venerdì 26 maggio 2017

Perchè ci serve l'Italia

di Lucio Caracciolo da appelloalpopolo

1. LItalia è un paese strategico che rifiuta di esserlo. Dopo più di un secolo e mezzo, il nostro Stato unitario resta un adolescente geopolitico. Puer aeternus, fragile e perennemente incompiuto, consegnato alle altrui scelte. Peter Pan della scena internazionale, in fuga da se stesso «perché ho sentito papà e mamma parlare di quello che sarei dovuto diventare quando fossi diventato uomo» 1. Anelante le irripetibili liturgie del tempo ordinato, quando gli assi cartesiani della guerra fredda ci assegnavano il posto a tavola, risparmiandoci di sceglierlo. O fantasticante armoniche Europe, in cui serenamente sciogliersi in fraternità con i vicini.
Fra l’essere e il non essere questo paese preferisce essere stato. Disposto a spezzarsi pur di non piegarsi alla necessità di partecipare allo strategico mercato della potenza sulla base dei propri interessi. Tutto, pur di non decidere.
Per paradosso, l’inconsistenza soggettiva moltiplica l’oggettiva importanza dell’Italia. Ci sono infatti tre modi di contare in geopolitica: perché sei una potenza; perché servi a una o più potenze; perché puoi danneggiare potenze rilevanti. Noi italiani abbiamo disastrosamente sperimentato, tra fine Ottocento e metà Novecento, l’impossibilità di aderire al primo archetipo. Nei successivi decenni bipolari abbiamo trasformato il nostro valore d’uso per gli Stati Uniti d’America in rendita geopolitica, in omaggio al paradigma secondo. Oggi siamo prezzati per la somma di ciò che residua di quella rendita e dei guasti che la nostra labilità statuale può provocare alle architetture euroatlantiche. Tertium datur: la potenza dell’impotenza.
Siamo mina vagante. In caso d’esplosione, l’onda d’urto non investirebbe solo il nostro intorno ma toccherebbe assetti ed equilibri globali. Ciò per la massa critica della Penisola, determinata dalla collocazione geografica, dalle dimensioni economiche e demografiche e, non ultimo, dall’ospitare il centro di una religione a vocazione universale. Tutto al netto di scelte strategiche che istintivamente schiviamo. Tanto che evitiamo di ammettere a noi stessi le responsabilità che ci derivano dalla nostra peculiarissima condizione.
Cinque fattori misurano il rilievo dell’Italia e l’impatto delle sue (s)fortune sui protagonisti del teatro mondiale. In ordine di importanza.
A) Qui si decide il futuro dell’euro. Siamo la quantità marginale che in caso di fallimento può determinare il collasso della «moneta unica». Fattore determinante dell’interesse tedesco, francese e degli altri eurosoci ai destini italiani. Ma anche della vigilanza americana, dati gli effetti che il crollo dell’Eurozona determinerebbe sulla geopolitica e sull’economia planetaria.
B) Attraverso lo Stivale filtrano i principali flussi migratori dalla giovane Africa alla vecchia Europa, che incidono sulla sicurezza, sulla stabilità, sull’identità stessa del nostro continente (carte a colori 1 e 2). Anche per questo a Berlino e dintorni siamo sorvegliati speciali.

Carta di Laura Canali
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Carta di Laura Canali

C) In quanto piattaforma logistica nel Mediterraneo restiamo rilevanti per Washington, come testimonia la crescente presenza di truppe e di basi a stelle e strisce – depositi di bombe atomiche e centri di intelligence inclusi – pur dopo lo scadere della minaccia sovietica che inizialmente le legittimava (carta 1).
D) Siamo contemporaneamente utili a Mosca, nemico d’elezione dell’America, non fosse che per la nostra incomprimibile russofilia, insieme culturale e commerciale, trasversale alle ideologie politiche. Visti dal Cremlino, siamo quanto meno un simpatico granello di sabbia nel meccanismo atlantico (carta 2). Per la Casa Bianca, al converso, un socio da tener d’occhio, soprattutto in quanto ci ostentiamo spontaneamente fedeli né pretendiamo qualcosa in cambio di tanto amore. La geopolitica del dono è esclusiva specialità italiana. Non possiamo sorprenderci se altri – sbagliando – vi intravvedono ascendenze machiavelliche.

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Carta di Laura Canali


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Carta di Laura Canali

E) L’Italia è infine all’attenzione della Cina perché al centro del Mediterraneo, dunque titolare potenziale del primo attracco utile nei traffici marittimi Asia-Europa. Collocazione ideale nella trama delle nuove vie della seta, ovvero della «globalizzazione alla cinese», espressa oggi sotto specie commerciale, domani forse in veste compiutamente geopolitica (carta a colori 3). Tale vantaggio posizionale diventerebbe concreto se l’Italia scegliesse finalmente un porto gradito ai cinesi su cui imperniare gli scambi sino-europei, spostandone il baricentro verso sud. Ipotesi remota (vedi sindrome di Peter Pan).
Germania, Francia, Stati Uniti, Russia, Cina: il catalogo delle potenze cui interessiamo e sulle quali possiamo quindi influire è invidiabile. Ma per passare all’incasso nel mercato geopolitico occorre elevare il valore d’uso a valore di scambio. Ciò significa saper valutare il proprio patrimonio strategico, materiale e immateriale, in rapporto a come viene percepito dagli attori più potenti. E spenderne una quota per avanzare i propri interessi nel negoziato permanente che definisce le relazioni internazionali, specie dove la posta in gioco è più alta, i vincoli reciproci più cogenti – Eurozona e Nato. Operazioni che suppongono la capacità di definire il proprio punto di vista. Frutto a sua volta di quella maturità statuale da cui disperatamente fuggiamo. Senza quel pur minimo, variabile arco di alleanze, imperniate su interessi convergenti, necessario a reggere il confronto con paesi di dimensioni analoghe o perfino inferiori, ma capaci di associarne altri, a irrobustire la loro taglia.
Per varcare la linea d’ombra dobbiamo emanciparci dall’idea che il nostro interesse nazionale consista nel non averne, salvo aderire a quello, tra gli altrui, che ci pare prevalente. Gli archivi della Farnesina testimoniano della carenza di consegne strategiche ai nostri ambasciatori, talvolta surrogata con l’invito alla «Signoria Vostra» di orientarsi, in caso dubbio, sulle scelte delle «maggiori potenze» (leggi, a seconda dei contesti, Stati Uniti o principali partner europei). Vige da noi il curioso assioma per cui non possiamo permetterci di produrre strategia perché non siamo sufficientemente potenti. Vero il contrario: sono le grandi potenze a potersi concedere qualche distrazione, immergendosi in fasi di apnea progettuale governate con il pilota automatico. Noi, che non disponiamo delle loro risorse, siamo obbligati alla strategia. A pensare e ripensare il nostro posto nel mondo.
Altrimenti può accadere l’assurdo: l’impiego delle risorse nazionali contro gli interessi nazionali. È il caso delle missioni compiute dalle nostre Forze armate dopo la fine della guerra fredda nel nostro estero vicino, che abbiamo contribuito a destabilizzare per confermare gli americani nella certezza della nostra devozione. In cambio di nulla. Abbiamo bombardato la Jugoslavia – impianti Fiat compresi – e persino la Libia, contribuendo a fragilizzare Balcani e Nordafrica, ovvero le regioni che nei nostri stessi documenti ufficiali eleviamo a decisive per la sicurezza della Penisola. E abbiamo sparso migliaia di soldati per il mondo, dall’Oceano Indiano allo Hindukush, senza criterio che non fosse il presunto interesse alleato a saperci affidabili, perché noi stessi non ne eravamo troppo sicuri. Sempre gratis. O meglio a costo del contribuente e al prezzo della vita di alcuni dei nostri militari migliori.
La storia corre e non aspetta l’Italia. Attendere che mamma America o papà Germania decidano per noi significa rimetterci ai loro interessi, che spesso non coincidono e talvolta collidono con i nostri. Oppure, in alternativa, alla loro mancanza di attenzione, che ci abbandona alle conseguenze della nostra irresponsabilità. Nella migliore ipotesi, cederemmo così a potenze sperabilmente benevole la sovranità che l’articolo uno della costituzione repubblicana assegna in teoria al popolo italiano. Abdicheremmo alla nostra residua soggettività geopolitica proprio quando attorno a noi cadono le foglie di fico europee e atlantiche che mascheravano le strategie altrui. Mentre mamma e papà hanno ripreso a litigare di brutto.
Se Washington e Berlino divergono, il cielo sopra Roma si oscura. Non c’è più nulla di scontato né di automatico. Serve stabilire la nostra rotta. Coscienti dei rischi che corriamo in caso di fallimento. Ma possiamo farlo? O forse ne siamo impediti da qualche presunto destino?

