lunedì 30 gennaio 2017

Tempi imprevedibili e interessanti. La competizione interimperialistica ai tempi di Trump

di Sebastiano Isaia da sinistrainrete


L’aspetto politicamente più intrigante di un personaggio  “impolitico” (ma si vedrà presto fino a che punto questo cliché potrà reggere) come Donald Trump consiste, a parer mio, nella sua inclinazione a esprimere opinioni e concetti senza badare troppo ai paludati canoni della tradizionale mediazione politico-diplomatica. Il rude linguaggio del nuovo Presidente americano esprime il brutale linguaggio degli interessi, prim’ancora che le sue personali convinzioni sul mondo e su quant’altro. Detto questo, occorre anche dire che molte delle recenti dichiarazioni di Trump, che hanno messo in subbuglio l’establishment politico dell’Unione Europea e della Cina, mentre hanno invece rincuorato “l’amico Putin”, non esprimono un’assoluta originalità di linea politica, neanche rispetto alla sostanza di molti aspetti della politica estera – e in parte anche di quella interna: vedi la politica di contenimento dell’immigrazione ai confini del Messico – praticata dal progressista Premier uscente. Da anni Obama batte sul tasto dei costi della politica di sicurezza dell’Alleanza Atlantica, ribadendo in ogni occasione utile la necessità di riequilibrarli a vantaggio degli USA. Su questo punto rinvio al mio post Gli Stati Uniti tra “isolazionismo” e “internazionalismo”. La novità sta piuttosto nella franchezza del linguaggio politico adoperato da Trump, franchezza che a sua volta segnala un’accelerazione nelle tendenze politico-strategiche degli Stati Uniti, riscontrabile nella seguente dichiarazione: «L’Alleanza Atlantica è obsoleta, perché è stata concepita tanti e tanti anni fa». In sé questa posizione non ha nulla di sconvolgente, e suona anzi quasi banale alla luce dei tanti e importanti avvenimenti che si sono prodotti dal 1989 in poi; soprattutto i geopolitici americani di orientamento “realista” sostengano dagli anni Novanta la tesi del superamento definitivo dell’Alleanza Atlantica e della necessità di “chiudere” il suo strumento militare: la NATO.
Ma è la prima volta, mi pare, che questa tesi viene formulata a così alti livelli, entrando a far parte, di fatto, del programma politico della nuova Amministrazione. Da minaccia velata, lo scioglimento della vecchia Alleanza Occidentale diventa moneta corrente nella politica estera statunitense. In ogni caso già nel marzo del 2016 Trump aveva messo le carte in tavola a proposito dell’Alleanza Atlantica:  «La Nato? È una buona cosa… se funzionasse anche senza di noi. Siamo seri. Gli sviluppi in Ucraina hanno investito molti paesi della Nato, ma non gli Stati Uniti. Eppure, se notate, stiamo facendo tutto noi. I nostri alleati cosa hanno fatto? Perché non interviene la Germania? Perché tutti i paesi confinanti con l’Ucraina non trattano con la Russia? Perché noi siamo la nazione più forte? È vero. La Nato come concetto va bene, ma all’atto pratico funziona solo se ci siamo noi dentro. Non ci aiuta nessuno. […] Regaliamo centinaia di miliardi di dollari per sostenere paesi che sono, in teoria, più ricchi di noi. O non lo sapete? Germania, Arabia Saudita, Giappone, Corea del Sud. La Nato è stata istituita in un momento diverso. È stata creata quando eravamo un paese più ricco. Prendiamo denaro in prestito dai cinesi, lo capite? La Nato ci costa una fortuna e sì, stiamo proteggendo l’Europa, ma stiamo spendendo un sacco di soldi. Punterò alla ridistribuzione dei costi ed assicuro che gli Stati Uniti non sopporteranno ancora il totale peso della difesa in Europa. Non è giusto e non otteniamo nulla in cambio, così come il nostro impegno in Corea del Sud». Più chiaro di così.
Non raramente, anzi abbastanza frequentemente, nei momenti di svolta geopolitica e di accelerazione nei processi economici che investono quella che ancora oggi è la prima potenza imperialistica del pianeta, e che tale rimarrà, con ogni probabilità, ancora per diverso tempo, emergono nel panorama politico americano personaggi “stravaganti” o comunque non omogenei alla tradizionale postura politica dei repubblicani e dei democratici. Pensiamo a Ronald Reagan. Negli anni Settanta la classe dominante americana era molto divisa al suo interno, un po’ come accade oggi, e la debole Amministrazione Carter rispecchiò bene questa situazione. Solo con l’ex attore, di mediocre talento artistico ma molto versato sul piano della fascinazione popolare, la leadership politica del Paese riuscì a trovare il bandolo dell’intrigata matassa assecondando una ristrutturazione tecnologica delle imprese e una “rivoluzione finanziaria” non più procrastinabili. Si parlò di reaganismo – versione statunitense del thatcherismo. I nostalgici del vecchio capitalismo di stampo keynesiano parlarono di “controrivoluzione liberista”, palesando con ciò la miserabile idea di rivoluzione che avevano in testa. L’Amministrazione Reagan implementò misure di economia politica che all’inizio apparsero agli occhi di quasi tutti gli analisti economici americani ed europei estremamente contraddittorie e per questo destinate a un sicuro insuccesso. Sappiamo come è andata a finire. Lo stesso Barack Obama più volte ha esternato la propria ammirazione nei confronti della figura politica del leader americano che seppe piegare definitivamente «l’Impero del Male», altrimenti chiamato Unione Sovietica. Ma ritorniamo ai nostri giorni.
L’Unione Europea, ha detto Trump, è stata creata per far concorrenza economica agli Stati Uniti d’America, e per questo gli americani non hanno alcun interesse a sostenerla. Il discorso, come si dice, non fa una grinza. L’Unione Europea come tentativo di creare un polo imperialista europeo a guida franco-tedesca in grado di confrontarsi con gli Stati Uniti, con la Cina e con la Russia: è una tesi che può impressionare solo chi non capisce nulla di processo storico-sociale mondiale. È dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso che il contenzioso economico-finanziario tra gli Stati Uniti e i suoi maggiori alleati strategici (Germania e Giappone in primis) è diventato il più importante fattore nella determinazione della politica estera americana. Negli anni Ottanta gli USA hanno ricercato a tutti i costi la superiorità militare nei confronti dell’Unione Sovietica non solo nel tentativo, peraltro riuscito, di assestare ai russi il colpo del KO (ma, com’è noto, un colosso cade ingloriosamente solo se ha i piedi d’argilla), ma anche e soprattutto per surrogare con la potenza politico-militare una superiorità economico-tecnologica che gli americani non vantavano più nei confronti degli europei e dei giapponesi. Ecco perché fino all’ultimo Reagan cercò di puntellare politicamente Gorbaciov, ossia per non spezzare quel confronto bipolare che aveva tenuto sotto scacco l’intero Vecchio Continente. Probabilmente per gli americani sarebbe stato più utile un nemico “sovietico” certamente indebolito e ridotto al rango di potenza regionale ma in grado tuttavia di reggere l’antica funzione di spauracchio antioccidentale, e quindi legittimare l’ordine mondiale scaturito dal Secondo macello mondiale. Più che di scardinare quell’ordine, Washington lavorava per aggiornarlo e “ristrutturarlo” alla luce dell’ascesa della Germania e del Giappone al rango di potenze capitalistiche di prima grandezza. Lo stesso Presidente francese Mitterrand parlò nei primi anni Ottanta della necessità di una «nuova Yalta». Scriveva in quegli stessi anni l’ex Presidente Richard Nixon su un saggio dedicato al confronto USA-URSS: «Le nostre differenze rendono impossibile una pace perfetta e ideale, ma i nostri interessi comuni rendono conseguibile una pace pragmatica e vera». Allora il nemico numero uno del capitalismo a stelle e strisce si chiamava, appunto, Giappone, contro la cui economia Washington implementò diverse rappresaglie commerciali e monetarie. «In Giappone non vengono rispettati gli standard di tutela dei diritti dei lavoratori che noi invece garantiamo alle nostre maestranze, e ciò rende disonesta la capacità competitiva del made in Japan»: così scrivevano i “giornaloni” statunitensi nel pieno del conflitto economico con il Sol Levante. È, questo, un ritornello propagandistico che alla fine degli anni Novanta sarà impiegato, mutatis mutandis, nei confronti dell’«immorale capitalismo cinese».
Personalmente condivido la tesi di chi sostiene che «il vero vincitore del ciclo storico delle guerre mondiali [è] stata la Germania. «Quest’affermazione può suonare paradossale; ha tuttavia il merito di sottolineare che l’impiego di strumenti puramente economici può consentire il riassetto della economia internazionale in modo addirittura più efficace del ricorso alla forza militare» (Carlo Jean, Manuale di geopolitica). Con «ciclo storico delle guerre mondiali» occorre intendere, secondo Jean, il lungo periodo che va dalla Prima guerra mondiale alla fine della cosiddetta Guerra Fredda, culminata agli inizi degli anni Novanta nella Riunificazione Tedesca e nella dissoluzione dell’Unione Sovietica.
In realtà l’Unione Europea è stata concepita dalla Francia e dall’Inghilterra soprattutto per controllare e marcare da vicino la potenza sistemica della Germania, e magari usarla all’occorrenza in funzione antirussa e antiamericana. Come spesso accade la volontà politica si deve arrendere al cospetto della forza dell’economia. Ancora Trump: «Guardate l’Ue e vi ritrovate la Germania, è un grosso strumento per la Germania. È la ragione per la quale credo che il Regno Unito abbia fatto bene ad uscirne». La verità a volte può avere l’effetto della benzina gettata sul fuoco. «In questo momento stiamo abbandonando l’Europa e pianifichiamo un vertice biennale del Commonwealth. Costruiremo una Gran Bretagna veramente mondiale»: è quanto ha dichiarato la Premier britannica Theresa May circa il piano del governo sulla Brexit. Oggi la “relazione speciale” angloamericana appare più forte che mai e le ambiziose, ma non saprei dire quanto fondate, parole della May la dicono lunga sul mutamento dello scenario nel cuore stesso del Vecchio Continente. Come reagirà alle “provocazioni” e alle sfide la “riluttante” Germania? E che dire della Cina!
Ecco cosa dichiarava Trump, sempre nel marzo del 2016, sulla Cina: «Noi abbiamo il potere commerciale sulla Cina. Non credo che inizieranno la terza guerra mondiale, ma dobbiamo essere imprevedibili, rispetto a ciò che siamo adesso, assolutamente scontati. Siamo totalmente prevedibili e questo è male. Conosco molto bene la Cina, faccio affari con loro da decenni. Hanno ambizioni incredibili e si sentono invincibili. Il fatto è che noi abbiamo ricostruito la Cina, grazie ai nostri miliardi. Se non fosse per noi, non avrebbero aeroporti, strade e ponti. La Cina va affrontata sotto il punto di vista commerciale. Il libero scambio ci ha rovinato. Loro portano ogni cosa nel nostro paese. Noi, invece, dobbiamo pagare». Ecco come ha risposto ieri il Presidente cinese Xi Jinping parlando al World Economic Forum di Davos: «La globalizzazione ha certamente creato dei problemi, ma non si deve gettare il bambino con l’acqua sporca. Nuotiamo tutti nello stesso oceano». Com’è noto, questo oceano si chiama Capitalismo Mondiale. Concludo la citazione: «Il protezionismo, il populismo e la de-globalizzazione sono in crescita, e questo non va bene per una più stretta cooperazione economica a livello globale».
Chiosa Alessandro Barbera su La Stampa: «Dalle alpi svizzere arriva il nuovo alfiere della globalizzazione, il presidente cinese Xi Jinping. Il messaggio del leader all’Europa è chiaro: se volete il mercato, il mercato siamo noi. L’avreste mai detto?» Se dico che io l’ho pure scritto, oltre che detto, commetto un grave peccato di presunzione? Certo, se uno crede nella colossale balla del «socialismo con caratteristiche cinese» può anche rimanere spiazzato da certe affermazioni di Xi.
«Il leader comunista difende la globalizzazione e il libero commercio»: è questo insomma il “mantra” che oggi impazza su tutte le prime pagine dei quotidiani italiani e mondiali. Scrive Federico Fubini sul Corriere della Sera: «Corrono tempi particolari, quando il segretario del partito comunista cinese parla a Davos come Tony Blair dieci anni fa o Bill Clinton vent’anni fa. Stesse formule ben levigate sui benefici della globalizzazione o i danni del protezionismo». Federico Rampini parla invece di un «mondo capovolto»: il Paese fondato dal “comunista” (le virgolette sono a cura di chi scrive) Mao oggi si propone al mondo come il leader della globalizzazione e del libero mercato. Ma la discontinuità tra la Cina di Mao e quella di Xi non ha una natura ideologica, come crede Fubini, né essa segnala una radicale diversità di carattere storico-sociale rispetto al regime maoista, essendo stato esso fondato su un capitalismo di Stato che si trovò a dover fare i conti con il pesante retaggio storico del Paese, segnato da un lungo passato di colonia sfruttata e dalla più recente egemonia imperialistica imperniata sul bipolarismo USA-URSS. Il merito storico e politico di Mao fu quello di aver consegnato ai suoi eredi un Paese certamente prostrato sul piano economico e molto lacerato su quello sociale e politico, ma tuttavia un Paese ancora unito sul piano nazionale (anche in virtù di pesantissime repressioni ai danni delle minoranze etniche che vivono nell’area cinese) e pronto al decollo sulla scena mondiale. Un successo, quello di Mao, interamente ottenuto sul terreno dello sviluppo capitalistico e della costruzione di una potenza imperialistica, non certo sul terreno della costruzione del «socialismo con caratteristiche cinese», come blateravano ai “bei tempi” i maoisti europei e come continuano a blaterare i non pochi sostenitori italioti del «socialismo cinese». Sulla storia del maoismo rinvio a Tutto sotto il cielo – del Capitalismo e al post Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese.
Indubbiamente la Cina e la Germania sono i due Paesi che oggi hanno più da temere dalla politica estera di Trump, ed è per questo che i due Paesi sembrano parlare lo stesso linguaggio. «Pechino e Bruxelles hanno in comune molto più di quanto non possa accadere con la nuova amministrazione americana», si leggeva qualche giorno fa su un editoriale del quotidiano di Stato in inglese China Daily. Si scrive Bruxelles ma si legge, molto probabilmente, Berlino.
Scrive sul Foglio Giuliano Ferrara, il quale continua a non voler salire sul carro del vincitore, come invece si sono premurati a fare in molti, sia a “destra” sia a “sinistra” (anche qui, nessuno sbigottimento da parte di chi scrive, ma solo conferme): «Un celebre proverbio dice che devi pregare Iddio perché non ti faccia vivere in tempi interessanti. Bisogna pregare molto, molto, molto. Ma, a parte questo, che facciamo? Salire su quel carro mi sembra non auspicabile e anche impossibile. Fermarlo non è così semplice. […] La Merkel, considerata da Trump come una sfruttatrice dell’Europa unita, una cui concedere una fiducia a termine, potrebbe farcela ma non è certo». Sarà un anno interessante, purtroppo». Come si dice dalle mie parti, questo è poco ma è sicuro.
Quel che ci apprestiamo a vivere è dunque un tempo capovolto, insicuro, imprevedibile, interessante; di certo la contesa interimperialistica si fa sempre più aspra e disumana. E anche qui possiamo dire: questo sarà pure poco ma almeno è sicuro.  Una volta Keynes disse: «L’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre»; speriamo che «l’inatteso» almeno per una volta militi a favore delle classi subalterne e dell’umanità in genere. Di questi tempi mi tocca confidare pure in Keynes, e ho detto tutto!

