sabato 29 novembre 2008

Saggezza


COSA DOBBIAMO FARE

Dobbiamo essere pratici, vedere il mondo nella sua giusta luce, coi suoi pregi e i suoi difetti. Non dobbiamo temerlo, ma conquistarlo con l’intelligenza, e non esserne schiavi. La nostra concezione di Dio deriva dall’antico dispotismo orientale, ed è una concezione indegna di uomini liberi. Non ha rispetto di se stesso chi si disprezza e si definisce miserabile peccatore. Dobbiamo aver fiducia in noi stessi, e guardare il mondo con sicurezza. Dobbiamo rendere questo mondo il migliore possibile, e se non è proprio come lo desideriamo, sarà sempre migliore di come ce lo hanno ridotto. Un mondo migliore richiede sapere, bontà e coraggio. Non bisogna rimpiangere il passato o soffocare la libera intelligenza con idee, che uomini ignoranti ci hanno propinato per secoli. Occorre sperare nell’avvenire, e non voltarsi a guardare a cose ormai morte, che, confidiamo, non rivivranno più in un mondo creato dalla nostra intelligenza.

Bertrand Russell


mercoledì 26 novembre 2008

Il mio nome è depressione


Depressione
Mikhail Khazin: Gli Stati Uniti Affronteranno Presto una Nuova "Grande Depressione"
Il noto economista aveva previsto la crisi finanziaria statunitense fin dal 2000

di Yevgeniy Chernyx (Komsomolskaya Pravda, 10 novembre 2008)
da ComeDonChisciotte


Cinque anni fa dirigevo le pagine culturali della Komsomolskaya Pravda. Era normale che le case editrici mi inviassero mucchi di novità da recensire. Un giorno, scavando all'interno dell'ultimo carico di libri, mi sono imbattuto in un volume intitolato "Il Tramonto dell'Impero del Dollaro e la Fine della Pax Americana".
Ricordo di essermi ripetuto il titolo, tra me e me, in tono incredulo. Ai vecchi tempi, gli americanologi dell'Unione Sovietica adoravano dibattere sul collasso dell'impero finanziario statunitense. Ma questo libro era del 2003.
Lo sfogliai, dando una rapida occhiata al testo. La conclusione dell'autore (l'economista Mikhail Khazin) sembrava piuttosto convincente. Perciò passai il libro alla sezione economica della KP, curata da Jenya Anisimov, che scrisse una  recensione e in seguito intervistò l'autore nella nostra redazione.
In questi anni non mi sono scordato di Khazin e ne ho seguito la carriera, mentre teneva svariate conferenze in tutta la Russia. Sembrava sicuro che gli U.S.A. si trovassero sull'orlo di un crollo economico, teoria che gli altri analisti si affrettavano a rifiutare. E oggi, mentre la sua prognosi, un tempo così ostica, comincia ad avverarsi, la KP ha contattato Khazin per un'altra intervista.

Licenziato dal Cremlino!

KP: Mikhail Leonidovich, cos'è che l'ha portata a predire l'attuale crisi finanziaria?

Khazin: Nella primavera del 1997 il Cremlino costituì il Dipartimento Economico della Presidenza, e io ne fui nominato vicedirettore. Il nostro primo incarico fu la stesura di un rapporto per [l'allora Presidente Boris] Eltsin, riguardo la situazione economica. Rilevammo che per la Russia una crisi economica era imminente, e che si sarebbe scatenata tra la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno del 1998, a meno che la politica economica del paese non fosse cambiata.

KP: Quali spunti presero le alte sfere dal vostro rapporto?

Khazin: Nessunissimo, in realtà. A parte il vicepresidente e lo stesso Eltsin, nessuno lesse il rapporto. Nell'estate del 1998, l'Amministrazione ci licenziò tutti, perché avevamo cercato di bloccare un progetto di investimenti chiamato "Titoli di Stato - Corridoio dei Tassi di Cambio". Si trattava della più grande operazione finanziaria dell'era post-sovietica. Come avevamo previsto, la crisi economica colpì quello stesso agosto. Insieme ai miei colleghi, ho continuato a esaminare le ragioni di quella crisi. Dopo aver studiato approfonditamente il sistema finanziario statunitense, rilevammo un parallelo fin lì ignorato. Così come il nostro mercato dei Titoli di Stato aveva prosciugato l'economia russa, il mercato finanziario statunitense stava risucchiando le risorse dell'intero pianeta. Ci rendemmo conto che un destino simile attendeva il sistema finanziario degli U.S.A. Il nostro articolo venne pubblicato nell'estate del 2000, sulla rivista Ekspert, col titolo "Gli Stati Uniti Stanno Spianando la Strada all'Apocalisse?" La nostra conclusione era che una crisi economica statunitense fosse inevitabile quanto il collasso finanziario russo.

Fare gli Scemi

KP: Evidentemente negli U.S.A. non avevano ascoltato la canzone dei LUBE [gruppo rock russo] durante la Perestroka, "Don't Play the Fool, America!" Seriamente, comunque, qual è la vera ragione di questo crollo economico? Cerchiamo di spiegarlo senza ricorrere a un linguaggio troppo tecnico...

Khazin: Ci proverò! Il modello economico che ha portato al crollo è derivato dalla crisi degli anni 70. Fu una tremenda crisi finanziaria causata dal surplus di capitale. Persino i classici dell'economia del XIX secolo avevano concluso che il capitale tende a crescere più velocemente dei redditi da lavoro. Questo porta a una diminuzione della domanda. Nel capitalismo tradizionale, il problema si risolveva in una crisi di sovraproduzione, e in un'economia di tipo imperialistico in una fuga di capitali. Ma, arrivati agli anni 70, questi sfoghi non funzionavano già più. Eppure, la situazione internazionale esigeva che gli Stati Uniti effettuassero un grande balzo tecnologico in avanti, o avrebbero perso la Guerra Fredda con l'Unione Sovietica. L'amministrazione Carter e il presidente della Federal Reserve Paul Walker elaborarono un'idea molto scaltra. Per la prima volta nella storia del capitalismo, i capitalisti iniziarono ad aiutare la collettività, mettendo in circolazione nuova moneta che stimolasse la domanda aggregata.

KP: Decisero di far andare le stampatrici?

Khazin: Esatto. Nei primi anni 80 cominciarono a stimolare la domanda tramite i contributi dello Stato. Per esempio, lanciarono il programma delle "Guerre Stellari". E nel 1983 misero l'accento sui risparmi delle famiglie.

KP: Intende dire che si affidarono al cittadino qualunque?

Khazin: Sì. Per un intero quarto di secolo, nell'economia delle famiglie è stata riversata una quantità di valuta sempre maggiore.

KP: In parole povere, parliamo di credito?

Khazin: Sì. Gli Stati Uniti furono in grado di raggiungere un ulteriore traguardo del progresso tecnologico grazie a questo eccesso di domanda. Ottennero il collasso dell'Unione Sovietica e fugarono molti dei loro maggiori timori. Ma... L'espansione si era realizzata grazie a risorse che avrebbero dovuto provvedere alla crescita futura. Il paese divorava sostanze con due generazioni di anticipo. Gli Stati Uniti accumularono un debito spaventoso. Risulta evidente se confrontiamo la crescita del debito delle famiglie coll'insieme del debito statunitense e col PIL. L'economia cresce a un tasso annuale del 2-3%, al massimo del 4. Ma il debito cresce a un tasso dell'8-10%.

KP: Be', che cresca pure... Finora gli Stati Uniti se la sono cavata alla grande... Meglio di noi!

Khazin: Sì, gli U.S.A., stimolando la domanda nei consumatori, hanno creato un alto tenore di vita. Intere generazioni hanno vissuto senza conoscere la povertà. Ma è impossibile vivere per sempre a credito. Il debito delle famiglie è diventato più grande dell'economia nazionale, più di 14 bilioni di dollari. E adesso siamo all'incasso. Ovviamente, Wall Street ha cercato di rimandare il crollo. Non voglio entrare nel dettaglio dei titoli derivati e di altri simili prodotti finanziari, basti dire che si trattava di un ultimo respiro prima dell'inevitabile soffocamento.
Un ulteriore problema degli Stati Uniti è che intorno alla domanda in crescita sono state create grandi industrie. Qualunque decisione prenda Wall Street, la domanda è destinata a precipitare. Cosa ne sarà di queste aziende? Nel 200 stimammo che sarebbe scomparso il 25% dell'economia statunitense. Oggi riteniamo che la percentuale più verosimile sia un terzo, se non di più.

KP: È davvero tanto!

Khazin: È una quantità enorme. Ma cosa comporta esattamente questo, la distruzione di un quarto dell'economia degli Stati Uniti? Comporta una crescita incontrollabile della disoccupazione, una gravissima depressione, una brusca impennata dell'incidenza dei servizi sociali sulla spesa pubblica... In questo momento gli Stati Uniti si agitano nel tentativo di salvare questa porzione dell'economia. Il governo sta aiutando banche e industria manifatturiera... Ma nonostante tutto, entro due o tre anni gli Stati Uniti dovranno fronteggiare una crisi simile alla Grande Depressione.


