venerdì 29 marzo 2013

La corrida a Cinque Stelle

di Nicodemo

Li avete visti la Lombardi e Crimi? Sembravano due concorrenti della Corrida. "Voi che sapete fare?" "I politici". "Vediamo un po'", risponde sornione il Gerrry Scotti di turno. Ed eccoli là i dilettanti allo sbaraglio, a soddisfare il voyerismo sbracato di chi si diverte a prendere per il culo quello che ha avuto la fortuna di fare lo scemo in TV. E' questa la formidabile intuizione di quei geni di Grillo e Casaleggio, mandare avanti due fessi per mandare tutto a carte quarant'otto? Giuro che quando sentivo parlare la Lombardi per un attimo ho creduto che Bersani fosse Talleyrand. "Noi abbiamo un programma di trent'anni per cambiare l'Italia". Ma va, ma prima un po' di Bunga Bunga, trent'anni in più, trent'anni in meno, cosa vuoi che cambi. Aho! Cittadina qui fra un anno non pagano più pensioni, sussidi e stipendi e tu parli della guerra dei trent'anni. Dio come vorrei misurarle il QI a questa. Il sarcasmo di un sacrestano, mescolato all'ignoranza di un concorrente scemo del Grande Fratello. Purtroppo Grillo con questa banda di allegroni ha sputtanto  Rousseau, la democrazia diretta, i soviet, le moltitidini spinoziane, e anche il 4-4-3- di Zeman. Era troppo bello, come posso essere stato così ingenuo al punto di credere che questi idioti si mettessero d'accordo con il Pd per fare cosette tipo una legge sul conflitto d'interessi, abolire la riforma Fornero, rimettere in discussione il Fiscal Compact, dare una spinta verde all'econmia e così via. No. Troppo semplice. Le menti raffinatissime di uno con la sindrome Asperger e un bipolare cronico hanno partorito una strategia ben più sofisticata, una cosa ispirata alla la ruota della fortuna e il baccarat, gioco d'azzardo per vacanzieri della politica insomma. Ma Grillo lo sa che in politica ci si accorda, si media, anche con i nemici se necessario, senza peraltro condividerne necessariamente valori, storie, obiettivi? Cazzo si fanno gli armistizi con il nemico, che sarà un accordo di governo. No, troppo facile, preferiamo il gioco dell'oca. Si torna al punto di partenza, si ricomincia con Berlusconi. Evviva.

mercoledì 27 marzo 2013

Nascondete i vostri soldi

di Tonino D'Orazio

Se ne avete. E’ l’unica conclusione che si possa trarre dall’esperienza di Cipro. Il fatto che il “prelievo forzato” sopra 100.000 euro sia del 20% non può nascondere che per quelli sotto, e saranno sicuramente tanti e con risparmi ottenuti sicuramente con più sofferenza, si rubi “solo” il 4%.
Chi si scandalizza della bravata liberista, ma anche liberal (i due termini tendono a coincidere sempre di più), è, figurarsi, il Financial Times, chiedendo le dimissioni del presidente dell'eurogruppo, l'olandese Jeroen Dijsselbloem, che ha dichiarato che l’assassinio effettivo di Cipro è "Un modello che potremo applicare anche a futuri salvataggi". "Dijsselbloem, si ricordi che il parlare a vanvera costa delle vite...ed è davvero il momento che a lei costi il suo lavoro". Insomma, la coltellata va bene, ma minacciarla a tutti è ingenuo. Si fa per gradi, insomma questo Geronimo è un politico che non ha imparato nulla dello strozzinaggio lento e legalmente democratico. Vuoi vedere che in fondo ci sia la dimostrazione che lo statalismo coercitivo europeo liberal si sta avvicinando sempre più nei fatti a quello dell’ex Unione Sovietica, in tema anche di libertà individuale? (Quale libertà se non hai soldi?)
Lo stesso Wall Street Journal, insieme all’agenzia J.P.Morgan, consigliano ormai, soprattutto ai ricchi e alle classi medie che sanno come fare, di portare via i soldi e i risparmi dai paesi non “sicuri”, inserendo fra questi, oltre l’Italia, anche la Francia del mite Hollande. Non è ingenuo da parte loro consigliare dove e in quale moneta straccia rifugiarsi.
Il “salvataggio” di Cipro (che dovremmo iniziare a cambiare come termine con quello più azzeccato di disastro di guerra economico-sociale perché comunque lascia morte in macerie fisiche e umane), dopo quello greco, ha innescato nei correntisti il timore che l'Europa, oltre alla stupida ricetta “efficace” dell'austerity, ora ha tirato fuori dal cappello magico anche quella del sequestro dei conti dei cittadini e del prelievo forzoso.
Le banche stanno tentando di evitare la fuga già da parecchio, sostenuti da legislazioni a loro “amiche” (esempio:impossibile ritirare più di 1.000€, per ritirare somme oltre 5.000, oltre che scatta l’anti-mafia o il riciclaggio dei poveri, bisogna aspettare 4/5 giorni, bolli, tasse e sovra bolli sui c/c), non ultimo il decreto che abolisce la privacy sui c/c, appena firmato da un governo in fuga, ma che ha messo a disposizione delle banche il paese intero (Fiscal compact). Il blocco delle carte di credito dopo aver obbligato persino i pensionati Inps a 480€ mensili ad aprire conti correnti e a utilizzarle.
Insomma, in poche parole è l’affossamento dell’euro, una specie di harakiri, fatta proprio dai tecnocrati europei, che non sono meno pericolosi di quelli italiani che si nascondono dietro il titolo di professori, portando tra l’altro grave danno di immagine alla categoria. Non è la minaccia di Grillo sull’euro in Italia che deve fare paura, sono i tecnocrati tedeschi. Aspettiamo di vedere la “vendetta” della Russia verso il furto e il sequestro fatto a Cipro sui lauti conti correnti dei loro concittadini. Sarete stupiti e indignati se il costo del gas o del petrolio russo ci costerà più caro tra poco, come “risarcimento” popolare? Ma gli altri paesi che hanno riserve in euro le convertiranno in altre monete teoricamente più sicure? Porteranno via dalle cassette anche le tonnellate di oro complessivamente disponibili? Ci sarà una fuga epocale dei risparmi e dei capitali dai paesi più deboli dell’euro? Se non anche da quelli meno deboli, perché il solo esempio è deleterio e alla lunga può toccare a tutti. Mentre parliamo e scriviamo la fuga è sicuramente già iniziata. Comunque c’è uno sconquasso in atto da apprendisti stregoni, e i miliardi persi dalle borse europee dopo l’esempio “ripetibile” del prelievo forzato è costato il triplo del debito di Cipro, in una sola giornata. E’ ammettere l’evidenza di un capitalismo stupido e incapace di ragionare nemmeno nella sua logica.

domenica 24 marzo 2013

Il peggio pride riempie la piazza

Non si può rimanere indifferenti a quel brusio fastidioso di esseri accastati in una piazza, figuranti di una commedia surreale, uno sciame umano (?) accorso ad osannare un tale che ha ottenuto quanto più poteva ottenere dal peggio della società italiana. 
Quella gente è ripugnante. Lo sono perché furbi che prosperano nell'illegalità e nella menzogna e lo sono perché deboli di mente che raccolgono le briciole dei potenti e si esaltano per le gesta del re buffone. 
E' sbagliato prendersela con queste persone? Non so e non mi importa, non sono un politico e non ho rispetto per questa gente perché loro sanno. La maggior parte sa chi è Berlusconi e la sua cricca, ma accetta ogni scusa, ogni alibi che gli viene offerta, come boccaloni dallo sguardo vacuo e fieri di essere presi  per il culo, contenti di portarsi a casa i gadget del pataccaro più celebre d'Italia. Loro lo sanno  chi è Berlusconi, lo sanno e lo acclamano tutti coloro che vivono di malaffare, continuando a sperare nel perdurare di un clima tollerante verso i corrotti e lo sanno anche i suoi fedeli e servi sciocchi che fingono di non sapere. Lo sanno, ma non ha nessuna importanza, perché quello che hanno imparato e che la differenza la fa solo il tuo interesse privato e non chi è Berlusconi, perché tanto gli altri non sono meglio. Nichilismo da coatti.
Qualche buontempone di sinistra dirà che sono vittime, disperati che cercano per un giorno di riempire la borsa della spesa, ma non è vero, sono tutti indifferentemente dei pavidi mercenari senza dignità. 
Ce n'è per tutto in questa fiera: dai santuomini ipocriti, agli egoisti che pensano all'ennesima casa abusiva da costruire, ai faccendieri infami, alla partita IVA con le pezze al culo, fiero di fare la gavetta con raffinati artisti dell'imbroglio e della corruzione, fino al prezzolato a 50 euro.
L'unica attenuante che posso concedere a molta di questa gente è che coloro che pretendono di essere il meglio della politica nostrana, spesso si sono dimostrati alla loro bassezza, fornendo loro ulteriori alibi per continuare a dare il peggio di se stessi.


venerdì 22 marzo 2013

La guerra e le politiche economiche dominanti

di Paul Krugman (New York Times), da MicroMega , via ildialogo.org
Dieci anni fa l'America invase l'Iraq: in qualche modo la nostra classe politica decise che dovevamo rispondere a un attacco terroristico con la guerra a un regime che, per quanto spregevole, non aveva nulla a che fare con l'attacco.
Alcune voci avvertirono che stavamo facendo un terribile errore - che i motivi per fare la guerra erano deboli e forse fraudolenti, e che era molto probabile che l'impresa, lungi dal darci la facile vittoria promessa, avrebbe probabilmente portato a costi e lutti molto pesanti. E questi avvertimenti si sono rivelati, ovviamente, fondati.

Si è scoperto che non c’era alcuna arma di distruzione di massa; è ovvio, a posteriori, che l'amministrazione Bush ha deliberatamente ingannato, e portato in guerra, la nazione. E la guerra - che è costata migliaia di morti americani e decine di migliaia di vite irachene, che ha imposto costi finanziari di gran lunga superiori a quelli previsti dai sostenitori della guerra - ha lasciato l'America più debole, non più forte, e ha finito per creare un regime iracheno più vicino a Teheran che a Washington.