2. Come ogni organismo non solo geopolitico, anche l’Italia è soprattutto ciò che fu. Nella sua autocoscienza i caratteri storici, strutturali, tendono a imporsi – al netto di guerre e rivoluzioni – sulle mutazioni impresse dalle contingenze. L’arte dello stratega consiste nel cogliere le scarse ma decisive opportunità che il peso del passato e l’incertezza del futuro ci lasciano nel tempo presente. La nostra riluttanza a farlo indica che l’Italia resta incompiuta.
L’essenza di una nazione è data dalla sua sensibilità all’indipendenza. Lo sguardo di lungo periodo conferma che il Belpaese non si è distinto né si distingue oggi per questo. Non riusciamo nemmeno a convenire sull’origine dell’Italia. L’oleografia nazionalista, attrezzata dal fascismo attorno all’asse della romanità, la poneva nella riforma territoriale d’età augustea – che riorganizzò la Penisola in undici regioni – a sua volta figlia del processo di integrazione romano-italica del II secolo avanti Cristo. Ma già Rosario Romeo stipulava che «postulare una continuità della successiva storia d’Italia con quella della romanità non può non apparire poco più che un espediente retorico» 2. Più cogente e attuale la bipartizione della Penisola sancita da Carlo Magno – eroe eponimo della corrente Europa comunitaria – a tracciarvi una faglia tuttora incomposta fra marche settentrionali intrinseche al cuore del continente e terre meridionali segnate da influssi orientali e mediterranei. Seguita in analogia dall’elevazione di Ottone I, fra il 951 e il 962, a re dei franchi e degli italici e, insieme, imperatore. A fissare quel nesso con l’ecumene germanico e con la Chiesa cattolica che esalterà la vocazione a un tempo universalistica e particolaristica del nostro paese. Così compromettendone la sostanza nazionale.
In questo ambiguo patrimonio germinano le radici dell’Italia risorgimentale, da cui discendiamo per linea diretta. Tra fine Settecento e metà Ottocento, i primi patrioti moderni non possono richiamarsi a un’entità geopolitica anteriore, né tantomeno invocare la convenienza geoeconomica di unificare Stati e staterelli peninsulari. L’idea d’Italia rinasce su basi squisitamente culturali. Romantiche. Per opera di un’élite anzitutto piemontese che mentre innalza a criterio identitario le frontiere «naturali» della Penisola e quelle linguistiche dell’italiano – idioma di una esigua minoranza della popolazione, quasi esclusivamente toscana – si esprime preferibilmente in francese. Il riferimento dell’Italia risorgimentale è il Rinascimento, dalle cui altezze era precipitato il nostro declino nel Sei-Settecento, che ci aveva disconnesso dalle aree del progresso. La rappresentazione delle trascorse glorie artistiche e letterarie legittima il nuovo Stato in quanto contenitore di una grande civiltà. In reazione all’anatema che lo sguardo nordico – tedesco, francese, olandese, inglese – aveva gettato negli ultimi due secoli sull’arretratezza della Penisola e sulla rozzezza dei suoi abitanti, misurata dai ricchi e colti protagonisti stranieri del «viaggio in Italia» rispetto alle grandezze di un passato tanto ammirevole quanto remoto.
Per i patrioti italiani si tratta di riscattare l’immagine del pittoresco «paese delle rovine», entità liminare fra Europa del progresso, attardato Oriente e Africa selvaggia. Stereotipo negativo accentuato dalla diffusione delle teorie proto-ambientalistiche del barone di Montesquieu, che nel suo Spirito delle leggi (1748) fa del clima un criterio di civiltà, attribuendo ogni virtù civile ai popoli del freddo, distinti dai pigri e servili meridionali, italiani inclusi. Ripreso financo dal Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (1824), spietata perlustrazione critica dei nostri vizi atavici – dall’asocialità al cinismo – che ci abbassano rispetto ai popoli del Nord, giacché «sembra che il tempo del Settentrione sia venuto» 3. L’eco di questa sentenza non cessa di tormentarci.
Di qui il complesso d’inferiorità verso le nazioni transalpine che da subito e per sempre attanaglia le classi dirigenti dell’Italia unita, specie le più vocalmente nazionalistiche. Sindrome tradotta nella tesi della permanente «anomalia italiana» rispetto alla superiore «norma europea». Anche questa frustrazione, a ben vedere, è di origine risorgimentale. Perché il progetto originario dei patrioti moderati non è di unificare l’Italia intera, ma di costituire «un nuovo grasso Belgio della pianura padana» 4 connesso alle nazioni settentrionali. Cavour vuole integrare il Nord Italia per connetterlo al Nord Europa. Per agganciare il suo vagone subalpino al convoglio della civiltà e del progresso, guidato dalle potenze nordiche. Questo regno va costruito per aggregazione attorno al Piemonte. Prima che Garibaldi costringesse Vittorio Emanuele ad annettersi il Meridione, l’unità d’Italia è concepita a Torino, noterà Luciano Cafagna, «come unificazione politica al di sopra della cosiddetta “linea gotica”» 5. Alla vista dei funzionari e militari piemontesi che vi si affacciano con piglio coloniale, il Sud è alieno. «Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile», scrive il 27 ottobre 1860 a Cavour il luogotenente generale delle province napoletane, Luigi Carlo Farini 6. Sentimento reso celebre in letteratura dal Gattopardo, quando il cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo, spedito in Sicilia per convincere il principe di Salina ad accettare il laticlavio nel Senato del Regno, si scopre straniero in terra di briganti: «L’iscrizione “Corso Vittorio Emanuele” che con i suoi caratteri azzurri su fondo bianco ornava la casa in sfacelo che gli stava di fronte, non bastava a convincerlo che si trovasse in un posto che dopo tutto era la sua stessa nazione». 7

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Carta di Laura Canali


Questo rapido scavo nella protostoria dell’Italia contemporanea ci permette di osservare la catena logico-geopolitica che limita l’orizzonte strategico nostrano e spinge a renderci provincia altrui. Come il Risorgimento, scartato il progetto settentrionale, unificando l’Italia per raggiungere l’Europa svela ai piemontesi un Mezzogiorno semisconosciuto, accentuando l’alterità fra Nord e Sud, così la Repubblica postfascista, decisa a completare la rincorsa alle virtù europee, scopre che partecipare dell’ambito comunitario non significa che le nazioni boreali intendano omologarla al loro canone. Percezione introiettata a tal punto che nel nostro politicamente corretto la famiglia europea che ci fregiamo di aver cofondato sessant’anni fa a Roma permane esterna (lo testimoniano «ce lo chiede l’Europa» ed espressioni affini). A conferma che la sfera semantica di coppie valoriali come «Europa» e «Italia», «Nord» e «Sud», cambia di molto a seconda di chi parla. Più tentiamo di avvicinare quei poli, più si respingono.
La divergenza geopolitica ed economica lungo l’asse Settentrione/Meridione è all’ordine del giorno sulla scala italiana come su quella europea. Vale la pena soffermarci su questo doppio scarto, perché vi troviamo squadernate le ragioni che ad oggi ci impediscono di fissare il nostro interesse nazionale.

3. «Una linea gotica, mentale, per me taglia a mezzo l’Italia. Ci vivo a cavallo. I dilemmi spirituali, dell’anima, si proiettano nella geografia. (…) Roma è il mio essere, Milano il mio dover essere. Sogno una terza città che le unisca (…)» 8. Nel 1948 annotava così il giovane Ottiero Ottieri, di nascita romano («sole, disordine»), milanese d’adozione («nebbia, precisione») 9. Sud e Nord: due universi polarizzati tra i quali l’olivettiano Ottieri si dilania, «sperando che non venga un giorno in cui mi spacco in due» 10. Quasi settant’anni dopo, la metafora intimista di un intellettuale irregolare conserva la sua pregnanza. La «terza città» resta sogno. Il dualismo che tormenta l’Italia si acuisce. Fino a mettere in crisi i più recenti paradigmi che distinguono Nord-Est e Nord-Ovest, o utilmente segnalano le dissonanze fra i diversi Sud, le cangianti peculiarità del Centro e delle trascurate aree interne.
Il solco che accentua la separatezza originaria tra Settentrione e Mezzogiorno è scavato in parallelo da percezioni antropologico-culturali e dinamiche socio-economiche, nell’impotenza della politica – futile, afasica – e nella fragilità del contesto istituzionale, minato dalla corruzione sistemica, di cui si avvantaggiano mafie e altri poteri informali. Tutti fattori che convergono nel tarmare l’architettura geopolitica italiana.
Quanto all’antropologia. A partire dagli anni Ottanta-Novanta dello scorso secolo, in non fortuita coincidenza con la crisi della Prima Repubblica e la fine della guerra fredda, è emersa al Nord la tentazione di codificare su base geoculturale, se non etnica, la propria alterità a Roma e al Sud. Nel senso comune alimentato dal richiamo alla Padania – evocata dal presidente comunista della Regione Emilia-Romagna, Guido Fanti, prima che dalla Lega di Umberto Bossi – si coagula la rappresentazione di una diversità che nella sua versione estrema nega la stessa identità italiana. Quel che conta e resta della Padania non è la sua inafferrabile configurazione (carta 3), ma la delegittimazione dello Stato nazionale, a dispetto della matrice subalpina.
La questione settentrionale non consiste più solo nella diffidenza del Nord che si vuole civile e produttivo, vocazionalmente impolitico, verso l’inefficiente classe amministrativa incistata nella capitale e l’ignavo Mezzogiorno. Non è più unicamente figlia di quel carattere lombardo che «non ha voglia né tempo di dedicarsi alla politica; si occupa di affari e non di chiacchiere», colto negli anni Cinquanta da Guido Piovene 11. È affermazione di un’insuperabile diversità antropologica rispetto al Sud, cui corrisponde una latente quanto poco ricambiata affinità con il mondo germanico, o magari con l’impolitico, cantonale federalismo elvetico. Nella sua versione alta, questa teoria memore dei postulati geoclimatici di Montesquieu venne formulata nel 1993 per Limes da Gianfranco Miglio, lariano aspirante svizzero: «Il mondo civile è nell’area temperata: se ci spostiamo dove fa molto freddo, ci imbattiamo negli slavi tonti; se puntiamo verso sud, incrociamo popoli straniti dal calore, un po’ come quei messicani che sonnecchiano sotto il sombrero. Se io mi trasferissi in Sicilia con la mia famiglia, in capo a due generazioni saremmo sicilianizzati» 12.