Mikhail Leonidovich Khazin è nato nel 1962. Ha studiato matematica all'Università di Stato di Yaroslavl e all'Università di Stato di Mosca. Dal 1984 al 1991 ha lavorato all'Accademia Sovietica delle Scienze. Tra il 1993 e il 1994 ha lavorato al Centro Studi Statale per le Riforme Economiche. Tra il 1995 e il 1997 è stato a capo del Dipartimento per la Politica del Credito presso il Ministero dell'Economia. Tra il 1997 e il 1998 è stato vicedirettore del Dipartimento Economico della Presidenza. Nel giugno del 1998 ha lasciato il pubblico servizio. Attualmente è il presidente della ditta di consulenza Neokon.

originale

Traduzione di Domenico D'Amico

lunedì 24 novembre 2008

Il Venezuela e la disinformazione sempiterna

Chavez ELEZIONI AMMINISTRATIVE IN VENEZUELA
un paese e il suo futuro
di Gennaro Carotenuto (da Giornalismo Partecipativo)


Domani si vota per le amministrative in Venezuela*. Dai massimi storici del 2004 il Partito Socialista Unitario (PSUV) del presidente Hugo Chávez, che secondo alcuni sbrigativi commentatori sarebbe un dittatore, prova a tenere le posizioni.
Conta su dati positivi ineludibili di dieci anni di governo bolivariano, in pace e in democrazia, che analizzeremo qui sotto, come è sempre stato in Venezuela anche quando lo scorso anno per la prima volta Chávez fu sconfitto e gli ipercritici che vaticinavano un golpe fecero finta di sorprendersi dell’ennesima prova di democrazia. Ovviamente anche questa volta per ogni governatorato e ogni sindaco perso, migliorare è impossibile, gli canteranno il “de profundis”.
Nonostante gufi e avvoltoi, ed un contesto che non è più in crescita, secondo i sondaggi il governo dovrebbe mantenere la maggioranza in almeno due terzi degli stati del paese. I principali fattori di preoccupazione sono il prezzo del petrolio che è in picchiata, e le incognite date dall’uscita o non entrata nel partito unitario di vari dirigenti storici. Questi a volte si candidano come terzo incomodo oltre al candidato del PSUV e a quello dell’opposizione. Per Chávez, inoltre, è la prima prova elettorale dopo la sconfitta di strettissima misura nel referendum costituzionale dello scorso dicembre. Una sconfitta venuta dopo un decennio di democratizzazione e inclusione vera nel paese e dopo una dozzina di vittorie elettorali consecutive, nel paese più monitorato al mondo.
I critici picchiano anche sull’inflazione e hanno ragione perché quest’anno chiuderà intorno al 30%. Hanno ragione ma anche torto perché con Chávez l’inflazione, comunque strutturalmente alta, è diminuita. Basta guardare alle presidenze dell’ultimo quarto di secolo. Con Jaime Lusinchi (1984-88) fu del 22.7%; con Carlos Andrés Pérez (1989-93) del 45.3%; con Rafael Caldera (1994-98) addirittura del 59.4%; con Hugo Chávez (1999-2007) del 18.4%. Chi in questi anni ha letto centinaia di contritissimi articoli sull’inflazione chavista mediti su questi dati e provi a ricordare se ha mai letto di tanta preoccupazione prima di Chávez.
Conosciamo i nomi dei falsificatori e occultatori, che mai pubblicano i dati più significativi della storia di questo decennio in Venezuela. Sono il gruppo mediatico spagnolo Prisa innanzitutto, quello di El País di Madrid che sta dedicando alle elezioni venezuelane lo stesso spazio di quello che dedica alla elezioni in Gallegolandia (la Spagna), la Sociedad Interamericana de Prensa (SIP), la CNN, la Fox, le messicane Televisa e Tv Azteca, la brasiliana Tv Globo, il gruppo argentino del Clarín, lasciando da parte i media venezuelani e i guitti nostrani, i Rocco Cotroneo e gli altri quaquaraquà della nostra stampa.
Perché non scrivono mai che l’indigenza in Venezuela è passata dal 20.3 al 9.4%? Perché non scrivono mai che la povertà si è ridotta dal 50% al 33%? Perché dimenticano che il salario minimo dei lavoratori (con una disoccupazione scesa dal 16 al 7%) è passato da 154 a 286 dollari ed è il più alto dell’America latina? Perché dimenticano che la mortalità infantile (il più indicativo della salute generale di un paese è passato da 21 a 14 per mille)? Molto resta da fare ma il PIL dedicato alla salute è stato quasi raddoppiato in dieci anni così come quello dedicato all’educazione. Ciò senza citare mille altri fattori di progresso e di uscita da un sottosviluppo atavico. E allora perché tanto catastrofismo? Chi scrive fa salva la buonafede preferendo passare da ingenuo. Tanto catastrofismo si giustifica perché continuano a parlare sempre e solo con i ricchi. Ricordate Raffaele Bonanni che nel dire che il Venezuela era peggio della Cambogia di Pol Pot ammise di non essersi mai affacciato fuori dal suo albergo di lusso? Ricordate Ettore Mo che per andare a prendere il caffé si metteva il giubbotto antiproiettile? E se i ricchi restano straricchi (e ben pochi sono andati a Miami) i ricchi in Venezuela sono tristi perché sono meno sideralmente distanti dal resto della società.
E arriviamo all’ultimo inspiegabile dato che i disinformatori di professione preferiscono non dare: se chiedi a tutti i venezuelani e non solo a quelli che hanno sempre tenuto il paese in pugno il Venezuela è forse il paese più ottimista al mondo. Secondo Latinobarometro (il corrispettivo di Eurobarometro e lontanissima dal potersi definire filochavista), la maggior parte dei venezuelani (il 50%) considerano che il futuro del paese sarà molto migliore contro solo il 31% del resto della Patria grande. L’economia attuale è “molto buona” per il 52% dei venezuelani mentre appena il 21% dei latinoamericani pensa lo stesso. Nel 1998 solo 35 venezuelani su 100 dichiarava di credere nella democrazia. Oggi dopo un epocale processo di inclusione sociale siamo arrivati al 59% e addirittura il 67% dichiara di aver fiducia nello Stato. Lo stesso Chávez continua ad avere la fiducia di sei venezuelani su dieci.
Si potrebbe continuare a lungo, ma sempre ricordando che questi dati sono occultati dalla stampa mainstream. Dopo dieci anni il governo bolivariano entra in una fase nuova e più difficile dove con il prezzo del petrolio in caduta lo Stato avrà più difficoltà ad approfondire la democratizzazione reale del paese. Ma il Venezuela è cambiato in questi dieci anni e solo in meglio. E chi lo nega non è in buona fede.



* Articolo chiuso in tipografia lunedì 17/11.

giovedì 20 novembre 2008

Cinema (tra l'altro)

RACCONTA E ANCORA RACCONTA

 obamatubesNanolitografie di Barack Obama (mezzo millimetro) realizzate con nanotubi di carbonio



Essendo tutt'altro che immune agli effluvi di speranza che si levano dall'intero globo, in amorosa e simbolica rispondenza al primo african american insediatosi (a breve) nella Casa Bianca, mi sento quasi colpevole a occuparmi, di nuovo e ancora, di voluttuariaggini come il cinema coreano.

Ma, insomma, la vita va avanti. Assicurazioni e banche intascano i soldi del bailout e li distribuiscono agli azionisti o li ficcano nel materasso, entro il 2011 gli USA lasceranno l'Iraq lasciandovi megafortezze altro che la Bastiani, e Tremonti (davanti alla Commissione Bilancio) contesta chi dice che le iniziative del governo sono solo finanziarie: e il nucleare cos'è, se non economia reale?

Tanto è in arrivo una nuova Grande Depressione (citata, scusate tanto l'autopromozione, nella primissima pagina del nostro romanzo).

Ma veniamo alle cose davvero importanti.

Dubito che, almeno su questo pianeta, ci sia qualcuno che apprezzi la prassi dell'industria cinematografica janqui di riadattare film stranieri per il mercato interno. Tuttavia, di per sé il remake non è maligno. Da che mondo è mondo le storie vengono narrate e ri-narrate (sorvoliamo sull'eterno interrogativo, se esistano storie che non siano il ri-racconto di un racconto). Il fatto che una delle versioni della storia di Medea, per millanta ragioni, passi oggi per quella autentica, non ci autorizza a dimenticare le altre (Christa Wolf docet). E nemmeno siamo costretti a scegliere tra l'Oreste di Eschilo e quello di Euripide, anche se Aristofane ci fa sapere che il dibattito sul tema remake è antichissimo.