venerdì 27 gennaio 2017

Sulla rottura del sistema Euro

di Giuseppe Masala da Facebook
 
Io do per molto probabile una rottura traumatica dell'area Euro a causa della divergenza dei tassi di interesse tra una sponda e l'altra dell'Atlantico (USA-UE) e per le divergenze interne all'UE (paesi mediterranei che avrebbero bisogno di tassi bassi perché hanno tassi d'inflazione bassi e paesi dell'ex area marco dove c'è un inflazione tendente al 2% statutario e dunque necessitanti di tassi d'interesse alti). Ovvio che queste asimmetrie porteranno ad enormi focolai di crisi sia sul fronte delle finanze pubbliche dei paesi dell'area mediterranea sia nelle banche sempre dell'area mediterranea. Sommariamente questo è ciò che penso. Aggiungo che le politiche annunciate da Trump per l'area euro sono esiziali e non possono che peggiorare le cose; la Germania ha un enorme attivo commerciale con gli USA che se Trump passerà dagli annunci ai fatti tenderanno a mandare in crisi la Germania peggiorando la situazione.
E dunque, l'uscita dall'Euro e il ritorno alle monete nazionali sarà il ritorno all'Età dell'Oro così come molti pensano? Ahimè temo di no.
Innanzitutto bisogna tener conto che Euro o non Euro il mondo di oggi non è quello degli anni 90. Non ne è manco lontano parente. Dal punto di vista economico e geopolitico abbiamo altri due grandi attori che all'epoca erano solo nazioni in via di sviluppo: Cina e India. La Russia eltciniana degli anni 90 era de facto uno stato fallito. Oggi non è così, e di questi attori bisognerà tener conto.
Dal punto di vista dell'innovazione tecnologica il mondo di oggi è completamente diverso da quello di allora: robotica, intelligenza artificiale, banche social e smaterializzate, deep lerning, cripto valute. Tutte innovazioni destinate a stravolgere l'economia al di là del mero fattore monetario. Abbiamo enormi problemi sul mondo del lavoro e con la robotica ce li avremo comunque, euro o non euro. Abbiamo un problema di un sistema bancario decotto innanzitutto nella sua organizzazione aziendale (e ce ne accorgeremo appena aprirà Banca-Facebook che ha già ottenuto la licenza bancaria in Irlanda). Le nostre banche sono dei Mammuth moribondi al di là del problema euro. E mille altre cose ci sarebbe da dire sul mondo prossimo venturo. Ma credo sia sufficiente.

Non solo, la rottura dell'Euro lascerà enormi traumi politici tra popoli e Dio solo sa cosa potrà succedere.
Di sicuro se alcune nazioni romperanno il trattato istitutivo della moneta unica sperando di lucrare sulle esportazioni grazie alla svalutazione altri si sentiranno autorizzati a rompere il trattato istitutivo del mercato unico al fine di introdurre dei dazi a protezione.
E allora? E allora c'è il rischio alto che si entri in una fase politica dominata da populisti che rinfocoleranno l'odio tra popoli per giustificare i loro fallimenti.
Non solo, arriveranno (torneranno) anche le allenze tipo "Triplice intesa" e Triplice alleanza" tra paesi europei. Tornerà dunque la politica di potenza dove i paesi con una forte eccedenza produttiva cercheranno nuovi mercati di sbocco (vi ricordate lo spazio vitale di cui parlava Hitler? Si proprio quello). Questo è quello che probabilmente succederà con la rottura dell'Euro.

E a me viene in mente, e non fatemi parlare troppo, quello che diceva Rosa: "Sozialismus oder Barbarei!". Stiamo scegliendo le barbarie, temo.
Ho detto, scusate il sermone non richiesto.

La globalizzazione è morta

di Carlo Formenti da Micromega

Il re è nudo. Finalmente una voce autorevole della sinistra mondiale – il vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera – ha il coraggio di dirlo forte e chiaro: la globalizzazione è morta. Incapaci di interpretare i sintomi dell’evento (dalla Brexit alla vittoria elettorale di Trump, senza trascurare il no del popolo italiano alla “riforma” costituzionale renziana - ennesima sconfitta referendaria dopo quelle subite in Francia, Irlanda e Grecia dal fronte liberal-socialdemocratico europeista) la maggioranza degli intellettuali post e neomarxisti rifiutano di prendere atto di quello che appare un vero e proprio cambio d’epoca. Il paradosso consiste nel fatto che quanto sta avvenendo è l’esito inevitabile di processi che loro stessi hanno contribuito a mettere in luce: finanziarizzazione dell’economia, de-democratizzazione dei sistemi politici, ristrutturazione tecnologica, guerra di classe dall’alto contro sindacati, movimenti e ogni forma di resistenza organizzata delle classi subordinate, crescita oscena delle disuguaglianze, immiserimento di settori sempre più ampi della popolazione mondiale, ecc.
Dimenticano, fra le altre cose, di avere scritto e detto che la crisi è un fenomeno eminentemente politico, che si spiega a partire dai rapporti di forza fra classi sociali (e fra nazioni dominanti e nazioni dominate: urge rileggersi Samir Amin), e non dalle “leggi” dell’economia. Perché stupirsi, dunque, se la rottura si manifesta come brusco ritiro del consenso popolare alle élite che sfruttano e opprimono? Il fatto è che, a causa della totale insipienza politica, culturale e organizzativa delle sinistre “radicali” (quelle socialdemocratiche sono da tempo passate al nemico), tale rivolta avviene sotto le insegne del populismo di destra.
Scandalizzati dal “tradimento” delle masse, i suddetti intellettuali gridano al pericolo fascista e convergono nel “fronte unito contro il populismo” guidato da partiti, istituzioni, media che fino a ieri indicavano al pubblico disprezzo. Così assistiamo a performance imbarazzanti come quella dell’ex nemico pubblico numero uno dell’ordine capitalista, Toni Negri, che intervistato da La7, difende una globalizzazione che avrebbe diffuso benessere, uguaglianza e democrazia (su che pianeta vive?), con argomenti analoghi a quelli del “compagno” Xi Jimping (lo stesso che vende il proprio popolo allo sfruttamento selvaggio delle imprese multinazionali) il quale ha riscosso, con il suo discorso a Davos, il plauso delle élite liberiste dimentiche delle sue credenziali totalitarie.
Questa confusione mentale nasce dal fatto che post e neomarxisti non si sono mai emancipati da una visione della storia come un processo lineare e necessario verso il progresso: unificazione dei mercati mondiali= sviluppo delle forze produttive=creazione delle condizioni per la transizione al socialismo guidata – ça va sans dire – da lor signori (o, nella versione post operaista, autogestita dalle avanguardie del “lavoro cognitivo”). Invece la storia non è un processo lineare e, mentre la mondializzazione è associata al capitalismo dalle sue lontane origini mercantiliste, la globalizzazione nelle forme che ha assunto negli ultimi decenni è (o meglio è stata) una fase contingente destinata a esaurirsi come quella culminata e terminata fra fine Ottocento e primo Novecento. “La globalizzazione”, scrive Linera, “come meta-racconto, questo è, come orizzonte politico-ideologico capace di canalizzare le speranze collettive verso un unico destino che permettesse di realizzare tutte le possibili aspettative di benessere, è esplosa in mille pezzi”.
Laddove la subordinazione delle condizioni di esistenza dell’intero pianeta alla valorizzazione del capitale, scandita dai cicli egemonici delle nazioni che si sono succedute alla guida del processo, è sempre stata imposta con la forza delle armi, quella attuale si è fondata anche su un progetto ideologico, sulla costruzione di un senso comune legittimante (Gramsci docet) cui anche le sinistre hanno attivamente contribuito. L’egemonia, scrive ancora Linera, ha iniziato a incrinarsi dopo la nascita dei governi rivoluzionari che in America Latina hanno avviato il tentativo di una transizione, se non al socialismo, verso modelli politici, sociali e culturali post neoliberisti.
Altre cause di crisi si sono aggiunte in tutto il mondo - dagli Stati Uniti, all’Europa, al vicino e lontano Oriente - fino a determinare il crollo che oggi è sotto i nostri occhi: “Donald Trump non è il boia dell’ideologia trionfalista della libera impresa, bensì il medico legale al quale tocca ufficializzare una morte clandestina”. Viviamo un tempo di incertezza assoluta, conclude Linera, un tempo che può essere fertile nella misura in cui spazzerà via le certezze ereditarie, obbligandoci a costruire nuove certezze con le particelle del caos “che si lascia dietro la morte delle narrazioni passate”.
 

giovedì 26 gennaio 2017

Le luci di Tel Aviv e l'abbaglio di Saviano

Ripropongo questo vecchio articolo apparso su Radio città Aperta e  su Forum Palestina 7 anni fa, stimolato dalle recenti polemiche.

di Franco Cilli

Lo confesso, sono rimasto deluso da Saviano, come molti del resto. Ho ascoltato il suo discorso alla manifestazioneee: “Verità per Israele”(potete ascoltare un’ampia parte del discorso di Saviano nel video di Arrigoni da Gaza), promosso da Fiamma Nirestein e ho provato un senso di sconforto, non tanto e non solo per l’atroce banalità delle sue parole, che con un’espressività elementare e quasi naive, riusciva a velare le terribili verità dell’oppressione israeliana verso un intero popolo, ma quanto per la sensazione di avere perso una risorsa che mi sembrava importantere per questo paese. Come può rappresentare una risorsa, mi sono chiesto, uno che vive una dissociazione così netta con la realtà? Non è l’unico d’altronde a vivere questo genere di dissociazione, anche Travaglio è affetto dalla stessa sindrome, che io vedo apparentata col fenomeno della religione. Anche lì si è preda di un fenomeno che tende a scindere l’elemento storico da quello del mito, sull’onda dell’emotività e e dell’emersione di un’identità inoculata come un virus.