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Carta di Laura Canali


Tesi alla quale comincia nello stesso giro di anni a contrapporsi, specie a Napoli, in Sicilia e in Sardegna – i Sud dotati di una tradizione «nazionale» – la rivendicazione della propria orgogliosa identità, vestita all’estremo di tinte neoborboniche, separatiste o indipendentiste. Nulla di simile a Roma, nemmeno sotto forma neopontificia. Come se la «città eterna» fosse ormai consustanziale all’Italia e ne sposasse il declino in quanto sua «eterna» capitale. Roma entrò per ultima in Italia e sarà eventualmente l’ultima a lasciarla.
L’economia conferma l’inasprirsi del dualismo italiano. Specie a partire dalla crisi dell’ultimo decennio. Tra il 2007 e il 2015 il prodotto interno lordo del Sud è crollato di quasi il doppio rispetto a quello del Centro-Nord (-12,3% rispetto al -7,1%) 13. In termini di pil pro capite, quello meridionale vale poco più della metà del centro-settentrionale, mentre la caduta dei consumi nelle fasi acute della recessione, tra 2008 e 2014, è stata al Sud di due volte e mezzo superiore rispetto al resto del paese, quella dell’occupazione addirittura sestupla (-9% contro -1,4%) 14. Per misurare l’irredimibilità del divario, si consideri che per azzerarlo, postulando una crescita annua del Sud dello 0,4% superiore a quella del Centro-Nord, occorrerebbe attendere l’anno 2243.
Inoltre, a nord della linea gotica buona parte del nostro sistema industriale è integrato nella catena del valore tedesca. L’interscambio fra Settentrione e Germania valeva 87 miliardi di euro nel 2016, contro i 15 del Centro e i 7 del Sud. Allo stesso tempo, senza una solida ripresa del Mezzogiorno il Centro-Nord resta severamente penalizzato: il mercato meridionale vale per la parte più ricca d’Italia il triplo delle esportazioni nei paesi dell’Unione Europea. Nel contempo, si è rovesciato lo storico sbilancio demografico a favore del Sud, dove ormai si fanno meno figli che al Nord. Per tacere dell’enorme dislivello nelle infrastrutture, nei trasporti, nella scuola e nei servizi sociali – in Campania e in Calabria solo due bambini su cento frequentano l’asilo nido.
Se passiamo alla scala continentale, osserviamo come alla deriva del dualismo nazionale si correli l’allargamento della forbice Italia/resto d’Europa. Ripartiamo dall’economia. Negli anni di crisi il divario cumulato con l’Eurozona è stato di 9 punti, con l’Unione Europea di oltre 11. L’Italia è l’unico grande paese europeo in cui la dinamica della produttività negli ultimi 14 anni è stata negativa. Quanto al tasso di occupazione, il differenziale con l’Ue nel periodo 2000-2015 è quadruplicato, passando da 4 a 16 punti (quello del Mezzogiorno da 20 a 30). Dalla fine degli anni Novanta a oggi si è consolidato il distacco fra la crescita italiana e quella delle principali economie continentali 15. Quasi un dualismo intraeuropeo, con le «cicale» mediterranee a fare corona all’Italia. Effetto non solo delle politiche fiscali intrinseche all’Eurozona o della «globalizzazione» che ha automaticamente ridotto le dimensioni dell’Italia nella competizione internazionale, ma anche dei limiti strutturali del nostro sistema industriale, a partire dalla scarsità di capitali e dalla modesta disposizione al rischio dei nostri imprenditori. Con lo smantellamento dell’economia mista, la fine della grande impresa imperniata sul triangolo Milano-Torino-Genova – talvolta sacrificata sull’altare di scriteriate privatizzazioni che hanno portato settori strategici sotto controllo straniero, specie tedesco o francese – il nostro sistema economico ha perduto in coesione e in competitività.
Ci resta, tra Nord e Centro, un diffuso tessuto di imprese medio-piccole, alcune di classe mondiale. Capitalismo leggero, di qualità, grazie al quale ci fregiamo del titolo di seconda potenza manifatturiera europea. Ma in geopolitica l’identico volume fatturato da una grande impresa, da dieci medie o da cento piccole ha un peso specifico diverso. I «campioni nazionali» non servono solo l’economia, ma irrobustiscono l’influenza geopolitica, spesso anche culturale, del paese d’origine.
L’Italia ha perso il passo del cuore geoeconomico d’Europa, mentre il nostro Nord, che tenta di restarvi agganciato, ma in postura subordinata, non traina più il paese. Visti da Berlino e dalle «formiche» nordiche siamo uno Stato sull’orlo del fallimento. Il residuo cordone ombelicale che ci lega in ambito comunitario, la paura dell’ignoto e il timore che lasciati a noi stessi si sia tentati dalla pirateria (leggi: svalutazione della moneta) hanno finora frenato la tentazione di sganciare il vagone tricolore dal convoglio eurogermanico. Ma l’illusione del vincolo esterno, elaborata a Prima Repubblica spirante da Guido Carli, Carlo Azeglio Ciampi e Beniamino Andreatta, fondata sul pessimismo circa gli istinti animali degli italiani, è scaduta. Ci aveva creduto persino il cancelliere Helmut Kohl, il quale, contro gran parte dell’élite tedesca, volle includerci tra i soci fondatori dell’euro, fidando forse nelle virtù pedagogiche della politica monetaria more germanico. Della quale, specie dopo la crisi del 2008, cogliamo gli aspetti per noi depressivi, l’altra faccia di un euro a misura della potenza commerciale tedesca.
Curioso, quanto rivelatore, che ad anticipare il certificato di morte del vincolo esterno sia stato nel 2011 Mario Draghi, l’esponente di massimo successo della scuola europeista inaugurata dai suoi mentori Carli e Ciampi. Poco prima di lasciare la Banca d’Italia per Francoforte, l’attuale presidente della Banca centrale europea mise a verbale: «Una nostra tentazione atavica, ricordata da Alessandro Manzoni, è di attendere che un esercito d’Oltralpe risolva i nostri problemi. Come in altri momenti della nostra storia, oggi non è così. È importante che tutti i cittadini ne siano consapevoli. Sarebbe una tragica illusione pensare che interventi risolutori possano giungere da fuori. Essi spettano a noi» 16.

4. Mentre l’Europa germanica si allontana e il solco tracciato dalla linea gotica s’approfondisce, l’Africa s’avvicina. Il flusso dei migranti attraverso il Mediterraneo si dirige ormai per l’80% verso l’Italia, dopo che il patto Merkel-Erdoğan – capolavoro del metodo tedesco di spacciare per europee iniziative nazionali – ha disseccato il canale turco-greco-balcanico. Tra il 1° gennaio e il 20 aprile di quest’anno sono sbarcate dall’ex Libia in Italia quasi 37 mila persone in fuga dalla miseria e dalle guerre, provenienti soprattutto dalla Nigeria e da altri paesi dell’Africa occidentale – un decimo addirittura dal Bangladesh – oltre un quarto in più rispetto allo stesso periodo del 2016. Per la fine dell’anno gli sbarchi in Italia potrebbero superare quota 200 mila, linea rossa oltre la quale secondo il nostro governo può scattare un’emergenza sociale e di ordine pubblico difficilmente gestibile (grafici 1-3, carta 4).

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Dei tre slittamenti geopolitici che investono lo Stivale questo è il più strutturale e il meno governabile. Giacché la spinta a rischiare la vita negli esodi transmediterranei è alimentata in buona misura da fattori climatici e demografici insensibili, nel breve-medio periodo, a qualsiasi politica. In particolare, la transizione demografica ritardata – ovvero il mancato calo della fecondità femminile atteso seguire la diminuzione della mortalità – produce in diversi paesi dell’Africa subsahariana, come in Nigeria e in Niger, un surplus di popolazione giovane determinata a emigrare a qualsiasi costo. Tale fattore, incrociando la decomposizione degli Stati africani che apre formidabili vuoti di potere e alimenta le dispute fra chi ambisce a occuparli, segnala un sisma geopolitico di lunga durata.
Fra i paesi europei, impreparati allo shock e nevrotizzati dal terrorismo jihadista, s’è perciò aperta una feroce competizione per scaricare sui vicini quella che viene percepita come minaccia esistenziale al benessere, alla coesione sociale, alla stessa identità nazionale. Sicché l’Italia si trova compressa fra la corrente migratoria da sud e la scelta dei nostri vicini settentrionali – Francia, Svizzera, Austria, con alle spalle la Germania – di inasprire i controlli alle frontiere. Risultato: il 90% di chi sbarca in Italia ci rimane. Quasi sempre allo sbando, vittima di organizzazioni criminali e di sfruttamento selvaggio, specie nelle campagne del Mezzogiorno dominate dal caporalato. L’assenza di un piano nazionale per l’integrazione degli immigrati –campo nel quale il nostro governo non intende arrischiarsi per timore dell’impopolarità – congiunta alla totale mancanza di solidarietà su scala comunitaria, genera xenofobia ed eurofobia. Derive fino a ieri impercettibili nel mainstream della nostra opinione pubblica.      
La partita decisiva, ancora una volta, la giochiamo con la Germania. Sul fronte nord: è anzitutto da Berlino che passa la possibilità di allentare il sistema di Dublino, per cui al primo Stato comunitario di ingresso (leggi: Italia e, molto meno, Grecia) tocca gestire le domande di asilo. Sul fronte sud: a differenza di Francia e Gran Bretagna, e nell’indifferenza degli Stati Uniti, la Germania è l’unica potenza euroatlantica impegnata nel contenimento del caos libico. Con esiti quasi nulli. Qui Roma impegna il massimo sforzo con il minimo risultato. Fino a convocare al Viminale una variopinta delegazione di capi locali del Fezzan – profondo Sud libico – per indurli, dietro compenso garantito anche da fondi Ue, a farsi guardiani del deserto, filtrando i corridoi migratori risalenti dal Sahel. Ma individuare nella baraonda libica chi possa fare il lavoro sporco una volta assicurato da Gheddafi è impresa disperata.