Faust



Quindi la questione non è se sia una bella cosa rielaborare un racconto adattandolo all'epoca o al gusto locali: lo si fa e basta. Ma possiamo legittimamente attribuire un valore (più o meno aleatorio) al remake che abbiamo davanti. Certo, con l'avvento della figura dell'autore nella cultura occidentale le cose si sono complicate, tanto da rendere problematico affermare che il Faust di Mann sia una rielaborazione di Goethe, o che l'Ulisse di Joyce racconti di nuovo l'Odissea. Ma, visto che parliamo di remake cinematografici, mettiamo da parte queste difficoltà...

Occorre comunque chiarire l'ovvio: il remake, nel linguaggio corrente, indica un film che trae la sua origine da un altro film. Questo significa che, colloquialmente, non possiamo definire She's the Man un remake della Dodicesima Notte di Shakespeare, così come Cruel Intentions non è un remake delle Relazioni Pericolose di Laclos, o My Fair Lady di Pigmalione, non più di quanto chiameremmo Romeo and Juliet un remake di Matteo Bandello.



shesthemanShe's the Man



Cruel IntentionsCruel Intentions



Nel cinema statunitense il remake non riguarda solo i film stranieri, al contrario. L'intrattenimento di massa non può certo rinunciare a una buona storia, e se il pubblico cambia, così cambiano anche le penne del racconto. Un esempio per tutti: Prima Pagina. Tra la prima versione, del 1931, e quella successiva del 1940 (quella con Cary Grant)) di Howard Hawks, assistiamo a uno spostamento di genere: il giornalista che vuole sposarsi è uomo in Milestone, donna in Hawks. Le due versioni successive del racconto ripetono il cambio: il celebre film di Billy Wilder con Lemmon e Matthau presenta la versione maschile, mentre il remake di Ted Kotcheff (con Kathleen Turner e Burt Reynolds) torna a quella femminile (e infatti non si rifà affatto a Wilder, ma a Hawks).

Quello che ci interessa, visto che stavamo parlando della nostra possibilità di valutare le singole versioni di un racconto, è come sembri “normale”, nel film del 1940, che la giornalista di punta sia una donna, e come sembri altrettanto scontato, nel 1974 di Wilder, che sia un uomo, per arrivare al 1988 di Kotcheff, con una “normalissima” anchorwoman da prima serata. Avrebbe senso parlare di sessismo, se non fosse che sia Wilder sia Hawks sono una delizia per il palato, mentre l'aver recuperato la protagonista femminile non salva Kotcheff dalla mediocrità.



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 His Girl Friday



Ma, anche volendoci andar piano coi giudizi di valore, è indubbio che parecchi remake janqui (adesso parliamo dei film stranieri) facciano gridare l'ottava musa come un Bondi che scoprisse che Silvio non l'ha mai veramente amato.

Non è stato bello vedere un gioiellino di commedia come Certi Piccolissimi Peccati  trasformato in quella deprimente svangata di La Signora in Rosso, una bomba sensuale come Profumo di Donna di Dino Risi impietrito nell'intediato Scent of a Woman (che ha un solo pregio: Giancarlo Giannini che doppia Al Pacino), lo sconnesso ed esagerato Nikita di Luc Besson sbollito nel pateticissimo Nome in Codice: Nina di John Badham, il tenero Tre Uomini e una Culla (Trois Hommes et un Couffin) di Coline Serreau nell'allucinante Tre Scapoli e un Bebè (3 Men and a Baby) di Leonard Nimoy... E via e via (sono solo i primi che mi sono venuti in mente).

Qui le questioni etiche o ideologiche non vengono trascese dall'arte del racconto. Tanto per dire, tanto in Nikita quanto nel remake la protagonista, a un certo punto, ha un assaggio di vita “normale”, può quasi far finta di non essere un sicario del governo, e conosce un bravo ragazzo che, ovvio, si innamora di lei. Ma il rapporto è travagliato, lei porta scritto in faccia “madonna, se sono traumatizzata”, e di certo non gli può spiattellare “senti, tesoro, sono un'ammazza-poliziotti trasformata dai servizi segreti in un killer di stato, passami l'insalata”... Ora, nell'originale francese il ragazzo in questione, di fronte al segreto grondante dolore della ragazza, assume un atteggiamento di totale apertura e accettazione: le offrirà il cuore (e il suo aiuto) senza condizioni o contropartite. Ma nel rifacimento janqui, probabilmente, questo sarà sembrato poco equanime. Il ragazzo in questione rivendica il suo diritto di avere un ruolo nel rapporto. Omme 'e mmerda. Più che il politically correct, qui emerge lo spicciolo pragmatismo dei manuali USA di savoir vivre, emerite merdate del genere “non puoi amare gli altri se prima non ami te stesso”.

Tanto per ridire, nel film di Colin Serrau si giunge a una (utopistica) transvalutazione dei ruoli familiari e di genere, fino alla aggregazione di una sorta di neo-famiglia innervata (ecco, di nuovo) dall'accettazione e dal dono di sé. Gli janqui hanno trovato la cosa talmente inaccettabile da dover girare un seguito in cui la situazione scandalosa della povera bambina (una famigliola con mamma e tre papà, non scherziamo: i compagnucci della parrocchietta resteranno traumatizzati) venisse sistemata da un matrimonio riparatore (per quanto non col genitore biologico dell'infante)!

Non ci posso credere, tutto questo sproloquio solo per arrivare al vero argomento di questo post: il remake statunitense di My Sassy Girl.

Non è colpa mia. La natura mi ha fatto logorroico, e il Dottore (che, ricordiamolo, pratica la psichiatria) non è in grado, o non vuole aiutarmi. O forse gli Illuminati tramano contro di me. Va a sapere.

Dicevamo, il remake di My Sassy Girl.

Io non sono uno di quei fanatici che tirano fuori il sovrapposto quando parlano dei film janqui di derivazione orientale. The Ring? Ti sparo in testa! Dark Water? Ti sparo in faccia! Pulse? Ti sparo in bocca! The Eye? Ti sparo negli occhi! La Casa sul Lago del Tempo? Ti sparo nel culo!

Difatti, e so benissimo di rischiare la vita nel dirlo, certi remake possono essere meglio dell'originale. Qui lo dico e qui lo denego, ma, insomma, d'accordo che mettere la bionda Watts al posto di Natsushima sia una limpida metafora del manco tanto velato razzismo che sottende (coesiste e consiste) al protezionismo culturale che genera tanti di questi rifacimenti, ma il Ring rifatto, ammettiamolo, è più impressionante. E direi la stessa cosa per The Grudge, se non fosse che il regista (Takashi Shimizu) è lo stesso, quindi fa categoria a sé.

Con My Sassy Girl USA, invece, sono in una botte di ferro.

Sì, questo film fa pena.



elishacuthbertmysassygiqb5My Sassy Girl



Avevo forse esagerato nel paragonare sfavorevolmente Elisha Cuthbert a Jeon Ji-hyeon (protagoniste delle due Sassy Girl), ma solo in moderazione. L'inerzia, la legnosità che l'attrice janqui sfoggia in questo remake ha del misterioso. Intendo dire che in altre prove, sia televisive sia cinematografiche, l'abbiamo vista recitare passabilmente. Qui no, sembra convinta che una specie di broncio pensieroso sia capace di veicolare le tempeste interiori di una ragazza piuttosto bipolare col cuore parecchio spezzato. Conseguenza, la sua figura perde l'ombra di commossa comicità dell'originale coreano. Ma fosse solo questo. Anche qui, come detto più sopra, si assiste a una insopportabile avarizia sociale da parte degli adattatori statunitensi. Cos'è, era troppo far vomitare la ragazza sul parrucchino di un tizio in metro? Cos'è, mettersi le scarpe di lei, per giunta in pubblico, con la ragazza che corricchia e ridacchia, è troppo degradante per il maschio USA? Non voglio dire che un rifacimento si debba giudicare dagli elementi narrativi che mancano (rispetto alla precedente versione), al contrario, bisognerebbe guardare a ciò che c'è in più e di diverso...

Ma la Sassy Girl USA sembra realizzata sforbiciando pezzi da quella coreana. La deprivazione emotiva, in fin dei conti, rende inspiegabile la storia tra i due protagonisti, lui non è veramente un bamboccione, lei non è veramente instabile... E quello che c'è in più, nella Sassy USA, è un profluvio di spiegazioni psicologiche (del comportamento di lei) che farebbero la gioia di un sociologo da rotocalco.

Accidenti, dico io. Perché, perché lo fate?

E sono in arrivo i remake di A Tale of Two Sisters e Into the Mirror.



mirrors_ver3Mirrors (remake di Into the Mirror)



uninvitedThe Uninvited (remake di A Tale of Two Sisters)



Attendete.

Tremate.

Molla il mio parrucchino!



