mercoledì 13 dicembre 2017

Media USA: il giorno della vergogna totale







Fake News del mainstream: Le testate giornalistiche USA hanno subito la loro più umiliante disfatta da tempo: ora rifiutano qualsiasi trasparenza su ciò che è successo [G. Greenwald]
di Glenn Greenwald da Megachip

Venerdì 8 dicembre è stato uno dei giorni più imbarazzanti per i media USA da un sacco di tempo in qua. L'orgia di umiliazioni è stata innescata dalla CNN, con MSNBC e CBS sulla sua scia, con innumerevoli opinionisti, commentatori e operatori politici che si sono uniti alla festa per tutto il giorno. Alla fine della giornata, era chiaro che molti dei più grandi e influenti organi di informazione della nazione avevano diffuso a milioni di persone una notizia esplosiva, benché completamente falsa, intanto che si rifiutavano di fornire alcuna spiegazione su come tutto questo fosse successo.

Lo spettacolo è iniziato venerdì mattina alle ore 11 della costa orientale USA, quando la testata che si proclama “Il nome più attendibile nel dare notizie” (ossia la CNN, “The Most Trusted Name in News™”, NdT) ha speso ben 12 minuti consecutivi di trasmissione cavalcando in modo scintillante un reportage-bomba in esclusiva che sembrava dimostrare che WikiLeaks, lo scorso settembre, aveva segretamente offerto alla macchina elettorale di Trump, e persino a Donald Trump in persona, un accesso speciale alle e-mail del Comitato Nazionale Democratico (DNC) prima che fossero pubblicate su Internet. Siccome la CNN si affaccia sul mondo, tutto questo proverebbe collusione tra la famiglia Trump e WikiLeaks e, cosa più importante, tra Trump e la Russia, dal momento che la comunità dei servizi segreti degli Stati Uniti considera WikiLeaks come un "braccio dell'intelligence russa", e quindi fanno così anche i media statunitensi.

Tutta questa rivelazione era basata su un’e-mail che la CNN con forza sottintendeva di aver ottenuto in esclusiva e che aveva ormai a disposizione. L'e-mail era stata inviata da un tale di nome "Michael J. Erickson" - qualcuno di cui nessuno aveva mai sentito parlare prima di allora e che la CNN non poteva identificare - a Donald Trump Junior, e offriva una chiave di decrittazione nonché l'accesso alle e-mail del DNC che WikiLeaks aveva "caricato". L'e-mail era una pistola fumante, agli occhi estremamente eccitati della CNN, perché era datata 4 settembre – dunque dieci giorni prima che WikiLeaks iniziasse a promuovere l'accesso a quelle e-mail online - dimostrando così che alla famiglia Trump veniva offerto un accesso speciale e unico all'archivio del DNC: presumibilmente da Wikileaks e dal Cremlino.

È impossibile comunicare a parole che tipo di scoop spettacolare e devastante credeva di avere la CNN, perciò è necessario che guardiate voi stessi con i vostri occhi per notare quali toni accalorati, quali inflessioni mozzafiato e quanta gravità trasmetteva questo canale, considerato che chiaramente credeva di dare oramai un colpo quasi fatale in merito alla storia della collusione Trump/Russia:


C'era solo un piccolo problema con questa storia: era fondamentalmente falsa, e lo era nel modo più imbarazzante possibile. Ore dopo che la CNN aveva trasmesso il suo racconto - e dopo averlo ripetutamente rilanciato e pompato - il Washington Post ha riferito che la CNN ha toppato di brutto proprio sul fatto cruciale della vicenda.

L'e-mail non era datata 4 settembre, come pretendeva la CNN, bensì 14 settembre: il che significa che era stata inviata dopo che WikiLeaks aveva già pubblicato l'accesso alle e-mail del DNC online. Quindi, anziché offrire una sorta di accesso speciale a Trump, "Michael J. Erickson" era semplicemente una persona a caso del pubblico che incoraggiava la famiglia Trump a guardare le e-mail del DNC apertamente disponibili che WikiLeaks - come tutti già sapevano - aveva pubblicamente promosso. In altre parole, l'e-mail era l'esatto opposto di ciò che la CNN sosteneva che fosse.



Com’è che la CNN è giunta a pompare con irruenza una storia così tanto spettacolarmente falsa? Si rifiutano di dirlo. Molte ore dopo che la loro narrazione è stata svelata in tutta la sua falsità, il giornalista che l'ha presentata in origine, il cronista parlamentare Manu Raju, ha finalmente pubblicato un tweet che annotava la correzione. Il dipartimento di pubbliche relazioni della CNN ha quindi affermato che "più fonti" avevano fornito alla CNN una data falsa. E Raju è andato alla CNN, con toni più dimessi, per annotare la correzione, affermando esplicitamente che "due fonti" gli avevano fornito ciascuna la data falsa in merito all'e-mail, mentre chiariva anche che la CNN non aveva mai nemmeno visto l'e-mail, ma aveva solo fonti che descrivevano i suoi presunti contenuti:

Tutto ciò fa sorgere la domanda lampante, ovvia e critica, che la CNN si rifiuta di affrontare: in che modo le "fonti multiple" hanno erroneamente interpretato la data in testa a questo documento, esattamente nello stesso modo, e verso le stesse conclusioni, e hanno quindi dato in pasto queste informazioni false alla CNN?