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Carta di Laura Canali


Per l’Europa centro-settentrionale, l’Italia dovrebbe ergersi ad ultima barriera di un sistema di dighe deputato a ostacolare o almeno deviare la pressione migratoria che sale dall’Africa. Quello che noi chiediamo ai fezzanini Berlino l’ha ottenuto dai turchi e ora l’attende dagli italiani. Le probabilità che Roma induca nei tribali del Sahara o in qualche milizia tripolitana comportamenti simili a quelli che Merkel ha strappato a Erdoğan paiono esigue. Nemmeno la revisione del regolamento di Dublino in senso a noi favorevole, su cui negoziamo con gli eurosoci, si prospetta agevole. Non è dunque da escludere che, stretta nella tenaglia nord-sud, l’Italia azzardi una fuga in avanti, passando al respingimento attivo di chi tenta di varcare il Canale di Sicilia. Fino a schierare propri soldati in Tripolitania. L’esito di tale avventura sarebbe scritto: riusciremmo a riunire contro di noi tutte le fazioni libiche, a partire da quelle che vorremmo far lavorare per noi.

5. L’Italia deve venire a patti con la realtà. Chiudere la forbice fra oggettivo rilievo e carenza di soggettività. Costituirsi in attore geopolitico, che come ogni altro, non importa se grande o piccolo, protegge i propri interessi nella competizione e nel compromesso con gli altrui. Nulla di straordinario: la norma delle relazioni internazionali. Pretendersi Stato per farsi eterodirigere da altri Stati, i quali correttamente perseguono le loro priorità, questa sì è impresa eccezionale.
Nell’Italia della guerra fredda, che volle espungere il lemma «nazione» dal gergo ufficiale, abbiamo paradossalmente identificato interesse nazionale e nazionalismo. Il primo prevede la sobria definizione dei propri obiettivi in rapporto alle risorse disponibili e alle costellazioni geopolitiche vigenti. Il secondo è enfatico volontarismo costruito sulla rimozione dei dati di fatto su cui prima o poi s’infrangono i suoi deliri di potenza. Negli ultimi vent’anni abbiamo legittimato l’interesse nazionale, però in chiave solo retorica. Per il divertimento di amici e avversari, i quali vi hanno riconosciuto la conferma di un’antica pulsione nostrana: la narrazione come surrogato dell’azione.
Si obietterà che il nostro deficit di statualità ci impedisce di diventare normali. È alibi. Le istituzioni italiane sono deboli e poco legittimate, certo. Ma gli italiani esistono, pur nelle loro identità multiple. E come tali vengono percepiti dagli altri popoli, molto meno attenti di noi alle vere o artefatte varietà regionali, alle declinazioni dialettali dell’autocoscienza nazionale. Chi argomenta contro l’interesse nazionale dovrebbe dimostrare che agli italiani conviene sciogliere le residue istituzioni unitarie per integrarsi in domini esterni oppure frammentarsi in staterelli «omogenei». Come tali estranei alla regola delle liberaldemocrazie occidentali, fondate almeno formalmente sullo Stato nazionale eterogeneo. Davvero conviene a lombardi e/o veneti – chiamati nell’immediato futuro a esprimersi in referendum ambiguamente autonomistici – emanciparsi dall’Italia per diventare i ticinesi della Piccola Europa che pare aggregarsi attorno alla Germania? L’ambizione dei siciliani è di costituirsi in Stato mafia indipendente? I napoletani aspirano alla repubblica del Vesuvio? 
Parrebbe più saggio irrobustire la repubblica mentre ne ridefiniamo il profilo sulla scena internazionale. Anzitutto nel nostro continente. Indulgiamo a lamentare la disgregazione dell’Unione Europea, perdendone di vista l’altra faccia: la riaggregazione – oggi informale, domani forse marcando nuovi confini – in aree d’influenza disegnate da affinità culturali, geostrategiche ed economiche. Con al centro lo Stato tedesco, semiconduttore dei flussi di potenza che strutturano i precari equilibri europei quanto restio, finora, a dotarsi di una strategia corrispondente ai suoi mezzi e alle sue responsabilità. Troppo potente per accomodarsi ancora alla riduzione a satellite americano sancita dalla sconfitta nelle due guerre mondiali e più o meno felicemente accettata dalla Bundesrepublik originaria, appunto occidentale. Troppo debole e introverso – dunque non imperiale – per federare il vasto, disomogeneo e instabile spazio comunitario. Ciò presupporrebbe mitigare la vena mercantilista e disporsi alla redistribuzione delle risorse a favore delle province più arretrate della propria sfera d’influenza. Chi lo propone in Germania fa figura d’eccentrico.

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Carta di Laura Canali


Se non corretta, l’inerzia di tali dinamiche porta Berlino a confliggere con Washington, a riavvicinarsi per conseguenza a Mosca (antico riflesso geopolitico) e a fissare quanto più a sud possibile la frontiera con il Mediterraneo, percepito come fonte di minaccia – instabilità, migranti difficilmente integrabili, terrorismo jihadista, guerre. Di qui il recupero dell’Euronucleo (Kerneuropa) – vecchio cavallo di battaglia di Wolfgang Schäuble quando (1994) si trattava di scongiurare l’annacquamento mediterraneo dell’euro centrandolo sul triangolo Germania/Francia/Benelux. Stavolta come compiuta entità geoeconomica, estesa ai paesi afferenti alla sua catena del valore industriale e alla sua cultura fiscale, in futuro forse pienamente geopolitica: vera e propria Geuropa. Tale orizzonte è incompatibile con la storica priorità americana – e per quel che ancora vale, britannica – di scongiurare la nascita di una potenza tedesca filorussa (e filocinese?) capace di dominare l’Europa o anche solo di parlare in suo nome.
Noi italiani non siamo sufficientemente consapevoli di quanto la tendenza a strutturare una sfera d’influenza germanica – pur ancora magmatica, non discendente da un geometrico Generalplan – e le reazioni americane a tale scenario possano incidere sul nostro paese (carta a colori 4). Fino a spaccarlo, in caso di adesione della macroregione padana al nuovo/vecchio insieme eurogermanico. O a farne terreno di scontro fra americani e tedeschi, ciascuno con i rispettivi affiliati, mentre nel Mediterraneo infuria la tempesta.
Ecco perché ci serve l’Italia.

Note
1. J.M. Barrie, Peter Pan, New York New York 2014, Puffin Books, p. 32: «It was because I heard father and mother», he explained in a low voice, «talking about what I was to be when I became a man».
2. Cfr. R. Romeo, Italia mille anni. Dall’età feudale all’Italia moderna ed europea, Firenze 1981, Le Monnier, p. 7.
3. G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, Milano 2017, Feltrinelli, p. 74.
4. L’espressione è dello storico Adolfo Omodeo, citata in L. Cafagna, Nord e Sud. Non fare a pezzi l’unità d’Italia, Venezia 1994, Marsilio, p. 19.
5. Ibidem.
6. Carteggi di Camillo di Cavour: La Liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d’Italia, vol. III (ottobre-novembre 1860) Bologna 1952, Zanichelli, p. 208.
7. G.Tomasi Di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano 1969, Feltrinelli, p. 155.
8. O. Ottieri, La linea gotica. Taccuino 1948-1958, Parma 2001, Guanda, p. 23.
9. Ivi, p. 93.
10. Ivi, p. 82.
11. G. Piovene, Viaggio in Italia, Milano 2003, Baldini e Castoldi, p. 94.
12. G. Miglio, «Ex uno plures», Limes, «L’Europa senza l’Europa», n. 4/1993, p. 178.
13. Cfr. Rapporto sull’economia del Mezzogiorno, Svimez, 2016.
14. Cfr. Rapporto sull’economia del Mezzogiorno, Svimez, 2015.
15. Vedi nota 13.
16. Cfr. P. Pica, «Draghi: “l’Italia deve salvarsi da sola”», Corriere della Sera, 12/10/2011.