Domenico D'Amico

lunedì 17 novembre 2008

Dice Dio, dico io

ME LO HA DETTO DIO!


Thomas Paine ha detto: "Rivelazione, nell'ambito religioso, indica qualcosa comunicata direttamente da Dio all'uomo. Nessuno nega o mette in discussione il potere dell'onnipotente di fare una cosa del genere, se lo desidera. Ma ammettere che, guarda caso, una cosa è stata rivelata ad una certa persona e non ad un'altra, significa che la rivelazione vale solo per questa persona. Quando la prima persona dice questa cosa ad una seconda persona, e la seconda ad una terza persona, la terza alla quarta e così via, essa non è più una rivelazione: sarà una rivelazione per la prima persona certo, ma per tutti gli altri sarà una diceria, quindi non sono obbligati a crederci."
Sono d'accordo. A tale riguardo mi viene da pensare ai Dico, o se preferite la legge sulle coppie di fatto. Mi riesce davvero difficile credere che da quelle dicerie possano derivare precetti così categorici su simili minutaglie. Come è possibile che quei buffi signori con la tonaca sappiano con esattezza così spietata  che Dio sia tanto preoccupato dal fatto che due persone, non importa il sesso, si mettano insieme, condividano la propria esistenza, facciano sesso, figli e vadano a cena con altre coppie pari loro?
Lo so, è anticlericalismo ottocentesco, ma che volete: io sono uno alla buona. Io non capisco le profondità filosofiche di un Pera o di un Tremonti, che vedono nella fede qualcosa che "trascende" la fede stessa.
Gli uomini buffi con tonache e strani paramenti dicono che è lo Spirito Santo che li guida nelle giuste decisioni. Peccato che detto spirito ami contraddirsi e non poco, visto che, tanto per fare un esempio, prima guida un tal papa Formoso verso i sentieri illuminati dell'onniscienza e poi allo stesso modo guida Papa Stefano VI, successore di Bonifacio VI, che si prende la briga di disseppellire Formoso, fargli il processo da cadavere e "condannarlo a morte". Strani questi infallibili, che sono sempre infallibili anche quando se le suonano di santa ragione e si contraddicono a piè sospinto. "Lo spirito Santo è il sacro motore della dialettica della storia", ribattono gli uomini buffi, quindi può fare e disfare come gli pare: la dialettica va così, che diamine, altrimenti che dialettica sarebbe?
Mi arrendo. È che non sopporto l'idea che secondo questo signori della diceria all'ennesima potenza, Dio non vuole che una blastocisti, che  è una struttura che si forma nella prima parte del processo di embriogenesi, dopo la formazione del blastocele, ma prima dell'impianto, venga utilizzata per ricavarne cellule staminali, perchè in fondo anche se solo potenzialmente, è una vita umana. Ergo i cosiddetti embrioni congelati che non vengono utilizzati si devono buttare nel cesso, perchè così si rispetta la vita umana.
D'accordo, le cellule staminali si possono ricavare in altri modi, non debbono essere necessariamente cellule staminali embrionali, possono benissimo essere cellule staminali adulte e quindi essere ricavate, ad esempio, da cordoni ombelicali. Ma perchè precludersi questa possibilità, che a detta di tutti potrebbe rappresentare una vera manna per la ricerca? Davvero è meglio buttarli, gli embrioni? Il fatto è che per gli uomini buffi è sicuramente meglio così, perchè sono preoccupati unicamente di perdere il loro ruolo di fini dicitori dell'altissimo, che è l'unico mestiere che sanno fare. Per quanto riguarda il rispetto della vita umana gliene importa un fico secco, altrimenti avrebbero incenerito Bush.
La verità (quella vera) è che se non si fanno sentire la gente potrebbe accorgersi che non c'è più bisogno di loro e delle loro rivelazioni.

Franco Cilli

domenica 16 novembre 2008

Genova 2011

NOI CHE ABBIAMO VISTO...

Sono stato a genova nel 2001, come sanitario del GSF e ho visto tutto quello che c'era da vedere: teste rotte, nasi sanguinanti, cariche della polizia contro gente inerme, elicotteri che sparavano lacrimogeni dall'alto. Ho percepito il panico della folla e mi sono misurato con la mia paura. Quello che è accaduto è grave, ma ancora più grave è l'assoluzione dei responsabili di tutto ciò. 
Sul treno che mi riportava a casa, una volta che tutto sembrava finito, ho appreso della Diaz, ma non mi sono meravigliato, ho solo provato rabbia e vorrei che quel collega con gli anfibi militari provasse per una mezz'ora quello che lui ha fatto provare ad altri.
Quando sento parlare di mattanza, il mio pensiero oltre che a Genova, va alle  mattanze in America Latina e in Africa, dove la repressione è feroce e le mattanze significano centinaia o migliaia di morti. A Genova, Carlo Giuliani è morto, ha pagato il prezzo della nostra presunzione di cambiare il mondo. Nessuno pagherà per questa morte come nessuno ha pagato per le tante stragi in tutto il mondo, commesse nel nome di un'unica logica: mantenere in piedi un mondo dove una minoranza si ingrassa sulla pelle della maggioranza  e divora l'ambiente come un'idrovora impazzita.
Io credo fermamante che le ideologie non servano a niente, stiamo per affrontare una crisi che richiederà il massimo di coesione fra coloro che abbiano un minimo di barlume etico. Ci saranno altre Genova e ci saranno gli appestati di turno che diverranno capri espiatori.
Che senso ha continuare a dividerci?
 

Franco Cilli

mercoledì 12 novembre 2008

Dell'Utri, la mafia, il fascismo

COSÌ PARLÒ MARCELLINO


di Gianni Barbacetto


L'antifascismo? "Un concetto obsoleto". Mussolini? "Un uomo di valore". L'antimafia? "Troppo costosa". Saviano? "Il suo libro ha enfatizzato la camorra". La Rai? "Ci sono ancora troppi dirigenti di sinistra". Lo stalliere di Berlusconi? "Fu a suo modo un eroe". Ecco alcuni dei giudizi espressi da Marcello Dell'Utri, fondatore di Forza Italia, senatore e pregiudicato, nella lunga intervista rilasciata a Klaus Davi su "Klaus Condicio", su YouTube .


Il fascismo. "Mussolini sbagliò, non c'è dubbio, ma quando era al potere lo Stato era più presente di quanto non lo sia adesso. Aveva dato, e in questo è stato l'unico, un senso di patria al Paese". Dell'Utri rilegge, la sera, i Diari di Mussolini (falsi?) che dice di aver ritrovato. Da quelle carte "viene fuori l'immagine di un uomo di valore, dal punto di vista sia umano che culturale. Mussolini cita spesso le classi deboli e più bisognose. Molti provvedimenti in loro favore e diverse leggi sociali, come quelle che disciplinano la previdenza contro gli infortuni e la nascita dell'Inps e dell'Inail, risalgono proprio al famigerato Ventennio. Che dire poi delle colonie? L'Italia, essendo un Paese che occupa tutto lo spazio del Mediterraneo, non poteva restare fuori dalla politica di espansione delle potenze occidentali". Oggi l'antifascismo è "un concetto obsoleto" che "ritorna puntualmente in auge perché mancano nuovi argomenti seri di discussione e si finisce con il rivangare sempre gli stessi" e "ogni qual volta si tocca questo tasto succede un'insurrezione poiché questa situazione non è mai stata chiarita del tutto e la verità non è mai venuta a galla".


La mafia. "Penso che Roberto Saviano abbia ragione a voler andarsene dall'Italia. Il libro che ha scritto è un libro denuncia e in quanto tale oggetto di tante attenzioni poco piacevoli", ma quel romanzo-documentario "certamente non è una gran pubblicità per il nostro Paese, anche se il male, purtroppo, esiste e quindi non possiamo negarlo. Forse però non dovrebbe essere enfatizzato in questo modo. Il premier Silvio Berlusconi è andato a Napoli per affrontare il problema della monnezza ed è riuscito a toglierla dalle strade, ma la camorra non è altrettanto facile da estirpare".
L'antimafia? "Non è finita. C'è e ci sarà finché esiste la mafia ed è un bene. Credo, tuttavia, che, allo stato attuale, il rapporto tra costi e benefici sia assolutamente sproporzionato, soprattutto quando alcuni procuratori antimafia fanno politica". Il riferimento è a Gian Carlo Caselli , che aveva denunciato la difficoltà per i giudici di processare e condannare i politici collusi con la mafia. Dell'Utri (una condanna a 9 anni in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa e una condanna definitiva per frode fiscale) attacca "i procuratori di Palermo che hanno usato molto e a sproposito lo strumento dell'aggressione politica. Io, onestamente, me ne sento in assoluto una vittima. Non ci sarebbe stata l'accusa nei miei confronti se non ci fosse stata la grande affermazione di Forza Italia in Sicilia nel 1994".
Vittorio Mangano, lo "stalliere di Arcore" (condannato all'ergastolo per duplice omicidio) è "un eroe, a modo suo" perché "malato com'era, sarebbe potuto uscire dal carcere e andare a casa, se avesse detto solo una parola contro di me o contro il presidente Berlusconi. Invece non lo ha fatto".