È, ovviamente, del tutto plausibile che una fonte possa in modo incolpevole interpretare erroneamente la data di un documento. Ma in che modo sarebbe anche lontanamente plausibile che più fonti possano del tutto innocentemente e in buona fede interpretare erroneamente la data proprio nello stesso modo, tutto per causare la propagazione di una rivelazione diffusa su tutti i media in merito alla collusione Trump/Russia /WikiLeaks? Questa è la domanda fondamentale cui la CNN si rifiuta semplicemente di rispondere. In altre parole, la CNN si rifiuta di fornire la massima trasparenza per consentire al pubblico di capire cosa è davvero successo in questo frangente.

PERCHÉ TUTTO QUESTO CONTA COSÌ TANTO? Per tanti motivi importanti:

Per cominciare, è difficile esagerare su quanto velocemente, quanto lontano e quanto diffusamente abbia viaggiato questa falsa notizia. Opinionisti, funzionari e giornalisti del Partito Democratico con enormi piattaforme sui social media si sono immediatamente tuffati sulla storia, annunciando che dimostrava una collusione tra Trump e la Russia (attraverso WikiLeaks). Un tweet del parlamentare democratico Ted Lieu, il quale sosteneva che tutto questo evidenziava le prove di una collusione criminale, è stato ri-twittato migliaia e migliaia di volte in poche ore (Lieu ha flemmaticamente cancellato il tweet dopo che io ne ho annunciato la falsità, e molto tempo dopo che era diventato assai virale, senza mai dire ai suoi seguaci che la storia della CNN, e quindi la sua accusa, erano state sbufalate).

Benjamin Wittes del Brookings Institute, la cui stella era in ascesa mentre si autopromuoveva come amico dell'ex direttore dell'FBI Jim Comey, non solo ha rilanciato la storia della CNN alla mattina, ma lo ha fatto con la parola "Boom" - usata per segnalare che un grande colpo è stato inferto a Trump sulla vicenda della Russia - insieme alla gif di un cannone che viene fatto detonare.

Josh Marshall del blog Talking Points Memo ha creduto che la storia fosse così significativa da usare in cima al suo articolo l'immagine di una bomba atomica che esplodeva, discutendo le sue implicazioni, un articolo che ha twittato ai suoi circa 250.000 follower. Solo di notte è stata aggiunta una nota redazionale che annunciava che l'intera faccenda era falsa.

È difficile quantificare esattamente quante persone siano state ingannate - riempite di notizie false e propaganda - dalla narrazione della CNN. Ma grazie a giornalisti e funzionari fedeli al Partito Democratico che decretano che ogni affermazione in tema Trump/Russia debba essere vera senza guardare alcuna prova, è certamente cosa sicura affermare che molte centinaia di migliaia di persone, quasi certamente milioni, sono state esposte a queste false affermazioni.

Sicuramente chiunque abbia qualche minima preoccupazione sull'accuratezza del giornalismo - che presumibilmente includerà tutte le persone che hanno passato l'ultimo anno a lagnarsi di Fake News, propaganda, bot di Twitter e via lamentando - pretenderebbe una rendicontazione su come uno dei maggiori organi mediatici americani sia finito a subissare il cervello di così tante persone con notizie totalmente false. Basterebbe solo questo per dover sollecitare alla CNN un’esauriente spiegazione su cosa esattamente sia capitato. Nessun bot russo su Facebook o Twitter potrebbe avere un impatto neanche lontanamente paragonabile all'impatto di questa narrazione della CNN quando si tratti di ingannare la gente con informazioni sfacciatamente inesatte.

In secondo luogo, le "fonti multiple" che hanno fornito alla CNN questa falsa informazione non si sono limitate a quella rete. Erano apparentemente molto impegnate a diffondere avidamente le false informazioni a quanti più media potevano trovare. A metà giornata, la CBS News ha affermato di aver "confermato" in modo indipendente la storia della CNN sull'e-mail, e ha pubblicato anche il suo articolo mozzafiato, discutendo le gravi implicazioni di questa collusione disvelata.