Vaccini: vi stanno prendendo per il culo

di Marco Valtriani da nonsiseviziaunpaperino.com


La settimana scorsa ci sono stati diversi commenti un po’ pepati perché, in un articolo che parlava di tutt’altro, abbiamo citato la questione vaccini. Se posti la parola “vaccino” su Facebook, non importa se inserita in un contenuto che verte su altri argomenti, scatenerai orde di commentatori monotematici, un po’ come se parli di veganesimo, se auguri “buon natale” sul gruppo Facebook dell’UAAR o se posti il nuovo logo della Juventus.
Ora, io sono una persona i cui coglioni girano con estrema facilità. Non ho problemi con opinioni e argomentazioni contrarie alle mie, finché hanno una base logica. La cosa che mi manda fuori dai gangheri sono le mezze frasi poggiate sul nulla e la difesa dell’opinione non informata “perché le opinioni sono tutte uguali”, che lo capite da soli che è una cazzata: se io dico “i maiali volano” non è un’opinione, è una puttanata. Perché? Perché i maiali non volano, è un dato di fatto. Per dimostrarlo potremmo lanciare maiali da una torre gridando “vola!”, ma sarebbe uno spreco. Ora, immaginate che qualcuno vi dica “ma no, i maiali potrebbero volare, non lo fanno perché sono pigri”. Che fate? Arretrate senza perdere il contatto visivo o chiamate l’Unità Ospedaliera di Salute Mentale? Perché, se gli date retta, avete voi un problema.
Adesso, torniamo ai vaccini, e partiamo da un dato semplice: i vaccini sono farmaci. Come per tutti i farmaci, anzi, come per tutti gli interventi sanitari, si parla sempre di rapporto fra rischi e benefici: nel valutare se è il caso o meno di utilizzare un farmaco o un trattamento, si deve tenere conto sia degli effetti positivi che di quelli negativi. Sia i benefici che eventuali effetti collaterali devono essere valutati rispetto a due fattori: l’entità e la probabilità di comparsa. Ovviamente i benefici sono “desiderati”: un dato farmaco è studiato per dare un certo effetto, che porti a un miglioramento della salute del paziente o che prevenga in modo efficiente l’insorgere di una malattia, in modo che il rapporto sia sempre vantaggioso rispetto a eventuali effetti indesiderati, che devono sempre essere “meno” e “meno gravi” dei benefici.
Esempio bischero: un effetto collaterale piuttosto comune dell’aspirina sono i bruciori di stomaco, ma se hai la febbre e ti fa male ogni cazzo di giuntura un’aspirina la prendi, pazienza se hai sfiga e ti brucia un po’ lo stomaco. Perché lo fai? Perché sai che la probabilità che ti faccia stare meglio è altissima, mentre quella di patire effetti collaterali è molto, molto più bassa ed è comunque un’alternativa migliore al malessere. A meno che uno non sia allergico al farmaco, se i disturbi derivanti da febbre, dolori e simili diventano molto fastidiosi non ha senso non prendere un’aspirina. A meno che uno non ci goda a stare male, ma quello è un problema suo.
Dicevamo: l’aspirina. Se siete adulti e avete febbre e dolori, l’aspirina vi farà stare molto meglio. L’aspirina, però, non viene più prescritta ai bambini. Perché? Perché c’è una correlazione fra l’uso del farmaco e l’insorgenza della sindrome di Reye, una malattia ancora poco conosciuta, ma molto grave e pericolosa, che colpisce in tenera età. È una sindrome rara, ma il rischio che il farmaco la scateni è troppo alto rispetto agli effetti dell’aspirina. Rischi e benefici non si equivalgono, in questo caso, per cui l’aspirina, ai bambini, non si può dare.
Nessuno dice che i farmaci non possano avere effetti collaterali. L’aspirina, come abbiamo visto, ce li ha, soprattutto nei bambini, ed è per questo che a loro non viene prescritta. Nel caso dei vaccini, però, gli effetti collaterali sono meno frequenti e meno gravi rispetto ai benefici dell’effetto del vaccino, ossia prevenire malattie le cui complicazioni possono essere molto gravi e ben più frequenti del manifestarsi di effetti collaterali. Pensateci: perché l’aspirina e altre decine di farmaci non vengono somministrati ai bambini perché fanno male, ma i vaccini sì? Vi pare una cosa logica? No, non lo è. La spiegazione semplice è che i vaccini, a differenza di altri farmaci, non hanno effetti collaterali importanti rispetto ai benefici derivanti dalla vaccinazione.
Prendiamo per esempio la difterite: un bambino che prende la difterite ha il 5% di probabilità di morire. Un bambino che prende il vaccino DTP (che peraltro funziona anche contro tetano e pertosse) ha invece il di rischio di convulsioni (seguito da un completo recupero) nello 0,06% dei casi, e di sviluppare un’encefalopatia acuta nello 0,001% dei casi. Il rapporto rischi-benefici è chiaramente molto sbilanciato in favore del vaccino: prendere la difterite, oltre ad essere una brutta gatta da pelare in sé, è estremamente rischioso.

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Ho citato l’aspirina, però, per un altro motivo: come nel caso dell’aspirina e della sindrome di Reye, se c’è una correlazione dimostrata fra una malattia e un farmaco, ci sono enti preposti a raccogliere le prove necessarie e a cambiare (o sospendere) le modalità di prescrizione e somministrazione di quel farmaco. Sono decine i farmaci ritirati dal commercio per questi motivi. L’AIFA, l’Agenzia Italiana del Farmaco, ha liste di monitoraggio continuamente aggiornate e, su richiesta, fornisce tutti i dati che volete.
Adesso ripetete con me: non c’è correlazione fra vaccini e autismo. Non esiste, se l’era inventata un ex-medico, che era stato pagato da un avvocato per inventarsi quegli studi, che avrebbero fatto da base per una causa legale. Si tratta di vicende ampiamente documentate, ci sono interviste, atti processuali e soprattutto tutti i contro-studi che hanno smontato la falsa teoria di Wakefield, che sono davvero tanti: nessun complotto, nessun mistero, solo una truffa. Se un bambino è autistico, le cause sono altre: quali siano di preciso non è ancora certo, ma è sicuro che non sia colpa dei vaccini.
Vi ricordate l’AIDS? Ci misero un bel po’ a capire da dove veniva, come si trasmetteva e come rallentarne e bloccarne gli effetti. Ora, non è che siano andati a caso: sapevano di sicuro una serie di cose che sicuramente non lo causavano (per esempio sono sicuro che l’aspirina sia stata esclusa quasi subito dalla lista delle possibili fonti di contagio). L’autismo è un argomento vastissimo e ancora nebuloso, è ancora oggetto di studi, ma i passi avanti ci sono: bisogna guardare a quelli, non remare contro alla ricerca.
Capisco che chi abbia casi di autismo in famiglia possa voler trovare nei vaccini la causa del proprio dolore, sostenendo che il bambino o la bambina hanno avuto problemi dopo la somministrazione. Innanzitutto, ovviamente, mi dispiace: sono situazioni spesso difficili che per qualcuno possono essere difficili da gestire. Ma questo non vuol dire che  “dopo qualcosa” equivalga a “a causa di”.
Ve lo spiego con un altro esempio.
“Dopo il disastro in Messico della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon del 2010 sono ulteriormente diminuiti gli esemplari di lupo messicano, tanto che oggi l’animale è a rischio estinzione”. Sembra sensato, vero? Ma non lo è: i lupi messicani sono a rischio a causa della diminuzione delle loro prede naturali, che li spinsero verso i centri abitati portando l’uomo a ucciderne troppi, non c’entra nulla l’incidente della Deepwater Horizon (che è causa di altri problemi, per esempio della morte di pesci e delfini). E non c’entra nulla neanche l’aspirina, di nuovo.
Chiaramente chi viene colpito da una tragedia o da una situazione imprevista e potenzialmente dolorsa cerca due cose: una soluzione e un colpevole. In mancanza della prima, si acuisce il desiderio del secondo: ci deve essere un colpevole, e deve pagare. È una reazione normale. Purtroppo non è sempre così, è una cosa dura da accettare, ma – scusate la brutalità – incaponirsi nel voler dare la colpa ai vaccini rischia di essere una perdita di tempo ed energie. Emotivamente è chiaro che chi vive queste situazioni ha bisogno di tutta la comprensione e il supporto possibili, ma razionalmente è meglio supportare la ricerca, quella vera, in modo che malattie e sindromi ancora poco conosciute diventino sempre più controllabili, risolvibili o, ancora meglio, prevenibili.
Un’altra falsa credenza che può apparire ragionevole è quella secondo cui “troppi vaccini tutti insieme fanno male”, perché in effetti 13 vaccini in un anno sembrano tanti. Ma in realtà ogni bambino avrebbe la capacità teorica di rispondere a molti più antigeni contemporaneamente, senza indebolire o sovrastimolare il sistema immunitario. Com’è possibile? Semplice. I vaccini non sono altro che preparati contenenti una forma inattiva, attenuata o resa inoffensiva del patogeno da combattere (come funzionano i vaccini lo trovate qui). E un bambino entra in contatto con centinaia di migliaia di patogeni, virus e batteri, continuamente: attraverso l’aria, il cibo, le cose che tocca. E i vaccini, a differenza degli agenti patogeni che si incontrano in giro, sono fatti e iper-testati per essere innocui e migliorano col tempo. Quindi i vaccini che un bambino fa in un anno non sono “troppi”, sono quelli che gli servono per non ammalarsi e non rischiare complicazioni anche gravi. Ricordate il rapporto rischi-benefici? Quello. Meglio il vaccino contro il meningococco, che ha effetti collaterali rarissimi e marginali, o la meningite, che uccide nel 10% dei casi e nel 25% dei casi porta a amputazioni, paralisi e danni neurologici permanenti? Chiedetelo a quella campionessa (sportiva, di umanità e autoironia) che è Bebe Vio. Vorrei dirvi che non voglio mettervi paura, ma è proprio così: voglio mettervi paura. Perché stiamo parlando di danni gravissimi evitabili in modo semplice: non vaccinare contro alcune malattie vuol dire prendersi un rischio enorme senza motivo.
Molti tirano in ballo una questione economica: ci fanno vaccinare i bambini per lucrarci su!!1! È una teoria che potrebbe sembrare sensata, dopo tutto le case farmaceutiche, essendo aziende, devono generare profitti. Ma, nuovamente, il binomio vaccini-business viene smentito dai fatti. A parte che i vaccini obbligatori sono gratuiti, In Italia la spesa farmaceutica totale per i vaccini è pari a circa 318 milioni di euro all’anno circa, che sembrano tantissimi ma che sono in realtà appena l’1,4% della spesa farmaceutica totale e il 2,5% della spesa a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Per avere un metro di paragone, ricordate il bruciore di stomaco dell’aspirina? Ecco, per farmaci antiacidi e antiulcera in Italia si spendono oltre mille milioni di euro l’anno, pari al 4,6% della spesa farmaceutica totale. Insomma: i vaccini rendono meno della gastrite. Il “business” del farmaco è altrove, anche perché in realtà curare qualcuno che prende una malattia costa molto di più che vaccinarlo. Se le case farmaceutiche volessero fare soldi facili dovrebbero puntare sul non vaccinare: l’epidemia di morbillo del 2002, che ha fatto anche registrare un picco di casi di polmonite post-morbillosa ed encefalite è costata nove milioni di euro in ricoveri e almeno altri 9 milioni per il resto delle cure. E se dite “vabbé, ma è morbillo, io l’ho fatto e non fa danni” vi vengo a prendere a sberle: secondo l’Oms il morbillo miete circa 140.000 vittime l’anno, e quasi tutti bambini sotto i cinque anni. Sono 15 bambini morti all’ora. È su questo che volete accanirvi?
Ora, possiamo discutere quanto volete sui vaccini e su quali siano da rendere obbligatori (non tutti i vaccini sono uguali), possiamo dibattere sul fatto che un vaccino obbligatorio debba essere gratuito, ma la maggior parte delle critiche mosse ai vaccini, dal numero degli stessi, alla pericolosità, ai costi per i cittadini, sono spessissimo frutto di “sentito dire”, di bufale inventate da pezzi di merda senza scrupoli che vogliono vendervi rimedi naturali inefficaci e costosi lucrando sulle vostre paure e sul vostro dolore, facendovi correre rischi enormi e soprattutto facendoli correre ai vostri figli. Cercate “rimedi naturali morbillo”, per esempio. Secondo uno di questi siti di espertoni del cazzo, per curare il morbillo una volta preso servirebbero euphrasia, stramonium, pulsantilla, gelsemium e sulphur (un modo altisonante di chiamare eufrasia, stramonio, anemone primaverile, gelsemio e zolfo), che sono rimedi erboristici e naturali, ma che vanno usati in preparati omeopatici – quindi col principio attivo praticamente assente. Facciamo due conti, vi va?
Euphrasia, 7,71 € da Farmaline.
Sulphur, 15,00 € da Biovea.
Stramonium, 10,60 € da Lehning.
Pulsantilla, 10,60 € da Lehning.
Gelsemium, 13,15 € da Vivomed.
Quindi: il vaccino, per adesso facoltativo, costa circa sessanta euro a prezzo pieno (ma in molte regioni è gratuito o fortemente scontato) mentre i preparati omeopatici per lenire le pene da morbillo costano… la stessa cifra. Inoltre, dall’800 a oggi, non c’è mai stato nessuno studio che dimostri l’efficacia di questi farmaci. A differenza dei vaccini.
Ditemi un po’, di nuovo, chi è che vi sta prendendo per il culo?
Adesso, per favore, prima di fiondarvi a commentare che sono un servo delle case farmaceutiche, che è tutto un complotto, vi prego: prendetevi un po’ di tempo per pensarci su, leggetevi i link nell’articolo, pensate al numero di farmaci non immessi in commercio o ritirati perché dannosi, pensate al costo dei rimedi “non tradizionali” rispetto a quelli passati o scontati dal Servizio Sanitario Nazionale, leggetevi la storia di Wakefield controllando gli atti processuali, pensate se ha davvero senso un complotto per cui si farebbero più soldi con persone malate, ma in cui si sceglie di investire in prevenzione, e chiedetevi se chi vende rimedi “alternativi” non cerca anche lui un profitto. Fatevi due conti, davvero.
La medicina non è infallibile, le case farmaceutiche sono aziende, il Servizio Sanitario Nazionale è tutto meno che perfetto. È tutto vero. Ma nessuno vi prende per il culo su queste cose, ci sono dati, studi, statistiche, basta avere voglia e tempo di leggerle. La truffa sta altrove, sta nel nutrirvi di sfiducia e paura per farvi comprare roba costosa e inutile che finisce, con ricarichi enormi, nelle tasche di pochi furbi stronzi.
Buona riflessione.