La tv. "Negli ambienti della Rai ci sono ancora oggi dirigenti che sono stati messi dalla sinistra e che quindi rispondono a logiche di sinistra. È difficile pensare che migliori la qualità della comunicazione quando a guidarla c'è gente che alimenta una visione negativa della vita", afferma Dell'Utri, di rincalzo a Berlusconi che, con incredibile senso dell'umorismo (involontario), negli stessi giorni dichiara che in tv c'è troppa gente di sinistra ("Tutti i giorni ci sono attacchi televisivi nei nostri confronti, con tutti questi conduttori appecoronati sulla sinistra") e che la televisione è troppo ansiogena: "Io adesso cercherò di fare tutto il possibile perché le tv pubbliche e private non siano dei fattori ansiogeni, come purtroppo stanno diventando». In particolare «la televisione pubblica, che dovrebbe cooperare perché le cose vadano al meglio, adesso è il punto principale di diffusione del pessimismo".
Dell'Utri lo sostiene: "Le notizie, certo, bisogna darle, sennò si torna al fascismo, ma c'è modo e modo di comunicarle. Magari con conduttori più gradevoli di adesso. Io guardo il Tg3, ad esempio, e vedo che ci sono degli anchorman che hanno già una faccia un po' gotica, un po' dark".


Le telefonate. Intanto il 30 ottobre 2008 la giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato ha respinto la richiesta del gip di Palermo di utilizzare nel processo d'appello per mafia le telefonate tra Dell'Utri e il mafioso Vito Roberto Palazzolo, già condannato per droga nel processo Pizza connection e poi per mafia (9 anni anche lui, come Dell'Utri) e latitante in Sudafrica. "Non devi convertirlo, è già convertito", dice al telefono Palazzolo alla sorella nel 2003: cioè ha rapporti d'antica data con Cosa nostra e quindi è già disponibile. Ma le telefonate non potranno essere essere utilizzate in aula, a causa della legge boiata-Boato che impone di avere il permesso delle Camere per trascrivere e utilizzare le telefonate dei parlamentari.

venerdì 7 novembre 2008

Magico Obama



OBAMA E IL DISINCANTO: UN PROFILO ANTROPOLOGICO

Mcsilvan (da Rekombinant)

1.

Agli inizi del secolo scorso, la celebre prognosi di Weber sulla demagicizzazione del mondo definiva la comprensione di un processo secolare di crescita del disincanto nelle società occidentali quanto delle serie incomprensioni del fenomeno.  Weber fissava, con delle categorie legate alla comprensione dei lunghi processi storici, il processo dello sgretolamento della presa del potere del magico e del sacro di tipo religioso sulla significazione dei fenomeni, sull’interazione sociale e sulla concezione del futuro.  L’analisi weberiana sul quel processo di secolarizzazione, che riguardava non solo lo stato ma le radici stesse della società, è rimasta in questo senso un classico ineludibile. Ma, proprio a partire dall’analisi weberiana si sono registrate significative incomprensioni dei fenomeni politici non solo del ‘900 ma anche dell’epoca che stiamo attraversando. Infatti la crisi, definita irreparabile, della trascendenza nelle società contemporanee non solo ha di fatto semplicemente spostato i confini del trascendentale (dall’aldilà religioso all’aldiquà storico) ma ha anche ridefinito i poteri del sacro e del magico ricollocati entro questo nuovo spazio trascendentale ristrutturando i riti attraverso i quali questi poteri si riproducono. La capacità di attrazione del sacro e del magico, che ridefiniscono i tratti di ciò che è  straordinario in una società oggi a prescindere dall’esistenza del divino, non rinvia quindi la fonte del proprio potere all’aldilà ma la colloca come un’ombra appena sopra un aldiquà che nel ‘900 fino ai nostri giorni è stato spesso marcato dalla politica che ha prodotto così una nuova dimensione trascendentale.
La stessa politica ha però mutato le forme di produzione di questo trascendentale: sacro, magico e rituali, ovvero la produzione oggi rielaborata di straordinario che porta consenso anche impetuoso a chi la governa, hanno a lungo soggiornato sia in quelle che oggi vengono chiamate le ideologie (nel linguaggio corrente le teorie politiche che tentano di applicarsi nella società, e qui oggi ci si distanzia dall’ideologia in senso marxiano più di quanto si pensi) che nella dimensione che il lessico politico oggi chiama post-ideologica (ovvero la prassi  improntata a un puro pragmatismo).
Fin qui niente di cui stupirsi: la produzione di straordinario genera valore socialmente richiesto perché legato al desiderio e attira grandi masse attraverso una complessa serie di rituali (oggi tecnologicamente mediati). Fornisce quindi anima, vitalità e consenso ad ogni dimensione ideologica e post-ideologica. Del resto un classico come Mannheim aveva colto un importante tratto storico della politica moderna che nasce proprio dalla spiritualizzazione insita nelle aspirazioni di importanti strati delle società a noi precedenti. Tanto più le culture religiose tendono a realizzare le proprie aspirazioni spirituali e salvifiche nell’aldiquà tanto più cresce e si sviluppa la politica come “concorso dei gruppi sociali alla realizzazione degli scopi terreni” (Ideologia e Utopia ed. 1970). Dal novecento ad oggi il magico e il sacro ristrutturato sono quindi fenomeni permanenti di proliferazione del desiderio sociale della realizzazione dello straordinario nell’aldiquà ma mutevoli nelle forme, nelle tattiche di riproduzione di se stessi e negli obiettivi. La politica intesa come concorso collettivo alla realizzazione degli scopi è anch’essa rimasta ma profondamente mutata, non solo nelle forme ma anche nella ristrutturazione dei propri obiettivi storici. Ma straordinario e politica si tengono sempre assieme: senza la produzione di straordinario che anima l’atto spontaneo dell’erogazione di consenso alle istituzioni nelle nostre società nessun tecnocrate della politica può muoversi perché delegittimato. C’è un atto magico, sacro, quasi neoreligioso nell’agitarsi di una società verso uno scopo che deve essere compreso da un materialista perché genera potere, verticalizzazione dei rapporti tra ceti sociali e legittimazione delle forme del politico e dell’amministrativo intese come simulacro del concorso collettivo alla realizzazione degli scopi.
Quindi altro che demagicizzazione del mondo per far posto ad una civiltà ammistrativamente normata, come prefigurato da Weber e messo in atto da tutta la politica istituzionale dal dopoguerra a oggi  (vero tratto unitario da Schumpeter fino a Michael Walzer che, non a caso, si dice “nervoso” per la vittoria di Obama, temendo che il populismo spiritualista evocato dal nuovo presidente metta in crisi il totem del dispositivo razionale e normativo della regolazione sociale). La politica per legittimare ogni proprio tratto, e con lei i dispositivi della governance che dalla politica ricevono legittimazione di riflesso, deve saper suscitare quel consenso che nasce dallo straordinario e quindi da una dimensione sia magica che sacra ma quanto prodotta da un nuovo trascendentale, quello dell’aldiquà definito da forme mediali di rito collettivo quando non globale.

