricchezza, più informale ma altrettanto potente, quella “sociale”, una specie di “portafoglio” di relazioni sociali utile al momento opportuno e dove sono utilizzati soprattutto i “politici”. E’ quella dei Club, dei Circoli, delle Top e Vip associazioni, dei circoli elettorali, dei “padroni delle tessere”, se non della massoneria. Sono quasi sempre gli stessi che si riuniscono, e lo fanno sapere. Questo può essere interpretato anche come un faticoso “lavorio” sociale di imposizione tematica e di occupazione sistematica della scena.
Un’ultima forma di ricchezza è quella simbolica. Cioè basta citare un nome di famiglia, per esempio Agnelli, Ferrero, Berlusconi o Rothchild, per non dover dare nessuna spiegazione.
Sono i tipi di ricchezza che danno potere, suggestione, sugli altri. E’ una violenza formidabile che tocca la gente nel più profondo del loro spirito e del loro corpo. E’ un processo di disumanizzazione, una logica predatoria, una casta che sbriciola il resto della società per inghiottirla. E’ una violenza incredibile, che spezza la vita degli individui, che li colpisce nella loro dignità, nel lavoro e nell’assenza, e complessivamente ne fiacca lo spirito. Istillano il neoliberismo nei loro cervelli. Questi ultimi accettano che gli interessi specifici delle oligarchie, dei ricchi, dei dominanti, diventino “interesse generale”. E’ la loro guerra totale ai poveri.
Un esempio straordinario è come gli speculatori, i ricchi, siano riusciti a far passare la crisi finanziari pura del 2008 (che dura tuttora) come crisi globale. La loro crisi è diventata la crisi di tutti. A quelli che con cartelloni e manifestazioni dicono che non vogliono pagare la loro crisi possono rispondere tranquillamente, insieme ai socialisti europei: “Che volete farci, è la crisi globale!”. Solo in Islanda non ci sono riusciti. Hanno messo in galera i ricchi speculatori, i dirigenti di banche (da noi vengono premiati), e sequestrato i “loro” beni, evitando che la crisi fosse di tutti gli islandesi.
E poi c’è la sindrome di Stoccolma, dove il torturato ama il suo aguzzino. Ed è l’impasse più straordinaria della vittoria dei ricchi. L’aver asservito i poveri in nome della libertà. Tutti sono convinti di essere liberi di organizzare il proprio futuro, di comperare macchine e telefonini, di fare mutui trentennali per la casa, di guardare stupide trasmissioni televisive. (Dico stupide perché in questi ultimi anni il gossip e la pubblicità hanno raggiunto quasi il 75% degli spazi occupati; e poi la pubblicità di Mediaset che testualmente, da anni, invita a guardare i suoi canali come “libera televisione”, “libera scelta”).
Quella dei ricchi è una casta che possiede, per esempio tramite azionariato borsistico, praticamente tutto quello che si compera, si vende o si accumula come ricchezza. La Borsa è una “grande famiglia”, non vorrei esagerare, formata massimo tra 300 nuclei incrociati. Il Mib è più che una Borsa, è un vero e proprio “spazio sociale”, se non familiare dove si sposano, divorziano o si “mangiano” tra loro, con scorazzate a bande. Incredibilmente, malgrado gli scandali, i piccoli “risparmiatori” ci mettono i soldi. Uno spazio saldo però dei “poteri forti”, difficilmente accessibile per qualcun altro in area apicale. Sono le famiglie alle quali lo stato ha regalato impunemente tutte le sue ricchezze di beni comuni e tra poco anche i libretti postali di risparmio. Tutto è loro dovuto. Con arroganza. Ultimo, un certo Briatore ancora in cerca di regali (sanità, scuole …): "I poveri non creano lavoro, ben vengano i ricchi". Sembra quasi avere ragione, come se, senza di loro, tutti rimarrebbero morti di fame. E’ una violenza tipo mobbing, una molestia continua, un ricatto perpetuo, una colpevolizzazione.
Anche se diffidenti non riusciamo a pensare sempre alla manipolazione dei cervelli, eppure come esempio abbiamo la “corruzione” delle parole che corrompono profondamente il pensiero. Sappiamo che le parole, a cominciare da “riforme” non hanno più lo stesso senso da tempo. La “flessibilità” (nascosta anche come flex-security) ha corrisposto a “precarietà”; “il partenariato sociale” non corrisponde più a trattativa “sindacati-datoriali”; addirittura possono esistere e utilizzati ossimori come “solidarietà conflittuale”. Le parole sono annebbiate. Si dovrebbe verificare il dizionario minimo ad ogni vocabolo per vedere se corrisponde al concetto. Sono addirittura riusciti a far passare il messaggio che essere contro i ricchi significa perdere posti di lavoro. Diventare martiri sembra funzionare. Insomma hanno fatto un lavoro eccellente senza sforzo.
Sicuramente aiutati dalle destre che sviano i problemi caricando il tutto sugli immigrati, e anche dei neoliberisti dolci vestiti di rosa che ne hanno assunto alcune teorie e parte dell’ideologia di fondo. Da qui la difficoltà dei poveri ad avere alternative vere per un minimo, anche minimissimo, riequilibrio.
Invece il concetto di ricchezza è meno chiaro in basso. Come si può confrontare un salario di 1.000 euro (già al disotto del minimo vitale considerato dall’Istat intorno a 1.300 euro, che è già una presa in giro di questi tempi di jobs act e non solo, in più se si pensa anche alle pensioni), con uno più “ricco” di 1.600 euro, oppure di uno eccezionale di 10.000 €? Siamo sempre in un rapporto di 1 a 10 fra basso e alto. Invece la ricchezza dei più ricchi è un pozzo senza fondo, come un iceberg di cui si vede solo la punta o solo il “trasudo” proprietario apparente e appariscente. A volte si individua qualcosa quando vengono inquisiti per azioni malevoli di decine o centinaia di milioni di euro ai danni dello stato, cioè di tutti, per fallimenti stratosferici o per bonus sicuramente non dovuti. Se pensate a Montezemolo (famiglia Agnelli) che ogni tre/quattro anni distrugge l’impresa a lui “affidata” dagli amici e scappa con un bottino chiamato “bonus”; che magari ha già speso, come l’acconto, 20 milioni di euro, per delle Olimpiadi a Roma che non si faranno mai, e dove il Comune sta ancora pagando i debiti della sua straordinaria gestione di Italia90. Come a Milano rimangono quelli dell’Expo. I ricchi hanno bisogno di fiumi di denaro per fare finta di lavorare. Hanno bisogno che i poveri capiscano che hanno assolutamente bisogno di un capo (anzi un leader) che li comandi, democraticamente. Sono riusciti, nel basso, a modificare le cooperative, che mettono insieme il lavoro e spartiscono equamente i benefici, in cooperative “sociali” con a capo presidente, strutture varie, che non spartiscono un bel niente e a volte i lavoratori ne devono compensare le perdite. Grande vittoria sul concetto che “il lavoro rende liberi” imprigionandovi e schiavizzandovi i poveri. Infatti i ricchi non lavorano.