Rimane il dubbio della cattiva fede e della cattiva coscienza, ma voglio persuadermi che Saviano sia in buona fede e che sia solo vittima di un allentamento delle sue capacità di riuscire a selezionare i fenomeni in base ad un criterio uniforme. Non si comprenderebbe altrimenti perché riesce ad analizzare così finemente il fenomeno della camorra, dissezionandolo in tutte le sue parti e sondandolo fin nei minimi recessi e a ignorare allo stesso tempo parti altrettanto importanti di realtà. Una forma di provincialismo percettivo? Difficile però a credersi in un mondo così disponibile ad essere svelato solo a volerlo.

Saviano cita più volte in maniera quasi cantilenante “ le luci di Tel Aviv”. Sono l’elemento che più di ogni altra cosa ha suscitato in lui emozione. Appunto, emozione e rischiaramento, un effetto artificiale di una luce artificiale. Le luci, la percezione di un’atmosfera calda, tollerate e accogliente sono gli elementi di un caleidoscopio ipnotico che hanno forse hanno indotto in Saviano un giudizio fondato sull’emotività piuttosto che sulla fredda considerazione dei fatti, quasi se con Gomorra lui avesse già dato, se la ragione fosse ormai consunta e abusata e volesse aprirsi a frontiere inesplorate della realtà, quella realtà che si coglie dilatando al massimo la percezione e identificando l’apparire dei fenomeni percettivi con la realtà stessa. Questo “illuminismo romantico” di Saviano è davvero pericoloso e induce in chi ascolta la paranoia del complotto.

Qual’è la causa che rende possibile questa dissociazione? La risposta come spesso avviene la troviamo nella storia, in quella storia che si intreccia con la natura e con il “destino dell’uomo”. La nostra stessa società e vittima di una dissociazione delle sue parti, una scissione intrinseca al sistema stesso. La civiltà occidentale si è evoluta grazie alla spinta della borghesia che nel rivendicare i propri diritti di classe in conflitto con l’aristocrazia, ha aperto le porte a rivendicazioni universali, che fondevano le libertà economiche con le libertà individuali e portavano all’emersione verso l’esterno della libertà di coscienza, una libertà fino ad allora relegata a forza nella sfera privata. Quando tale libertà è divenuta l’elemento propulsivo dei diritti delle moltitudini, con la lotta e con il sangue si sono conseguite conquiste storiche che paradossalmente mentre recavano più libertà e maggiori diritti per gli sfruttati, portavano allo stesso tempo ad una razionalizzazione del sistema capitalistico stesso, che utilizzava l’accresciuta libertà degli individui per incrementare il suo potenziale espansivo e il saggio di profitto, contraddicendo in questo le previsioni di Marx. Ecco spiegata la dissociazione, non è solo un puro elemento dispercettivo, ma è un fattore costitutivo della società capitalistica stessa, che da una parte conserva intatto il potere spietato del capitalismo, dall’altro genera inevitabilmente quelle “sovrastrutture” destinate teoricamente a soppiantarla, e che durante i secoli sono state portatrici di istanze di “progresso”, oscillando fra rivoluzione e riformismo.

Gli aspetti di democrazia interna e di libera circolazione, unitamente all’accesso ai consumi delle democrazie occidentali contribuiscono a creare un milieu dove una buona parte dei cittadini, borghesi o proletari, si trova a proprio agio. Siamo  così portati, se non teniamo ben desto il nostro spirito critico, a vivere gli elementi sovrastrutturali di una società come indipendenti dalla sua struttura economica e sociale. Questa è l’essenza delle democrazie occidentali: elementi di libertà (fatto salvo lo sfruttamento del lavoro) al proprio interno, con un sufficiente grado di soddisfazione di bisogni acquisiti della quasi maggioranza della popolazione, grazie all’abbondanza di plusvalore prodotto, e una politica estera affidata al realismo amorale della politica, una sfera autonoma e meno soggetta a condizionamenti e a normative giuridiche o etiche. Forse è una specie di istinto egoistico di conservazione che induce molti di noi a rimuovere la presenza di quelle istituzioni sovranazionali che servono e si servono delle democrazie o se preferite dell’impero, per mantenere un sistema di distribuzione delle risorse ineguale e che dettano le politiche verso i cosiddetti paesi emergenti.

Ha ragione Giuliano Ferrara quando afferma con l’agghiacciante cinismo del liberale che si è strappato la maschera: “volete i frigoriferi, le televisioni e le automobili? Questo è il prezzo”. Il prezzo è una competizione spietata per la conquista a tutti i costi delle risorse del pianeta, ci volesse una guerra con motivazioni inventate di sana pianta. Per alcuni sedicenti liberali non ha nessuna importanza la politica estera di una “grande democrazia”, l’importante è che questa si conformi a determinati canoni, stabiliti non si sa da chi e che danno per scontato ad esempio che il bipolarismo delle democrazie anglosassoni sia l’unico vero modello di democrazia. Che importa poi una guerra e qualche milione di civili massacrati, vivaddio la democrazia non può essere perfetta, solo praticata e canonizzata, è una realtà che sfugge al desiderio e si conforma solo al volere della storia. Tutti gli stati che il mondo civilizzato esclude dall’albo dei paesi democratici, sono stati canaglia, perché è il canone quello che conta, comodo alibi per le porcherie del liberismo.

Forse sotto sotto nell’atteggiamento di quelli come Saviano c’è anche una sorta di malcelato storicismo, che vede nella politica coloniale un passaggio obbligato verso il progresso dell’umanità, un ponte fra la barbarie dello stato di natura e la civiltà. L’indigeno va represso e se necessario annientato, perché rappresenta forme residuali di società morenti e destinate ad essere soppiantate dal nuovo. L’ansia di compiere una missione storica induce i liberali di tutte le fatte a sorvolare anche su quegli aspetti negativi che si manifestano all’interno delle società capitalistiche stesse, considerati endemici di una democrazia e frutto di una dialettica sociale che richiede l’esistenza di una classe povera, di un ceto medio e di una classe borghese agiata,  quali elementi di un dinamismo sociale necessario e vitale. Nel caso di Israele poi questi aspetti solo a non voler chiudere gli occhi sono eclatanti: l’apartheid e le ingiustizie verso le popolazioni arabe sono tremendi, ma la luce delle vetrine, la libera circolazione delle merci e con esse della “cultura”, ci abbaglia e ci persuade che non c’è nulla di meglio delle democrazia borghese, anche quando questa smentisce se stessa.

Persino personaggi come Grillo sono vittime della stessa dissociazione. Grillo racconta un’Inghilterra delle meraviglie, dove lui, un comico, viene ricevuto e ascoltato nientemeno che dal Ministro della cultura in persona e dove i delfini nuotano del Tamigi. Gli aspetti di efficienza della macchina statale secondo i canoni di un concetto di civiltà che si misura con il rispetto delle leggi, il funzionamento delle metropolitane e la snellezza delle burocrazia, prevalgono sulle considerazioni in merito alla natura feroce della politica coloniale e guerriera di uno Stato “democratico”. Che importa se l’Africa è sotto il loro giogo e se l’Iraq è una groviera insanguinata?

Torna nuovamente l’inquietante interrogativo: la democrazia ha un prezzo? Se si chi lo paga?

È possibile separare ad esempio il benessere della Svizzera e la sua libertà interna dal riciclo di capitali da parte delle sue banche, derivanti dai proventi della mafia e dal traffico di droga? È possibile separare la politica coloniale dell’Inghilterra e della Francia dal loro modello di democrazia e dal loro livello di reddito pro capite?

Io credo di si, credo sia possibile ridurre i costi di una democrazia e soddisfare adeguatamente i nostri bisogni, basterebbe che ci mettessimo d’accordo su un prezzo equo da pagare, facessimo qualche rinuncia e non dessimo più credito a fantocci che urlano :”lo standard di vita del mio paese non si tocca”, o recitano litanie del tipo: “occorre rilanciare i consumi, aumentare la crescita, la produttività” ecc. ecc . Non sarebbe più necessario affamare un miliardo e mezzo di persone e distruggere l’ecosistema. Che ci vorrà mai, basterebbe ripensare integralmente il nostro sistema economico, abolendo per decreto il pensiero unico in economia. Ma questo è un discorso lungo.

Sono convinto che anche nel Tevere potrebbero nuotare i delfini, sarebbe sufficiente eliminare gli squali.


martedì 24 gennaio 2017

Toni Negri e i “post-operaisti”: l’utopia funzionale alla globalizzazione capitalista?



di Fabrizio Marchi da l'interferenza


“La globalizzazione è stata qualcosa di estremamente importante per i popoli del terzo mondo. Milioni e milioni di persone che attraverso la globalizzazione dei mercati sono state tirate fuori dalla miseria. Credo che anche l’Occidente ci abbia guadagnato molto”.

Non sono parole di economisti liberisti come Von Hayek o Milton Friedman, ma di Toni Negri, filosofo, comunista, padre dell’operaismo degli anni ’60 e ’70, leader dell’area cosiddetta “post-operaista” – come vengono appunto definiti coloro che provengono da quell’esperienza politica – intervistato dal giornalista Gianluigi Paragone a “La Gabbia” pochi giorni fa, in occasione del seminario “Comunismo 17” organizzato a Roma presso l’Atelier Autogestito Esc dal 18 al 22 gennaio:

Interessante notare che nella stessa trasmissione, subito dopo di lui, l’imprenditore e uomo politico di area liberale Franco De benedetti, canterà più o meno le stesse lodi della globalizzazione, aggiungendo che quest’ultima, oltre a migliorare le condizioni di vita di milioni e milioni di persone, ha contribuito anche a portare diritti e democrazia dove non c’erano.

I due, Negri e De Benedetti, partono da approcci diversi e hanno finalità e orizzonti diversi (per lo meno in teoria), ma la direzione di marcia, come vediamo, è esattamente la stessa.

Seguendo la loro logica è necessario quindi appoggiare il processo di globalizzazione e anzi fare quanto è nelle nostre possibilità per accelerarlo perché porterà (e ha già portato, dicono…) benessere, diritti e democrazia nel mondo – secondo l’opinione di De Benedetti (ma in fondo, indirettamente, anche di Negri) – e perché creerà – secondo Negri – le condizioni per il passaggio ad una società libera dalla schiavitù del lavoro salariato (magari, diciamo noi…), anche grazie alla Tecnica che “libera” e “libererà” masse sempre più crescenti dalla schiavitù del lavoro, e quindi, in ultima analisi, verso una società comunista, sia pure di là da venire. Un passaggio, questo, che non prevede mediazioni (lo Stato, la Politica, i Partiti o la conquista del Potere Politico) ma è il risultato di un processo di fatto inevitabile, anche se ovviamente non del tutto spontaneo. Spetterà ai nuovi “lavoratori salariati cognitivi”, cioè la punta più avanzata del mondo del lavoro perché situata nel punto più alto dell’organizzazione capitalista della produzione, condizionare e indirizzare tale processo nella direzione auspicata, anche mobilitando le cosiddette “moltitudini”, cioè tutta quella vasta gamma di nuovi soggetti, le donne, evidentemente considerate come una “categoria” oppressa e discriminata in quanto tale (nessuna novità rispetto alla narrazione femminista di sempre e da tempo uno dei mattoni fondamentali dell’ideologia dominante), i migranti e tutti coloro che in forme diverse sono sottoposti al rapporto di produzione capitalistico (mi scuso per la estrema semplificazione ma su un articolo di giornale non è possibile fare altrimenti).