Ma la cosa più imbarazzante di tutte l’ha fatta la MSNBC. Dovete solo guardare questo servizio del suo «corrispondente in materia di intelligence e sicurezza nazionale», Ken Dilanian, per crederci. Così come la CBS, anche Dilanian ha affermato di aver «confermato» in modo indipendente il falso rapporto della CNN da «due fonti che hanno conoscenza diretta di questo fatto». Dilanian, la cui carriera nei media statunitensi continua a prosperare quanto più viene esposto come qualcuno che fedelmente ripete a pappagallo ciò che la CIA gli dice di dire (dal momento che questo è uno degli attributi più ambiti e apprezzati nel giornalismo USA), ha utilizzato tre minuti per mescolare affermazioni della CIA (prive di prove e trattate come fatti) con affermazioni totalmente false su ciò che le sue molteplici "fonti con conoscenza diretta" gli avevano riferito su tutto questo. Si prega di guardarlo di nuovo: non tanto per il contenuto, quanto per il tenore e il tono in cui si “riferiscono” le “notizie”. È una roba imbarazzante ai livelli del portavoce di Saddam Hussein, il famigerato Baghdad-Bob:

Pensate esattamente a cosa significhi tutto questo. Significa che almeno due - e possibilmente più - fonti, che tutti questi media hanno giudicato credibili in termini di accesso a informazioni sensibili, hanno fornito le stesse false informazioni a più organi di informazione contemporaneamente. Per molte ragioni, è molto alta la probabilità che queste fonti fossero membri democratici della Commissione sull’Intelligence della Camera (o dei funzionari di alto livello delle loro squadre), poiché è stata la Commissione ad aver ottenuto l'accesso alle e-mail di Trump Jr., benché sia certamente possibile che sia qualcun altro ancora. Non lo sapremo fino a quando questi organi di informazione non si degneranno di riferire al pubblico queste informazioni cruciali: quali «molteplici fonti» hanno mai agito congiuntamente per divulgare informazioni false e incredibilmente incendiarie presso i maggiori organi di informazione nazionali?


 

Appena la settimana scorsa, il Washington Post (con grande plauso, anche mio) ha deciso di esporre una fonte – una donna a cui avevano promesso l'anonimato e le protezioni a microfoni spenti - perché hanno scoperto che aveva intenzionalmente loro fornito false informazioni come parte di una trama ordita da Project Veritas per screditare il Post. È un principio ben consolidato del giornalismo (raramente seguito quando si parla di persone potenti a Washington): il fatto cioè che i giornalisti dovrebbero esporre, anziché proteggere e nascondere, le fonti che abbiano fornito di proposito false informazioni da diffondere presso il pubblico.

È forse quello che è successo nel nostro caso? Queste "fonti multiple" che hanno dato in pasto le informazioni completamente false non solo alla CNN, ma anche a MSNBC e CBS, lo fanno deliberatamente e in malafede? Fino a quando queste testate giornalistiche non forniranno un rendiconto di quel che è successo - ciò che si potrebbe chiamare "trasparenza giornalistica minima" - è impossibile dirlo con certezza. Ma al momento, è molto difficile immaginare uno scenario in cui più fonti abbiano tutte indicato la data sbagliata a diversi media in modo innocente e in buona fede.

Se si trattasse, in realtà, di un deliberato tentativo volto a causare una narrazione falsa e molto incendiaria, allora questi media hanno l'obbligo di mettere in vista chi sono i colpevoli - proprio come il Washington Post ha fatto la scorsa settimana nei confronti della donna che faceva affermazioni false su Roy Moore (era molto più facile in quel caso perché la fonte che mettevano in vista era una persona che a Washington non contava, anziché qualcuno su cui fare affidamento per un flusso costante di notizie, ossia il modo in cui CNN e MSNBC si affidano ai membri democratici della Commissione sull'intelligence). Per contro, se questo fosse solo un errore innocente, allora queste testate giornalistiche dovrebbero spiegare come una sequenza di eventi così inverosimile possa essere accaduta.

Finora, queste multinazionali stanno facendo l'opposto di ciò che i giornalisti dovrebbero fare: piuttosto che informare il pubblico su ciò che è accaduto e assicurare una minima trasparenza e responsabilità per se stessi e gli alti funzionari che hanno causato tutto questo, si nascondono dietro a qualcosa di insignificante, dichiarazioni nebulose redatte da manager di pubbliche relazioni e avvocati.

Come possono mai certi giornalisti e certe testate reagire e fare così tanto gli offesi, se vengono attaccati come "Fake News", quando proprio questa è la condotta dietro la quale si nascondono una volta che siano scoperti a diffondere storie false e incredibilmente ricche di conseguenze?

Quanto più pensate che la vicenda Trump/Russia sia una cosa seria, quanto più pericoloso ritenete che sia Trump quando attacca i media statunitensi in quanto "Fake News", tanto più dovreste risultare turbati da ciò che è successo in questo caso, e tanto più dovreste esigere maggiore trasparenza e responsabilità. Se siete gente che ritiene che gli attacchi di Trump ai media siano pericolosi, allora dovreste essere in prima fila a obiettare quando i media agiscono in modo avventato, in modo da pretendere trasparenza e responsabilità da parte loro. Sono delle disfatte totali come questa - e i successivi sforzi delle grandi imprese mediatiche volti a offuscare il tutto - che hanno reso i media statunitensi così antipatici fino ad alimentare e rafforzare gli attacchi di Trump contro di loro.