L’Europa compie sessant’anni: facciamole la festa


Mentre si celebrano i sessant’anni del Trattato di Roma che avviò l’avventura europea occorre chiedersi se l’Europa, divenuta un Superstato di polizia economica, sia riformabile dall’interno, come sostiene ad esempio Varoufakis. Oppure se – in assenza di conflitto sociale e di un ceto politico disponibile alla disobbedienza istituzionale – sia necessario tornare alla dimensione nazionale per poter ripensare poi l’Unione come costruzione resistente al progetto neoliberale.

di Alessandro Somma da Micromega

Ancora scioccati per l’esito del referendum sulla Brexit, lo scorso settembre i Capi di Stato e di governo dell’Unione europea si sono riuniti a Bratislava per discutere di come recuperare la fiducia dei cittadini scossi da “paure riguardo a migrazione, terrorismo e insicurezza economica e sociale”[1]. Le paure del primo tipo hanno ricevuto un’attenzione particolare, sfociata nell’impegno solenne a evitare “i flussi incontrollati dello scorso anno” e a “ridurre ulteriormente il numero dei migranti irregolari”. Si è subito istituita una guardia costiera europea per contrastare con la forza l’arrivo dei migranti, e deciso di collaborare con i governi più o meno autoritari dei Paesi di provenienza o di transito per impedire le partenze. Il tutto ripreso in occasione di altri vertici, convocati per rafforzare la volontà di rispettare gli accordi con il despota di Ankara e di intensificare i rapporti con Al-Sarraj, Presidente del traballante governo libico di unità nazionale[2].