Insomma, a parere del nostro, saremmo già in un mondo migliore rispetto a quello esistente fino ad una trentina di anni fa, immediatamente prima del crollo del muro di Berlino. Il fatto che da allora il processo di globalizzazione capitalista sia stato imposto attraverso la guerra imperialista permanente (con tutti gli effetti del caso…) sembra essere un particolare secondario e non influire sul giudizio complessivamente positivo dello stesso (e infatti, come noto, i centri sociali che fanno riferimento all’area “negriana” non si sono particolarmente distinti, per usare un eufemismo, nel sostegno alla Siria o al Donbass…). E che questa guerra totale abbia tentato di disintegrare e molto spesso disintegrato stati, nazioni, popoli, comunità, etnie, culture, identità, sembra esserlo ancor più (secondario). Ma questo non ha nessuna importanza per Negri e compagni, perché i concetti di stato e ancor più di nazione sono considerati come pura “barbarie”, come vicende tribali “che hanno causato solo disastri”. Cosa in gran parte vera, perché non c’è dubbio che certo nazionalismo, in particolare quello che ha dominato in Europa nel XIX e nella prima metà del XX secolo (ma anche nei secoli precedenti) abbia rappresentato la bandiera ideologica (falsa coscienza) per giustificare le guerre imperialiste e la dominazione coloniale. Non c’è però altrettanto dubbio che è esistito anche un nazionalismo “progressista” – penso proprio ai movimenti di liberazione nazionale anticolonialisti e antimperialisti di tutto il mondo (fra cui anche molti movimenti comunisti dove l’elemento di classe si sovrapponeva a quello nazionale, basti pensare al Vietnam o a Cuba) a partire da quelli arabi ma non solo – che proprio sulla rivendicazione dell’identità culturale e nazionale (e talvolta religiosa) dei popoli fondava la sua ragion d’essere, come è inevitabile che sia. Del resto è risaputo che per fiaccare la resistenza di un popolo sottomesso è necessario distruggere le sue radici e la sua storia, in altre parole la sua identità (una parolaccia, per i post-operaisti e per tutta la “sinistra” contemporanea, sia essa liberal o radical…), cosa che le varie dominazioni coloniali hanno sempre cercato di fare nel modo più lucido e sistematico. A poco o nulla serve ricordare che anche per Lenin e i bolscevichi la “questione nazionale” non era affatto sottovalutata (Lenin, in un suo scritto “Sulla questione delle nazionalità o della autonomizzazione” scrive, fra le altre cose, che “Ho già scritto nelle mie opere sulla questione nazionale che non bisogna assolutamente impostare in astratto la questione del nazionalismo in generale. E’ necessario distinguere il nazionalismo della nazione dominante dal nazionalismo della nazione oppressa, il nazionalismo della grande nazione da quello della piccola”). Ma tutto ciò rappresenta, al meglio, per i post-operaisti, solo zavorra se non peggio, un ostacolo sul cammino della liberazione totale dell’umanità e del “desiderio”.

In questa visione delle cose, è importante rilevarlo, il concetto di internazionalismo proletario, finisce inevitabilmente a confondersi e a sovrapporsi completamente con quello di “cosmopolitismo”, cioè con una sorta di neo universalismo (neo) kantiano, naturalmente distorto e piegato alle esigenze ideologiche e politiche delle elite capitaliste dominanti. L’orizzonte è appunto quello della distruzione di ogni identità culturale, statuale, nazionale (che non è detto che debba avere necessariamente un carattere reazionario; erano forse reazionari gli indiani americani, gli aborigeni australiani, gli algerini e tutti i popoli che hanno combattuto e talvolta vinto contro il dominio coloniale?) e l’abbattimento di ogni ostacolo, sia esso di ordine politico o culturale, che possa essere di impedimento al processo di globalizzazione capitalista, che significa di fatto la globalizzazione dei mercati ma niente affatto dei diritti (il capitalismo convive allegramente con le monarchie semifeudali saudite, con la società divisa in caste indiana, con lo stato-partito cinese, e gli stati occidentali stanno gradualmente adeguando il loro sistema di garanzie sociali sul modello di quelli asiatici per poter essere competitivi con questi ultimi ). Ma quello che non si capisce, a questo punto, è quale possa essere il terreno e anche lo spazio politico e fisico per poter sviluppare una conflittualità antagonista (di classe) dal momento che si esclude, per coerenza, l’ipotesi di una rottura e di una uscita dal sistema. Le ricadute concrete, infatti, in termini politici, di questa concezione, si traducono nella scelta di rimanere all’interno delle strutture del dominio capitalista, cioè l’UE e l’eurozona, escludendo a priori la possibilità che un processo politico e sociale all’interno di uno degli stati membri (ad esempio l’affermazione politica ed elettorale di un fronte democratico, popolare e socialista) possa portare quello stesso stato a recuperare la sua autonomia politica e sottrarsi, sia pure parzialmente, ai diktat delle elite capitaliste globaliste dominanti. Viceversa – sostengono i nostri amici – il sistema dovrebbe essere cambiato dal “di dentro”, cioè attraverso quel processo cui facevo cenno in apertura. La qual cosa, dal mio punto di vista, è quanto meno contraddittoria. Come si può infatti pensare di esercitare una egemonia e addirittura cambiare radicalmente una istituzione che è strutturalmente un progetto capitalista e imperialista? La vicenda greca è significativa da questo punto di vista (e non a caso Negri difende le scelte politiche sia di Tsipras che di Varoufakis) e in tal senso rimando ad un mio vecchio articolo: http://www.linterferenza.info/editoriali/la-necessita-della-mediazione-e-il-coraggio-della-rottura/

Come dicevo, la globalizzazione, attraverso la guerra e il saccheggio sistematico delle risorse dei paesi del terzo mondo ha portato alla distruzione e alla spoliazione di intere aree, creando il fenomeno, non certo nuovo, della migrazione di grandi masse, che in moltissimi casi hanno perso anche quel poco che avevano, verso le “metropoli” occidentali.

Naturalmente questa massa di manodopera costituita dagli immigrati va a premere sui lavoratori occidentali e a fungere come da arma di ricatto su questi ultimi, con due ricadute, entrambe funzionali al capitale:
l’abbassamento del costo del lavoro, con conseguente riduzione dei salari, la precarizzazione del lavoro, la distruzione o la riduzione ai minimi termini del welfare e dei diritti sociali e ultimamente (vedasi l’attacco delle oligarchie finanziarie europee alle Costituzioni democratiche dei vari stati scaturite dalla guerra contro il nazifascismo e considerate obsolete), anche di quelli civili;
la competizione fra i lavoratori autoctoni e quelli immigrati, la cosiddetta “guerra fra poveri” che, ovviamente, viene alimentata ad arte dalla variante neo populista di destra del sistema capitalista (Trump, Le Pen, Salvini e neo destre sia dell’ovest che dell’est europeo).

Nello stesso tempo, la globalizzazione ha provocato il fenomeno della cosiddetta delocalizzazione: le imprese dei paesi sviluppati vanno a produrre nei paesi del terzo mondo dove il costo del lavoro è bassissimo, i lavoratori sono completamente privi di diritti (e di certo le imprese e le multinazionali occidentali non fanno nulla per portarglieli, alla faccia di chi sostiene che la globalizzazione capitalista avrebbe portato diritti e democrazia…), non esistono sindacati, e ci sono governi “amici” che alla bisogna chiudono tutti e due gli occhi e che sono complici di questo processo di sfruttamento complessivo dei lavoratori e dei “loro” stessi popoli.

Ma – si dice – la globalizzazione ha migliorato le condizioni di vita di milioni e milioni di persone. E grazie al cavolo, mi verrebbe da dire, non faccio certo fatica a crederlo. Perché è evidente che questo processo ha visto la crescita in taluni contesti, ma non in tutti, di una nuova classe borghese che prima era molto ridotta e in taluni casi non esisteva neanche. Il problema è che – se la teoria del valore (e del plusvalore) di Marx non è una fantasia dell’autore – se c’è qualcuno che si arricchisce, logica vuole che ci sia qualcun altro che si impoverisce o che comunque venga sfruttato da coloro che si arricchiscono sul suo lavoro e alle sue spalle. Che sia dunque un liberale e un liberista a sostenere che il processo di globalizzazione capitalista ha migliorato, in termini assoluti, le condizioni di vita di una parte, comunque minoritaria, della popolazione mondiale, è del tutto normale, logico e comprensibile. Non lo è per nulla se a sostenere tale tesi è un comunista.

Negri non può non accorgersene, ma ovviamente cade in contraddizione. Al minuto 1,25 dell’intervista, Paragone osserva che la globalizzazione è stata dominata dal neoliberismo che ha “livellato” (nonché ridotto…) i diritti dei lavoratori, e naturalmente Negri non può che confermare. Ora però la vedo dura sostenere che la globalizzazione è stata un fatto assolutamente positivo e contestualmente riconoscere (né potrebbe essere altrimenti…) che questa ha portato ad una riduzione e ad un livellamento (in basso…) dei diritti dei lavoratori in tutto il mondo. Anche in questo, nulla da dire se a sostenere tale tesi fosse un pensatore liberale-liberista, ma non dovrebbe essere questo il caso di Negri.

Veniamo ora ad un’altra questione fondamentale sulla quale mi pare che ci sia, forse, e sottolineo forse, una divergenza di opinioni all’interno dell’area post-operaista (per lo meno restando alla sua intervista a “La Gabbia”, non ho ascoltato il suo intervento al seminario) e gli altri due maggiori esponenti e intellettuali di quell’area, cioè Paolo Virno e Franco Berardi (Bifo) che invece ho ascoltato in diretta.

Negri sostiene che la classe operaia occidentale, o ciò che resta di essa, sia ormai un ceto sociale residuale, pervaso da pulsioni egoiste, ridotta in queste condizioni dai padroni e dalle socialdemocrazie (e su questo ha in larghissima parte ragione se non fosse che, a mio parere, anche una certa “sinistra” “radical, antagonista e femminista”, cioè quella che anche lui rappresenta, ci ha messo del suo…) che difende in modo corporativo le proprie posizioni (cioè il posto di lavoro e una certa sicurezza sociale…). Bifo ci va giù in modo molto più pesante (forse perché non era in televisione…) e parla espressamente di “classe operaia “nazionalistizzata” e nazificata”, e per questo facile preda del populismo. Il quale populismo – spiega Virno – è “il fascismo postmoderno”. Anche in questo c’è sicuramente del vero, però mi sembrerebbe un grave errore liquidare la questione in questo modo e affidarsi alle sorti magnifiche e progressive dei lavoratori cognitivi della Silicon Valley (ripetutamente evocati e individuati da Bifo come la possibile avanguardia del processo rivoluzionario…) e delle cosiddette “moltitudini desideranti” (che siano desideranti non c’è alcun dubbio, si tratta di capire se questo desiderio prenderà spontaneamente una strada rivoluzionaria o comunque di rottura rispetto all’ordine sociale esistente oppure sarà fagocitato dal capitale, molto abile, anche e soprattutto dal punto di vista ideologico/psicologico, a “giocare” la sua partita proprio su quella naturale e legittima aspirazione alla soddisfazione del desiderio…).

Ora, se è da lodare il tentativo di individuare in alcuni settori di lavoratori, quelli più “avanzati” perché si trovano – come dicevo – nel punto più alto dell’organizzazione e della divisione capitalista del lavoro (e quindi sono provvisti di “know how”, di un differenziale di sapere che li pone in una condizione “privilegiata”, in termini di capacità cognitive, rispetto ad altri), l’avanguardia o comunque i possibili soggetti di un altrettanto possibile processo di trasformazione, mi sembra un gravissimo errore liquidare tutti gli altri (anche con un certo malcelato disprezzo, che si avverte chiaramente e che non dovrebbe appartenere a chi si professa comunista), dandoli per perduti e regalandoli di fatto al neo populismo di destra.