giovedì 25 maggio 2017

Il regno delle menzogne primarie

di Tonino D'Orazio 

Ormai, con i mass media in mano e perfettamente addestrati è diventato, per tutti i governi, facilissimo mentire. Basta prendere i dati conclamati e i dati veri per accorgersene. Ma chi ha tempo per farlo? A chi dirlo? Più i problemi individuali o famigliari sono grandi, più le menzogne sono equivalenti.
Non è vero che la politica è lontana dai cittadini, anzi, ne conosce perfettamente tutte le difficoltà. Essendo incapace di voler cambiare le cose è costretta a mentire, anche spudoratamente. Anche Berlusconi aveva insistito che più la balla era grande, ma basta ripeterla continuamente, più, alla lunga, sarebbe stata creduta. Un vero filosofo dei mass media attuali. Nascondere la menzogna dietro una mezza verità è poi la tecnica di tutti i giorni. Dati alla mano.
Problema lavoro?
Facile, il Job act ha funzionato, basta nascondere per chi. Con uno straordinario aumento delle richieste di indennità di disoccupazione: il 7% nel complesso del primo trimestre 2017 e il 12 % in più rispetto a marzo del 2016 ? Con il job act le aziende possono non chiedere più la cassa integrazione ordinaria e licenziare tranquillamente, tanto quella straordinaria, la più utilizzata perché presuppone una possibile successiva ripresa dell’azienda, è stata abolita di fatto. Non stupisce quindi che la Cig sia diminuita del 46% dal 2016. Questo dato potrebbe anche sembrare positivo se dietro non vi fosse una macelleria sociale nascosta, di quelli che non hanno avuto la fortuna di un datore di lavoro parzialmente onesto. Ammesso che esistano di questi tempi.
Tra l’altro il job act è stato utilizzato per permettere ai padroni di liberarsi il prima possibile dei contratti veramente a tempo indeterminato, ma ovviamente 3 anni non bastano. Infatti, finiti gli sgravi, il risultato è stato ottenuto. Allargamento del precariato complessivo del mercato del lavoro. Allargamento della miseria sociale. Grande emigrazione italiana, grande immigrazione africana. Quanti possono rallegrarsi dell’ultima menzogna di Draghi, eccone un altro che arriva sempre a puntino, e cioè che la crisi stia finendo? Ancora a qualcuno sfugge che la fine della crisi debba coincidere con la fine dello Stato, che ormai, da leggero è diventato vaporoso, e nel futuro il voto popolare potrebbe essere inutile, o solo per gestire la miseria sociale.
Problema assillante delle bollette? Diciamo complessivamente dell’energia?
Uno studio del Parlamento Europeo (Energy Poverty Handbook, ottobre 2016, The Greens/EFA group, a cura di Tamás Meszerics) ha elaborato una mappa della miseria energetica europea. Non si ha idea di quanti poveri e quante famiglie non hanno ancora accesso all’energia elettrica, oppure non possono permettersela. Solo chi non ha ricevuto energia elettrica questo inverno per 5/6 giorni potrebbe capire cosa vuol dire non averla per tutto l’anno. L’energia, con i ritmi imposti dalle società moderne, diventa un ricatto costante invece di un bene comune. Le liberalizzazioni sono una fregatura costante e un assillo frenetico per farci cambiare “gestore”. Tralasciamo l’aumento di gasolio o benzina per trazione, cioè spesso per lavorare (o per andarci), allineati alle scelte delle tasse governative e poco alle variazioni reali del prezzo del petrolio internazionale. Abbiamo visto che il barile era a 100$ l’anno scorso e ora è a 50$. La diminuzione ai distributori è stata di circa 10 centesimi, in pratica meno che dai rifornitori privati che stanno nascendo come funghi. Ma se la crisi si fa sentire dal 2007, il consumo di carburante privato è passato da 21.000 KTon a 18.000 nel 2016 (Unione Petrolieri), e malgrado, nel frattempo, ci dicono che l’immatricolazione dei veicoli continua a crescere, in media, almeno di 500.000 all’anno da allora, risulta quindi chiaro che gli italiani hanno ridotto di molto il proprio consumo. Eppure le cedole azionarie continuano e devono rimanere “interessanti”, anche se dal 2011 al 2014 è stato distribuito 1,20€/cadauna; dal 2015 ad oggi solo 0,80€/cadauna, riduzione dovuta a maggiori investimenti mondiali. (Eni.com, dividendi). Lordi sì, ma con cedola secca, tassazione al 12%.
Ma il rischio maggiore per le famiglie è quello elettrico e energetico.
Consumo interno lordo: 2007: indice 500 (da 1963=100); 2014: 450, (Dati Terna.it) e il trend continua ad essere negativo. Malgrado il risparmio di energia sia in gran parte a carico delle famiglie, 5 anni fa una lampadina tradizionale costava 1€, oggi la stessa lampadina a “basso consumo” costa tra 10 e 15€. Noi paghiamo in anticipo il risparmio. Nel frattempo le bollette energetiche sono aumentate, probabilmente per colmare il gap di gestione dell’Enel e degli associati, cioè tutti quei consigli di amministrazione privati che ingoiano milioni di € annui. Anzi lo stesso Enel da “tutela” passa a “mercato libero” che vuol dire che per “guadagnare” qualche euro dovete stare appiccicati al telefono e correre dietro a tutte le offerte, confuse, inaffidabili, saltuarie e temporanee di altri gestori. Un mare di menzogne generali. Vale la pena andare a scoprire i soliti noti che “gestiscono” al posto della struttura statale. Comprese le varie agenzie distributrici del gas, come cancri sulle linee principali che fanno aumentare, anche lì, le spese di “gestione”, aumentandone i cespiti da retribuire e i bonus milionari da regalare.
A questo si affianca, da fiancheggiatore, il Cipe (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica), cioè il governo amico del liberismo, che spesso, anche di fronte ad una inflazione di meno di 1% annuo (ma vale solo per non compensare lavoratori e pensionati), stabilisce rialzi enormi non giustificati per i privati, meno per le aziende, ma probabilmente a “compenso” e pareggio. Si può anche supporre che la chiusura di 390 imprese al giorno nel 2016, (erano 54 nel 2013), 60.000 negli ultimi 5 anni (Sole 24 Ore sett 2015), abbiano fatto crollare i consumi energetici ma l’Enel continua a distribuire dividendi.
Non decollano le energie rinnovabili e gli investimenti che, salvo la Puglia, sono a totale carico delle famiglie tramite passaggi bancari. (Ti pareva che non avessero uno zampino pronto?). Negli altri paesi europei le energie rinnovabili sono quasi a totale carico degli Stati che effettivamente ne hanno un beneficio, sia in termine di risparmio da utilizzo di idrocarburi che da emissioni nocive e rispetto dei patti ecologici mondiali sottoscritti. Difficile anche capire se vivono nella stessa Unione nostra.
Noi, cittadini italiani pagheremo, con le nostre tasse, la multa europea perché la Fiat, Marchionne e multi Agnelli Family, hanno prodotto e venduto macchine inquinanti e da disonesti e furbastri non hanno rispettato le regole. A molti pare normale, anche a me la storica disonestà dell’azienda che abbiamo pagato almeno tre volte, (dixit Giulio Tremonti), ma nessuno ormai si scandalizza, salvo se quelle macchine verranno bloccate dalle verifiche biennali. Impossibile. Il Ministero dei Trasporti innalzerà allora i tassi di CO2 per l’Italia e pagheremo le multe miliardarie, all’Europa e poi agli Stati Uniti. A meno che l’acquirente, al pari del ricettore di furto, non diventi corresponsabile (perché era tenuto a sapere) e paghi in parte le eventuali modifiche. Non ci sarebbe da stupirsi. I grandi ladri, in questo paese, non hanno mai pagato, è una tradizione consolidata.