Anche la volontà di rilanciare la costruzione europea come baluardo per la sicurezza interna ed esterna dei cittadini è stata declinata in modo concreto: si intensificheranno i controlli antiterrorismo e si amplierà la cooperazione in materia di difesa. Più fumose invece le ricette per fronteggiare l’insicurezza sociale ed economica: più fumose e soprattutto più ideologiche. Ci si affiderà ai mercati, che saranno la panacea di tutti i mali nel momento in cui potranno funzionare nel pieno rispetto delle ricette neoliberali: saranno il mercato unico digitale e un ulteriore sviluppo della libera circolazione dei capitali, a produrre sicurezza economica e sociale.

Insomma, il rilancio della costruzione europea è una combinazione di chiusure e aperture: le prime dedicate alle persone, le seconde riservate alle merci e ai capitali. E che questa sia l’unica ricetta che i leader europei sono capaci di partorire, lo testimoniano anche le iniziative intraprese in vista della riunione dei Capi di Stato e di governo, che il 25 marzo si ritroveranno a Roma per festeggiare i sessant’anni del Trattato che prende il nome dalla capitale italiana: il Trattato che avviò l’avventura europea.

Una leader e tre sudditi a Versailles

Il calendario dei festeggiamenti per il compleanno dell’Europa è stato deciso in un vertice tra i leader francese, italiano, spagnolo e tedesco, tenutosi a Versailles il 6 marzo scorso. Il luogo è stato scelto per richiamare il senso della costruzione europea: Versailles è un simbolo di pace perché lì si sono sottoscritti gli accordi che terminarono la prima guerra mondiale, e proprio la volontà di assicurare un futuro di pace ha ispirato la nascita della Comunità economica europea nel 1957.

Si pensava allora che l’integrazione economica potesse produrre unità politica, e per questo l’Europa nacque come mercato comune. Ci si è insomma ispirati al modello dell’Unione doganale tedesca del 1834, una coalizione di oltre trenta Stati che precedette la fondazione dell’Impero tedesco, il Secondo Reich, sorto nel 1871. E del resto, dal punto di vista tedesco, la costruzione europea ha prodotto notevoli risultati: la prosperità della Germania si fonda proprio su quella visione economicista, alla base della moneta unica e del suo utilizzo come leva per costruire, attraverso l’austerità, i successi tedeschi a partire dalle miserie altrui.

Che occorra cambiare passo è dunque evidente a tutti, ma non ai quattro leader incontratisi a Versailles, impegnati a consumare uno dei più patetici e fastidiosi riti della governance europea: il teatrino per cui un gruppo ristretto di Paesi si autorappresenta come avanguardia illuminata, per questo legittimata a indicare il futuro radioso verso cui tutti gli altri devono precipitarsi. Le cose stanno ovviamente in tutt’altro modo, e non solo perché i quattro leader non hanno nulla di illuminato, ma perché tre di loro sono tutt’altro che leader, bensì sudditi capaci al massimo di aspirare a un selfie con chi davvero comanda: Angela Merkel.

François Hollande rappresenta un Paese che in passato ha composto con la Germania l’asse attorno a cui ruotavano le vicende europee. Quel passato, però, è oramai un ricordo sbiadito dal baratro verso cui i parametri di Maastricht stanno precipitando i francesi. Oggi l’asse si limita ad amplificare i desiderata di Berlino, che per Parigi sono ordini indiscutibili, presidiati dall’apparato sanzionatorio europeo sempre pronto a entrare in funzione.

a Spagna di Mariano Rajoi è invece il Paese che simboleggia al meglio i disastri prodotti dall’imperialismo economico della Germania, dal suo atteggiarsi a Minotauro globale al contrario[3]: invece di generare domanda per assorbire le merci prodotte negli altri Paesi, presta soldi a questi ultimi affinché consumino le sue. Salvo poi chiudere i rubinetti in caso di bisogno, come è avvenuto dopo lo scoppio della crisi economica e finanziaria: è questa l’origine del disastro della Spagna, passata da un debito pari a poco più del 35% del pil nel 2007, a quasi il 100% del pil di adesso.