La nostra élite politica ed i nostri mezzi di informazione hanno imparato qualcosa da questa esperienza? Non pare proprio.
Ciò che veramente colpiva, durante il periodo che ha preceduto la guerra, era l'illusione del consenso. Ancora oggi gli esperti che hanno fatto valutazioni sbagliate attribuiscono il loro errore al fatto che "tutti" pensavano che ci fossero validi motivi per la guerra. Naturalmente, ammettono, c’era anche chi si opponeva alla guerra - ma erano persone che non contavano, perché erano fuori dalla linea di pensiero predominante.

Il problema di questa argomentazione è che è stata ed è circolare: sostenere la guerra diviene parte della definizione di ciò che si intende come linea predominante. Chi dissente, non importa quanto qualificato, viene ipso facto etichettato come indegno di considerazione. Questo era vero negli ambienti politici, ma era altrettanto vero per gran parte della stampa, che di fatto si schierò col partito della guerra.

Howard Kurtz, della CNN, che era al Washington Post, ha scritto di recente su come funzionava questo meccanismo, su come segnalazione scettiche, per quanto fondate, venivano scoraggiate e respinte. "Gli articoli che mettevano in discussione le prove o le ragioni per la guerra", ha scritto, "sono stati spesso sepolti, minimizzati o bloccati."

Strettamente connesso a questa presa di posizione a favore della guerra ci fu un rispetto esagerato e ingiustificato per l'autorità. Solo le persone in posizioni di potere erano considerate degne di rispetto. Kurtz ci dice, ad esempio, che il Post cancellò un pezzo sui dubbi sulla guerra, scritto dal proprio capo settore per la difesa, per il fatto che si basava su dichiarazioni di militari in pensione e di esperti esterni - "in altre parole, di coloro che hanno sufficiente indipendenza per poter mettere in discussione i motivi per la guerra".

Tutto sommato, è stata una lezione pratica sui pericoli del pensiero di gruppo, una dimostrazione di quanto sia importante ascoltare le voci scettiche e tener distinta la ricerca dei fatti dalla linea editoriale. Purtroppo, come ho detto prima, è una lezione che non sembra essere stata davvero imparata. Si consideri, come prova, l'ossessione per il deficit del bilancio statale che ha dominato la scena politica negli ultimi tre anni.

Ora, io non voglio spingere quest’analogia troppo in là. Una cattiva politica economica non è l'equivalente morale di una guerra combattuta sulla base di falsi pretesti, e anche se le previsioni dei falchi del deficit si sono ripetutamente rivelate sbagliate, non c'è stato uno sviluppo decisivo o sconvolgente come il completo fallimento nel trovare le armi le armi di distruzione di massa che si erano ipotizzate. Inoltre, e ciò è ancora più importante, oggi chi dissente non è circondato da quell’atmosfera di minaccia, quella sensazione che il dubitare potrebbe avere conseguenze devastanti sulla propria carriera, che era così pervasivo nel 2002 e 2003. (Ricordate la campagna di odio contro il gruppo di musica country Dixie Chicks organizzata nel 2003 dalla Casa Bianca di Bush?)

Ma oggi come allora abbiamo l'illusione del consenso, un'illusione basata su un meccanismo per cui chiunque metta in discussione l’opinione ufficiale è immediatamente emarginato, non importa quanto solide siano le sue argomentazioni. E oggi come allora la stampa sembra spesso schierata. Colpisce in modo particolarmente evidente quanto spesso asserzioni discutibili siano riportate come dati di fatto. Quante volte, per esempio, avete visto articoli che affermano, come cosa scontata, che gli Stati Uniti si trovano di fronte a una "crisi del debito", anche se molti economisti direbbero che ciò non è affatto vero?

In realtà, il confine tra notizia e opinione è per certi versi ancora più confuso in materia fiscale di quanto non lo fosse quando si andava verso la guerra. Come Ezra Klein, del Post, ha osservato il mese scorso, sembra che "le regole della neutralità dell’informazione sui fatti non si applichino quando si tratta di deficit".

Quello che dovremmo aver imparato dal nostro fallimento in Iraq è che si dovrebbe sempre essere scettici e che non bisognerebbe mai fare affidamento su presunte autorità. Quanto si sente dire che "tutti" sostengono una certa politica, che si tratti di una guerra che si sceglie di fare o di austerità fiscale, ci si dovrebbe chiedere se "tutti" non significhi significa “tutti, tranne chi ha un parere diverso”. E gli argomenti di politica dovrebbero sempre essere valutati nel merito, non sulla base dell’autorità di chi li esprime; ricordate quando Colin Powell ci ha rassicurato sull’esistenza delle armi di distruzione di massa irachene?
Purtroppo, come ho detto, non sembra che abbiamo imparato la lezione. Ci riusciremo mai?

Traduzione di Gianni Mula


mercoledì 20 marzo 2013

La scuola del M5S

Ovviamente spero che la storia del reddito di cittadinnaza di 1000 euro al mese per i dipendenti pubblici, i peggio pagati d'Europa, sia appunto solo una storiella partorita da una mente in stato di delirium, causato dallo stress elettorale e da un'intossicazione di acqua marina, dopo la mitica traversata dello stretto. Se non è così un sentitissimo... vaffa.

di Girolamo Di Michele da carmillaonline.com via ComeDonChisciotte

Cosa succederebbe nel mondo della scuola se i programmi di Grillo e del M5S venissero realizzati?

Facciamo un esperimento mentale, al netto delle contraddizioni interne, per cogliere i potenziali o reali strati di consenso ai quali il M5S punta.

Il programma del M5S, alla voce "Istruzione", prevede in sintesi: abolizione della legge Gelmini, abolizione dei finanziamenti alla scuola privata, abolizione del valore legale del titolo di studio, restituzione alla scuola pubblica degli 8 miliardi tagliati, didattica a distanza (e-learning), più internet per tutti, valutazione degli insegnanti da parte degli studenti.




A questo Grillo, nel post "Gli italiani non votano mai a caso" del 26 febbraio [ qui] aggiunge la proposta di abolire stipendi ai pubblici dipendenti sostituendoli con un reddito di cittadinanza (oscillante, stando a quanto dichiarato in campagna elettorale, tra 800-1.000 € al mese):

Ogni mese lo Stato deve pagare 19 milioni di pensioni e 4 milioni di stipendi pubblici. Questo peso è insostenibile, è un dato di fatto, lo status quo è insostenibile, è possibile alimentarlo solo con nuove tasse e con nuovo debito pubblico, i cui interessi sono pagati anch'essi dalle tasse. È una macchina infernale che sta prosciugando le risorse del Paese. Va sostituita con un reddito di cittadinanza.

È notevole che Grillo inserisca nel "blocco A" (assieme ai «ragazzi [che] cercano una via di uscita, vogliono diventare loro stessi istituzioni, rovesciare il tavolo, costruire una Nuova Italia sulle macerie»), «i piccoli e medi imprenditori che vivono sotto un regime di polizia fiscale e chiudono e, se presi dalla disperazione, si suicidano», mentre il "blocco B", costituito «da tutti coloro che hanno attraversato la crisi iniziata dal 2008 più o meno indenni, mantenendo lo stesso potere d'acquisto», include «una gran parte di dipendenti statali»: dei quali dipendenti statali, una parte importante è costituita dai lavoratori della scuola.
Si potrebbe ipotizzare che Grillo, che già sembra ignorare che lo stipendio dei lavoratori della scuola è fermo al 2006, nel dichiarare che gli stipendi pubblici ammontino a 4 milioni al mese, abbia idee vaghe o inesatte sul pubblico impiego: in realtà gli stipendi pubblici sono circa 14 miliardi al mese (170 annui). Ma l'esattezza è un dettaglio: conta più far passare il messaggio che pubblici dipendenti, e quindi anche insegnanti e bidelli, siano tra i vecchi garantiti del "blocco B" che vogliono lo status quo e negano il futuro ai non garantiti del "blocco A".


Andando a vedere oltre le parole, ci si accorge che alcune proposte sono semplici enunciazioni. Cosa vuol dire "abolizione della legge Gelmini"? Quale delle leggi di Gelmini? Il riordino dei cicli, e quindi tornare alla scuola secondaria superiore del 2008? La reintroduzione del maestro unico/prevalente nella scuola primaria? E delle riforme di Brunetta che incidono sulla dirigenza scolastica locale e territoriale che si vuol fare (posto che se ne abbia nozione)? E della riforma Moratti, sulla quale Grillo ironizzava un tempo nei suoi show, e che ora è scomparsa dai programmi elettorali? E dello spoil system che regolamenta i direttori scolastici regionali, che rimonta a Bassanini? Si intende restituire gli 8 miliardi da immettere nelle casse scolastiche dell'attuale sistema scolastico? Si vuol fare quel che si vuol fare con una terapia d’urto, o in modo graduale (quindi con un ciclo di studenti che continueranno a studiare nella scuola di Gelmini)? Tutto ciò, se non è dettagliato in modo concreto, equivale a un "vaffa Gelmini": si può discutere se sia più efficace, come strategia elettorale, un "vaffa" piuttosto che un "se sta a noi" seguito da verbosissimi cani menati per l’aia dal programma della coalizione di Bersani, ma quanto a sostanza siamo lì.