In terzo luogo, questo tipo di incoscienza e falsità è ora una tendenza chiara e altamente preoccupante - si potrebbe dire una costante - quando si parla di Trump, Russia e Wikileaks. Ho passato buona parte dell'ultimo anno a documentare le notizie straordinariamente numerose, ricche di conseguenzee avventate che sono state pubblicate - e poi corrette, annullate e ritrattate - dai principali media tutte le volte che viene affrontata questa vicenda.

Tutte le testate, ovviamente, commetteranno degli errori. The Intercept ha certamente fatto la sua parte, così come accade a tutti gli organi di informazione. Ed è particolarmente naturale e inevitabile, che si commettano errori ove ci sia una storia molto complicata e opaca come la questione del rapporto tra Trump e i russi, e le domande relative a come WikiLeaks abbia ottenuto le e-mail del DNC e di Podesta. È tutto quel che c’è da aspettarsi.

Ma quello che ci si dovrebbe aspettare dagli "errori" giornalistici è che a volte vadano in una direzione, e altre volte vadano nella direzione opposta. Questo è esattamente ciò che non è successo in questo caso. Praticamente ogni falsa storia pubblicata va solo in una direzione: essere la più incendiaria e dannosa possibile sulla vicenda di Trump/Russia e in particolare sulla Russia. A un certo punto, una volta che gli "errori" iniziano ad andare tutti nella stessa direzione, verso l'avanzamento del medesimo ordine del giorno, smettono di sembrare errori.

A prescindere dalla vostra opinione su quelle polemiche politiche, a prescindere da quanto odiate Trump o consideriate la Russia un cattivone e una minaccia per la nostra benamata democrazia e libertà, bisogna riconoscere che quando i media statunitensi non fanno altro che diffondere continue false notizie su tutta questa materia, anche loro rappresentano una grave minaccia per la nostra democrazia e adorata libertà.
Sono talmente tante le false storie sulla Russia e su Trump nel corso dell'ultimo anno che non riesco letteralmente a elencarle tutte. Prendete in considerazione appena quelle dell'ultima settimana soltanto, come riportato ieri dal New York Times nel suo articolo che riferisce sull’imbarazzo della CNN:
C’è stato anche un altro importante errore di cronaca in un momento in cui le organizzazioni giornalistiche si stanno confrontando con un pubblico scettico e un presidente che si diletta nell'attaccare i media come "Fake News".Sabato scorso, ABC News ha sospeso un giornalista star, Brian Ross, dopo aver riferito distortamente che Donald Trump aveva incaricato Michael T. Flynn, l'ex consigliere per la sicurezza nazionale, di contattare i funzionari russi durante la corsa presidenziale.Il rapporto ha alimentato le teorie sul coordinamento tra la campagna di Trump e una potenza straniera e le azioni in borsa sono calate dopo la notizia. In realtà, le istruzioni di Trump a Flynn arrivarono solo dopo essere stato eletto presidente.Diverse agenzie di stampa, tra cui Bloomberg e The Wall Street Journal, hanno anche riportato erroneamente questa settimana che la Deutsche Bank aveva ricevuto una citazione dal consigliere speciale, Robert S. Mueller III, per i documenti finanziari del Presidente Trump.Il presidente e il suo gruppo non si son fatti pregare nel calcare la mano su questi errori.
E qui stiamo parlando appena dell’ultima settimana. Ricordiamoci di quante e quante volte le maggiori testate giornalistiche hanno commesso errori umilianti e strabilianti sulla storia di Trump/Russia, ogni volta nella stessa direzione, verso gli stessi obiettivi politici. Ecco appena un assaggio delle affermazioni incredibilmente provocatorie che hanno percorso ogni angolo di Internet prima che fossero corrette, ritrattate o ritirate, spesso molto tempo dopo che le false affermazioni iniziali si erano diffuse, e dove le correzioni ricevono solo una minima parte della spasmodica attenzione che alle notizie false viene invece tributata all’inizio:

• La Russia ha violato la rete elettrica degli Stati Uniti per privare gli americani di calore durante l'inverno (Washington Post)

• Un gruppo anonimo (PropOrNot) ha documentato in che modo i principali siti politici degli Stati Uniti sono agenti del Cremlino (Washington Post)

• WikiLeaks ha una relazione di lunga data e documentata con Putin (Guardian)

• È stato scoperto un server segreto tra Trump e una banca russa (Slate)

• RT ha hackerato C-SPAN e ha causato interruzioni nelle sue trasmissioni (Fortune)

• Crowdstrike scopre che i russi hanno hackerato un'app dell’artiglieria ucraina (Crowdstrike)

• I russi hanno tentato di hackerare i sistemi elettorali di 21 stati (testategiornalistiche varie, che fanno eco al dipartimento della Sicurezza Nazionale)

• Sono stati trovati collegamenti tra l'alleato di Trump Anthony Scaramucci e un fondo di investimento russo sotto inchiesta (CNN)

Questo è davvero appena un piccolo assaggio. Questo modo di coprire l’argomento è così costantemente pessimo e fuorviante, che perfino i più partecipi fra i critici di Vladimir Putin - come l'espatriato russo Masha Gessen, i giornalisti russi di opposizione, nonché gli attivisti liberali anti-Cremlino che operano a Mosca - stanno continuamente avvertendo che i reportage disinformati, ignoranti e paranoici dei media statunitensi sulla Russia stanno danneggiando la loro causa in tutti i modi, intanto che distruggono la credibilità dei media USA agli occhi dell'opposizione di Putin (che - a differenza degli americani, che sono stati nutriti con una dieta costante a base di news e propaganda sulla Russia – capisce effettivamente le realtà di quel paese).