E che dire di Paolo Gentiloni, la pallida e soporifera fotocopia di quel Matteo Renzi tanto bravo a insultare i tedeschi davanti alle telecamere, ma ancora più bravo a chinare il capo di fronte alle richieste più sconce in cambio di qualche offensivo zerovirgola di flessibilità in più. Dobbiamo a questo atteggiamento, se con l’ultimo Documento programmatico di bilancio l’Italia si è impegnata a risparmiare circa 35 miliardi di Euro tra il 2018 e il 2019, ovvero a realizzare tagli inimmaginabili per un Paese in ginocchio come il nostro[4].

Ebbene, al vertice di Versailles i quattro, al netto delle tante parole al vento, più o meno di circostanza, e degli slogan vuoti buoni solo a indorare pillole amare, hanno ribadito la volontà di intensificare gli sforzi comuni in materia di migrazioni e lotta al terrorismo. Per bocca di Hollande hanno poi precisato che l’insicurezza dei cittadini di cui farsi carico non è tanto quella sociale, bensì quella che richiede politiche securitarie e la costruzione di “un’Europa della difesa”. Merkel si è invece incaricata di sottolineare che, in materia di economia, la strada intrapresa è quella giusta, e che anzi occorre accelerare, se del caso lasciando per strada chi non tiene il passo: “dobbiamo avere il coraggio di accettare che alcuni Paesi possano andare avanti più rapidamente di altri”[5].

Europa a due velocità

Un vertice dei Capi di Stato e di governo di poco successivo all’incontro di Versailles, il 9 marzo, viene dedicato ai temi economici e sociali. È l’occasione per mostrare ottimismo, per celebrare una ripresa ancora impercettibile sul piano dell’occupazione, e soprattutto dell’equa distribuzione della ricchezza. Sufficiente però per affermare trionfalmente che “devono essere proseguite le riforme strutturali volte a modernizzare le nostre economie”: si deve cioè ridurre ancora la spesa sociale, privatizzare quel poco che è ancora pubblico, liberalizzare i pochi servizi ai cittadini rimasti, e soprattutto precarizzare ancora di più il lavoro. E si deve ribadire “l’importanza che riveste per l’occupazione, la crescita e la competitività, un mercato unico funzionante basato sulle quattro libertà”, ovvero, la libera circolazione di merci, servizi, capitali e persone (il riferimento è ovviamente ai soli lavoratori europei). E non importa se ci sono ostacoli all’estensione delle quattro libertà oltre il contesto europeo, ad esempio il recente affossamento del Trattato transatlantico di libero scambio (Ttip). Ci si può rifare con il Trattato tra Ue e Canada (Ceta), appena approvato dal Parlamento europeo, e con nuovi accordi con l’America meridionale, il Messico, il Giappone e la Cina[6].

Al vertice del 9 marzo non si poteva poi perdere l’occasione per rilanciare la linea appena dettata dalla Germania. Si ripete che occorre viaggiare a rotta di collo verso l’Europa dei mercati, tuttavia a due velocità: chi non vuole, o non è degno in base ai parametri di Maastricht, è tenuto a non intralciare la marcia trionfale di chi ha fatto i compiti a casa.
A questi aspetti, il giorno dopo il vertice, viene dedicata una riunione informale dei Capi di Stato e di governo. Ne conosciamo il contenuto attraverso una relazione confezionata per il Parlamento europeo da Donald Tusk, Presidente del Consiglio europeo appena confermato nella carica. Lì si ribadisce che la proposta di un’Europa a due velocità farà da sfondo alle celebrazioni per i sessant’anni del Trattato di Roma[7]. Anche se in particolare i Paesi dell’est si sono mostrati tiepidi se non contrari, giacché ciò che Angela vuole, il Donald polacco non può certo ignorare.

In fin dei conti l’Europa a due velocità formalizza una situazione di fatto: la distinzione tra i Paesi della Zona Euro e l’Europa a 28 (e in prospettiva a 27). I tedeschi hanno però ora interesse a individuare, all’interno della Zona Euro, una élite chiamata a rafforzare l’Unione economica e monetaria, a presidiarla come perno attorno a cui consolidare l’Europa neoliberale, da imporre come obiettivo indiscutibile verso cui tutti sono chiamati a convergere. Gli altri Paesi potranno decidere i tempi, ma non anche mettere in discussione l’esito finale, protetto dal moto di contestazione di ciò che è diventata la costruzione europea: un Superstato di polizia economica, che utilizza la concorrenza per dirigere i comportamenti individuali, sterilizzare il conflitto, e ridurre l’inclusione sociale a inclusione nel mercato.