lunedì 22 maggio 2017

La controrivoluzione in America latina

 di Carlo Formenti da Micromega

Se qualcuno nutrisse dubbi in merito al fatto che questa è l’era del pensiero unico, un’epoca in cui non esistono quasi più giornali, radio o canali televisivi che non sostengano posizioni praticamente identiche su tutte le questioni economiche, sociali e politiche di fondo (dall’urgenza di tagliare la spesa sociale alla necessità di lottare contro il “populismo”, dalla definizione di buoni e cattivi nelle varie guerre in corso a come fronteggiare la sfida terrorista, dalla celebrazione del politicamente corretto alla condanna delle manifestazioni di piazza “violente”, ecc.) ,vada a leggersi gli articoli (o guardi i servizi televisivi) che i media mainstream dedicano alla crisi venezuelana, poi, se ne ha tempo e voglia, consulti qualche fonte alternativa in Rete, o scorra qualche articolo sui rari fogli “eretici” rimasti in circolazione.
Per quanto riguarda i primi sfido il lettore a trovare - e a segnalarmi - una voce che dia una versione minimamente obiettiva di quanto sta accadendo in Venezuela, che non dipinga, cioè, Maduro come un dittatore sanguinario a capo di un regime totalitario e i suoi oppositori come cittadini inermi che lottano eroicamente per reintrodurre la democrazia nel Paese. Per quanto riguarda i secondi, segnalo l’intervista a Luciano Vasapollo, economista e profondo conoscitore della politica latinoamericana, pubblicata sul sito Contropiano. Tuttavia, poiché mi rendo conto che il sottotitolo Giornale comunista online che accompagna la testata di Contropiano può indurre alcuni a liquidare l’analisi di Vasapollo come il punto di vista di un castrista nostalgico, consiglio di ascoltare altre due campane meno “sospette”. La prima, segnalatami dall’amico Daniele Benzi che da anni insegna in varie università latinoamericane, è un articolo del professor Gabriel Hetland, docente di Studi latinoamericani all’Università di Albany, dal titolo  “Why is Venezuela Spiraling Out of Control” e pubblicato sul sito Jacobin.
Ecco gli argomenti con cui Hetland contrasta la narrativa dei media mainstream.
1. L’accusa di essere un dittatore veniva sistematicamente rivolta anche a Chavez (sempre regolarmente eletto e, semmai, oggetto di un tentato golpe di destra), ma anche Maduro è salito al potere legalmente, dopodiché, anche se non si può negare che stia facendo di tutto per impedire che il Parlamento dominato dall’opposizione riesca a governare, questo basta, si chiede Hetland, per definire totalitario un regime che lascia piena libertà di stampa e consente all’opposizione di mobilitare continue manifestazioni di piazza? Pinochet e i generali argentini, sostenuti dagli Stati Uniti, non si comportavano un po’ diversamente?
2. Ma le “pacifiche” manifestazioni contro Maduro non vengono sistematicamente e violentemente represse? Ahimè, contrariamente alla vulgata dei media occidentali, quelle manifestazioni non sono affatto pacifiche: almeno la metà dei morti (se non di più) durante gli scontri dell’ultimo anno, documenta Hetland, sono stati provocati dall’opposizione che, fra le altre azioni, ha attaccato e distrutto edifici pubblici, fra cui scuole e ospedali (costringendo, in un caso, 50 madri e neonati a evacuare un reparto di maternità). Queste “imprese”, che ove compiute da noi verrebbero definite teppistiche se non terroristiche, in Venezuela diventano lotta per la democrazia., di quei questi paladini della democrazia e della legalità che, nel 2013, si rifiutarono di riconoscere la vittoria elettorale di Maduro, invocando inesistenti brogli (gli stessi Stati Uniti riconoscono l’affidabilità del sistema elettorale venezuelano).
Ciò detto, Hetland non manca di sottolineare le pecche di Maduro: dai gravi errori di politica economica (la crisi provocata dal crollo del prezzo del greggio avrebbe potuto essere fronteggiata meglio, se si fosse provveduto per tempo a differenziare la matrice produttiva del Paese) e non c’è dubbio che l’attuale regime – pur non potendo essere definito totalitario – abbia subito una evoluzione in senso autoritario che contrasta con l’originario sogno chavista di costruire una democrazia partecipativa fondata sul protagonismo dei cittadini. Occorrerebbe tuttavia inquadrare tale evoluzione nel contesto del feroce attacco da parte degli Stati Uniti - e delle forze di destra interne alleate alla potenza imperiale - che oggi stanno subendo tutti i Paesi latinoamericani che, negli ultimi vent’anni, avevano tentato, anche attraverso strade diverse, di emanciparsi dal Washington Consensus e uscire dal “cortile di casa” degli Stati Uniti. A tal fine suggerisco un’ulteriore lettura: il lungo articolo di Maurice Lemoine, “Guerra subdola in Ecuador, guerra totale in Venezuela” pubblicato sul numero di maggio dell’edizione italiana di “le Monde diplomatique”.
Lemoine descrive come l’opposizione ecuadoriana di destra, dopo la sconfitta nelle recenti elezioni presidenziali,  abbia immediatamente applicato il “protocollo Venezuela”: prima ancora che fossero noti gli esiti del ballottaggio fra il successore di Rafael Correa, Lenin Moreno, e il candidato della destra, Guillermo Lasso, tutti i media dichiararono la vittoria di quest’ultimo; poi, quando divenne chiaro che Moreno aveva vinto, sia pure di misura, gridarono ai brogli, invocando un golpe e, visto che le forze armate non reagivano, chiamando il Paese alla delegittimazione del governo attraverso mobilitazioni di piazza e un continuo, furibondo bombardamento mediatico (in tutta l’America Latina i media sono saldamente in mano alle destre). Lemoine prosegue evidenziando le analogie, non solo fra i casi venezuelano ed ecuadoriano, ma anche con le svolte a destra elettorali (elezione di Macri in Argentina) e istituzionali (destituzione di Dilma Rousseff in Brasile) avvenute in altri Paesi latinoamericani: nessuno di questi cambiamenti di regime è avvenuto come un normale avvicendamento, ma è stato piuttosto l’esito di violente pressioni esterne (sia economiche che politiche) associate a campagne diffamatorie, corruzione di membri dei partiti avversari, ecc.., mentre, nel caso del Venezuela, non è escluso che si possa arrivare a scenari di guerra civile in stile colombiano.
Che gli Stati Uniti siano disposti a tutto per riacquistare il controllo del cortile di casa, e che il sistema mediatico americano ne sostenga senza riserve il progetto, rientra nella più assoluta normalità. Un po’ meno scontato l’allineamento “bulgaro” di forze politiche e media europei. Ma in fondo non è il caso di stupirsene: gli interessi del capitalismo mondiale non sono compatibili con la secessione di un intero continente dalle regole del mercato globale, per cui richiedono un pronto ritorno alla “democrazia”, naturalmente intesa come dominio incontrastato del “libero mercato”. Ecco perché, mentre Maduro viene descritto come un dittatore, il presidente cinese viene celebrato come la provvidenziale alternativa a Trump, come il nuovo campione del “mondo aperto”.

mercoledì 17 maggio 2017

Possibile l’invasione della Siria

Tonino D’Orazio, 17 maggio 2017.
 