I media USA sono molto bravi nel pretendere rispetto. Amano implicare, ove non lo dichiarino apertamente, che uno - per essere patriottico e un buon americano - dovrebbe respingere gli sforzi per screditare loro e il loro modo di riferire le notizie, perché è così che si difende la libertà di stampa.

Ma i giornalisti hanno anche la responsabilità non solo di chiedere rispetto e credibilità, ma di guadagnarseli. Ciò significa che non dovrebbe esserci una lista così lunga di abiette umiliazioni, dentro cui vediamo pubblicate storie completamente false per ottenere plausi, traffico sui siti e altre ricompense, benché crollino al minimo scrutinio. Certamente significa che tutti questi "errori" non dovrebbero puntare nella stessa direzione, perseguendo lo stesso risultato politico o la medesima conclusione giornalistica.

Ma quel che è più significativo è che quando i media sono responsabili di errori gravi e forieri di conseguenze come nel caso dello spettacolo cui abbiamo assistito ieri, devono assumersene la responsabilità offrendo trasparenza e responsabilità. In questo caso, ciò non può significare nascondersi dietro i PR e il silenzio degli avvocati aspettando che intanto passi la bufera.

Come minimo, queste reti - CNN, MSNBC e CBS - devono identificare chi ha fornito intenzionalmente queste informazioni palesemente false, o spiegare come sia possibile che "più fonti" abbiano tutte le stesse informazioni sbagliate in modo innocente e in buona fede. Fino a quando non lo fanno, le loro grida e proteste, la prossima volta che vengono attaccati come "Fake News", dovrebbe cadere nel vuoto, dal momento che i veri autori di quegli attacchi - il motivo per cui quegli attacchi risuonano – sono loro stessi e la loro condotta.

(Aggiornamento: ore dopo che questo articolo era stato pubblicato, sabato - un giorno e mezzo dopo i suoi tweet originali che promuovono la falsa storia della CNN con un “boom” e un cannone - Benjamin Wittes ha alla fine capito che la storia della CNN che lui aveva pompato presentava "problemi seri"; inutile dire che il tardivo riconoscimento ha ricevuto solo una piccola porzione dei ri-tweet da parte dei suoi seguaci rispetto ai tweet originali che pompavano la storia all’inizio).

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Fonte: https://theintercept.com/2017/12/09/the-u-s-media-yesterday-suffered-its-most-humiliating-debacle-in-ages-now-refuses-all-transparency-over-what-happened/

Traduzione per Megachip a cura di Manlio Cacioppo e Pino Cabras.

lunedì 11 dicembre 2017

L’etica di Lenin (ed altre note sul ’17)