2

In questo senso la vittoria di Obama alle elezioni Usa non ha niente di stupefacente: nella cultura politica dei comitati elettorali americani il marketing, come tecnica di estrazione di legittimazione politica nei bacini di produzione dello straordinario presenti nella società Usa, è una disciplina consapevole di sé e del rapporto tra straordinario e politica almeno da qualche decennio. E’ una scienza della produzione del consenso mediale matura quindi consapevole di sé, dei propri dispositivi di produzione non lineari, dei propri punti di crisi come di potenza.
 Chi guarda alle dinamiche di produzione dell’utopia dal basso sollevate dall’elezione di Obama di solito ha presente solo quest’aspetto del fenomeno: quando è così è come pensare che la birra che viene bevuta con soddisfazione sia stata prodotta dallo stesso bevitore soddisfatto. Non funziona ovviamente così nelle società contemporanee anche se il bevitore partecipa, anche consapevolmente, alla valorizzazione del marchio e con i propri gusti orientando la composizione della formula della birra. E qui va detto che in Italia, tanta retorica dell’autovalorizzazione dei processi di soggettivazione ha costruito enormi ostacoli epistemologici per la comprensione di questi fenomeni.  Lo stesso giudizio vale per una certa cultura di sinistra ferma ancora al terrore orwelliano verso i media con il risultato di vedere solo fenomeni di eterodirezione quando le dinamiche sono invece estremamente più complesse. Ostacoli epistemologici che testimoniano il fallimento di culture politiche che già alla prima metà di questo decennio non riuscivano più  a orientarsi e che si candidano al disorientamento anche per i prossimi anni.
 Va infine detto che lo scatenamento della scossa collettiva che produce quello straordinario che si concretizza in consenso elettorale con Obama è avvenuta in forme differenti dal passato. Sul piano mediale e quindi su quello politico. E qui c’è un aspetto antropologico che non va affatto trascurato: il processo di rimagicizzazione del mondo in atto da quando la comunicazione globale ha fatto la presa sul pianeta. Già negli anni ’80 Marc Augè si era accorto di un fenomeno apparentemente inspiegabile: le soap opera americane venivano accolte con entusiasmo in ogni angolo del globo. Sembrava l’apparente conferma del primato planetario dei valori americani nella significazione dei modi di vita di tutto il mondo. Eppure era l’esatto contrario: le soap penetravano nel pianeta grazie al fatto che tutte le culture, nessuna esclusa, hanno a disposizione degli universali di spiegazione dei fenomeni, e di magicizzazione dell’immaginario, in grado di decodificare ed assorbere qualsiasi messaggio venga dall’esterno. L’egemonia dell’immaginario americano stava “solo” nel fatto che la fonte della produzione dei messaggi era tutta americana. Allo stesso tempo tutti i dispositivi di immaginario mitologico delle culture non occidentali assorbivano figure e racconti provenienti da occidente. E questo perché, come commentava Augè, è proprio della televisione imporre l’egemonia dei propri contenuti attraverso un uso mitologico dell’immagine che fa immediata presa sulle popolazioni. Un processo di rimagicizzazione del mondo veniva quindi a coincidere con la nascita di un patrimonio globale di immagini e con la successiva, altamente complessa, interconnessione tecnologica. Weber non poteva certo prevedere l’esplosione globali della comunicazione via immagine emozionale, noi lo sappiamo e dobbiamo tenerne conto.
Per la sua natura, si tratta quindi di una rimagizzazione in grado di mettere in connessione opzioni culturali differenti. Proprio come è accaduto negli Stati Uniti dove, scossi dall’entusiasmo per lo straordinario evocato dal messianismo di Obama, si sono attivati differenti archetipi culturali che hanno trovato un mediatore comune: il linguaggio mediale in grado di attivare universalmente l’intero spettro della diversità culturale presente in un paese.
In questo senso lo staff elettorale di Obama ha saputo elaborare questo bacino spontaneo di produzione di mitologie, secondo i nuovi canoni della rimagicizzazione del mondo, in quanto staff strutturato secondo un’organizzazione del lavoro post-moderna del tutto simile a quella che si forma quando si produce un film a Hollywood (organizzazione a rete ma con gerarchie, mutevole ma con delle policies, contratti di professionisti a tempo ma con dei fiduciari storici del committente, forte coesione interna ma immediata solubilità dell’organizzazione una volta raggiunto lo scopo). Le modalità di attivazione dello straordinario, il fenomeno sociale che se saputo governare crea legittimazione politica, da parte dello staff di Obama sono quelle della capacità di distinguere e di mettere a produzione mito e propaganda. Il mito è quel bacino spontaneo di immaginario sociale in grado, se attivato o se dotato di attivazione propria, di scatenare quel sentimento sociale dello straordinario  che unisce una società e produce potere politico.  La propaganda, in questo caso quella dell’organizzazione cognitiva postmoderna non quella strutturata secondo criteri fordisti risalenti all’esperienza delle guerre, è invece la capacità di un dispositivo politico-elettorale strutturato di saper far emergere il bacino grezzo dello straordinario presente nella società indirizzandolo nell’investimento emotivo di massa verso un candidato. Il Financial Times non a caso ha commentato la campagna elettorale di Obama definendola sia fortemente emotiva che rassicurante: vuol dire che entrambi gli obiettivi, mobilitare il consenso di massa tramite un messaggio straordinario ma incanalandolo verso un membro dell’establishment, erano stati raggiunti.
Si crea così l’effetto partecipazione: come nelle funzioni religiose, in questo caso sia dal vivo che su una pluralità di piattaforme tecnologiche, c’è una emotività profonda e diffusa a cui tutti partecipano anche attivamente e un funzionariato del clero che gestisce e amministra il rito partecipativo, scegliendo il tono emozionale delle retoriche. E’ comunione e distinzione allo stesso tempo: la comunione trova qui la propria acme rituale nelle elezioni, la distinzione permette che il ceto politico una volta esaurita la funzione, e fatto il pieno di legittimazione e di investimento, agisca separatamente dalla società e in piena discrezione.
E qui per creare un effetto partecipazione così dirompente lo staff di Obama ha utilizzato al meglio, nel contesto favorevole di una nuova cultura magico-mediale, almeno due killer application tipiche del bagaglio concettuale di Internet: la cultura convergente e la Long Tail. La cultura convergente nasce dalla consapevolezza che il messaggio mediale dominante non è più quello strettamente televisivo ma quello che nasce dall’ibridazione di più media (giornali, radio, internet, con la televisione che deve lottare per guadagnarsi un ruolo egemone) con una produzione dei messaggi egemoni che è condizionata dall’elaborazione e dalla ricezione che avvengono in Internet. Non a caso infatti lo staff di McCain, vistosi perduto, a pochi giorni dalle elezioni ha accusato i blogger di orientare faziosamente la campagna elettorale. Non le televisioni, le radio o i columnist della stampa ma i blogger di Internet: è un riconoscimento diretto del fatto che il messaggio dominante nella campagna elettorale lo produrrà anche uno staff, spendendo cifre impressionanti in spot televisivi, ma se questo non sa incontrare le correnti che si agitano in rete (e quindi nella società) la battaglia è persa. In materia di Long Tail la campagna elettorale di Obama funzionerà come un classico della storia del finanziamento. I rivoli di piccoli cifre che si sono riversati nel fondo elettorale di Obama, attivati dalla rete internet dalle catene create via cellulare, hanno creato un immenso fiume di denaro come nei classici della teoria Long Tail che sostengono proprio l’importanza di saper attirare miriadi di piccole somme economiche entro un bacino più grande. E adesso?
Discorso di Chicago di Obama subito dopo l’elezione appare un inizio ma in verità è un congedo. Il dispositivo intelligente della propaganda creato per essere capace di suscitare lo straordinario nella società Usa si distaccherà dalle miriadi di reti di comunicazione spontanea che hanno veicolato e rielaborato, potenza di Internet, i messaggi guida della campagna elettorale fin negli interstizi della società americana. La verticalizzazione della società americana può riprendere il proprio corso dopo il necessario rito catartico che ha l’apparenza dell’orizzontalità come in ogni rito partecipativo, non importa a quale scala.
Oggi il governo dell’utopia ha cambiato sovrano: questa forma potente dell’immaginario viene evocata dai presidenti tramite le credenze sullo straordinario per salire al governo attirando consenso mentre ai movimenti, per essere credibili, spetta il peso del doversi dimostrare realisti. Non a caso un giornale come Repubblica fa lavoro militante verso gli studenti ammomendoli a non scoprire il sessantotto: un “non aprite quella porta” come da titolo di film dell’orrore. Perché non deve essere rielaborata dal basso la potenza sociale dell’utopia che invece oggi, paradossalmente, è elaborata dal dispositivo integrato media-politica perché fonte di legittimazione sociale in ultima istanza.
Dovranno passare ancora diversi terremoti prima che l’asse della politica sposti di nuovo di direzione l’utopia, le pulsioni, l’animalità creando nuove culture alternative e autonome dall’abbraccio con i poteri strutturati. Si tratta delle sole in grado di portarci al di fuori di questo mondo dove l’alternativa invece riposa tra declino di una civiltà e rigenerarsi dell’ideologia e delle pratiche di assoggettamento del mercato, dell’efficienza e del merito. Evidentemente, si deve lavorare più a fondo. Sulle strutture antropologiche del potere sulle quali oggi si esercita, tecnologicamente mediata, l’egemonia dei dispositivi di governo che estraggono consenso dalle nuove forme del sacro e del magico e che producono quello straordinario che è la linfa vitale per il nuovo piano di legittimazione del dominio. Anche se, e questo va considerato, la profondità della crisi capitalistica può dare una mano a chi vuol presentare il conto ad una forma di governo che ha fallito quanto il socialismo reale, impropriamente definito comunismo dall’ignoranza di quella e di quest’epoca, nei giorni dello sgretolamento del muro di Berlino.