Diversa, per concretezza, è l'abolizione del valore legale del titolo di studio, punto di programma condiviso dal Piano di Rinascita Democratica della Loggia P2 di Licio Gelli [verifica qui, al punto b1] e dalla Fondazione per la Sussidiarietà (ovvero Comunione e Liberazione) di Giorgio Vittadini in modo esplicito, in modo implicito da Gelmini (che aveva in Vittadini uno dei consiglieri): è il più grosso favore che può essere fatto alle scuole private, perché consente a qualunque soggetto privato di aprire un diplomificio deregolamentato. Se il prezzo da pagare è la rinuncia a 500 milioni, per le scuole private è un affare.
Vediamo perché.
Il sistema scolastico italiano stabilisce alcuni requisiti di base: numero minimo di ore, un certo numero di contenuti, soprattutto un certo elenco di cose che lo studente dovrebbe saper fare al termine degli studi (le cosiddette "competenze" e "capacità"). E ancora, a cosa serve la scuola: "scuola democratica", o "costituzionale" significa formare all'esercizio attivo della cittadinanza. Sarà un caso, ma il programma elettorale del M5S era l'unico a non dire cos'è e cosa dovrebbe essere una scuola pubblica.
Il valore legale del titolo di studio è la garanzia che il percorso scolastico sia all'interno di questi parametri, per quanto declinati in modo da consentire una forte disparità tra le scuole private e quelle pubbliche (a favore delle private: vedi la possibilità di formare classi con soli 8 alunni). Chi apre una scuola privata non parificata deve sottoporsi a verifiche: ad esempio, i suoi studenti devono fare l'esame finale in una scuola pubblica. È una garanzia del cittadino, perché tutto questo costa molto di più di un corso di formazione, così come insegnare davvero l'informatica costa molto di più dell’insegnare l'uso di pacchetti di programmi predefiniti: la prima cosa è cittadinanza attiva, la seconda acquisizione passiva di nozioni.
Abolire il valore legale del titolo di studio significa in primo luogo abolire l'obbligo, per la scuola pubblica, di insegnare quelle competenze e contenuti: e, con i chiari di luna che corrono, significa sottoporre ancor di più la qualità insegnamento alla mannaia dei tagli di spesa. In secondo luogo, significa dare mano libera a chi crea scuole confessionali nelle quali non si forma la cittadinanza attiva: che ci sono già (vedi il metodo della "educazione secondo testimonianza" nelle scuole della Compagnia delle Opere/CL, o l'insegnamento del creazionismo in luogo dell'evoluzionismo), ma almeno oggi sono costrette entro certi vincoli, per quanto tenui. O scuole aziendali che promettono l'inserimento in azienda ai 18 anni, a scapito della formazione del futuro cittadino: e il modello in nuce, gli ITS creati in joint venture con Finmeccanica, c'è già.
L'abolizione del valore legale del titolo di studio equivale alla liberalizzazione dell'istruzione: quel modello anglosassone citato come esempio da Vittadini, Ichino (Andrea) e Checchi nel documento del 2008 in cui suggerivano a Gelmini di «collegare i risultati della valutazione [delle scuole] a misure di natura premiante o penalizzante per i budget delle singole scuole», tra le quali «reclutamento e rimozione degli insegnanti». Un modello che oggi sottoposto a critiche radicali perché ha portato alla formazione di poche scuole d'élite e alla catastrofe delle scuole pubbliche, soprattutto di quelle che non sono nel centro cittadino ma nelle periferie, nei quartieri di immigrati, ecc. E lo stesso accade in Francia e negli USA. Senza contare una peculiarità del sistema scolastico parificato italiano (uno dei rari paesi OCSE in cui ciò accade), dove le scuole private sono ben più scadenti di quella pubblica.

A ciò si aggiunga che il crollo degli stipendi degli insegnanti, dagli attuali 1.200 € in ingresso o in precariato ai 1.500 dopo 15 anni di carriera ai 1.000 del "reddito di cittadinanza", e l'apertura di una pletora di diplomifici privati in grado di offrire più di quei 1.000 €, anche se con contratti a termine porterà a un'emorragia dal pubblico al privato degli insegnanti, scelti fior da fiore dai gestori delle scuole private con potere di sindacare (magari attraverso la "valutazione") su stili di vita, orientamenti politici, religiosi e sessuali. Per non parlare dei diplomifici che venderanno neanche didattica reale, ma pacchetti di e-learning, in virtù della deregolamentazione consentita dall'abolizione del valore legale del titolo di studio.
E che dire dei migranti, il cui impegno scolastico non sarà garantito dal titolo di studio? I coccodrilli che davano il titolo al libro di Fabio Geda ed Enaiatollah Akbari non sono forse nel mare: ma esistono, hanno denti aguzzi e si preparano a cambiare referente politico.



martedì 19 marzo 2013

Il vero obiettivo è privatizzare il pubblico

da Agenor da sbilanciamoci

A che serve la crisi europea? Una risposta è che rende inevitabile la privatizzazione delle attività pubbliche, con grandi profitti per i privati. Come mostrano i casi di Spagna, Grecia e Portogallo
L’Europa è avvolta in una spirale senza uscita fatta di ricette controproducenti, mentre la crisi fa il suo lento, inesorabile lavoro. Le famiglie, se possono, risparmiano e contraggono i consumi. Le imprese non investono. Le banche cercano di limitare i danni e riducono il credito. Una crisi di debito estero (prevalentemente privato) è stata spacciata per una crisi di debito pubblico. La spesa pubblica viene bloccata con perfetto tempismo da un trattato internazionale che impone un rozzo vincolo di pareggio di bilancio, senza troppo distinguere se si tratti di spesa per investimenti o di spesa corrente.
Era ben noto che una politica di repressione della spesa pubblica, in presenza di un eccesso d’indebitamento del settore privato e di tassi di interesse già bassi e ai minimi storici, non poteva che avere effetti deleteri. Il crollo della domanda interna ha raggiunto le economie più solide della zona euro, che si avvicinano anch’esse a scenari recessivi. Assumendo l’impossibilità di una follia collettiva di tutte le classi dirigenti europee, resta da chiedersi cui prodest? A chi giova tutto questo?
Non è un caso che le ricette per uscire dalla crisi più in voga si concentrino su un punto: la dismissione del patrimonio pubblico per ridurre il debito. Ovviamente, la sensazione di trovarsi in un vicolo cieco per le finanze pubbliche, con la scelta obbligata di privatizzare enti, beni e servizi pubblici, è la scena classica di un film già visto in tante parti del mondo.
Non ci si arriva per caso, anzi, spesso è uno degli obiettivi neanche troppo nascosti della lunga strategia di logoramento del settore pubblico, la cosiddetta “starve the beast”. La bestia è lo stato, nemico ideologico da affamare, sottraendo continuamente risorse necessarie al suo funzionamento. La qualità dei servizi che esso eroga al cittadino diminuisce. Il cittadino lo nota e incomincia a chiedersi se davvero valga la pena mantenere in piedi con le proprie imposte un servizio pubblico sempre più scadente.
Poi arrivano i salvatori della patria, che comprano l’azienda o servizio pubblico a un prezzo conveniente e ne estraggono profitti. Quando va bene, il nuovo proprietario del servizio ex-pubblico lo eroga in modo più selettivo e a costi maggiori per il cittadino. Quando va male, scorpora la parte migliore da quella cattiva, scarica i costi sulla collettività (bad companies), sfrutta gli attivi ancora validi, e poi scappa.
La privatizzazione della sanità negli Stati Uniti ha raddoppiato i costi per i cittadini, escludendo un’enorme fetta della popolazione da ogni copertura sanitaria. Una volta capito l’errore commesso e verificati i costi economici e sociali di tale processo, l’inversione di questa tendenza nefasta è l’atto che Obama considera come il più importante del suo primo mandato presidenziale.
L’esperienza delle “riforme” nell’Europa centrale ed orientale subito dopo la caduta del comunismo ci insegna che le privatizzazioni realizzate per necessità di far cassa si traducono in svendite di beni comuni a vantaggio di pochi privati, che i primi servizi a essere privatizzati sono quelli che funzionano meglio, i gioielli di famiglia, e che questo contribuisce a un notevole aumento delle disuguaglianze.
Altre parti del mondo, come l’America Latina, hanno vissuto esperienze simili, in cui beni e servizi pubblici sono stati ceduti a condizioni vantaggiose solo per l’acquirente. Non è un caso che Carlos Slim, l’uomo più ricco del mondo secondo Forbes, debba la sua fortuna alle privatizzazioni selvagge degli anni ’80-‘90 in Messico, dalle miniere alle telecomunicazioni.
Adesso è il turno della vecchia Europa. Il Portogallo ha chiuso il 2012 privatizzando gli aeroporti, la compagnia aerea nazionale, la televisione (ex) pubblica, le lotterie dello stato e i cantieri navali. In Spagna le privatizzazioni “express” riguardano i porti, gli aeroporti, la rete di treni ad alta velocità, probabilmente la migliore e più moderna d’Europa, la sanità, la gestione delle risorse idriche, le lotterie dello stato e alcuni centri d’interesse turistico. La Grecia è stata recentemente esortata ad accelerare il processo di privatizzazione dei beni e servizi erogati finora dallo stato, come condizione per continuare a ricevere gli aiuti europei.
In Italia Mario Monti, poco prima di dimettersi da Presidente del Consiglio, decretava l’insostenibilità finanziaria del sistema sanitario nazionale, spiegando la necessità di “nuovi modelli di finanziamento integrativo”. L’agenda Monti oggi ci ricorda che “la crescita si può costruire solo su finanze pubbliche sane” e quindi invita a “proseguire le operazioni di valorizzazione/dismissione del patrimonio pubblico”. E sulle prime pagine di alcuni giornali c’è anche chi vede ancora “troppo stato in quell’agenda”.
La teoria economica e l’esperienza del passato ci insegnano che la privatizzazione di aziende pubbliche se da un lato riduce il deficit di un dato anno, dall’altro ha un notevole rischio di aumentare il deficit di lungo periodo, nel caso in cui l’azienda dismessa sia produttiva. Inoltre non basta che la gestione privata sia più efficiente di quella pubblica; il guadagno di efficienza deve anche assorbire il profitto che il privato necessariamente persegue.
Se chi vende (lo stato) ha urgenza e pressioni per farlo, chi acquista (privati) ha un chiaro vantaggio negoziale, che gli permette di ottenere condizioni più convenienti. E se le condizioni della privatizzazione sono più convenienti per il privato, esse saranno simmetricamente più sconvenienti per il pubblico, cioè i cittadini.
Studi recenti dimostrano come i cittadini dei paesi che hanno subito privatizzazioni rapide e massicce negli anni ’90 siano profondamente scontenti degli esiti. I giudizi ex-post sono tanto più critici quanto più rapide erano state le privatizzazioni, maggiore la proporzione di servizi pubblici svenduti (acqua ed elettricità in particolare), e più alto il livello di disuguaglianza creatosi nel paese.
La questione delle privatizzazioni è il punto d’arrivo del processo che l’Europa e l’Italia stanno vivendo. Discuterne più apertamente è fondamentale, se si ha a cuore il bene comune. Le decisioni che si prenderanno in proposito definiranno la rotta che l’Italia sceglierà di seguire nel dopo-elezioni.