di Mimmo Porcaro da Socialismo 2017


1914 – 1917
Una inesausta tradizione critica imputa alla Rivoluzione del 1917 l’ ingiustificabile, eccessiva violenza che essa avrebbe esercitato contro gli uomini e le cose, ma soprattutto contro le leggi dell’evoluzione economica e della dinamica storica. Lo si chiami blanquismo, lo si imputi a hybris, lo si veda come opera dei demoni dostoevskijani o come applicazione delle aride geometrie sociali di Cernisevskij, l’errore imperdonabile dei bolscevichi sarebbe sempre lo stesso: l’aver agito fuori tempo e fuori luogo, imponendo la rivoluzione ad un paese troppo arretrato e smorzando sul nascere le possibilità di lento ma sicuro progresso della democrazia, e poi del socialismo, aperte dalla fine dello zarismo. Basta però tornare di poco indietro nel tempo e questa critica mostra tutta la propria infondatezza. Nell’agosto del 1914 la socialdemocrazia tedesca, stupor mundi, vanto del movimento operaio internazionale, immensa e rodata macchina concepita proprio per accompagnare lo sviluppo del dinamico capitalismo germanico verso un esito socialista, vota i crediti di guerra, si allea strettamente con la burocrazia e con l’esercito (iniziando così a legittimare quelle stesse forze che vent’anni dopo avrebbero condotto al nazismo) e contribuisce in maniera decisiva allo scatenamento del primo macello mondiale. In quel momento, come nota giustamente Luciano Canfora sulla scorta di Fernand Braudel, la storia d’Europa avrebbe potuto prendere un corso completamente diverso, tale da influenzare decisamente anche il nostro presente. Si poteva scegliere fra socialismo e guerra, e la SPD fece la scelta peggiorei. Ecco a cosa portano le intangibili leggi dell’evoluzione economica (capitalistica) se lasciate a sé stesse; ecco dove conduce la storia quando è fatta dalle classi dominanti. Ed ecco la ragione del ’17: i socialdemocratici tedeschi, accettando l’evoluzione imperialista del “loro” capitalismo, scatenano la guerra; i menscevichi russi, confidando nell’evoluzione futura del capitalismo russo, non sanno o non vogliono fermarla; i bolscevichi invece la fermano, perché non accettano nessuna delle tendenze evolutive del capitalismo mondiale. Così, mentre nel punto più alto dello sviluppo si realizza il punto più basso della dignità umana, nel punto più basso dello sviluppo si accende invece l’unica luce di speranza per milioni di operai e contadini che si ammazzano nel fango per conto di altri. La rivoluzione dipende certamente da una determinata ed obiettiva congiuntura storica, che deve essere considerata con realismo dai rivoluzionari; ma gli esiti di quella congiuntura possono essere molteplici e non rispondono a nessuna necessità. La Rivoluzione non risponde alle leggi dell’economia né a quelle della storia. Si origina da esse, e con esse deve confrontarsi, ma non segue linearmente il loro corso (altrimenti sarebbe una ripetizione, non una rivoluzione) e avviene dove e quando avviene. E se avviene una volta può avvenire sempre: questo è il lascito antistorico dell’Ottobre (antistorico se la storia è intesa come quel tempo evolutivo, “omogeneo e vuoto” contro il quale scriveva Benjaminii). Un lascito che sembra essere del tutto dimenticato, anche dalla residua sinistra “rivoluzionaria”, che ancora attende che siano la globalizzazione e l’Europa a recare con sé, con lo sviluppo delle forze produttive, lo sviluppo del movimento dei lavoratori, della società civile, della moltitudine e perciò (chissà come) del comunismo. Quindi, tutti a soffiare nelle vele già gonfie dell’ideologia imperialista: più globalizzazione, più Europa! Ma l’una e l’altra ci hanno già dato la guerra e ne promettono una peggiore, a meno che qualcuno non rompa questo meccanismo nei suoi punti deboli. Come purtroppo non si è fatto in Grecia. Come non si vorrebbe fare in Italia se mai si presentasse l’occasione. E perché i menscevichi nostrani aborrono l’idea della rottura nell’ ”anello debole”? Proprio perché essa ricorda da vicino la rottura bolscevica e la sua pretesa immaturità. Ma il fatto è che, dato un determinato livello di sviluppo delle forze produttive, una rivoluzione socialista è sempre matura e non lo è mai. C’è sempre la possibilità astratta di usare a vantaggio dei molti le forze produttive esistenti, oppure di usare il piano per sviluppare una produzione insufficiente. Ma c’è sempre la necessità concreta di fronteggiare la severa crisi che genera la rivoluzione e che a lei consegue: e una crisi severa pone sempre di fronte ai rivoluzionari, anche nei paesi più sviluppati, gravi problemi di scarsità, dilemmi a volte tragici, nodi apparentemente insolubili, scelte che richiedono il sacrificio di una parte dei propri obiettivi, proprio come se la rivoluzione non fosse ancora matura. Così vanno le cose, con la rivoluzione. E per questo chi è nemico della Rivoluzione russa è nemico di ogni rivoluzione.
Stile ed etica di Lenin