Insomma, l’Europa lenta dovrà prima o poi raggiungere l’Europa veloce, ma solo apparentemente potrà farlo con calma. I ritmi sono infatti quelli scanditi dallo schema per cui Bruxelles concede risorse solo in cambio di riforme strutturali di matrice neoliberale. Questo schema, utilizzato prima per l’allargamento a sud, poi per l’allargamento a est e da ultimo per affrontare la crisi dei debiti sovrani[8], verrà infatti generalizzato, sino a divenire il principale motore della costruzione europea. Bruxelles lo ha detto apertamente con riferimento all’utilizzo dei fondi strutturali, da vincolare con veri e propri contratti al rispetto delle “procedure di governance economica”. E lo ha ribadito con la proposta di istituire “un apposito strumento finanziario” per incentivare “riforme difficili”, come quelle “miranti a rafforzare la flessibilità del mercato del lavoro”[9].

Cinque scenari per il futuro dell’Europa

L’Europa a due velocità rappresenta uno dei cinque scenari prefigurati dalla Commissione in un contributo sul futuro dell’Unione. È quello per cui “chi vuole di più fa di più”, da ritenersi una variante rispetto ad un secondo scenario: la scelta di “fare molto di più insieme”. Seguono tre scenari che non comportano un’espansione del livello europeo: andare “avanti così”, favorendo il “miglioramento graduale del funzionamento della zona euro”, restringere il raggio di azione, decidendo di “fare meno in modo più efficiente”, o ancora alimentando “solo il mercato unico”, senza comunque mettere in discussione la moneta unica[10].

Ma torniamo allo scenario preferito dai tedeschi, che nelle parole della Commissione è la situazione in cui si favorisce la nascita di “una o più coalizioni di volenterosi che operano in ambiti specifici”. Forse a Bruxelles è sfuggito che “coalizione di volenterosi” è stato anche il nome scelto da George W. Bush per indicare i Paesi che lo appoggiarono nell’invasione dell’Iraq. Sicuramente, però, hanno presente che l’idea di un’Europa a due velocità non è nuova, così come l’attaccamento dei tedeschi a questa formula: risale agli anni dei negoziati per il Trattato di Amsterdam del 1997, che preparò l’allargamento a est.

All’epoca il mitico Ministro delle finanze Wolfgang Schäuble teorizzò l’edificazione di un “nucleo europeo” (Kerneuropa), composto dai Paesi intenzionati a intensificare il livello di integrazione, dal quale erano ovviamente esclusi gli Stati meridionali, e in prospettiva quelli orientali. Questi ultimi dovevano essere ricondotti alla costruzione europea per prevenire una destabilizzazione dell’area, ma proprio per questo la costruzione non doveva più essere una comunità di pari. Si poteva procedere anche verso un’Europa federale, con istituzioni democratiche e politiche sociali condivise, ma questo schema era riservato a Belgio, Lussemburgo e Olanda in quanto Paesi associati all’asse franco-tedesco (i fondatori della Comunità economica europea senza l’Italia). Solo questi Paesi erano in regola con i parametri di Maastricht, e dunque con quanto costituisce il fondamento dell’Unione economica e monetaria: da ritenersi “il nucleo forte dell’unione politica” e non un semplice “elemento di integrazione aggiuntivo”. Solo questi Paesi avrebbero così rappresentato il centro produttore di disciplina capace di piegare le indisciplinate periferie meridionale e orientale[11].

Il sesto scenario

Sono passati oltre vent’anni dalla riflessione di Schäuble sul nucleo europeo, ma nel frattempo poco o nulla è cambiato: l’ottuso teutonico è ancora al suo posto, e le sue parole dettano ancora la linea di Bruxelles. Tanto che il contributo della Commissione al dibattito sul rilancio della costruzione europea evita accuratamente di ricomprendere l’unico scenario cui guardano i popoli europei stremati dall’austerità. Manca insomma il sesto scenario, quello della rottura o quantomeno della discontinuità rispetto all’Europa di Maastricht, che distrugge lo Stato sociale, precarizza il lavoro, privatizza i beni comuni, e da ultimo erige muri contro le persone mentre promuove la libera circolazione delle merci.