lunedì 18 marzo 2013

Crisi finanziaria e governo dell'economia (parte I)

di Alberto Bagnai da costituzionalismo

Abstract – La crisi dei subprime è stata il detonatore della crisi dell’eurozona. Fra le concause di queste due crisi molti annoverano difetti di regolamentazione dei mercati finanziari. In questo lavoro, più che considerare l’aspetto microeconomico della questione, ci soffermiamo su quello macroeconomico. L’asimmetria del sistema monetario internazionale rende ineluttabili copiosi afflussi di capitali verso gli Stati Uniti, aprendo la strada a un loro impiego inefficiente (come i mutui subprime) e quindi a ricorrenti shock reali sul resto dell’economia globale. L’asimmetria e la scarsa fondatezza teorica ed empirica delle regole europee rendono inevitabile l’accumulazione di debito privato nei paesi della periferia, fragilizzando l’intera Unione rispetto a shock esterni, come previsto dalla teoria delle Aree Valutarie Ottimali. Purtroppo, le riforme delle regole proposte nel dibattito corrente, quando non sono evidentemente insostenibili sotto il profilo politico, sembrano andare in direzione di un aggravamento di questi mali.
« L'obscurité n'est pas un défaut quand on parle à des bons jeunes gens avides de savoir, et surtout de paraître savoir. »
Stendhal, Promenades dans Rome, 17 mars 1828.

1. Introduzione

Accolgo con vivo piacere l’invito a contribuire a questo numero dedicato al governo del sistema monetario europeo e internazionale. Se posso permettermi un po’ di leggerezza, mi solleva il fatto che qualcuno sia ancora interessato a raccogliere le opinioni di un economista, in un periodo nel quale la scienza economica è particolarmente discreditata per non aver saputo prevedere lo scoppio della crisi, e per non averne saputo scongiurare le conseguenze. Non credo che questi rilievi siano del tutto corretti: esempi illustri di analisi “profetiche” non mancano. Ammetto però che da qualche tempo gli scambi più proficui su questo tema mi capita di averli con studiosi esterni alla mia professione: storici, geografi, giuristi. Questo dipende in parte dal mio percorso, che mi rende insofferente verso l’omodossia economica (non chiamerei “ortodossia” il cosiddetto pensiero mainstream, che è certamente unanime - omos - ma, visti i risultati, probabilmente non del tutto corretto - orthos). I benefici di questi scambi interdisciplinari dipendono però soprattutto dal fatto che essi costringono a riorganizzare le proprie categorie, a cercare nuove strade di trasmissione del proprio sapere “tecnico”, a reagire a stimoli imprevisti. Un esercizio utilissimo, da compiere con umiltà e con quel senso di responsabilità che deriva dal costituirsi rappresentante della categoria verso un mondo “esterno”. Il che obbliga a porsi due domande ben precise: in che modo posso aiutare la riflessione dei colleghi che hanno seguito altri percorsi (e farmi aiutare nella mia)? E in che modo posso fornire loro una rappresentazione critica ma non distorta dei risultati e delle aporie della mia disciplina?
Rinuncio fin da ora al secondo obiettivo: vivrò senza sensi di colpa la mia faziosità, sapendo di rivolgermi a un pubblico che ha gli strumenti critici per difendersi qualora le mie tesi non lo convincano, e soprattutto qualora lo convincano. Per lo stesso motivo rinuncerò al parlare oscuro (utile, come ci ricorda Stendhal, quando si parla a giovanotti ansiosi di sfoggiare il proprio sapere): parlando a un pubblico maturo sceglierò la strada della semplicità, sperando di non compromettere il rigore dei miei argomenti. Rivolgendomi a dei giuristi la linea di attacco più naturale mi sembra quella di riflettere sulle relazioni fra la crisi e le regole, scritte o non scritte, che governano il sistema finanziario internazionale. Avrete notato che in questo periodo gli economisti (non tanto quelli accademici, quanto i “tecnici” e le istanze politiche che li esprimono) stanno chiamando al soccorso i costituzionalisti: le attuali strategie di contrasto alla crisi propongono l’iscrizione in costituzione di regole di politica finanziaria particolarmente rigide, come il pareggio del bilancio. Per i giuristi, chiamati a giocare, se pure in un ruolo notarile, la parte dei salvatori, ci sarebbe di che inorgoglirsi, ma credo ci sia soprattutto di che riflettere. Quale e quanta razionalità esprimono queste richieste?
Più in generale, l’evidenza ci suggerisce che la crisi attuale dipende dall’irrazionalità di certi movimenti internazionali di capitali, e diventa urgente chiedersi quanto questo disordine sia reso possibile, quando non esasperato, dalla “costituzione materiale” del sistema monetario internazionale, e da alcune regole di rilevanza “regionale” (nell’accezione che il termine ha in economia internazionale): e qui, ovviamente, mi riferisco all’Unione Economica e Monetaria (UEM) europea.
Non possiamo certo riformare il mondo in venti cartelle, ma dare una rappresentazione accessibile e documentata dei problemi di fondo è un obiettivo degno di essere perseguito. Se sia raggiungibile o addirittura raggiunto lo giudicheranno i lettori. Articolerò il tentativo in cinque paragrafi. Nel secondo valuterò la compatibilità dei principali “fatti stilizzati” che descrivono il funzionamento del sistema finanziario mondiale con alcuni principi basilari del pensiero economico. Nel terzo li rileggerò alla luce dell’analisi keynesiana dell’instabilità dei mercati finanziari, illustrando poi le tappe della controriforma teorica che ha portato ad affermare la superiorità delle regole fisse sugli interventi discrezionali in politica economica: una controriforma che costituisce in qualche modo il sostrato della costruzione europea, tutta regole e parametri. Nel quarto mi concentrerò sulle criticità determinate dalla struttura asimmetrica del sistema monetario internazionale. Nel quinto studierò la relazione fra alcune regole proposte dal Trattato sull’Unione Europea e la cosiddetta crisi dei debiti “sovrani”. È segno di buona volontà e onestà intellettuale concludere un lavoro indicando prospettive. Ci proverò (temo con scarso successo) nel paragrafo di conclusioni.

2. Omodossia

«Il est démontré, disait-il, que les choses ne peuvent être autrement : car tout étant fait pour une fin, tout est nécessairement pour la meilleur fin»
Voltaire, Candide, I, 45.

2.1 Il bicchiere mezzo vuoto e quello mezzo pieno

Se stiamo parlando di crisi finanziaria è perché qualcuno ha preso in prestito dei soldi che non riesce a restituire, e la crisi è internazionale perché creditore e debitore risiedono in paesi diversi. Per definizione quindi il problema esiste perché esistono i movimenti internazionali di capitali, cioè perché i risparmi accumulati in un paese possono essere impiegati in un altro paese (sottolineo, en passant, che questo non è di per sé un dato distintivo della moderna globalizzazione, ma qualcosa che è sempre successo)[1]. Ci sarà utile qualche precisazione terminologica.
Gli economisti parlano di importazione di capitali quando i capitali affluiscono in un paese. Questo significa in parole povere che il paese in questione si sta indebitando con l’estero, e quindi accumula passività (perché si presume che i capitali in questione non siano regalie, ma crediti, che, per chi li riceve, sono debiti). Notiamo che all’afflusso di capitale farà riscontro il deflusso di un reddito nei periodi successivi, visto che sui debiti si paga un interesse. La fuoriuscita di capitali è invece un’esportazione di capitali: in questo caso il paese sta accumulando crediti, cioè attività, e al deflusso di un capitale farà riscontro il successivo afflusso di redditi, visto che sulle somme prestate si esige il pagamento di un interesse.
Nessun paese ha solo debiti o solo crediti: la posizione creditoria/debitoria di un paese viene quindi valutata in termini netti (attivo meno passivo). La variazione di questa posizione netta sull’estero (cioè l’accreditamento/indebitamento estero netto di un paese) è il saldo delle “partite correnti” della bilancia dei pagamenti. Concorrono ad esso il saldo commerciale e quello dei redditi, il che significa, in buona sostanza, che un paese si indebita con l’estero se spende (per importazioni e pagamenti di interessi) più di quello che guadagna (per esportazioni e riscossione di interessi); di converso, un paese, per avere risorse da prestare all’estero, dovrà aver guadagnato (esportando) più di quanto ha speso (importando)[2]. Questo dato contabile abbastanza ovvio (anche ognuno di noi si indebita se spende più di quanto guadagna) ha una conseguenza: un paese importatore netto di beni (cioè con deficit delle partite correnti) è anche un importatore netto di capitali, e simmetricamente un paese esportatore netto di beni è anche esportatore netto di capitali. Ciò raccorda le dinamiche finanziarie (indebitamento/accreditamento) a quelle reali (acquisto/vendita di beni).
La comunicazione dei fatti economici tende a essere sempre schermata da valutazioni moralistiche. Il medesimo fenomeno può essere presentato surrettiziamente come positivo o negativo a seconda di quale termine (sempre tecnicamente corretto) si decida di adottare. Esempio: quando i giornali lamentano il fatto che il nostro paese non è sufficientemente attrattivo per i capitali esteri, stanno in effetti deplorando che il nostro paese non si stia indebitando abbastanza con l’estero. Insomma, da prospettive diverse lo stesso fenomeno si presenta in modo molto diverso. In effetti, nessuna variabile economica, e quindi tanto meno l’indebitamento con l’estero (movimenti internazionali di capitale in entrata), è di per sé “buona” o “cattiva”. È banalmente una questione di misura: il troppo stroppia. Sarebbe bello poter dare una valutazione più paludata in vesti scientifiche, ma purtroppo non è possibile. Uno dei limiti, ampiamente riconosciuti e ammessi, della scienza economica è proprio quello di non essere riuscita a fornire una definizione scientificamente fondata da un lato, e operativa dall’altro, del concetto di sostenibilità del debito[3]. Ne è prova il fatto che Nigel Chalk e Richard Hemming intitolano la loro rassegna “la sostenibilità in teoria e in pratica”, proprio per sottolineare questo insanabile scollamento fra teoria economica e indicatori utilizzati in pratica da istituzioni e mercati. Questo limite riconosciuto va ovviamente tenuto ben presente ogni qual volta vengano proposte regole di politica economica che hanno per scopo quello di garantire la “sostenibilità” delle finanze pubbliche, concetto che, come abbiamo visto, può apparire univoco solo a chi non lo ha studiato in termini scientifici.
Un’ultima precisazione: un paese non coincide con il suo settore pubblico e quindi, ad esempio, il debito estero dell’Italia (cioè i soldi che il “sistema paese” riceve dal resto del mondo), non coincide con il debito pubblico dell’Italia (cioè con i soldi che il governo prende a prestito, in Italia e all’estero). È un dato ovvio, ma conviene precisarlo, perché i mezzi di comunicazione ci bombardano con un messaggio fuorviante: nei loro resoconti il debito è tutto pubblico, un po’ come nel dizionario dei luoghi comuni di Flaubert gli agenti di borsa sono tutti ladri, gli architetti tutti imbecilli, le imperatrici tutte belle. Non mi intendo di architetti o imperatrici, ma certamente il debito non è tutto pubblico, e in particolare i capitali che viaggiano da un paese all’altro lo fanno principalmente per sovvenire a esigenze finanziarie del settore privato. In altre parole, indebitamento (deficit) pubblico e indebitamento (deficit) estero non sono “gemelli”. Di norma e in media un punto di indebitamento pubblico si scarica sull’estero solo per un terzo, il che significa che di norma e in media i due terzi degli afflussi di capitale di un paese sono assorbiti dal (cioè sono debito del) settore privato[4].