E a questo punto ci sono altri due gravissimi errori che vengono a mio parere commessi. Intanto non è affatto detto che quel differenziale di sapere di cui sono provvisti quei “lavoratori cognitivi” si trasformi necessariamente in coscienza di classe. E’ anzi, purtroppo, assai più probabile il contrario, e cioè che proprio per la loro condizione “privilegiata” vengano ideologicamente fagocitati dal capitale. Del resto, non sarebbe la prima volta che accade. Abbiamo visto l’ “evoluzione” di quel ceto giovanile e intellettuale che nel ’68 era stato individuato come la possibile avanguardia di un processo rivoluzionario e che ha finito per essere completamente o quasi assorbito dal capitale che addirittura ha fatto sue, sia pure rivisitandole pro domo sua, le rivendicazioni e le aspirazioni di cui si faceva portatore.

Oltre a quei “lavoratori cognitivi”, sia pure ormai molto diffusi e cresciuti esponenzialmente di numero, esistono ancora larghe masse di lavoratori generici, non qualificati e sottoccupati, accanto a quei settori di vecchia classe operaia e di piccola e piccolissima borghesia che una volta avremmo detto “proletarizzata” o in via di “proletarizzazione” (proprio a causa della globalizzazione celebrata anche da Negri…). Le periferie e le grandi aree metropolitane di tutte le grandi città europee, ma anche delle province profonde, sono popolate da questa gente che si sente, a ragione, sempre più esclusa e che in gran parte vota in massa per le forze politiche neo populiste di destra (ma non solo di destra).

Ora il problema, a mio parere, è in questa fase quello di lavorare alla costruzione di un blocco sociale in senso gramsciano, che sappia unificare tutti quei settori sociali, i “lavoratori cognitivi” con la classe operaia tradizionale, il “proletariato intellettuale” con i lavoratori generici e meno qualificati e le masse popolari e piccolo e piccolissimo borghesi “periferiche” (in tutti i sensi), e naturalmente superare il conflitto fra lavoratori autoctoni e immigrati (lavoro, quest’ultimo, di una grandissima difficoltà, e pur fondamentale). Se non si fa questo lavoro, se non gli si prosciuga il brodo di coltura, il neo populismo di destra continuerà a crescere e ad aumentare in misura esponenziale i suoi consensi. In una parola: ad essere egemone. E’ quindi anche e soprattutto in quel “brodo” che oggi i comunisti devono lavorare, senza avere timore di sporcarsi le mani, perché quella gente, anche quella ormai completamente priva di una coscienza politica e di classe, che straparla contro gli immigrati ritenendoli responsabili del loro disagio, è la loro gente, la nostra gente, non dimentichiamolo mai, altrimenti siamo destinati a deragliare, e in larga parte è purtroppo già avvenuto.

Mi pare, quindi, che l’atteggiamento dei post-operaisti, in tal senso, e in particolare quello di Virno e Bifo, sia profondamente sbagliato e, mi sento di dire forse presuntuosamente, assai poco socialista e comunista.

Per la verità Negri nella sua intervista a Paragone assume una posizione diversa perché al giornalista che gli chiede perché in tutto questo contesto non esplodano delle ribellioni, Negri risponde (minuto 7) che “Non è vero, che le ribellioni ci sono, almeno dal 2011 ad oggi, e che vengono chiamate “populismi”, ma che in realtà – spiega sempre Negri – sono ribellioni”.

Mi pare (e mi auguro) che qui ci sia una diversa interpretazione rispetto alle posizioni molto nette di Bifo e Virno che invece bollano senza possibilità di appello i populismi come fenomeni apertamente neofascisti e razzisti. Però, come ripeto, questa è una mia personale interpretazione sulla base di quello che ho ascoltato (cioè gli interventi di Bifo e Virno e l’intervista di Negri) e che mi auguro abbia un riscontro effettivo.

Un’ultima nota, questa volta solo parzialmente critica, perché sono del tutto d’accordo con Negri relativamente al suo giudizio sulla Sinistra storica quando dice:” La Sinistra ha fallito quando nel 1914 ha votato il debito di guerra per fare la prima guerra mondiale, ha fallito nel ‘39 e poi nel ’53 quando si è allontanata dal Marxismo. E’ un corpo ormai defunto ma questo non significa che non ci sia una forte, continua, solida ribellione nella vita di tutti i giorni”.

Manca però un punto fondamentale: l’autocritica. Di cantonate, oltre che di brillanti intuizioni, Negri e compagni ne hanno prese, e a mio parere quelle che stanno prendendo oggi sono assai più pericolose di quelle prese nel passato, per le ragioni che ho tentato di spiegare. Forse un pizzico di umiltà (che non hanno mai avuto), ma soltanto un pizzico, potrebbe essere di aiuto per tutti, anche per loro stessi.

venerdì 20 gennaio 2017

IRAQ, LA MADRE DI TUTTE LE BUFALE. Come nasce la disinformazione globale.

di Alberto Negri da Il Sole 24 Ore


È il novembre 2015 quando France 5, canale pubblico di informazione, invia una giornalista a intervistare Ahmad Chalabi, l’uomo politico scelto da Washington per guidare l’Iraq dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003: Time gli dedicò allora una cover story intitolata al “George Washington iracheno”. La parabola politica di Chalabi è nota, un po’ meno chiaro è come contribuì alla guerra e persino la sua fine lascia più di qualche dubbio.
Fu lui fu il grande ispiratore della madre di tutte le bufale: le armi di distruzione di massa irachene.
L’intervista con France 5 si rivela laboriosa. La giornalista alla fine riesce a ottenere il sospirato incontro: è il tardo pomeriggio del 2 novembre del 2015. Le domande sono riferite quasi tutte a una questione. Come fu costruito il dossier americano che imputava a Saddam il possesso di un arsenale chimico e biologico che non fu mai trovato e costituì una delle basi legali all’intervento militare che ha segnato l’inizio della disgregazione del Medio Oriente?
Quando la tv francese mi ha raccontato la storia di questa intervista ha ovviamente sollevato il mio interesse. Come inviato seguo sul campo gli eventi mediorientali da oltre 35 anni e in Iraq ho trascorso molto tempo, in particolare oltre cinque mesi di fila tra la fine del 2002 e la primavera del 2003 quando cadde il regime baathista.
L’arsenale di Saddam era materia di articoli quasi quotidiani. Eravamo inondati da centinaia di pagine di rapporti del dipartimento di Stato, del Pentagono di think tank Usa e britannici. Faldoni enormi, densi di dati e di riferimenti: per sfogliarli ogni giornalista all’epoca spese intere settimane.
A Baghdad l’arsenale proibito di Saddam si “materializzo” davanti agli occhi dei reporter, come in un gioco di prestigio. Squadre di ispettori dell’Onu percorrevano l’Iraq alla ricerca di prove. Nella capitale sbucavano su jeep bianche con la bandiera delle Nazioni Unite, entravano negli edifici del regime e ne uscivano con montagne di incartamenti. Erano quelle le prove?
Talvolta i giornalisti erano invitati a verificare le accuse. Fu così che un giorno andai a Falluja dove in una spianata sassosa si potevano vedere delle strutture di metallo assai sghembe, che sembravano disegnate un geometra distratto: ci fu detto che erano rampe di lancio di missili da armare con testate chimiche. Eppure i famosi Scud di Saddam, sottoposto a sanzioni da oltre 12 anni, dovevano essere quasi tutti spariti da tempo. Infatti durante la guerra non vennero mai usati.
Le accuse potevano sembrare credibili. Nel 1988 avevo visto i sopravvissuti di Halabja, la popolazione curda irachena colpita dai gas di Baghdad che avevano fatto cinquemila morti. Ricordavo benissimo che allora nessuno aveva rivolto alcuna accusa al regime perché combatteva contro l’Iran di Khomeini.
Per costruire delle menzogne credibili serve sempre un fondo di verità e Saddam aveva un fedina piuttosto lunga che non deponeva a suo favore.
Il regime negava tutto. Nel febbraio del 2003, mentre aspettavamo l’attacco americano, il braccio destro di Saddam, Tarek Aziz, che avevo incontrato diverse volte, mi invitò nel suo ufficio. Davanti alla scrivania aveva una montagna di carte da firmare mentre la tv, sintonizzata su Cnn, trasmetteva il discorso del segretario di stato Colin Powell alle Nazioni Unite: stava mostrando le prove della famosa “pistola fumante”, le foto satellitari delle armi di distruzione di massa.
Chi gliele aveva date? Il capo della National Geospatial Intelligence Agency, James Clapper, lo stesso che come direttore della Nsa ha portato le prove dell’interferenza degli hacker russi nelle recenti elezioni presidenziali americane.
Tarek Aziz continuò a sfogliare le carte senza alzare lo sguardo alla tv e gli chiesi cosa ne pensasse del discorso di Powell. “ Credo – disse – che ci faranno la guerra anche se gli consegneremo l’ultimo dei nostri kalashnikov”.
Come è stato possibile costruire il dossier contro l’Iraq di Saddam? “Semplice – ha risposto Chalabi alla giornalista di France 5 – gli americani già nel 2001-2002 mi chiesero riferimenti e persone che avrebbero potuto essere utili a costruire un’accusa sulle armi di Saddam e io ho fornito agli Stati Uniti questi elementi: non mi sento colpevole, sono stati gli americani poi a trarre le conclusioni”.
Ora sappiamo, anche in base al rapporto di John Chilcot, presidente della commissione d’inchiesta britannica, che l’intervento militare Usa in Iraq del 2003, sostenuto caldamente da Tony Blair, era basato su falsi rapporti.
La giornalista di France 5 poteva ritenersi soddisfatta: l’intervista a Chalabi era costata mesi di attesa.
Il giorno seguente all’incontro con Chalabi, il 3 novembre 2015, stava esaminando nella sua stanza d’albergo a Baghdad il materiale raccolto. La notizia arrivò all’improvviso: Chalabi era stato appena trovato morto, apparentemente vittima di un attacco di cuore. Nel filmato ammetteva la sua complicità nella raccolta delle false accuse contro Saddam sulle armi di distruzione di massa e faceva dei nomi: ma questa era stata la sua ultima intervista. Alla giornalista non restò che correre in aereoporto e dileguarsi con il primo volo utile per Beirut. Di solito questi non sono buoni segnali.
La madre di tutte le bufale è nata dentro al sistema politico e di propaganda anglo-americano che non ha mai smesso di produrre la “verità del momento”. E gli altri, come i russi o cinesi, hanno cominciato a imitarlo. Non solo, ha continuato a sostenerla e oggi il sistema che produce bufale può godere dell’aiuto dei social network, di Facebook, di Twitter, di centinaia di siti e blog le cui notizie sono spesso false o inverificabili.
Non c’è più bisogno di inviare come un tempo ai giornalisti voluminosi faldoni che davano al tutto una parvenza di serietà: basta andare sul web e la verità del momento si diffonde come un virus.
Ma di menzogne come quella colossale dell’Iraq si continua a morire. Ogni tanto qualcuno insegna ad altri un mestiere che non ha mai fatto. Non capisco bene cosa sia questa post-verità, sembra una formuletta dove, per esempio nel giornalismo, nascondere un po’ di fumo e scarsa voglia di lavorare e approfondire. La verità spesso non si ottiene subito ma per approssimazione accumulando informazioni e studiando, bene, quello di cui si scrive. Per il giornalista è fondamentale andare sul posto, consumare la suola delle scarpe, avvicinarsi il più possibile al punto di osservazione degli eventi e poi sapersene anche distaccare e mettere a fuoco meglio la situazione. Il giornalista può ovviamente sbagliare e deve sapersi correggere non affezionandosi a comodi schemi di interpretazione. Credo che sia il lavoro che fanno in molti dedicandosi a questo mestiere tutti i giorni per anni, a volte anche a rischio della pelle, per cui la post verità sembra già in sè una bufala propagandata da chi vuole campare sul lavoro altrui. Appurare i fatti è un lavoro individuale ma si fa ancora meglio in una democrazia dove può diventare uno sforzo collettivo e tutto può essere utile: è una grande opportunità di cui non bisogna avere paura. La post-verità è il riflesso della pigrizia e della paura di conoscere.
A meno che non ci si voglia arrendere alla famosa frase di Donald Rumsfeld, l’ex segretario di stato USA. Interpellato sulle armi di distruzione di massa in Iraq e la mancanza di fondamento di quelle accuse, ha detto: “L’assenza di una prova non è la prova di un’assenza”. La madre delle bufale non si stanca di lavorare.