Di certo non rappresenta una rottura la prospettiva indicata dal nazionalismo economico, che usa i muri per bloccare la circolazione delle merci, oltre che delle persone. Esso alimenta la lotta planetaria tra Stati in competizione per la conquista dei mercati, ma non libera la politica dalla sua subordinazione all’economia. Questa ben può convivere con la riscoperta dei confini senza per ciò solo essere messa in discussione: il nazionalismo economico e il neoliberalismo sono variazioni su un medesimo tema.

Occorre allora chiedersi se il sesto scenario sia compatibile con questa Europa, ovvero se essa è riformabile dall’interno. Oppure se per realizzarlo occorra smontare l’Europa, tornare alla dimensione nazionale per poi rimontare l’Europa come costruzione resistente al progetto neoliberale. Occorre in altre parole verificare dove si colloca lo spazio tra Maastricht e il nazionalismo economico, il “terzo spazio” utilizzabile per ripensare la costruzione europea attorno ai valori della “democrazia, solidarietà, eguaglianza e dignità”.

Sono, queste, espressioni utilizzate da chi pensa che simili valori possano ancora emergere dall’Europa di Maastricht, innanzi tutto promuovendo un ritorno agli anni precedenti l’affermazione del pensiero neoliberale, gli anni del compromesso keynesiano: sarebbe cioè possibile riattivare forme di incisiva redistribuzione della ricchezza e piani di investimento a sostegno della domanda. E si potrebbe persino andare oltre, prevedendo per un verso un reddito di esistenza, e per un altro forme di democrazia economica ricalcate sulla pratica dei beni comuni, da valorizzare per consentire persino un controllo parlamentare sull’operato delle banche centrali[12].

Ci troviamo di fronte a uno scenario che dire idilliaco è poco: siamo entrati nella dimensione onirica. Il terzo spazio presuppone trasformazioni troppo ambiziose perché possano scaturire da questa Europa. Per realizzarlo, i Paesi europei dovrebbero prima elaborare una politica economica, fiscale di bilancio volta a favorire la piena occupazione, piuttosto che la stabilità dei prezzi[13]. Dovrebbero poi mettere in comune i loro sistemi di sicurezza sociale, il loro mercato del lavoro, e soprattutto i loro debiti. Infine dovrebbero delineare una politica monetaria ricavata da questi propositi, quindi ripensare radicalmente la moneta unica. Ma non possono farlo, perché le leve del potere necessario a produrre queste trasformazioni sono a Bruxelles.

Per i teorici del terzo spazio, tutto ciò può invece accadere se solo si attiva una “democrazia reale e costante”, che riviva nel conflitto. Non solo il conflitto sociale, a partire da quello prodotto nelle città per il riconoscimento dei diritti sociali, ma anche quello istituzionale. Anche le istituzioni, dalle amministrazioni comunali ai governi, possono disobbedire all’Europa dell’austerità, promuovendo così un circuito di “élite insubordinate” capace realizzare il sesto scenario senza mettere in discussione la costruzione europea in quanto tale[14].

Per quanto lo si possa ardentemente sperare, è lecito dubitare che tutto ciò possa davvero accadere. Non si vede un ceto politico disponibile a impugnare le armi della disobbedienza istituzionale, e i pochi eventualmente pronti a farlo sono troppo impegnati a complicare la geografia dei partitini, o peggio dei gruppi parlamentari della sinistra. E neppure si vede la tensione sociale che dovrebbe attivare il conflitto nelle città: vi sono qua e là movimenti capaci anche di ottenere qualche successo, ma si tratta di iniziative effimere e sporadiche, instabili e prive di un coordinamento a livello europeo, in ogni caso scollegate da un luogo nel quale operare una sintesi tra rappresentanza e mediazione.

Nazione, lavoro e conflitto sociale

Su una cosa i teorici del terzo spazio hanno ragione da vendere: le possibilità di un cambiamento sono direttamente proporzionali al livello di conflitto sociale che si riuscirà a produrre attorno all’idea di un’Europa democratica e solidale, in quanto tale radicalmente ostile al progetto neoliberale e al nazionalismo economico. Solo che il conflitto non può essere unicamente quello acceso dalle élites insubordinate, neppure se affiancato a quello dei movimenti per la rivendicazione dei diritti sociali. Occorre il contributo dei lavoratori, di chi è più direttamente colpito dalla rottura del patto fondativo del costituzionalismo antifascista: quello per cui il lavoro, in quanto concorso al benessere collettivo, assicura mezzi sufficienti a condurre un’esistenza libera e dignitosa.