domenica 17 marzo 2013

Bertrand Russel: decalogo liberale (1951)


Rubo questo post al mio amico Maurizio. Mi sembra in totale sintonia con la filosofia ispiratrice di questo blog

dal Blog di Maurizio Acerbo 

Questo ‘Decalogo Liberale’ è apparso per la prima volta in un articolo pubblicato sul New York Times Magazine del 16 Dicembre 1951 dal titolo: “La migliore risposta al fanatismo: il liberalismo”. È stato poi incluso nella Autobiografia di Bertrand Russell, Vol. 3, 1944-1967.


Forse l’essenza della concezione Liberale può essere riassunta in un nuovo decalogo, che non intende sostituire il precedente, ma solo integrarlo. I Dieci Comandamenti che, come insegnante, vorrei promulgare, potrebbero essere i seguenti:
1.
Non sentirti assolutamente certo di nulla.
2.
Non pensare che valga la pena procedere nascondendo la realtà dei fatti, perché è sicuro che essa verrà alla luce.
3.
Non cercare di scoraggiare la riflessione perché è sicuro che ci riuscirai.
4.
Quando sei confrontato da una opposizione, anche se dovesse trattarsi di tuo marito o dei tuoi figli, cerca di superarla con la discussione e non con l’imposizione, perché una vittoria ottenuta con la forza è fittizia e illusoria.
5.
Non avere alcuna venerazione per l’altrui autorità, in quanto si possono sempre trovare altre autorità ad essa contrarie.
6.
Non utilizzare il potere per sopprimere opinioni che ritieni dannose, perché così facendo saranno le opinioni a sopprimere te.
7.
Non aver paura di essere eccentrico nelle tue idee perché ogni idea ora accettata è stata una volta considerata eccentrica.
8.
Trova più gusto in un dissenso intelligente che in un consenso passivo, perché, se apprezzi l’intelligenza come dovresti, nel primo caso vi è una più profonda consonanza con le tue posizioni che non nel secondo.
9.
Sii scrupolosamente sincero, anche se la verità è scomoda, perché è ancora più scomodo il tentare di nasconderla.
10.
Non provare invidia per la felicità di coloro che vivono di illusioni, perché solo uno sciocco può pensare che in ciò consista la felicità.




Bertrand Russell è quello seduto al centro della foto


NOTA:  Questo Decalogo Liberale mantiene intatta la sua forza e andrebbe distribuito ovunque. Qualcuno si domanderà: ma non eri comunista? Certo. Bisogna solo mettersi d’accordo sul cosa si intenda con questa parola. Chi lo ha detto che il comunismo debba essere illiberale e autoritario? Marx era un figlio dell’illuminismo e il movimento operaio nacque rivendicando la libertà di associazione e il suffragio universale. Un autorevole studioso definisce la posizione politica di Russell “liberalcomunista”. Durante la prima guerra mondiale finì in galera per il suo rifiuto di arruolarsi. L’Ordine Nuovo di Gramsci pubblicò un suo articolo. Nel 1920 dopo una visita in Russia scrisse The Practice and Theory of Bolshevism in cui esercitava una critica anticipata ai limiti di quella rivoluzione, ma aggiungeva “Russian Communism may fail and go under, but Communism itself will not die”. Il Novecento lo stanno raccontando da tempo i vincitori e non sempre la contano giusta. Troppi autori socialisti sono stati presentati come antesignani degli attuali pseudo-riformisti neoliberisti. Si pensi alla sorte toccata al povero Carlo Rosselli santificato dall’allora PDS veltroniano per sostituire Gramsci nel Pantheon della sinistra di governo. Giustamente Toni Negri polemizzava con l’operazione politico-culturale ricordando che l’autore di “Socialismo liberale” era stato un “comunista eretico”(durante la guerra di Spagna era vicino agli anarchici mica ai liberali). D’altronde la stessa tradizione riformista (quella di Turati o di Bernstein) è stata oggetto di una mistificazione a partire dagli anni ‘80 che con grande maestria ha raccontato lo storico Paolo Favilli nel suo “Il riformismo e il suo rovescio“, libro preziosissimo che meriterebbe di diventare un best-seller tra quel poco di sinistra che è rimasta in circolazione. Tornando a Bertrand Russell  personalmente l’ho cominciato a leggere da piccino e lo trovai  illuminante. Ricordo di aver letto il suo molto marxiano Elogio della pigrizia su una raccolta curata da Erich Fromm intitolata “L’umanesimo socialista”.La sua critica del marxismo e dell’anarchismo non l’ha mai portato dall’altra parte della barricata, non l’ha mai trasformato in un accomodante sostenitore del capitalismo. Al contrario di Popper l’idiosincrasia per il comunismo staliniano non lo rese indulgente verso gli orrori dell’occidente. L’ormai vecchio Russell lanciò con Albert Einstein nel dopoguerra il moderno pacifismo con le campagne per il disarmo nucleare (fondatore del CND rese celebre l’ormai universale simbolo della pace che dagli anni ‘60 è diventato il simbolo dei movimenti pacifisti). Allen Ginsberg scrisse a Kerouac: “Bertrand Russell makes sense, more than anyone, on straightforward What To Do”. Autentico riferimento della new left anni ‘60 dava lezioni di politica ai Beatles e fondò un Tribunale Internazionale contro i crimini americani in Vietnam. Nel’67 firmò il primo manifesto pubblico per la legalizzazione della marijuana. Noam Chomsky cita sempre Russell tra i suoi maestri: “I principi fondamentali del liberalismo classico trovano la loro naturale espressione moderna non nel dogma neoliberista, ma nei movimenti indipendenti dei lavoratori, nonché nelle idee e nell’azione di quel socialismo libertario espresso talvolta anche da grandi esponenti del pensiero del Novecento, come Bertrand Russel e John Dewey”. In questi tempi di restaurazione capitalista, crisi economica, xenofobia e fondamentalismi è bene tornare a leggere il buon vecchio Bertrand Russell.
Oggi nelle librerie si trovano facilmente esposti la sua “Storia della filosofia occidentale” e “Perchè non sono cristiano” (molto attuale in tempi di clericalismo imperante). Meriterebbe una riedizione il suo Roads To Freedom (traduzione italiana: Socialismo, anarchismo, sindacalismo). 