giovedì 19 gennaio 2017

Come funziona l'economia, di Ray Dalio


Davos, il tiranno Xi Jinping campione del nuovo ordine globale contro la marea “populista”

di Carlo Formenti da Micromega 

Meno male che c’è il compagno Xi Jinping: questo il mantra che politici, giornalisti e intellettuali europei recitano in coro dopo il discorso del presidente cinese a Davos. L’uomo che fino a ieri dipingevano come l’incarnazione del peggiore totalitarismo, oltre che come il più pericoloso concorrente nella corsa all’egemonia sui mercati globali, è improvvisamente divenuto il loro eroe, il campione delle leggi della libera concorrenza contro l’usurpatore Trump, la “traditrice” Theresa May e il principe del male Vladimir Putin.
Quale migliore prova del fatto che le litanie sulla democrazia delle élite occidentali non sono (né sono mai state) altro che una maschera dietro la quale nascondono i loro obiettivi di dominio politico ed economico sul resto del mondo? Il guaio dell’Europa è che, per lei, questi obiettivi, malgrado la potenza della locomotiva tedesca che guida manu militari il trenino Ue, possono essere realizzati solo sotto lo scudo della leadership politica e militare degli Stati Uniti, per cui ora, di fronte alla svolta anti europea e anti Nato di Trump, gli alleati del Vecchio Continente sono letteralmente in preda al panico, al punto da ammettere quello che da decenni vanno dicendo i critici marxisti del neoliberismo, cioè che il divorzio fra capitalismo e democrazia è fatto compiuto da almeno trent’anni. Quanto era già stato chiarito con la riduzione della Grecia a paese semicoloniale, culmine di un processo di espropriazione della sovranità popolare e nazionale a danno di tutti i popoli europei, viene ora ribadito con la nomina del tiranno Xi Jinping a campione del nuovo ordine globale contro la marea “populista”.
Ma a Davos c’è stato un altro acting out: in un empito di resipiscenza “buonista” i cacicchi che guardano il mondo dall’alto hanno riconosciuto che le batoste politiche subite nell’ultimo anno sono l’effetto collaterale dei livelli intollerabili di disuguaglianza che loro stessi hanno contribuito a creare: qualche mese fa si era detto che i 62 uomini più ricchi del pianeta possiedono la metà delle risorse mondiali, ora abbiano saputo che per realizzare il record ne bastano otto! Tutta brava gente, beninteso, dedita alla beneficienza nei confronti dei miliardi di pezzenti che lottano per sopravvivere ai loro piedi. Peccato che la beneficienza non basti più e che l’incazzatura cominci a montare dal basso; e peccato che non bastino più nemmeno le professioni di correttezza politica, come se le concessioni di diritti individuali e civili e l’adozione di un linguaggio pseudo femminista, “tollerante” e benevolente verso tutte le forme di diversità non fosse più in grado di far dimenticare le pratiche criminali di liquidazione dei diritti sociali che le classi subordinate avevano conquistato a costo di dure lotte.
Così, correndo qua e là come un branco di scarafaggi colti dall’improvvisa apparizione di piedi umani minacciosi, politici, finanzieri, imprenditori, accademici, giornalisti si agitano e corrono alla ricerca di un mobile sotto cui infilarsi e anche la credenza cinese diventa promessa di porto sicuro.
A fare tristezza è il fatto che in quel branco di insetti troviamo anche diversi (per fortuna non tutti) esponenti di una “sinistra radicale” che, più che di tradimento, appare colpevole di idiozia: incapace di leggere la natura politica (crollo sistemico di consenso e legittimazione) più che economica della crisi in corso, incapace di riconoscere la rabbia popolare e di assumerne la direzione (oggi in mano al populismo di destra, con poche eccezioni come quelle di Podemos in Europa e dei regimi bolivariani in America Latina), incapace di capire che solo lottando per riconquistare la sovranità popolare e nazionale si possono creare le condizioni di una riscossa delle classi subalterne, insegue improbabili progetti di riforma di una Europa agonizzante in cerca di nuovi protettori. Non è la lezione del tiranno antioperaio Xi Jinping che dovrebbe ispirarci la Cina, bensì la saggezza del vecchio detto maoista “bastonare il cane che affoga”.

martedì 17 gennaio 2017

Il triste tramonto dell’eredità del movimento operaio in Italia e la crisi della sinistra politica

di Stefano G. Azzarà da Micromega

 

1991-2016

Conclusa la Guerra Fredda, nel 1991 si concludeva anche la parabola settantennale del PCI, giunto allo scioglimento al termine del XX congresso. Grazie all’iniziativa di alcuni esponenti storici di quel partito - Libertini, Salvato, Serri, Garavini, gli ex PdUP Magri e Castellina e diversi altri - ma soprattutto grazie al tempestivo lavoro sotterraneo del leader storico della corrente “filosovietica” Armando Cossutta, nello stesso anno nasceva però il Movimento e poi il Partito della Rifondazione Comunista (PRC). Al primo nucleo dei fondatori, che nonostante la notevole diversità negli orientamenti faceva per lo più riferimento alla Casa Madre di via delle Botteghe Oscure, si sarebbe presto unita una piccola pattuglia proveniente da Democrazia  Proletaria.

Non è il caso di ricostruire nei dettagli le vicende di questo partito. Ricordo però le prime riunioni semiclandestine e la concitata campagna per le elezioni regionali siciliane, dove fu per la prima volta presentato il simbolo e dove il PRC raccolse un sorprendente 6%. Ricordo inoltre come nei primi anni esso riuscisse a riscuotere il consenso di quella parte dell’elettorato ex PCI che non aveva condiviso il mutamento di nome e soprattutto la ricollocazione politica della tradizione comunista italiana, raggiungendo percentuali importanti in particolare nel Nord Italia industriale (con dati superiori al 10% in città come Milano e Torino). A dimostrazione del fatto che, a prescindere dalle nomenclature, esisteva ancora in quel momento tra i lavoratori salariati e nei ceti medi riflessivi uno spazio politico praticabile per una sinistra intenzionata a non allinearsi allo spirito dei tempi.

Dopo 25 anni, nel corso dei quali ha partecipato in via diretta o indiretta ai due governi di centrosinistra guidati da Romano Prodi e ha sostenuto un’infinità di coalizioni negli enti locali, il PRC è oggi sostanzialmente scomparso. Corresponsabile di scelte antipopolari - che dal famigerato Pacchetto Treu in avanti erano state motivate con la necessità di fermare un fantomatico “fascismo berlusconiano” ma che hanno clamorosamente aumentato il divario tra i ceti più forti e quelli più deboli -, ha perduto i propri militanti e simpatizzanti e non è più in grado di presentarsi alle elezioni in maniera autonoma con il proprio nome e simbolo. E almeno dal 2008 – da quando è stato estromesso dal Parlamento nazionale per il mancato superamento del quorum elettorale da parte del rassemblement della Sinistra Arcobaleno - ha esaurito ogni capacità propositiva ed è rimasto tagliato fuori dal dibattito politico e culturale del paese.

Ridotto a poco più di un logo, ovvero a un franchising di gruppuscoli locali che sopravvivono quasi soltanto sui social network (a parte poche realtà che resistono nel mondo reale con infiniti sforzi di volontarismo), esso sembra del tutto incapace di rigenerarsi, ostaggio di quella sorta di segretario a vita per mancanza di alternative che è il suo leader Paolo Ferrero. Il quale, dopo aver sempre sostenuto la linea delle alleanze con il PDS-DS-PD ed essere stato Ministro al Nulla dal 2006 al 2008, non può possedere certamente oggi, nell’epoca delle contrapposizioni frontali, la credibilità necessaria per parlare con i ceti popolari e per assicurare una ragion d’essere alla propria comunità politica.

Un contesto impossibile

Perché è avvenuto tutto questo? Come è stato possibile che in un tempo relativamente breve un intero capitale di idee, passioni e impegno militante, costruito con fatica e sacrifici da uomini e donne che avevano cercato di mantenere un filo di continuità politica con la storia del movimento operaio, sia stato dilapidato in maniera così ignominiosa e nell’indifferenza generale? Come è accaduto che un partito che in certi momenti ha avuto anche un ruolo significativo si sia frantumato in una decina di sigle, tutte altrettanto rissose, insignificanti e innocue, spalancando un’autostrada che ha consentito al Movimento 5 Stelle di sfondare anche a sinistra?

Non esistono responsabilità univoche. Perché la situazione oggettiva di quella fase, che era determinata da una sconfitta storica delle classi subalterne al termine di un lungo conflitto nel quale la dimensione internazionale si era intrecciata alle vicende nazionali, era così disperata che la sfida della ricostruzione di un partito comunista alla fine del XX secolo sarebbe stata troppo ambiziosa anche per le posizioni soggettive migliori, anche – per paradosso - per un Togliatti redivivo. Una sfida impossibile, dunque. Tanto che la domanda giusta da porre è semmai proprio quella opposta: come è stato possibile, cioè, che una forza che non ha mai prodotto innovazioni significative e che non è mai stata all’altezza della sfida contenuta nel proprio nome (“Rifondazione”) abbia potuto vivere di rendita ancora per vent’anni dopo la fine del comunismo storico?
La realtà è che la tradizione comunista era così radicata in Italia che anche questo mezzo miracolo e stato possibile. Tanto che per certi aspetti in questo paese solo oggi viviamo fino in fondo le conseguenze della caduta del Muro di Berlino.

C’è poi un altra questione oggettiva di cui tener conto. I processi di concentrazione del potere in favore degli esecutivi e a detrimento dei parlamenti e della rappresentanza, processi che dalla fine degli anni Settanta riguardano tutto il continente europeo e che dopo la caduta del Muro avrebbero assunto le forme di un inedito neobonapartismo mediatico e spettacolare, non sono attecchiti in Italia con la stagione del “decisionismo” guidata dal leader del PSI, Bettino Craxi, ma contro costui e con l’introduzione del sistema elettorale maggioritario uninominale nel 1991. E cioè con la cancellazione del sistema proporzionale puro che aveva orientato il campo politico italiano dalla fine della Seconda guerra mondiale e per gravissima responsabilità del PDS, il partito nato dalle ceneri del PCI. Il quale, vedendovi una scorciatoia tecnica che avrebbe aggirato il moderatismo strutturale del paese costringendo i partiti di centro ad allearsi e a portare al governo gli ex comunisti, aveva avallato un referendum completamente sbagliato. Un referendum del quale paghiamo ancora oggi le conseguenze e che, lungi dal preparare una modernizzazione del sistema politico, rientrava semmai nella lunga tradizione del sovversivismo delle classi dirigenti italiane.

Questa circostanza ha fatto sì che, ancor prima di definire un proprio programma, Rifondazione Comunista diventasse in maniera consustanziale l’ala sinistra del centrosinistra. Una forza destinata per ragioni sistemiche a coprire sempre e comunque il fianco “radicale” dell’alleanza con la sinistra moderata e le sue politiche di neoliberalismo temperato, e dunque destinata a rimanere priva di sostanziale autonomia oppure a perire. Tanto che, puntualmente, questo partito è evaporato nel momento esatto in cui, con la nascita del PD, Walter Veltroni ha posto fine alla stagione delle larghe alleanze di centrosinistra su scala nazionale.

Un profondo deficit culturale

Seppur necessarie, però, queste considerazioni non sono sufficienti. E finirebbero per essere persino fuorvianti e consolatorie se ci portassero a chiudere gli occhi sulla parallela dimensione soggettiva di questa storia. E cioè sul fatto che, a prescindere dal contesto storico e politico, sin dalla nascita il profilo del PRC è stato drammaticamente fragile sul piano culturale e morale e perciò completamente privo di fondamenta e prospettiva.