Non dobbiamo mai smettere di riflettere sullo stile politico di Lenin e sulle sue implicazioni teoriche e filosofiche. Uno stile fatto di continui spostamenti tattici in vista di uno scopo immutabile: la conquista del potere politico in funzione della rivoluzione socialista. Quello che Lunacarskij chiama, dando da subito un significato positivo al termine, l’opportunismo di Leniniii non è frutto dell’assenza di principi ma proprio della presenza di un principio ordinatore. Proprio perché la sua azione non vuole limitarsi alla propaganda, ma vuole avere a che fare sempre con la politica, proprio perché non si limita a declamare un ideale in attesa della pienezza dei tempi, ma vuole agire sugli attuali rapporti di forza, proprio perché ha in testa un preciso obiettivo strategico Lenin deve necessariamente operare tutte le svolte tattiche che la realtà gli impone e gli consente: ed è disposto, per questo, a divenire minoranza nel suo stesso partito. Chi vuole soltanto riaffermare in faccia al mondo la bontà dei propri valori e la bellezza della propria immacolata immagine non ha bisogno di tattica. L’assenza di svolte, l’assenza di mutamenti, anche sorprendenti, negli obiettivi di fase e nelle alleanze è indice dell’assenza di politica. Ma in tutte le svolte di Lenin permane un elemento costante. Che non è, va ripetuto, semplicemente l’obiettivo del potere politico, ma l’obiettivo del potere politico in funzione degli interessi delle classi subalterne. Questo è il punto veramente incondizionato, e quindi etico, dello stile e dell’opera di Lenin. Un uomo che usa continuamente parole diverse perché vuole affermare sempre la stessa cosa, che si sposta continuamente da un luogo all’altro perché sta sempre da una parte sola, quella degli sfruttati. E che pertanto dimostra, ai cervelli non offuscati dai comodi cliché, la profonda motivazione morale della sua intera esistenza. Una moralità che oggi non si comprende o non si sopporta, visto che l’etica che ai giorni nostri viene comodamente scialacquata serve per bloccare ogni politica, mentre l’etica di Lenin serve a produrre una politica di emancipazione. Una moralità ben compresa invece sia da un Deutscheriv che soprattutto da un Lukácsv, che invita a considerare la figura di Lenin come realizzazione della posizione etica stoico-epicurea. Accogliendo l’invito possiamo dire che tale posizione consiste nel dare forma alla propria esistenza in modo da poter prendere sempre posizione – anche nei peggiori frangenti – in funzione del proprio progetto razionale, nel discostarsi consapevolmente dalle situazioni che eccitano paure e passioni negative, nell’essere sempre pronti ad agire perché in ogni situazione concreta si gioca il senso di un’intera esistenza. Si può aggiungere che questo dar forma, questo sapersi discostare, questo saper agire, dal punto di vista strettamente politico si identificano con una tattica che ha tra le sue preoccupazioni quella di impedire che il soggetto si adagi in una posizione che lo allontani dal suo scopo, o che addirittura lo possa trasformare antropologicamente estraniandolo dalla propria classe e dalle proprie migliori motivazioni. Qui la tattica esprime tutta la propria temibile, nascosta importanza: come insieme di obiettivi concreti che il soggetto si pone, come insieme di posizioni concrete che, una volta raggiunte, concorrono a determinare aspettative e comportamenti, la tattica non è un mero strumento di un soggetto politico presupposto, ma è una forma della costituzione del soggetto stesso. Per questo Lenin si indiavola per gli errori tattici. Un errore estremista può portare ad una prassi estremista e ad un compiaciuto autoisolamento. Un errore opportunista può tradursi in una prassi opportunista e poi in un cedimento morale all’avversario. In entrambi i casi un errore tattico ripetuto conduce ad un allontanamento dalla motivazione fondamentale dell’azione: il rapporto con gli sfruttati. E’ per evitare questa separazione antropologica dalla “classe dei molti” che Lenin rompe con i menscevichi prima e con la socialdemocrazia dopo. Ed è per questo che avrebbe quasi certamente rotto (come era abituato a fare) col suo stesso partito sulla questione della natura dello stato che si andava a costruire, e che andava già allontanandosi dalla simbiosi positiva con le masse.
1918 – 1923
Trascorso esattamente un anno dalla rivoluzione russa, l’inizio della rivoluzione tedesca dimostra subito che l’evento di Pietrogrado non è replicabile in forma pura, e che il cammino degli sfruttati è decisamente contortovi. I soviet che nascono nel novembre 1918 non trovano di meglio che indicare come proprio rappresentante quello stesso Friedrich Ebert che, come leader socialdemocratico, è corresponsabile dell’entrata in guerra ed è avvinto alle gerarchie dello stato. Gerarchie che non a caso lo individuano come premier del governo che dovrà frettolosamente inaugurare la democrazia parlamentare in Germania. Così Ebert si trova, contemporaneamente, alla testa della rivoluzione e della reazione, e la funzione di controllo politico e di polizia che la SPD ha svolto durante tutto il conflitto ne viene premiata ed esaltata. Fin dall’inizio il soviettismo si dimostra incapace di darsi una direzione veramente autonoma, e per tutto il corso degli eventi il connubio tra l’SPD e l’esercito nero assicurerà, a fatica, la sopravvivenza delle vecchie classi dominanti. Di fronte a ciò non si erge nessun partito pur lontanamente paragonabile a quello bolscevico, anzi. Il repertorio degli errori che costellano la storia della mancata rivoluzione tedesca è talmente vasto che meriterebbe di essere posto fra i testi obbligatori di un programma di formazione politica. Incomprensione della necessità della costruzione immediata di un partito rivoluzionario autonomo. Incomprensione della necessità di attrezzarsi a continue svolte tattiche. Primitivismo, avventurismo, ma anche attendismo e opportunismo. Leader che per emendare un precedente comportamento ultrasinistro si comportano poi cocciutamente in maniera opposta, e viceversa. Lo stesso partito bolscevico, e con lui la neonata Internazionale comunista, non brillano sempre per sagacia e soprattutto per