venerdì 15 marzo 2013

L'avvento del Grillo

di Franco Cilli  
E’ davvero cambiato tutto? Siamo nel bel mezzo di una cambiamento epocale, di una sorta di rivoluzione copernicana, di cambio di paradigma nel modo illustrato da Khun? Sarebbe bello poter dire di si. Ogni epoca ha vissuto il fremito incalzante di un avvento, l’avvento del regno di Dio in terra, atteso sin dagli albori delle comunità cristiane dove sembrava che Jesus is back fosse questioni di anni, evento poi procrastinato per secoli, fino al più laico avvento del comunismo, della fine della storia e della dialettica, con il proletariato figura centrale, unica, nella mente contorta di György Lukács , in grado di sfuggire al pessimismo tragico della borghesia, e farsi garante di una centralità del processo evolutivo della società. Volete che la mia, la nostra generazione, come quelle precedenti si faccia mancare il grande avvento? Le moltitudini che finalmente spazzano via il conflitto artificioso fra il bisogno di sicurezza realizzato per mezzo del contratto sociale, e la necessità di una democrazia vera e di una giustizia realizzata che dia potere ad una massa di eguali, ripudiando l’alibi delle differenze di ceto, di razza, di quoziente intellettivo, quale pretesto per togliere la responsabilità della politica a un tutto indistinto. Ebbene io non credo che Grillo o chi per lui rappresenti l’avvento di qualcosa e nemmeno un cambiamento radicale, a meno che le cose non vadano per il meglio. Non lo credo perché appellarsi al moralismo degli sprechi della casta e del tradimento della politica, non affronta e non risolve certo il vero nodo della questione: il potere, quello delle oligarchie economiche e di un paradigma economico presentato in maniera inappellabile e incontestabile come fosse la legge di gravità o la necessità di un antibiotico per curare la polmonite. Di fatto Grillo dice poco o niente in merito al potere, se non nelle forma di un ampliamento del potere decisionale del “cittadino”. Dove sono gli organismi sovranazionali, le grandi potenze regionali, che a dispetto dell’Impero negriano continuano a comportarsi come stati nazioni colonizzatrici, e la grande finanza? Grillo è omogeneo a tutto ciò o semplicemente crede che questi poteri, come predica il visionario Casaleggio, diverranno degli involucri privi di sostanza una volta che la rete li avrà avviluppati e risucchiati nei suoi spazi dove ogni istanza rimbalza fra un nodo e l’altro senza possibilità di individuare una centralità del potere? Questo mi rende dubbioso su Grillo, non certo i resort in Costa Rica. Il nodo del potere va risolto in un ambito generale e non certo derubricato a un problema di ruba-galline della periferia dell’impero. Per Barnard il nodo è l’economia e lui ha risolto il tutto con l’adozione di un’economia sana (la ME-MMT ) che prosciugherebbe l’acqua dove sguazzano gli squali che si nutrono di sovranità nazionale e monetaria, impoverendo le persone. Per noi sovversivi la cosa si declina in maniera diversa. I nodi sono a seconda delle categorie di riferimento, l’Impero, l’imperialismo, il conflitto capitale/lavoro (vecchia storia).Ovvio che anche Grillo, come pensano molti rivoluzionari che lo hanno votato per calcoli politici può rientrare in qualsiasi schema, è sufficiente assumere la disarticolazione del sistema e l’azione dirompente di un movimento come necessità strategica e il gioco è fatto. Ma davvero la frattura che può aprire un Grillo può risolvere il nodo del potere? Ci risiamo, siamo solo in Italia e il discorso dell’effetto domino vale fino ad un certo punto. Di certo è che di fronte all’immobilismo, al fallimento della sinistra e all'efficacia di un interclassismo grilliano che contenta tutti, meglio Grillo che la sola speranza o l’attesa snervante di ciò che si conosce sin troppo bene o che non si conosce affatto. Almeno per il momento. 

Sinistra, una parola o i fatti.


di Tonino D’Orazio

Sinistra è una parola “svalutata” malgrado i concetti di giustizia sociale ivi contenuti diventino più forti e pressanti.

Sono per lo meno 15 anni che si discute intellettualmente sulla parola “cosa vuol dire sinistra” e sul tentativo di riunificazione di forze che si considerano tali. Era una trappola culturale. Si sono ricomposti e scomposti partiti e movimenti vari intorno al tema. Niente da fare. Sono stati sconfitti da una elezione all’altra perché rissosi e senza unità pur con identici intenti programmatici. Parimenti i movimenti vari, che però sembrano essersi riconosciuti, ognuno per il proprio pezzo, nel M5S.

Prima scompare dal parlamento e dai media la sinistra radicale (i comunisti) per cui il PD diventa la sola sinistra italiana riconosciuta, parlamentare e etichettata da Berlusconi.

Poi compare, veramente non all’improvviso, un movimento sull’onda che, con gran parte dei concetti programmatici degli altri, riesce ad unificare e ad essere profondamente credibile.

Un semplice sguardo comparativo e si capisce che “sinistra” sia passata dalla parola ai fatti ma non per chi se ne fregiava. A questi importano i concetti e i programmi radicali si nascondono dietro “né destra, né sinistra”. A parole, altre parole.

Ci vuole un quadro comparativo per capire differenze e sintonie vere.

Quanto il Pd sia vicino, con Bersani o Renzi, al programma del Pdl-Monti e lontano dal M5S ?

Entrambi vogliono la TAV, entrambi sono per il MES (Ponte Messina), entrambi per il Fiscal Compact, entrambi per il pareggio di bilancio, entrambi per le 'missioni di pace', entrambi per l'acquisto degli F-35, entrambi per lo smantellamento dell'art.18 e il mantenimento in toto della disastrosa legge Biaggi, entrambi per la perdita della sovranità monetaria e quindi del paese, entrambi per il finanziamento della scuola privata, entrambi per continuare a privatizzare, entrambi per i rimborsi elettorali (anche se il Pd oggi non può che proporne una diminuzione).  

In realtà, questi punti sono profondamente contrari al programma del M5S. I programmi del quale sono invece simili al programma della Federazione di Sinistra, insieme, fra l’altro, al recupero dei beni comuni (acqua, trasporti, energia, autostrade, una banca statale di garanzia …). Anche al “reddito di cittadinanza”. (Pensate alla raccolta delle firme della FdS e della Fiom-Cgil per una legge di iniziativa popolare). Uno sviluppo per le energie rinnovabili che ci avvicinerebbe al meglio del mondo e a Kyoto, invece di ridurci a succursale occidentale di maxi-consumi petroliferi. E per l’Abruzzo di trivellare e distruggere tutto il territorio, anche marittimo, come un groviera.

Un punto importantissimo è il recupero della corretta e imprescindibile valenza della Carta Costituzionale. (L’ultimo referendum vinto dal popolo, non dai partiti se ricordate, contro i “modificatori” e gli “sgretolatori”). Il dire “ci vediamo in parlamento” sta anche a ricordare ai partiti (anzi alle loro blindate segreterie) che hanno occupato uno spazio non disponibile a essere lottizzato, manipolato (vedi premi di maggioranza o legge Scelba accettando l’abominevole porcellum) e simonizzato da loro ad uso e consumo, cioè lo Stato repubblicano. A riportare le istituzioni nell’alveo giuridico naturale e cioè che esse sono di tutti e proprietà di nessuno. Tant’è che i partiti, nella normalità di una Costituzione di fatto, ne avevano perduto la nozione esatta. Ci voleva una folata di giovani “innocenti” per ricordarlo a tutti, anche a quelli che si fregiano di far parte dell’ANPI?

Per esempio, per ricordare al garante Napolitano che l’art. 11 della Costituzione ci impedisce di fare “le guerre di pace” e di comperare bombardieri che notoriamente non servono alla difesa del nostro paese. Ma questo M5S non sarà mica pacifista ! Sembra un altro tema caro alla sinistra storica e ai movimenti arcobaleno. Ma profondamente anche al pacifico popolo italiano, già trascinato in tre o quattro stupide guerre.

Che dire della legge sul conflitto di interesse (del 1957), mai applicata, con giudici e partiti consenzienti. O sulla Direttiva Europea che non consentiva a nessun privato di possedere più di due reti televisive. Solo questi due elementi ci avrebbero permesso di non essere lottizzati per 20 anni e probabilmente di diventare un paese europeo più o meno normale, magari con le stesse difficoltà degli altri, ma non ridicolo, divorato e distrutto. Per quelli che hanno accettato questi elementi è difficile ammettere lo sbaglio e tornare indietro. E perseverare si sta dimostrando difficile e diabolico.

Per poter discutere con l’Europa (se si fa ancora in tempo) quanta cessione di autonomia nazionale possiamo dare e a chi, se non a un parlamento vero e democratico come quello europeo, che possa essere legislativo per tutti e dare senso comunitario e progetto politico futuro. Allora sì. Perché invece dobbiamo cederla a tecnocrazie o oligarchie rapaci e strettamente private? Il M5S non vuole uscire dall’Europa perché, dice, ne siamo già fuori di fatto. In effetti siamo già Pigs (parola inglese sufficientemente indicativa) e economicamente colonizzati.

Tralascio la questione dignità del lavoro e il Piano del Lavoro, che a mio avviso andava presentato e contrattato direttamente con la Merkel per avere un minimo di successo, piuttosto che con quelli interessati solo elettoralmente e che sono ideologicamente Ichino dipendenti. Ugualmente non ho sentito nulla sull’abolizione degli ordini professionali, vero blocco per l’innalzamento, il ricambio delle giovani generazioni e della società.

Non so quanto il M5S possa portare a casa del loro programma alternativo, ma se riuscissero anche al 30% questo paese potrebbe veramente ripartire, con qualche speranza in più e probabilmente con un po’ di giustizia sociale. Potrebbe addirittura salvare anche la linea Bersani del Pd. I giovani hanno impostato un cambio generazionale di prepotenza, cambio bloccato da decenni, e in questo senso sono d’accordo con la visione e il sostegno dell’ambasciatore americano. Gli altri, di sinistra come etichetta, pur proponendo le stesse (quasi) riforme, purtroppo non sono più credibili.

Allora sinistra di parola o di fatti reali?

giovedì 14 marzo 2013

Il Papa argentino. Francesco I, il conservatore nei torbidi della dittatura

 di Gennaro Carotenuto da Giornalismo Partecipativo



Jorge Bergoglio, Papa Francesco I, è quello che in Argentina si definisce un “conservatore popolare”, un esponente tipico –e dichiarato- della destra peronista. Sinceramente attento alla povertà, umile a sua volta, ha già rinnovato con successo la chiesa argentina senza modificarne il segno politico conservatore. È l’erede materiale e spirituale di Karol Wojtyla e, per i cardinali che lo hanno eletto in conclave, deve essere apparso una scelta perfetta su più d’uno dei fronti aperti per la chiesa cattolica.
Infatti può essere davvero l’uomo in grado di metter fine ai veleni curiali che secondo lo Spiegel hanno portato al “fallimento” Benedetto XVI. È quello che i giornali stanno indicando come esponente del partito della trasparenza. Lo ha fatto, e bene, in alcuni contesti. Allo stesso tempo rilancia il cattolicesimo in un continente letteralmente assalito dalle chiese protestanti conservatrici. La percezione europea di una chiesa cattolica egemone in America latina è gravemente viziata dalla mancanza di notizie su di un fenomeno che sfiora il 50% dei fedeli in alcuni paesi e figlio della guerra senza quartiere alla teologia della liberazione che ha portato i poveri a cercare una spiegazione altra in un dio meno lontano. Inoltre Bergoglio può rappresentare allo stesso tempo un’alternativa conservatrice ai governi progressisti e integrazionisti latinoamericani dei quali in molti si aspettano che possa diventare un leader alternativo continentale. Per qualcuno –chi scrive non ne è convinto anche se l’idea ha un suo fascino- Bergoglio può stare all’America latina integrazionista come Wojtyla stava all’Europa dell’Est del socialismo reale. Nonostante abbia spesso puntato il dito contro la politica, la corruzione di questa e la disattenzione ai problemi delle periferie, Bergoglio si è scontrato ripetutamente anche coi governi della sinistra peronista di Néstor Kirchner e Cristina Fernández. Gli scontri più duri, ma questo non può sorprendere, sono stati sull’aborto e sul matrimonio egualitario. Le nozze gay per papa Francesco sono «la distruzione del piano di dio».