Erano confluiti al suo interno anzitutto gli eredi più ideologizzati del PCI, un partito che aveva una storia gloriosa alle spalle perché aveva edificato la democrazia moderna in Italia con il sangue dei propri partigiani durante la guerra di liberazione e con la geniale sapienza politica di Togliatti a guerra  terminata. Un partito, però, che da diverso tempo non poteva che essere comunista soltanto di nome. E che in molte sue componenti aveva sposato l’idea migliorista secondo la quale il progresso sociale si riduceva unicamente alla modernizzazione del capitalismo autoctono, un capitalismo che andava salvato dalla sua stessa natura stracciona e parassitaria.

Il malinteso senso di responsabilità nazionale che faceva passare questa modernizzazione attraverso i sacrifici delle classi subalterne e la moderazione salariale – una falsa coscienza egemone presso i quadri del partito come in quelli del sindacato CGIL - si saldava facilmente poi alla filosofia della storia  implicita dei militanti medi di quell’area politica. Convinti, come nell’Ottocento o nella prima metà del Novecento, di essere sempre e comunque dalla parte della ragione e che una necessità immanente avrebbe prima o poi condotto a una società più giusta ed eguale. Quali che fossero, le scelte contingenti del partito-Chiesa erano perciò giuste per definizione. Cosa rappresentavano del resto i sacrifici di oggi, soprattutto in presenza di rapporti di forza momentaneamente sfavorevoli, di fronte a questo orizzonte luminoso pressoché certo per il domani?

Si può dire, in questo senso, che chi proveniva dalla storia del PCI avesse assorbito con il latte materno una mentalità orientata alla riduzione del danno. Una mentalità che conduceva sempre al perseguimento del presunto “male minore” nella paura che tutte le alternative fossero peggiori, rimandando il “bene maggiore” all’orizzonte vago e indefinito delle prediche ai militanti durante i comizi della domenica. Era un realismo che oltre una certa soglia diventava letteralmente surrealismo. E che sul piano della cultura politica sanciva la vittoria postuma di Benedetto Croce su Gramsci, ovvero la rivincita del materialismo storico inteso come mero realismo politico, tattica e opportunismo sull’idea del marxismo come visione del mondo organica e autonoma.

Agli ex PCI facevano poi da contraltare gli eredi “libertari” della Nuova Sinistra, non meglio attrezzati dei primi di fronte al nuovo scenario della globalizzazione incipiente. Erano i figli politici del ciclo 1968-77. E cioè di quella grande modernizzazione della società italiana che era avvenuta dopo gli anni del boom economico. Una modernizzazione che era passata per la contestazione delle rigide gerarchie familiari e sociali dell’Italia agricola e patriarcale e per il salto da una morale austera e inadatta al consumo a una morale liberale di massa adeguata all’epoca della produzione di massa. Una modernizzazione, soprattutto, che si era a lungo mascherata con le vesti di una rivoluzione ultraradicale, la quale contestava la natura “borghese” del comunismo filosovietico – il PCI in primis - in nome di un ideale egualitario che si ispirava a volte al maoismo ma che era del tutto immaginario. L’idea di rivoluzione coincideva infatti per quella sensibilità anzitutto con l’emancipazione integrale della soggettività individuale. E dunque con la sostituzione dell’idea moderna di una libertà da perseguire e praticare in maniera consapevole, collettiva e organizzata sul piano politico con l’idea postmoderna di una libertà che si esprime pressoché esclusivamente nella rivendicazione dei diritti civili e nella scelta arbitraria degli stili di vita e soprattutto di consumo. In una dimensione, cioè, prevalentemente privata.

Era una componente assai vicina a quella che un tempo Ernst Bloch aveva chiamato «corrente calda» del marxismo, con una spiccata inclinazione alla poesia e all’immaginazione fantastica di “nuovi soggetti” e nuove “moltitudini” (una componente assai attenta, non a caso, alla lezione di Toni Negri). E con una propensione tipicamente movimentista a inseguire tutto ciò che si muove e respira nella società civile, senza bisogno di analisi materialistica né programmi. Una componente assai presuntuosa sul piano culturale ma dotata in realtà di scarsi strumenti concettuali. A partire dal suo ottuso rifiuto marcusiano del marxismo, denunciato come ideologia dogmatica, economicista e ostile alle nuove istanze della società (femminismo, questione giovanile, ecologia…) e sostituito non con una nuova solida teoria ma con un sincretismo dilettantesco che veniva spacciato per raffinata “contaminazione pluralistica”, “ibridazione” o “nomadismo foucaultiano”.

Da queste premesse derivava un palinsesto idealistico nel quale il compito costitutivo della difesa del lavoro e delle parti più deboli della società veniva di volta in volta sostituito dalle bizzarrie più improbabili, in nome del desiderio e della libertà individuale assoluta. E che definiva il carattere di una sinistra sincretistica sul piano culturale e disimpegnata su quello politico, ma non per questo meno disponibile al compromesso opportunistico. Tanto che spesso, in ossequio alle compatibilità di governo, il Prc avrebbe grottescamente trasfigurato in chiave “rivoluzionaria” anche le più grevi manifestazioni della restaurazione neoliberale che dilagava in quegli anni (un esempio per tutti: lo smantellamento del Welfare e la parallela diffusione del Terzo Settore veniva interpretato in molti documenti di partito come una forma di estinzione dello Stato che accompagnava una crescente  autonomia della società civile…).

Due debolezze e Bertinotti

Non che queste due componenti del Prc non siano riuscite a fondersi, come spesso viene lamentato dai protagonisti di quella stagione: al contrario, più volte esse si sono mescolate e rimescolate per ragioni di potere, passando per innumerevoli voltafaccia, scissioni, faide o alleanze d’interessi. In tal modo andavano però sommandosi non due forze ma due debolezze parallele, accomunate da una programmatica impotenza rifondativa e da una totale mancanza di autonomia politica e culturale. Un duplice deficit, dunque, di cui è stato sintesi e incarnazione Fausto Bertinotti: figura idealtipica della fine ingloriosa del comunismo in Italia come Gorbaciov (il testimonial di Vuitton) lo è stato per la Russia, l’ipermovimentista e “libertario” Bertinotti era infatti stato iscritto direttamente segretario del Prc proprio dal sedicente “sovietico” e autoritario Armando Cossutta.

Travolto dalla propria stessa fragilità culturale ma non di meno da una narcisistica volontà di affermazione che sfondava i limiti dell’autolesionismo, a fronte di un disagio crescente negli strati più deboli della società a Bertinotti sembrava politicamente vincente frequentare le feste notturne della borghesia benestante nelle terrazze romane. Ma soprattutto, quel Bertinotti così avido di riconoscimento personale non ha esitato a immolare il proprio partito sull’altare di una grande illusione politica: l’illusione di una sinistra “radicale” generica e senza programmi, definitivamente post-ideologica ma soprattutto postmoderna. Anch’essa proposta volontaristicamente come una grande “modernizzazione” che, scalzando le socialdemocrazie, avrebbe tutto ad un tratto mutato il quadro politico nazionale e persino quello continentale (assai importante fu, non a caso, il ruolo di Bertinotti nella nascita del Partito della Sinistra Europea).

Con il suo confusionarismo, invece, proprio lui stava inoculando nella sinistra italiana lo spirito visceralmente antidemocratico che è alla base di quest’epoca bonapartista e che ha finito per spianare la strada a Renzi. Con Bertinotti iniziava infatti nel PRC la sperimentazione di alcuni elementi tipici della postdemocrazia che sarebbero poi stati adottati anche dalle altre forze politiche, dalla selezione dei gruppi dirigenti tramite il sistema all’americana delle primarie alla gestione maggioritaria del partito, la cui direzione non veniva più definita dalla composizione di diversi orientamenti ma dalla volontà diretta del capo e dalla cortigiana obbedienza dei suoi cloni (il “prevalente” che scalza ogni “sintesi”).

Dalla metà degli anni Novanta fino al 2008 anche il PRC è stato dunque attraversato da una feroce “lotta di classe” interna, in un conflitto senza quartiere dal quale – nonostante gli sforzi di alcune componenti - è uscito devastato. Funzionando però in tal modo come un piccolo laboratorio di quel pauroso slittamento a destra che nel frattempo investiva tutto il paese, per responsabilità delle forze di centrosinistra non meno che di Silvio Berlusconi. In quel periodo, oltretutto, per via della sua debolezza strutturale, quel partito diventava il taxi sul quale sarebbero saliti arrampicatori sociali e aspiranti deputati o assessori di ogni risma, in maniera non dissimile da quanto sarebbe accaduto anche all’Italia dei valori.

L’eredità di un errore


Dopo di lui naturalmente il nulla: identificatosi totalmente con il proprio leader carismatico, Rifondazione evapora dalla scena politica quando Bertinotti scende dallo scranno di presidente della Camera. E quanto oggi rimane di quel partito non sembra aver appreso nulla dalla propria esperienza catastrofica, come dimostra la sua reiterata incapacità di svolgere un bilancio equilibrato del XX secolo e di riconoscere la rottura storica intervenuta con la sconfitta di sistema 1989-1991. La quale viene negata (il socialismo reale non è stato altro che “totalitarismo” e la sua caduta non ci riguarda in nessun modo, perché siamo sempre stati estranei a quel mondo) oppure compensata tramite fantasie che spigolando dalla Grecia alla Spagna sino all’Italia vedono tutt’oggi approssimarsi un’imminente e generale svolta a sinistra dei popoli europei.
Bertinotti non ha mai afferrato il nesso tra conflitto geopolitico internazionale e conflitto di classe nazionale e dunque il nesso tra la fine dell’Urss, con il venir meno di ogni condizionamento esterno degli equilibri socio-politici delle società capitalistiche, e la vittoria del neoliberalismo in Occidente, con la conseguente crisi del Welfare. Ha sempre inteso perciò la globalizzazione come il possibile avvento ideale di “un altro mondo possibile”, senza vedere che essa non era affatto la costruzione universale dell’essenza generica umana ma, anche per le sue caratteristiche tutt’altro che assimilabili al libero scambio, solo il progetto dell’egemonismo statunitense per il XXI secolo. In maniera non dissimile, da un vasto campo radicaleggiante il processo di convergenza continentale che porta alla costruzione di uno spazio unico europeo, che di per sé è progressivo, continua oggi ad essere identificato acriticamente con le vigenti istituzioni politiche ed economiche della UE. All’interno delle quali sarebbe possibile costruire per via riformista, assieme a forze come Syriza e Podemos e prima o poi persino con un PSE esso stesso “riformato”, un’introvabile Altra Europa.

E’ un atteggiamento che riguarda anzitutto gli eredi del PCI - il PRC e il suo partito-gemello, il nostalgico ma non meno inguaiato PdCI – ma che è condiviso da tutta la sinistra. E che nel reiterare gli errori del passato si dimostra assai pericoloso perché apre oggi spazi enormi all’egemonia delle destre.

La nostra crisi

La crisi strutturale che è in corso da oltre un decennio ha infatti colpito nel vivo i ceti medi. I quali, impoveriti e atterriti, hanno revocato il mandato alla grande borghesia imprenditoriale e finanziaria ma anche a quella culturale, accademica e mediatica, e pensano di poter fare da sé. Individuando un capro espiatorio nei movimenti migratori e in una vaga idea di establishment e immaginando illusorie soluzioni autarchiche e protezionistiche. In Italia come in tutti i paesi europei, hanno allora buon gioco le forze più reazionarie all’interno delle classi dominanti. Le quali sono abili a camuffarsi dietro l’idea “populista” di un superamento delle categorie politiche di destra e sinistra e a proporsi come il Nuovo, cavalcando il malcontento e il rancore della piccola borghesia verso tutto ciò che puzza di cosmopolitismo. In queste circostanze, la subalternità dei comunisti alla visione del mondo di una sinistra che si dice liberale ma che è soprattutto una sinistra imperiale e neocoloniale – la criminalizzazione dello Stato-nazione, l’esportazione della democrazia e dei diritti umani tramite la guerra, il primato esclusivo delle libertà negative private sulla libertà positiva pubblica e sui diritti sostanziali… – è senza dubbio  la strada più sicura per essere spazzati via.