Il copione è sempre uguale. Il pretesto è per entrare a casa d’altri con l’approvazione ipocrita di chi ancora crede al diritto internazionale. Assad utilizza (o ha utilizzato) i forni crematori, come Hitler. “Le armi di distruzione di massa”, questa volta, quella chimica, non ha funzionato. Non esistono e sono troppi a dirlo per ricominciare la pallonata. Ma Assad come Hitler può funzionare. Basta pubblicare una foto di uno strano palazzo e certificare l’esistenza di un alto forno, da lì a certificare che sia crematorio, la parola stessa è tabù, il passo è semplice e ad effetto sicuro. In sei anni di guerra non se ne erano mai accorti.
Da più di un mese gli statunitensi, i soliti inglesi in filigrana e gli israeliani, stanno ammassando truppe e armi alla frontiera giordano-siriana. Le foto dai satelliti sono disponibili su vari siti internazionali e non sono fake, cioè disinformazione. Vi sono statunitensi con una brigata intera (4.000 uomini) con vari corpi armati, e bombardieri strategici B1B. I britannici con intere unità di carri armati Challenger e di elicotteri di attacco al suolo Cobra e Apache.
In più vi sono: un esercito eteroclite di “ribelli”, con olandesi, sauditi, giordani, bahreiniti e sei multinazionali di mercenari provenienti da orizzonti diversi. Cosa ci farebbero tutti sulla frontiera giordano-siriana? Alcune forze sono già penetrate nella base siriana di Tenef, nel sud della provincia di Derâa, a ridosso della frontiera.
La stessa cosa sta facendo la Turchia, con Erdogan alla frontiera nord. E’ iniziato lo spiegamento di carri armati, artiglieria, fanteria, forze speciali, esperti e militari sauditi, nella provincia di Idlib, cioè nel territorio siriano stesso.
E’ davanti a tutti lo smacco dell’occidente guerrafondaio con gli accordi di pacificazione ottenuti dal terzetto Russia-Iran-Turchia a Astana, capitale del Kazakistan (3/4 maggio), con la creazione di quattro “zone di sicurezza”, Idlib, Dar’a, Homs e Ghouta periferia est di Damasco, facendo saltare i nervi della “nostra coalizione”. Tanto è che se si parla di pace, anche se minima, i nostri mass media sono costretti a tacere. E’ un po’ come una “no fly zone”, proibita agli aerei della coalizione e anche a quelli russi e iraniani e mantenuta “in pace”, invece che dai caschi blu poco affidabili, soprattutto dai correligionari pasdaran iraniani. Ovviamente l’accordo viene rifiutato dagli israeliani che in risposta hanno bombardato la capitale della Siria Damasco. Non sappiamo questa volta quanti bambini sono morti, non sempre è utile sapere. La scusa criminale è sempre la stessa: difendere la propria sicurezza ammazzando gli altri a casa loro, preventivamente. Non si sa mai. E quindi “non osserveranno l’accordo e continueranno i raids aerei contro qualsiasi attività che possibilmente possa minacciare il suo territorio”, cioè quello rubato a Palestinesi, libanesi e siriani (Golan).
Stranamente una zona, Idlib, a nord, quasi occupata dai turchi con il loro esercito già in loco da mesi, “garanti” degli accordi e, se funziona, vi potrà rispedire (scusate il termine volgare), con gran dispetto dei curdi ivi autoctoni, migliaia di profughi siriani oggi in Turchia bloccati nei campi con i nostri soldi. L’altra zona è quella a sud, Dar’a, sulla frontiera giordana, anche lì per permettere a migliaia di profughi di rientrare.
Ma allora lo spiegamento militare pesante?
Trump non accetta compromessi? Il presidente sanguigno che minaccia tutti per ribadire la supremazia coloniale statunitense si adegua agli accordi di Astana? Improbabile ufficialmente, è troppo sotto attacco, anzi sobillato, dalla stampa di casa per “l’amicizia” con Putin e la Russia, e dall’establishment conservatore, armatore e guerrafondaio. Sembra abbia rivelato documenti top secret sull’Isis. Vuoi vedere che sta smantellando l’aiuto “segreto” dato da Obama-Clinton, insieme a Arabia Saudita, Unione Europea e Israele ai terroristi dell’Isis, di cui tutti sono ormai al corrente? Nel frattempo i media ci istigano all’attenzione sulla Corea del Nord, ai rischi di guerra nucleare, che questo paese, con un missile che raggiunge, forse e non sempre, 600 Km e che forse potrebbe portare una “bomba atomica” di vecchio tipo, cioè un petardo, “minaccia” la sicurezza degli Usa (!) a più di 10.000 km di distanza, quella del Sud elegge un presidente democratico “progressista” filo cinese. 38% degli americani non sanno dove si trova la Corea del Nord.(NYT)
Si è, per esempio, mai visto un presidente Usa che abbia mai potuto fare quello che voleva o quello che aveva promesso? In genere, se testardi, muoiono o si adeguano alle potenti lobby. Questo, nel bene o nel male, non sembra “costruito” per adeguarsi, ma ce lo costringeranno. Quante speranze aveva suscitato la vittoria di Obama sia nei democratici che nei conservatori europei e alla fine è stato il presidente, Nobel per la pace, che ha innescato più guerre, conflitti e genocidi nel mondo degli altri presidenti americani ?
Certamente ritirarsi sconfitti dalla Siria e non aver potuto rubare il loro petrolio, (l’unico rimasto “libero” e “possibile” insieme al Venezuela) ma in realtà, se guardiamo oltre il naso, non aver potuto interrompere gli enormi investimenti euroasiatici delle nuove “vie della seta”, strutture commerciali ed economiche di immenso sviluppo ed investimenti a medio termine che li caccerebbe dal grande continente delle “terre emerse” popolato da più di 5 miliardi di individui (forse meglio consumatori), pone gli Usa in una ulteriore perdita di monopolio mondiale. Loro sono convinti di essere padroni del mondo. Ne fanno una filosofia sociale e culturale di ultima istanza e convinzione che trasuda sempre, per esempio, da qualsiasi loro film visto che sono sempre loro a “salvare” il mondo, facendo dimenticare le 32 guerre per la loro “democrazia” in cui sono implicati oggi. E possono fare, quasi, tutto quello che vogliono e possono giustificarlo anche dopo. Hanno una filarmonica mass mediatica per convincere tutti, o altro. Troisi: ”fanno le guerre per fare i film e avere sempre ragione”.
La Siria è un crocevia vero di sbocco nel Mediterraneo, (se si prende la briga di individuarne i tracciati), e il trio Iran-Russia-Turchia sono al centro del futuro sviluppo mondiale est-ovest proveniente da Cina e India. Noi saremmo collegati via mare con Suez e l’Adriatico, il Pireo (Grecia) è già cinese e poi Mestre/Trieste. Un “deposito” in prefase di acquisto sembra Gioia Tauro, ma sul Tirreno. Via terra sarà complicato, ma alla fine saremo collegati, dall’ex Jugoslavia, via la pianura padana verso Francia, (Marsiglia), Spagna (Barcellona/Madrid) e Portogallo (Porto/Lisbona), dall’Atlantico al Mar di Cina. Del G7, solo l’Italia (con Gentiloni) è stata invitata al progetto e alla riunione operativa dell’inizio di maggio a Pechino per la firma dei primi accordi.
In Asia Minore vengono tagliati fuori la penisola arabica, gli Emirati e Israele. L’Africa dell’est, con i cinesi in pieno impianto, (hanno comperato da anni centinaia di migliaia di ettari di terra da rendere coltivabile in Somalia), viaggia a parte e sono previsti solo collegamenti via mare, nel Pacifico e oceano Indiano, (Kenia, Mombasa). Queste grandi vie, di commercio, di energia, di cultura sono già presenti in vari spezzoni e in vari paesi e le rotte potrebbero essere completate abbastanza rapidamente, malgrado la grandiosità delle opere, sia ferroviarie che stradali. Rimane la turbolenza politica in molti paesi sulla tratta, ma intanto vi sono a disposizione, dalla nuova Banca Mondiale di Investimento dei Brics, una enorme quantità di dollari (anche se assegni a vuoto color verde, di cui la Cina si sta liberando un po’ alla volta) e alcuni progetti potrebbero essere completati entro il 2021. La Gran Bretagna, non invitata perché in guerra in quasi tutta l’area da secoli, ha comunque chiesto di partecipare. Imperativo salvare il peso della City.
Solo la Siria potrebbe bloccare la colonizzazione commerciale, e lo sviluppo preponderante della Cina verso il Mediterraneo, ma anche viceversa. A pensarci bene la presenza americana nell’area diventa per loro un salvagente, finché potrà durare. Tra l’altro, su quella via ci sono quasi tutte le grandi infrastrutture, distrutte democraticamente, da ricostruire. Vi assicuro che non penso al palazzinaro Trump.

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...