Infine: Francesco I ha una missione difficile ma chiara ed appare avere la solidità ed esperienza per portarla avanti, ma è sufficientemente anziano -77 anni- per rappresentare un nuovo papato di transizione in termini di durata. Tuttavia Bergoglio viene da lontano e, nonostante non abbia avuto un ruolo apicale nella chiesa argentina complice della dittatura, emerge da quella storia con un passato che potrebbe fiaccarne l’autorità e che è corretto conoscere fuor da demonizzazioni e santificazioni. Per iniziare dalle demonizzazioni: la foto che gira da ore in Internet e che è al momento in apertura sul sito del settimanale messicano Proceso, dove si vede un prelato dare la comunione al dittatore Videla, è un falso: non è Bergoglio. Inoltre, tra le accuse che esamineremo, al contrario di quanto si trova ripetutamente affermato, non ve ne sono che abbiano condotto alla morte di alcuno.
È difficile essere stati un prelato importante in Argentina negli anni ’70 essendo estraneo ad una storia di lacerazioni, drammi, crimini, persecuzioni quale quella della chiesa argentina. Questa, al contrario di quella cilena e quella brasiliana, che poterono vantare più luci che ombre, fu sicuramente la peggiore, complice e spesso perfino mandante tra tutte le chiese cattoliche, dei crimini commessi dalle dittature civico-militari che devastarono l’America latina negli anni ’60 e ‘70. Appena un mese fa fu messa nero su bianco in una sentenza della magistratura la piena complicità della chiesa cattolica, incluso il primate dell’epoca, Cardinal Raúl Primatesta e del nunzio apostolico Pio Laghi, nell’assassinio del vescovo Enrique Angelelli e dei sacerdoti Carlos de Dios Murias e Gabriel Longueville. La sentenza confermava quanto si sapeva da mille testimonianze e documenti. All’interno del genocidio la chiesa cattolica argentina non fu solo complice ma i suoi vertici operarono una sorta di sterminio interno facendo eliminare preti e suore vicini all’opzione preferenziale per i poveri decisa nella Conferenza Eucaristica di Medellin del 1968 o semplicemente scomodi. Furono almeno 125 i sacerdoti impegnati a fianco degli ultimi a morire o essere fatti sparire. Molti di quelli che persero la vita furono indicati ai carnefici dalle stesse gerarchie cattoliche, Tortolo, Primatesta, Aramburu, che collaborarono attivamente sia ai crimini che al successivo occultamento.
Stiamo parlando di un crinale difficile tra la complicità e la morte ed è in quest’ambito che azioni ed omissioni vanno misurate. L’ordine di appartenenza di Papa Francesco I, quello gesuita, resta al margine della complicità con la dittatura dei 30.000 desaparecidos e della guerra intestina nella stessa chiesa. Tuttavia non sono poche le accuse che colpiscono l’oggi papa argentino per quei sei anni da provinciale gesuita dal 1973 al 1979. Quella più grave e circostanziata gli viene mossa in particolare da Horacio Verbitsky, l’autore di “El Vuelo”, il primo libro che denunciava i voli della morte, sempre scrupoloso nelle sue denunce, e oggi presidente del CELS, la più importante istituzione in difesa dei diritti umani del paese, è l’aver privato di protezione alcuni giovani parroci del suo ordine, troppo esposti nel lavoro sociale con i più poveri. Due di loro furono sequestrati per cinque mesi. Uno di questi, Orlando Yorio, denunciò a Verbitsky di essere stato consegnato da Bergoglio allo stesso Massera e sono molte le testimonianze sull’amicizia tra il nuovo papa e l’Ammiraglio piduista: «Bergoglio se ne lavò le mani. Non pensava che uscissi vivo». Per Emilio Bignone, una delle più cristalline figure di difensore dei diritti umani in Argentina, che conferma i dettagli della denuncia di Verbitsky, e autore di uno dei testi tuttora fondamentali su chiesa e dittatura, Bergoglio «è uno di quei pastori che hanno consegnato le loro pecorelle». Le accuse di Verbitsky sono confermate anche da Olga Wornat, il lavoro della quale è in genere suffragato da un numero enorme di testimonianze.
Dopo la dittatura, anche negli ultimi anni, Bergoglio fu chiamato a testimoniare in molteplici circostanze in inchieste e processi per violazioni di diritti umani. Non ha mai parlato. Chi scrive ha personalmente verificato in queste ore il suo silenzio con il PM che indagava sul sequestro di una giovane incinta. Se quelli indicati sono precedenti che ne fanno un complice pieno della dittatura sta al lettore deciderlo. A chi scrive il puntare il dito sembra troppo e l’assoluzione troppo poco. Bergoglio non fu né un Aramburu né un Von Wernich ma neanche un padre Mujíca, uno dei sacerdoti assassinati. Sta in una zona grigia, un quarantenne in ascesa, con un ruolo importante ma non ancora di spicco, in una chiesa argentina dove si mandava ad uccidere o si rischiava di essere uccisi.
Bergoglio era dal 1973 provinciale dei gesuiti. In un ordine tradizionalmente progressista, e condotto da Padre Arrupe, il papa nero che nei primi anni ‘80 si scontrava e veniva ridotto all’impotenza da Giovanni Paolo II, è Bergoglio ad essere emarginato dai suoi. Per Luís “Perico” Pérez Aguirre, prestigioso gesuita uruguayano, fondatore del SERPAJ e consigliere dell’ONU in materia di diritti umani, che chi scrive ha avuto occasione di conoscere e ammirare, prima della morte nel 2000, in una testimonianza raccolta da Olga Wornat: «Bergoglio [che si era da tempo votato ad una relazione di obbedienza asosluta a Karol Wojtyla] stravolse completamente il segno della Compagnia da progressista in conservatrice e retrograda. Ho rotto ogni rapporto con lui, soprattutto rispetto al suo agire durante la dittatura».
Il cambiamento sarà strutturale, nella retrograda Chiesa argentina la Compagnia non fa più eccezione. Lui però guarda oltre ed è al di fuori del suo ordine che saprà tornare in pista. Formalmente ancora gesuita, dal 1979 in avanti si muoverà al di fuori. Della sua carriera Bergoglio deve molto al successore di Primatesta, Antonio Quarracino. Differente da Primatesta, e con un lontano passato progressista concluso già alla fine degli anni ’60, Quarracino era tutt’altro che un santo. L’ostentazione della ricchezza, basta pensare ad Aramburu, è un altro tratto delle gerarchie argentine dal quale il nuovo papa è completamente esente. Scegliere come ausiliare Bergoglio, quel vescovo semplice e irreprensibile, era per Quarracino una maniera di coprirsi il fianco da tante critiche.
Non si comprometteva Bergoglio con le feste che frequentava il Cardinal Quarracino nella casa di Olivos e dove s’intratteneva come un Apicella qualsiasi suonando la chitarra per Carlos Menem. Erano altri anni oscuri per l’Argentina, quelli del menemismo. Molte cose distanziavano i due prelati. Il primate aveva interessi mondani, l’ausiliare faceva il vescovo, centrando la propria missione nella formazione del clero e nell’attenzione al popolo delle villa miseria che circondano tutt’ora il gran Buenos Aires. Bergoglio seppe mantenere con Quarracino relazioni cordiali ma distanti. Forse era l’unica maniera di tener fede sia ai voti di castità e povertà che a quello di obbedienza.
Fu in questa relazione tra due prelati così diversi che Bergoglio si costruì un ruolo di punto di riferimento per una nuova generazione di sacerdoti argentini anche quando, primo gesuita della storia, succederà a questo nel 1998. Sulle sue spalle cadrà di nuovo il peso di riscattare una chiesa cattolica dal passato tenebroso. Emergeranno però anche le caratteristiche che oggi lo portano al soglio pontificio: la mano di ferro con la quale ha condotto la chiesa argentina (e che ne fa uno spauracchio ora per la curia romana), la marcata preoccupazione sociale, la critica alla politica. Soprattutto Bergoglio –ed è un punto di forza rilevante- risulta straordinariamente interessato alla vita del suo clero. Si preoccupa per le necessità materiali, è presente, è vicino e accessibile. Perfino Clelia Luro (testimonianza a chi scrive), la terribile compagna del vescovo Jerónimo Podestá, salva solo Bergoglio di tutto il clero argentino che aveva isolato il prelato che aveva deciso di combattere la battaglia per la fine del celibato. Bergoglio, nonostante non condividesse la decisione del vescovo, che fu infine ridotto allo stato laicale, gli rimase vicino umanamente fino alla fine.
Il passato ritorna però e il profilo di Bergoglio resta basso. Tenta di difendere se stesso e la chiesa argentina. In particolare per quest’ultima c’è poco da difendere. Primatesta e Aramburu avevano eretto un muro di inaccessibilità ai familiari delle vittime che neanche in chiesa –al contrario di quanto era successo con la Vicaría della Solidaridad a Santiago del Cile- avevano trovato sicurezza. Una macchia indelebile che continua a distanziare molti fedeli dalla Chiesa cattolica. Lui ha scelto di denunciare in maniera generica e spesso netta i peccati (con una posizione non lontana dalla teoria dei due demoni) ma di salvare i peccatori, sia quando è stato chiamato a testimoniare in tribunale, sia quando ha scritto o ha preso decisioni politiche. Quando nel 2007 fu chiamato a prendere provvedimenti nei confronti di Christian Von Wernich, il sacerdote condannato all’ergastolo per avere sequestrato personalmente 42 persone, assassinate 7 e torturate 32, espresse parole forti ma non comminò alcuna sanzione come tutto il mondo democratico e dei diritti umani chiedeva. Von Wernich sta oggi scontando l’ergastolo ma è a tutti gli effetti un sacerdote e nessun provvedimento disciplinare è stato preso nei confronti del carnefice che le vittime descrivono come un vero demonio.
Ma chi è davvero Jorge Bergoglio, Papa Francesco I che comincia il suo cammino di Vescovo di Roma con un passato così pesante? Integralista di destra mette i poveri al centro del suo apostolato. Vicino alla dittatura militare rende omaggio ai sacerdoti assassinati da questi ultimi. Ha fatto una carriera tutta controcorrente, conservatore in un ordine considerato progressista, primo gesuita primate argentino, primo gesuita papa, primo papa latinoamericano. Nemico dei progressisti e di tutti i politici (li detesta e non lo manda a dire, quasi grillino in questo) e lontano dagli organismi per i diritti umani, esige dallo Stato educazione cattolica ed è contrario ai contraccettivi, ma nessuno può accusarlo di non onorare i propri voti, in particolare quello di povertà. Chi scrive sconsiglia di incastrarlo nella figura a lui aliena di sacerdote proveniente da una “chiesa giovane” e varie altre semplificazioni giornalistiche che domattina troveremo. Viene da una chiesa strutturata e complessa e da una realtà metropolitana dura. L’associazione con Medellin poi è del tutto fuori luogo. L’attenzione di Bergoglio per i poveri è di stampo infaticabilmente caritatevole, mai politico. Tuttavia bisogna rifuggere anche l’interpretazione tenebrosa del complice della dittatura tout court, come quella di una papa scelto per fermare il cambiamento in America. Nonostante sia una figura ben diversa da quella di Ratzinger, è un papa con tratti di forte continuità soprattutto con Karol Wojtyla. Questo combatté e vinse la battaglia con la teologia della liberazione senza comprendere le ragioni di questa, per perdere poi quella con le chiese protestanti. È lì che va atteso fin dal prossimo viaggio in Brasile il nuovo papa.
A Buenos Aires, dicono gli amici ma senza che alcun detrattore lo contesti, sparisce ogni volta che può per infilarsi in orfanotrofi, carceri, ospedali a compiere il suo apostolato. Chissà se potrà farlo anche a Roma.