Va invece preso atto – ahinoi - che un’epoca è tramontata e che la democrazia moderna, quel regime storico che univa diritti politici e diritti economici e sociali, si è esaurita per una lunga fase. La sconfitta delle classi subalterne ha mandato in frantumi l’unità del mondo del lavoro, che era stata la condizione del riequilibrio delle società europee e della democrazia stessa. E ha aperto un ciclo nuovo, nel quale alla privatizzazione del Welfare si accompagna una ridefinizione integrale della strutturazione dei poteri e delle competenze di governo/amministrazione tra livello territoriale e livello sovranazionale. Inutile farsi illusioni, perciò: non solo non abbiamo ancora visto nulla di ciò che ci capiterà, ma va anche preso atto che nei drammatici rapporti di forza determinati dall’offensiva delle classi dominanti non esistono scorciatoie elettoralistiche o carismatici conigli dal cilindro che possano coprire o attutire una crisi che ha un carattere strutturale.

Unire ciò che è stato diviso, riunificare il mondo del lavoro sulla base di un progetto avanzato e autonomo, ricostruire un fronte di resistenza delle classi subalterne in una fase tutta difensiva: è questo oggi il compito della sinistra, per quanto frantumata in mille rivoli. Per farlo, sarà necessario seguire in condizioni e forme nuove il medesimo percorso iniziato alla metà del XIX secolo. Sarà cioè necessario un impegno sotterraneo, oscuro e misconosciuto dentro i gangli più profondi della società, un impegno culturale, politico e sindacale che richiederà decenni. Sapendo però che durante una ritirata strategica la tattica deve essere del tutto diversa da quella “egemonica” della fase di ascesa. Poiché non siamo noi a guidare i processi (che di noi sono anzi assai più forti), ogni compromesso che deroghi all’intransigenza – e cioè alla necessità di ridefinire integralmente il campo di ciò che è “sinistra” oggi, tracciando un solco netto rispetto alla mentalità del “male minore” – non è infatti sinonimo di abilità tattica o di responsabilità weberiana ma di subalternità. Quella subalternità nei confronti dell’egemonia neoliberale che viene immediatamente riconosciuta dagli sconfitti della globalizzazione e che dunque ci rende complici della restaurazione borghese e inermi di fronte al populismo di destra.

Anche questo sforzo tuttavia non servirà a nulla se non riusciremo, infine, a reinterpretare per l’ennesima volta l’idea di modernità. Ovvero, a rappresentare nuovamente una promessa di benessere integrale e di abbondanza per tutti e per tutte in una società organizzata in maniera più razionale. Quella promessa senza la quale non solo ciò che rimane di una storia conclusa ma nobile come è stata l’esperienza comunista italiana, ma le sinistre nel loro complesso – a differenza di quanto accade in altre regioni del mondo, dove il socialismo è per fortuna ancora il nome dell’avvenire che annuncia un mondo nuovo - saranno considerate per sempre dei relitti della storia.

(16 gennaio 2017)

domenica 15 gennaio 2017

Superare l'euro per rivitalizzare la democrazia costituzionale e salvare l'Europa

di Stefano Fassina da stefanofassina.it

 
La straordinaria vittoria del "No" al referendum sulla revisione costituzionale imposta dal Governo Renzi al Parlamento è stata condizione necessaria, ma non sufficiente a rianimare la democrazia costituzionale. Vi è un'altra condizione imprescindibile. È scritta magistralmente nell'art 1 della nostra Costituzione: il lavoro. La Repubblica è democratica in quanto fondata sul lavoro. Sinistra Italiana si pone  l’obiettivo di essere strumento democratico di organizzazione del fronte del lavoro per limitare lo strapotere del capitale finanzario.
La sinistra del XXI secolo è neo-umanista. Essa ha come orizzonte il lavoro di cittadinanza e, in un rapporto di interdipendenza, la trasformazione ecologica dell'economia. Il lavoro, in tutte le sue forme, di mercato e "fuori mercato", rimane capacità fondativa della dignità della persona e della cittadinanza democratica e condizione necessaria per l'ecologia integrale. L'enorme innalzamento delle disuguaglianze, anche tra gli occupati, l'impoverimento delle classi medie, l'estensione della povertà anche tra i lavoratori, la minore mobilità sociale hanno come causa prioritaria la svalutazione del lavoro e il degrado dell'ambiente. Il trasferimento di reddito a carico della fiscalità generale per chi è in determinate condizioni economiche e partecipa a un percorso di inclusione attiva è un nostro obiettivo primario, strumentale al raggiungimento del lavoro come fonte di cittadinanza.
La piena e buona occupazione, unita al protagonismo di lavoratori e lavoratrici nelle attività produttive, deve tornare al centro della nostra agenda. Va perseguita attraverso un ventaglio di interventi sinergici: politiche macroeconomiche di segno espansivo e politiche industriali orientate all'innalzamento della specializzazione produttiva; redistribuzione del tempo di lavoro di mercato e fuori mercato; il "lavoro garantito", ossia progetti di utilità sociale definiti attraverso la regia dei governi territoriali, finanziati da risorse pubbliche, gestiti dalle associazioni della cittadinanza attiva, dedicati a chi è senza lavoro. Le sinergie attivabili tra politiche economiche e ecologiche sono in grado, anche nell’immediato, di aumentare quantità e qualità del lavoro, di rivoluzionare i cicli produttivi e di innovare profondamente infrastrutture essenziali quali i trasporti, le reti dell’acqua e dell’energia.
Oggi, una faglia attraversa le nostre società. Segna il confine di vaste, contraddittorie e impervie periferie economiche, sociali e culturali. I popoli delle periferie attribuiscono alla sinistra storica la corresponsabilità del loro declino e impoverimento. Giustamente, perché la sinistra storica, dopo l'89, si è arresa e, in Europa, è stata orgogliosa protagonista dell'agenda neoliberista europea. Distante dal popolo delle periferie è spesso anche la cosiddetta “sinistra radicale”, chiusa in un cosmopolitismo astratto e aristocratico e in un esasperato individualismo sul terreno dei diritti civili, spesso declinati in contraddittoria separazione dai diritti sociali.
Il lavoro come fonte di cittadinanza e di dignità e fondamento della democrazia è una prospettiva improponibile nell'ordine del capitalismo finanziario globale. Ma tale ordine non regge più. Il 2016 segna un passaggio storico. Trump negli USA, la Brexit, la valanga di No al referendum costituzionale in Italia il 4 Dicembre sono scosse politiche di magnitudo massima, successive a tante altre scosse: dalla Grecia alla Spagna; dall'Austria, alla Francia, alla Germania, per lasciare fuori dall'analisi le vicende della UE dell'Est. SI tratta di eventi politici profondamente diversi, ma il messaggio di fondo è chiaro: l'insostenibilità per le working class e le classi medie del capitalismo neo-liberista, dei mercati globali di capitali, merci e servizi giocati sulla svalutazione del lavoro. La sequenza di risultati elettorali degli ultimi mesi è per il neo-liberismo reale quello che il crollo del Muro di Berlino è stato per il socialismo reale. Il 2016 e il 1989.
Per rinascere, la sinistra nel XXI Secolo, intesa come fronte sociale e politico del lavoro, deve guardare in faccia la realtà. Sebbene la rivolta delle periferie sia segnata da tendenze politiche e culturali fortemente improntate da partiti di destra populisti e xenofobi, noi non possiamo chiamarci fuori. Noi dobbiamo stare dalla parte giusta della faglia, senza cedere al ricatto di chi demonizza il populismo per salvare una logica “sistemica” sempre più indifendibile.
L'insostenibilità del neo-liberismo reale investe frontalmente anche l'Ue e l'euro-zona, poichè qui, con il protagonismo subalterno della sinistra storica, si sono istituzionalizzati in forma estrema i principi cardine del neo-liberismo.
Il progetto di integrazione europea è nato con obiettivi nobili e ambiziosi: garantire un sviluppo pacifico e cooperativo del nostro continente dopo la tragedia della guerra, che evitasse il riemergere degli egoismi nazionali. Da sinistra, abbiamo visto in questo progetto e nella progressiva integrazione economica e politica l’affermazione del modello sociale europeo, dei valori di sicurezza economica, promozione del benessere e libertà. Abbiamo imparato a sentirci e ci sentiamo europei oltre che italiani.
Tuttavia, anche per effetto dall’egemonia culturale del neoliberismo, si è progressivamente affermato un paradigma diverso: quello della competizione tra Stati e della supremazia dei meccanismi di mercato. Tale paradigma si è cristallizzato in un sistema di regole europee che hanno condizionato e limitato lo spazio della politica economica. L’integrazione europea, rendendo ancora più rigido ed efficace per ciascun paese il “vincolo esterno”, si è fatta veicolo di politiche di privatizzazione, di deregolazione del mercato del lavoro e di smantellamento dei diritti sociali.
La stessa moneta unica, presentata come strumento di stabilità, ha scaricato sulla svalutazione del lavoro la competizione tra i Paesi membri, a tutto vantaggio dell’interesse dei più forti tra essi. Come è ormai ampiamente riconosciuto, la sua adozione da parte di economie strutturalmente diverse, unitamente alle politiche mercantiliste attuate dall’economia più forte dell’area, ha determinato l’emergere di crescenti squilibri, deflagrati in occasione della crisi finanziaria. Nelle condizioni politiche createsi nell’Unione, l’euro ci ha resi più deboli invece che più forti: ci impone di competere nella svalutazione del lavoro; ha portato alle politiche di austerity che stanno progressivamente smantellando i diritti sociali e impediscono l’uscita dalla stagnazione; sta minando le basi di quel modello sociale che era per noi europei elemento distintivo e di orgoglio.
Occorre dunque riconoscere che l’adozione della moneta unica e del mercato unico – in assenza di adeguati standard fiscali, sociali e ambientali – è stato un errore, aggravato dall’apertura incondizionata ad Est, obiettivo che senza un reale processo di integrazione ha esasperato la concorrenza al ribasso per il lavoro subordinato e autonomo.
Un’Europa al servizio del capitale finanziario, e contro il lavoro e i diritti sociali, non è la nostra Europa. Abbiamo bisogno di un diverso modello di integrazione, che promuova la fratellanza tra i popoli.
La sinistra deve riconoscere l'assenza delle condizioni politiche per riscrivere i Trattati o per "far girare" l'euro in senso favorevole al lavoro, ossia in sintonia con le Costituzioni nate dopo la II Guerra Mondiale. Deve riconoscere il conflitto irriducibile fra i Trattati europei e la Costituzione e riaffermare il primato storico e politico di quest’ultima. Deve riconoscere che il demos europeo non esiste, a parte la upper class, cosmopolita da sempre, promotrice e beneficiaria dell'ordine vigente.
Per ricostruire la sua funzione storica, per rispondere in chiave progressiva ai popoli delle periferie, la sinistra deve riconoscere insomma la necessità e l'urgenza di superare l'euro e l'ordine istituzionale, economico e monetario ad esso connesso: un superamento in via cooperativa, assistito dalla Bce, attraverso la costruzione di un’alleanza tra forze politiche, sociali e intellettuali degli altri membri della Ue, in coerenza con la sua cultura internazionalista. Il superamento dell’ordine dell’euro è la condizione per rivitalizzare funzioni fondamentali dello Stato nazionale al fine di proteggere il lavoro da ulteriore svalutazione e rianimare la democrazia costituzionale.
In sintesi, per rigenerare la sinistra nel XXI Secolo il banco di prova è la capacità di rimettere in discussione, dopo un trentennio di subalternità culturale e politica, "il nesso nazionale-internazionale" (per riprendere il lessico di Antonio Gramsci). Quindi, per noi, vuol dire ripartire dalle città per riconquistare spazi di sovranità democratica in un'Unione europea rifondata attraverso la cooperazione tra Stati nazionali. Solo così si potrà riconciliare il progetto europeo con la Costituzione repubblicana e con il principio della sovranità popolare.

Primi firmatari
Stefano Fassina, Massimo D'Antoni, Monica Gregori, Laura Lauri, Floriana D'Elia, Lanfranco Turci, Carlo Galli, Sergio Gentili, Michele Raitano, Rosa Fioravante, Michele Prospero, Giuseppe Davicino, Chiara Zoccarato, Vincenzo Montelisciani.

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...