Se i lavoratori sono indispensabili a contrastare l’Europa dei mercati, allora diviene altrettanto indispensabile un ritorno alla dimensione nazionale. È questa la sede in cui i lavoratori hanno ottenuto un’accettabile mediazione tra capitalismo e democrazia: quella, alla base del compromesso keynesiano, per cui non si mettevano in discussione proprietà privata e principio di concorrenza, ma lo Stato operava in cambio una redistribuzione della ricchezza attraverso politiche fiscali e di bilancio di sostegno alla domanda[15]. Di qui l’aperto contrasto con la costruzione europea così come si è consolidata a partire dal Trattato di Maastricht, che ha imposto politiche economiche incentrate sul solo controllo dei prezzi, fondamento per il varo della moneta unica. E che a monte ha liberalizzato la circolazione dei capitali, imponendo così agli Stati di comprimere i salari e ridurre la pressione fiscale per attirarli: con ciò rendendo irreversibile il rovesciamento del compromesso tra capitalismo e democrazia ottenuto dai lavoratori.

Il tutto senza considerare che il capitale non conosce, diversamente dal lavoro, il radicamento territoriale: se il primo è oramai ridotto a un fascio di flussi finanziari, il secondo è inchiodato alla dimensione spaziale. Ha dunque bisogno di rappresentanza politica, ancora una volta quella assicurata, alle condizioni attuali, dal solo livello nazionale. Del resto l’Europa è per un verso un’entità tecnocratica, messa al riparo dalla politica prima ancora che dalla democrazia, funzionante secondo schemi numerici in quanto tali indiscutibili. Ma per un altro verso è pur sempre una costruzione governata dai Capi di Stato e di governo dei Paesi membri, che non a caso compongono il Consiglio europeo: l’organo che “dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti politici e le priorità politiche generali” (art. 15 Trattato Ue). E i Capi di Stato e di governo possono divenire cinghia di trasmissione delle istanze del lavoro solo se i parlamenti nazionale si svincolano dai condizionamenti derivanti dalle cessioni di sovranità finora utilizzate per alimentare l’Europa neoliberale.

Ovviamente tutto ciò non cancella la necessità di momenti forti di coordinamento sovranazionale, all’altezza della dimensione alla quale opera il capitale. E neppure esclude che il ripiegamento sulla dimensione nazionale debba poi cedere il passo a una riespansione del livello sovranazionale, da riattivare se e nella misura in cui la costruzione europea si trasforma in un motore di democrazia e solidarietà. Tanto meno impedisce di vedere che i richiami al Novecento non si possono intendere come il tentativo di recuperare un passato che per molti aspetti non può tornare, se non altro per i limiti insormontabili del modello di sviluppo a cui ha dato vita.

Si commette dunque un errore grave a ritenere, come fanno i teorici del terzo spazio, che il livello nazionale non debba tornare protagonista: che questo significhi automaticamente “rifugiarsi in un’immaginaria autarchia nazionale”, o gettare “benzina sulla xenofobia già dilagante”[16]. Certo, la dimensione nazionale non implica di per sé un potenziamento della sovranità popolare, e dunque dei processi di democratizzazione. E ciò nonostante occorre liberarsi dalla convinzione, ricorrente nella sinistra radicale europea, che la dimensione sovranazionale è in quanto tale da preferire alla dimensione nazionale[17]. L’omaggio a schemi preconfezionati impedisce sempre di vedere i motivi di forza e i motivi di debolezza delle opzioni in campo, e a monte la loro pluralità: porta a riprodurre a sinistra la logica del Tina (There is no alternative), che invece a parole si dice di voler combattere.

Riflettiamo allora senza pregiudizi, dal momento che non ci muoviamo qui nel campo delle certezze assolute, e che dunque abbiamo bisogno di approfondire e confrontarci. Senza imporci limiti diversi da quelli che riguardano l’individuazione dell’obiettivo: combattere il neoliberalismo, incluso quello che si esprime attraverso il nazionalismo economico. Valorizzando la circostanza che il lavoro è il motore di questa lotta, e che questa si fonda su conflitti tradizionalmente efficaci nella misura in cui possono condizionare il modo di essere della statualità.