mercoledì 13 marzo 2013

Il lato oscuro di Jorge Mario Bergoglio: "Colluso con la dittatura argentina"

Il nuovo Papa in una scheda fortemente critica sul suo passato. Era il 2006 quando il sito di Don Vitaliano della Sala, 'prete no global', ricostruì le macchie di chi oggi è chiamato a guidare la Chiesa Cattolica



 
"Il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, presidente dei vescovi argentini, nonché tra i più votati, nel 2005, nel conclave Vaticano che ha scelto il successore di Giovanni Paolo II, è accusato di collusione con la dittatura argentina che sterminò novemila persone".
Inizia così un lungo articolo pubblicato sul sito del prete 'no global' Don Vitaliano della Sala, la scheda sul "passato oscuro" di chi, a distanza di 8 anni, è il nuovo Papa.
"Le prove del ruolo giocato da Bergoglio a partire dal 24 marzo 1976, sono racchiuse nel libro L’isola del Silenzio. Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina, del giornalista argentino Horacio Verbitsky, che da anni studia e indaga sul periodo più tragico del Paese sudamericano, lavorando sulla ricostruzione degli eventi attraverso ricerche serie e attente".
"I fatti riferiti da Verbitsky. Nei primi anni Settanta Bergoglio, 36 anni, gesuita, divenne il più giovane Superiore provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina. Entrando a capo della congregazione, ereditò molta influenza e molto potere, dato che in quel periodo l’istituzione religiosa ricopriva un ruolo determinante in tutte le comunità ecclesiastiche di base, attive nelle baraccopoli di Buenos Aires. Tutti i sacerdoti gesuiti che operavano nell’area erano sotto le sue dipendenze. Fu così che nel febbraio del ’76, un mese prima del colpo di stato, Bergoglio chiese a due dei gesuiti impegnati nelle comunità di abbandonare il loro lavoro nelle baraccopoli e di andarsene. Erano Orlando Yorio e Francisco Jalics, che si rifiutarono di andarsene. Non se la sentirono di abbandonare tutta quella gente povera che faceva affidamento su di loro".

Il nuovo Papa Jorge Mario Bergoglio: Francesco I

"Verbitsky racconta come Bergoglio reagì con due provvedimenti immediati. Innanzitutto li escluse dalla Compagnia di Gesù senza nemmeno informarli, poi fece pressioni all’allora arcivescovo di Buenos Aires per toglier loro l’autorizzazione a dir messa. Pochi giorni dopo il golpe, furono rapiti. Secondo quanto sostenuto dai due sacerdoti, quella revoca fu il segnale per i militari, il via libera ad agire: la protezione della Chiesa era ormai venuta meno. E la colpa fu proprio di Bergoglio, accusato di aver segnalato i due padri alla dittatura come sovversivi. Con l’accezione “sovversivo”, nell’Argentina di quegli anni, venivano qualificate persone di ogni ordine e grado: dai professori universitari simpatizzanti del peronismo a chi cantava canzoni di protesta, dalle donne che osavano indossare le minigonne a chi viaggiava armato fino ai denti, fino ad arrivare a chi era impegnato nel sociale ed educava la gente umile a prendere coscienza di diritti e libertà. Dopo sei mesi di sevizie nella famigerata Scuola di meccanica della marina (Esma), i due religiosi furono rilasciati, grazie alle pressioni del Vaticano".
"Alle accuse dei padri gesuiti di averli traditi e denunciati, il cardinal Bergoglio si difende spiegando che la richiesta di lasciare la baraccopoli era un modo per metterli in guardia di fronte a un imminente pericolo. Un botta e risposta che è andato avanti per anni e che Verbitsky ha sempre riportato fedelmente, fiutando che la verità fosse nel mezzo. Poi la luce: dagli archivi del ministero degli Esteri sono emersi documenti che confermano la versione dei due sacerdoti, mettendo fine a ogni diatriba. In particolare Verbitsky fa riferimento a un episodio specifico: nel 1979 padre Francisco Jalics si era rifugiato in Germania, da dove chiese il rinnovo del passaporto per evitare di rimetter piede nell’Argentina delle torture. Bergoglio si offrì di fare da intermediario, fingendo di perorare la causa del padre: invece l’istanza fu respinta. Nella nota apposta sulla documentazione dal direttore dell’Ufficio del culto cattolico, allora organismo del ministero degli Esteri, c’è scritto: “Questo prete è un sovversivo. Ha avuto problemi con i suoi superiori ed è stato detenuto nell’Esma”. Poi termina dicendo che la fonte di queste informazioni su Jalics è proprio il Superiore provinciale dei gesuiti padre Bergoglio, che raccomanda che non si dia corso all’istanza. E non finisce qui. Un altro documento evidenzia ancora più chiaramente il ruolo di Bergoglio: “Nonostante la buona volontà di padre Bergoglio, la Compagnia Argentina non ha fatto pulizia al suo interno. I gesuiti furbi per qualche tempo sono rimasti in disparte, ma adesso con gran sostegno dall’esterno di certi vescovi terzomondisti hanno cominciato una nuova fase”. È il documento classificato Direzione del culto, raccoglitore 9, schedario B2B, Arcivescovado di Buenos Aires, documento 9. Nel libro di Verbitsky sono pubblicati anche i resoconti dell’incontro fra il giornalista argentino e il cardinale, durante i quali quest’ultimo ha cercato di presentare le prove che ridimensionassero il suo ruolo. “Non ebbi mai modo di etichettarli come guerriglieri o comunisti – affermò l’arcivescovo – tra l’altro perché non ho mai creduto che lo fossero"".
"Ad inchiodarlo c’è anche la testimonianza di padre Orlando Yorio, morto nel 2000 in Uruguay e mai ripresosi pienamente dalle torture, dalla terribile esperienza vissuta chiuso nell’Esma. In un’intervista rilasciata a Verbistky nel 1999 racconta il suo arrivo a Roma dopo la partenza dall’Argentina: “Padre Gavigna, segretario generale dei gesuiti, mi aprì gli occhi – raccontò in quell’occasione – Era un colombiano che aveva vissuto in Argentina e mi conosceva bene. Mi riferì che l’ambasciatore argentino presso la Santa Sede lo aveva informato che secondo il governo eravamo stati catturati dalle Forze armate perché i nostri superiori ecclesiastici lo avevano informato che almeno uno di noi era un guerrigliero. Chiesi a Gavigna di mettermelo per iscritto e lo fece”. Nel libro, inoltre, Verbistky spiega come Bergoglio, durante la dittatura militare, abbia svolto attività politica nella Guardia di ferro, un’organizzazione della destra peronista, che ha lo stesso nome di una formazione rumena sviluppatasi fra gli anni Venti e i Trenta del Novecento, legata al nazionalsocialismo. Secondo il giornalista, l’attuale arcivescovo di Buenos Aires, quando ricoprì il ruolo di Provinciale della Compagnia di Gesù, decise che l’Università gestita dai gesuiti fosse collegata a un’associazione privata controllata dalla Guardia di ferro. Controllo che terminò proprio quando Bergoglio fu trasferito di ruolo. “Io non conosco casi moderni di vescovi che abbiano avuto una partecipazione politica così esplicita come è stata quella di Bergoglio”, incalza Verbitsky. “Lui agisce con il tipico stile di un politico. È in relazione costante con il mondo politico, ha persino incontri costanti con ministri del governo".

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...