Magico Obama II

Ho voluto pubblicare entrambi questi interventi tratti da "Rekombinant", non tanto per replicare all'articolo di Domenico, quanto per dare voce a un qualcosa che tutti probabilmente avvertiamo nella vittoria di Obama e forse non riusciamo a tradurre correttamente a parole: l'inessenzialità del simbolico.
Mcsilvan scomoda Max Weber per affermare che paradossalmente l'aldiquà attinge a valori trascendenti, sfruttando la valenza dell'elemento magico religioso per sancire "una razionalità formale" in salsa new age, con tutta la foga pragmatica di cui è capace.
Bifo sposta l'accento sullo stare a guardare cosa gli eventi simbolici potranno produrre, piuttosto che decifrarne le dinamiche alla luce delle "furbizie del capitale" o dello slancio dialettico di una storia in perenne mitopoiesi.
Da parte mia credo che una delle cose migliori di questa elezione siano le facce colme di odio e di rammarico di tante signore repubblicane ingioiellate che se la prendevano col "socialista" Obama. Qualcosa significherà.












OBAMA E IL POST-FUTURO
di Bifo (da Rekombinant)




Ho letto il contributo di Roberto Vignoli e quello di mcsilvan.
Sono contributi interessanti alla comprensione, ma io non mi affretterei a fare il critico-critico sulla vittoria di Obama.
Roberto ci informa che Alexander Coburn, in The Nation, sostiene che Obama ha sempre avuto posizioni moderate.
Può darsi. Io non ho capito cosa abbia in mente Barak Obama, ma temo che i suoi programmi e le sue intenzioni, quali che siano, dovranno fare i conti con lo srotolarsi di processi ingovernabili.


Nel 2004, dopo la convention democratica, Mago mi disse: quel senatore che si chiama Obama sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti. L'aveva ascoltato e guardato e aveva capito che c'era nel suo volto e nel suo modo di parlare una sintonia profonda con un'epoca disperata e pronta a una nuova visione. Certo come dice mcsilvan la mitologia religiosa gioca un ruolo decisivo in questa storia.


A me non importa molto di giudicare Obama, né di decifrare le sue intenzioni o le sue possibilità.
Mi limito a osservare l'effetto simbolico che questa vittoria ha già creato, ed è destinata a creare nella mente di milioni e miliardi di persone nel mondo. L'effetto simbolico è liberatorio, suggerisce l'idea che è possibile tutto, è possibile perfino rovesciare le tendenze che hanno portato all'attuale miseria sociale.
Non perché vi sia conseguenzialità logica tra i programmi di Obama e questo desiderio, ma perché il funzionamento mitologico del personaggio mette in moto processi associativi di questo genere. E questa è la cosa che conta di più.


Chavez ha detto che l'onda che ha portato Obama alla presidenza è la stessa che ha portato al governo lui, Morales, Correa, e Lago. Non è una fesseria. La rivendicazione di indipendenza delle culture oppresse è una maniera possibile di elaborare simbolicamente la vittoria di Obama. L'epoca cinquecentennale della dominazione bianca volge al termine.
Forse.
Il passaggio non sarà indolore.


Nell'articolo A Date with scarcity, uscito sull'Herald Tribune di pochi giorni fa, David Brooks, un commentatore canadese moderato dice delle cose molto intelligenti (gli capita):


"Il 4 novembre 2008 segna la fine di una era economica di un'era politica e di un'era generazionale.
Economicamente segna la fine del lungo boom cominciato nel 1983. Politicamente segna la fine della dominazione conservatrice, che cominciò nel 1980. Generazionalmente segna la fine della supremazia dei baby boomer che cominciò nel 1968."


Il problema è che si disegna un panorama di scarsità senza precedenti.


"Cresciuti nella prosperità questi giovani meritocrati (alla Obama) dovranno governare in un periodo in cui i bisogni della nazione superano la ricchezza disponibile. Dovranno misurarsi con il peso crescente di una società che invecchia, con costi crescenti nella sanità e nell'energia."


E Thomas Friedmann, in un articolo dal titolo Vote for (....) uscito il giorno precedente le elezioni, scrive:


"Dovremo tutti pagare perché questo collasso si svolge nel contesto del più grande trasferimento di ricchezza che si sia mai verificato dai tempi della rivoluzione bolscevica del 1917.
Ma non è un trasferimento dai ricchi ai poveri quello per cui sarà ricordata la presidenza Bush.
E' un trasferimento di ricchezza dal futuro verso il presente. Mai nessuna generazione ha speso tanto della ricchezza dei suoi figli in un periodo di tempo così breve come negli anni di Bush. L'America ha imposto alle generazioni future un immenso peso per finanziare i tagli delle tasse, le guerre e i salvataggi delle banche. Inoltre l'amministrazione Bush ci lascia in eredità un altro debito, quello con Madre Natura. Abbiamo aggiunto all'atmosfera sempre più CO2 senza nessuno sforzo di riduzione."


L'onda che monta nelle scuole e nelle università italiane grida invece: "Questa crisi non la pagheremo noi".
Non pagheremo il debito che avete accumulato. Non rinunceremo all'istruzione, al piacere della vita, ai servizi sociali solo perché economisti e politici irresponsabili hanno distrutto tutto prima che noi arrivassimo al mondo.


Il movimento che ha invaso le strade d'Europa, prima in Francia, nella primavera del 2006 poi in Italia nell'autunno del 2008, va letto come un movimento in contrattempo, un movimento consapevole di muoversi in uno spazio-tempo che è già stato distrutto, consumato, sottratto. La precarietà del lavoro, la riduzione dei finanziamenti per la scuola, il ridimensionamento della scuola pubblica, i tagli alla ricerca sono le avvisaglie di una liquidazione delle strutture della civiltà sociale moderna. E' il risultato delle politiche liberiste che pure rimangono dogma intangibile, corretto e integrato da uno statalismo redistributore alla rovescia. Lo statalcapitalismo, che finanzia le banche con il futuro di tutti.


La macchina va inceppata definitivamente. L'onda del post-futuro è destinato a incepparla, per costruire un altro esistere collettivo.


Il problema di adesso è proprio quello di una nuova dimensione dell'esistere collettivo, una dimensione capace di ridimensionare l'economia, il consumo, capace di rovesciare il meccanismo mortale della crescita capitalista, capace di concepire la ricchezza come godimento del tempo e condivisione dei saperi, non come accumulazione di merci. La capacità di concepire la ricchezza come piacere non come acquisizione.


Per saltare oltre l'abisso del post-futuro si moltiplicheranno le zone di esistenza extra-economica, le zone di resistenza umana e di sottrazione attiva alla barbarie.

martedì 4 novembre 2008

Vota McCain!

di Domenico D'Amico

Proclama per le allodole

obama mccain elezioni usa

Vorrei dirlo adesso, a poche ore dall'ora fatale delle fetecchie irrevocabili: SPERIAMO CHE VINCA McCAIN!
Avrei voluto dirmi d'accordo con un blogger linkato su Kilombo che manifestava un augurio simile a quello che intitola questo post, ma non ho potuto leggerlo: la sua pagina è infestata da uno spyware, e mi sono tenuto alla larga.
Sì, è paradossale augurarsi che vinca il candidato Repubblicano, ma cercate di capire: come se niente fosse, i progressisti (qualsiasi cosa voglia dire) italiani si stanno lanciando in fregole fantasmatiche che riecheggiano quelle già eruttate in occasione della vittoria di John Kerry. Il furto che ha portato alla presidenza George W. Bush ha risparmiato ai progressisti italiani, come dice Luttazzi, quello di cui non avevano bisogno: false speranze.
E adesso ci risiamo. Dev'essere il sempiterno e inconsutile attaccamento alla Nuova Frontiera kennediana, che (chissà perché) spinge la sinistra italiana a ornarsi di un sorriso sognante (ma alquanto ebete) quando un candidato del Partito Democratico sembra a un cincinino dalla vittoria.
Intendiamoci, per quel che riguarda alcuni dettagli della vita quotidiana dei cittadini USA (in particolare in campo sanitario ed educativo) di sicuro è preferibile votare per il Partito Democratico (un partito conservatore di destra) invece che per il Partito Repubblicano (un partito di estrema destra). O meglio, questo lo dico io. Il cittadino statunitense medio è talmente lardellato dalla propaganda ossessiva che lo pervade sin dall'utero, che se gli dici “sanità pubblica” ti sputa in faccia, e se annusa aria di “redistribuzione” tira fuori il machete. Al confronto, l'italiano medio che si beve le quacquaracquate di Brunetta è un campione d'acume.
Il nostro punto di vista dovrebbe essere diverso.
Obama è sicuramente migliore di McCain: più giovane, più bello, più educato, meno stronzo (a quanto riferiscono i conoscenti del candidato Repubblicano)...
Permettetemi un sussiegoso prosieguo: STI CAZZI?
Faccio un esempio.
Obama fa un'osservazione assolutamente banale su quanto sia controproducente (in Afghanistan) spappolare tutti quei civili (roba che perfino il governo fantoccio perde le staffe), e la propaganda del GOP ha buon gioco ad accusarlo di antipatriottismo. Avete capito il problema? È semplicemente impossibile che il prossimo Presidente degli Stati Uniti possa dire l'indicibile:

Cari concittadini, siamo un paese governato da un'oligarchia di farabutti, impegnato in guerre criminali et similia in mezzo mondo, abbiamo un sistema di vita che sfiora, no, incoccia decisamente nello psicopatico... Tutto questo andrebbe anche bene, sapete a me quanto me ne iperstrafrega che la maggior parte di voi faccia una vita di merda, delle monumentali macellazioni di facce brune in Musulmanistan, delle morìe disseminate dalle mefistofeliche ricette dei Chicago Boys e via e via e via? Il problema è che l'ovaccio filosofale che trasforma in oro la carne di voi trascurabile populace a una volta strabolle e marcisce, c'è quindi bisogno di un aggiustamento, una messa appunto, una lieve correzione di rotta, una svolta di, diciamo, una trentina di gradi. Beninteso, l'intento non è quello di farvi stare meglio, voi pattumaglia locale e ultramarina, ma permettere alla sopraccitata ristretta cerchia di manigoldi di spremervi ancora per un po'. Siete tutti d'accordo, aren't you?”