È evidente che così non si risolveranno tutti i problemi. Ma se non altro si eviterà di lasciare il campo a chi cavalca il moto verso la riscoperta della dimensione nazionale per tornare all’imperialismo economico. Giacché la dimensione statuale può invece combattere i mercati, o almeno ricondurli entro un ordine politico motore di emancipazione individuale e sociale, e non anche garante intransigente del principio di concorrenza.
NOTE
[1] Dichiarazione di Bratislava del 16 settembre 2016, www.consilium.europa.eu/press-releases-pdf/2016/9/47244647412_it.pdf.
[2] Cfr. Consiglio europeo del 15 dicembre 2016 - Conclusioni della Presidenza, www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2016/12/20161215-euco-conclusions-final_pdf e Dichiarazione di Malta dei membri del Consiglio europeo sugli aspetti esterni della migrazione del 3 febbraio 2017, www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2017/02/03-malta-declaration-it_pdf.
[3] Questa immagine efficace si deve a S. Cesaratto, Sei lezioni di economia. Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Reggio Emilia, Imprimatur, 2016, p. 32 ss.
[4] Piano programmatico di bilancio per il 2017, p. 6 ss. (www.mef.gov.it/inevidenza/documenti/DOCUMENTO_PROGRAMMATICO_DI_BILANCIO_2017-IT_-_new.pdf).
[5] Merkel, Hollande, Gentiloni, vertice a Versailles: Serve Europa a velocità diverse (7 marzo 2017), www.ansa.it/sito/notizie/politica/2017/03/06/gentiloni-a-versailles-vertice-a-4-con-hollande-merkel-e-rajoy-_fe690f7b-5c2d-498a-a854-1f91796df1ea.html.
[6] Consiglio europeo del 9 marzo 2017 - Conclusioni della Presidenza, www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2017/03/09-conclusions-pec_pdf.
[7] Relazione del presidente Donald Tusk al Parlamento europeo sul Consiglio europeo del 9 marzo e sulla riunione informale dei 27 Capi di Stato o di governo del 10 marzo, www.consilium.europa.eu/it/meetings/european-council/2017/03/09-conclusions-pec_pdf.
[8] Cfr. A. Somma, La dittatura dello spread. Germania, Europa e crisi del debito, Roma, DeriveApprodi, 2014, spec. pp. 200 ss. e 239 ss.
[9] Un piano per un’Unione economica e monetaria autentica e approfondita. Avvio del dibattito europeo, Com/2012/777 def. V. anche la Comunicazione della Commissione sulle tappe verso il completamento dell’Unione economica e monetaria, Com/2015/600 def.
[10] Libro bianco sul futuro dell’Europa. Riflessioni e scenari per l’UE a 27 verso il 2025 (1. marzo 2017), https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/libro_bianco_sul_futuro_dell_europa_it.pdf.
[11] Cfr. Überlegungen zur europäischen Politik (1. settembre 1994), documento predisposto da Wolfgang Schäuble e Karl Lamers (in quanto esponenti del Partito cristianodemocratico), www.cducsu.de/upload/schaeublelamers94.pdf.
[12] L. Marsili e Y. Varoufakis, Il terzo spazio. Oltre establishment e populismo, Roma e Bari, Laterza, pp. ix ss. e 67 ss.
[13] Cfr. A. Somma, Maastricht, l’Europa della moneta e la cultura ordoliberale. Storia di una regressione politica, in A. Barba et al., Rottamare Maastricht. Questione tedesca, Brexit e crisi della democrazia in Europa, Roma, DeriveApprodi, 2016, p. 57 ss.
[14] Ivi, pp. 71 ss. e 101 ss. V. anche Una disobbedienza costruttiva per rifondare l’Europa. Intervista a Yanis Varoufakis di Giacomo Russo Spena (17 marzo 2017), in questa Rivista, http://temi.repubblica.it/micromega-online/varoufakis-una-disobbedienza-costruttiva-per-rifondare-leuropa.
[15] Per tutti A. Barba e M. Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Reggio Emilia, Imprimatur, 2016, p. 15 ss. e passim.

[16]
L. Marsili e Y. Varoufakis, Il terzo spazio, cit., p. 32 s.

[17]
Cfr. M. Damiani, La sinistra radicale in Europa. Italia, Spagna, Francia, Germania, Roma, Donzelli, 2016, p. 189 ss.

(25 marzo 2017)

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