Il Presidente Obama non potrà far altro che proseguire la politica che il suo paese persegue da grosso modo un secolo (hi, filippini, vi piace la fossa?), con qualche piccola differenza che lo farà amare tanto dai sinistri europei, così come hanno amato il Clinton delle liberalizzazioni finanziarie, dell'embargo genocida iracheno e della guerra del Kosovo (mentre, giustamente, i conservatori janqui lo accusavano di non essere abbastanza fascista). Conseguenza: altro tempo perso dietro a sbrillucichii da allodole mentre la baracca continua a sfasciarsi.
No, meglio che vincano di nuovo i Repubblicani, meglio un bubbone purulento di uno smerdoganglioma sottocutaneo. Si badi bene: non si tratta del solito tanto peggio tanto meglio. Lo ripeto, la differenza tra Obama e McCain riguarda solo quisquilie (per noi europei). Una vittoria del GOP almeno ci impedirebbe di perdere di vista la mazza di Patroclo che ci pende sul capo (e che molti hanno già su per il colon): una catastrofica Nuova Grande Depressione.
L'unica vera alternativa sarebbe UNA SVOLTA SOCIALDEMOCRATICA.
Ma naturalmente non è possibile (se fossi ottimista aggiungerei per ora).
Obama è un belletto.
Drill, baby, drill!

domenica 2 novembre 2008

L'onda non si ferma


L'ONDA ANOMALA PREPARA LA GRANDE MAREGGIATA!
proposte di discussione dalla Sapienza occupata


di Francesco Raparelli (da Rekombinant)




Sapienza-Elleboro
Roma 31 ottobre 2008


Riprendiamo parola, dopo la giornata straordinaria di ieri. L'onda è diventata una grande mareggiata che ha invaso la città di Roma, milioni di studenti, insegnati, ricercatori, docenti universitari, bambini, un'alleanza senza precedenti ha chiesto di poter decidere sul proprio presente e sul proprio futuro. Intanto, migliaia di studenti scendevano in piazza in tutta Italia. Non si è trattato semplicemente di uno sciopero dei sindacati confederali, così come il 17 ottobre non si è trattato semplicemente di uno sciopero dei sindacati di base: in entrambi i casi si è trattato di un'esplosione sociale strabordante, incontenibile nelle sigle, così come nelle piattaforme. E' il mondo della formazione in quanto tale che è sceso in piazza e ha bloccato il paese per chiedere l'immediata sospensione della legge 133 e del Dl 137, adesso divenuto legge.

L'onda anomala della Sapienza e di tutti gli atenei in mobilitazione in giro per l'Italia non poteva non contribuire alla mareggiata di ieri. Siamo stati parte pur essendo indipendenti dai sindacati, pur avendo costruito dal basso, facoltà per facoltà, ateneo per ateneo la nostra partecipazione. Solo a Roma 200.000 studenti si sono concentrati in piazza Esedra per poi dare vita ad un corteo alternativo che ha raggiunto e assediato il ministero dell'Istruzione. Un'altra grande giornata gioiosa e radicale che ha visto protagonisti non solo gli studenti delle facoltà occupate della Sapienza, ma anche gli studenti di Roma 3 e di Torvergata, gli studenti medi di tantissime scuole romane, studenti universitari e medi provenienti da altre città italiane.
Sulla scorta di questo bilancio attivo in primo luogo ci chiediamo come trasformare la potenza dello sciopero generale in uno strumento di conflitto continuativo con il governo che, non solo sembra poco interessato al dialogo, ma usa la minaccia, l'arroganza, le provocazioni neofasciste (la difesa dei picchiatori di Blocco studentesco, la sigla che fa riferimento all'associazione di chiara ispirazione neofascista Casa Pound, in questo senso parlano chiaro), per replicare ai movimenti. Per un verso l'assenza e il blocco delle procedure parlamentari, per l'altro l'offensiva e la criminalizzazione del movimento studentesco che mai come in questo momento è radicato, ampio e sostenuto dalla maggioranza del paese. La retorica della minoranza o dei facinorosi non tiene più di fronte alla forza dei fatti: ogni giorno decine di migliaia di studenti in piazza, lezioni all'aperto, seminari nelle occupazioni, blocchi della circolazione, azioni di protesta creativa, centinaia di facoltà e scuole occupate. Minoranza è il governo, la sua ostilità nei confronti della democrazia e delle grandi istituzioni pubbliche della formazione. Di fronte a quanto sta avvenendo poi sul terreno dei contratti, ci sembra scontato avanzare una proposta che non parla della saldatura tradizionale tra mondo della formazione e mondo del lavoro, ma che prova a nominare in forme comuni la risposta e l'opposizione sociale alle politiche del governo, all'arroganza di confindustria, ai provvedimenti che vogliono far pagare la crisi economica globale agli studenti, ai precari, ai lavoratori. Ci sembra questa l'occasione per promuovere uno sciopero generale “coordinato e continuativo” che, categoria per categoria, blocchi il paese e la produzione di ricchezza. “Noi non pagheremo la vostra crisi” è uno slogan che sta correndo di bocca in bocca e che sta facendo emergere una rivolta generazionale senza precedenti. Le sigle sindacali (confederali e di base), indipendentemente dalle loro divergenze programmatiche, dovrebbero avere la capacità di capire quanto sta accadendo nel paese e quale domanda di rottura e di trasformazione si sta radicando ed estendendo socialmente. Capire, ma anche agire di conseguenza e questa azione non può essere che lo sciopero, generale e generalizzato.
Per quanto riguarda il movimento universitario e studentesco riteniamo fondamentale costruire al meglio le giornate del 7 novembre e del 14: per un verso la mobilitazione dislocata, città per città, per l'altro la grande manifestazione nazionale a Roma. In entrambi i casi è necessario fare uno sforzo organizzativo importante, ma in particolare il 14 richiede l'impegno di tutti gli atenei in mobilitazione. In primo luogo, infatti, dobbiamo fare in modo che la manifestazione riesca al meglio, anche perché, con buona probabilità, si tratterà di un decisivo momento di opposizione e di conflitto non solo nei confronti della legge 133, ma anche nei confronti del progetto di riforma organica dell'università promesso dalla Gelmini e che dovrebbe essere reso pubblico al termine della prossima settimana. In secondo luogo dobbiamo rendere possibile, e organizzarci di conseguenza, lo spostamento di decine di migliaia di studenti: iniziare da subito un percorso di trattativa sulla mobilità è quindi fondamentale.
Riteniamo infine indispensabile dare vita ad una grande occasione di discussione assembleare nazionale a Roma e pensiamo che le giornate del 15 e del 16 novembre possano essere le più adatte: la scadenza del giorno prima, infatti, renderebbe possibile a tante e tanti di trattenersi nelle facoltà occupate della Sapienza e di poter partecipare alla discussione e di estenderla alle scuole e agli studenti medi in mobilitazione. Pensiamo ad un'assemblea che si ponga in primo luogo l'obiettivo di garantire l'estensione e la durata di questo straordinario movimento. Questo significa discutere innanzi tutto di contenuti e pratiche di lotta: come qualificare e far emergere in primo piano il tema dell'autoriforma; che tipo di rapporto promuovere con le realtà sindacali e le esperienze di lotta del lavoro precario; come dare continuità alle pratiche di conflitto e di blocco della città; come trasformare la mobilitazione contro la legge 133 e l'eventuale riforma in mobilitazione generale contro la crisi economica. In secondo luogo la discussione dovrà provare a definire forme e metodi della relazione nazionale, assumendo che non esistono ricette e che le soluzioni da raggiungere dovranno essere all'altezza della forza, dell'ampiezza e della ricchezza di questo movimento. Invitiamo tutte le facoltà occupate, gli atenei in mobilitazione a riflettere su proposte e idee da condividere, per far si che l'assemblea diventi una grande occasione di espressione e di organizzazione, nel segno dell'autonomia e dell'irrappresentabilità del movimento studentesco.

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di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...