conoscenza della situazione e tempestività dei suggerimenti. Ma questi errori (molti dei quali del tutto comprensibili) forse non sarebbero bastati a sconfiggere quello che secondo Franz Borkenau era il più grande movimento di origine proletaria mai conosciuto al mondovii. E non impedirono, in fin dei conti, la nascita e la crescita di un partito comunista che seppe darsi una dimensione di massa. Il fatto è, però, che la rivoluzione trovò di fronte a sé, in Germania, almeno due pesanti ostacoli che in Russia non si conobbero. Primo: in Germania la tendenza conciliatrice interna al movimento operaio non è (o non diviene rapidamente) minoritaria come in Russia, ed anzi è largamente maggioritaria, radicata nel proletariato, esperta e dotata di mezzi notevoli. Così viene dimostrata praticamente una verità del tutto inattesa dai rivoluzionari: la maggioranza del proletariato non vuole, o non vuole immediatamente la rivoluzione, ed è disposta a credere più a chi promette soluzioni graduali che a chi predica rotture. Secondo ostacolo: nonostante quanto sopra, la durezza della crisi inflazionistica pilotata dalla borghesia tedesca espone comunque la borghesia stessa al rischio costante di una radicalizzazione del proletariato. A questo punto, quello che non era riuscito militarmente in Russia alla coalizione antibolscevica riesce economicamente in Germania all’imperialismo americano, e dal 1923, conclusosi farsescamente un ultimo conato rivoluzionario che avrebbe forse potuto avere sviluppi diversi, si inaugura l’era degli “investimenti antisocialisti” degli Stati uniti, forma efficacissima di restaurazione dei rapporti sociali da parte del sistema capitalista mondialeviii.
Gli ostacoli che bloccarono il partito comunista tedesco sono in fondo ancora davanti a noi. Ma se il nesso tra le gerarchie imperialistiche mondiali e la riproduzione dei rapporti sociali su scala locale è stato oggetto di numerose riflessioni ed approfondimenti, la costante egemonia del “movimento operaio-borghese” sul complesso del movimento dei lavoratori non ha ricevuto analoghe attenzioni. Il fatto che i lavoratori organizzati, per la loro conoscenza del processo produttivo e per la loro attitudine alla cooperazione, siano la figura centrale della costruzione del socialismo, fa credere che quindi essi siano anche necessariamente la figura centrale della rottura rivoluzionaria, e che anzi senza di essi o contro una parte rilevante di essi non sia possibile nessun progresso politico. Ecco che quindi fin dall’inizio i rivoluzionari sono costretti a porsi un problema sorprendente: quello della conquista della maggioranza di quel proletariato che avrebbe dovuto essere naturalmente rivoluzionario. Da qui la tattica del Fronte unito: marciare insieme ai sindacati ed ai partiti “operai-borghesi” per dimostrare alle masse, nel corso della battaglia comune per obiettivi economico-sociali da tutti condivisi, la vera natura delle organizzazioni socialdemocratiche, smascherarle e sostituirsi ad esse nella direzione del movimento. Fatica ardua, costellata di successi parziali ma quasi mai coronata da vittorie strategiche. Perché se è vero che l’ossessione leniniana per la verità concreta e per l’importanza dell’esperienza diretta delle masse resta una chiave universale dell’agitazione e dell’azione politica, è anche vero che essa non conduce a nulla se non si comprende che il proletariato non è affatto naturalmente rivoluzionario, e che non è quindi sufficiente dimostrare la natura moderata della socialdemocrazia, dato che questa corrisponde alla natura moderata delle masse stesseix. Quando si dice “natura” si intende ovviamente l’aspetto normalmente dominante della natura delle masse: anche quando lotta con asprezza il proletariato sa di dipendere dal capitale e sa che uno “sciopero del capitale” può lasciarlo senza mezzi di sussistenza, a meno che non intervenga da subito un nuovo ordine di cui però, all’inizio, non è facile vedere i contorni. Perché l’aspetto rivoluzionario del proletariato possa emergere sono necessari almeno due fattori: una crisi generale della società, dell’economia e dello stato, ed una mobilitazione che aggiunga alle motivazioni economiche (che da sole potrebbero giustificare anche comportamenti opportunistici) la motivazione della difesa del proprio mondo vitale: della vita contro la guerra, della casa contro la miseria e l’invasione, del lavoro contro lo sfruttatore, della libertà contro l’oppressione. Soltanto le identità vissute come non negoziabili conducono alla rivoluzione, e quindi solo il formarsi progressivo di queste identità (e non la ripetizione di rivendicazioni economiche) prepara le condizioni soggettive di un rivolgimento. Il nostro problema attuale è quello di capire quali identità possono accompagnarsi agli obiettivi socialisti quando, come oggi, l’identità di classe, l’identità dei lavoratori stabili ed organizzati, è quasi sempre connotata in senso moderato, e la rabbia sociale si diffonde invece nel mondo apparentemente amorfo del quasi-lavoro. Un mondo di cittadini anonimi che oggi in Europa sembrano aver perduto le loro radici di classe e possono ritrovarle solo riaggregandosi appunto come cittadini, titolari di uno spazio politico che renda possibile lavoro e libertà.
1935 – 1949
La linea del Fronte unito, ridotta all’astuzia di allearsi con qualcuno per smascherarlo, non poteva funzionare. Né funzionò la successiva linea che assimilava ormai socialdemocrazia e fascismo. Entrambe non potevano che favorire sia la persistenza dell’egemonia socialdemocratica sia l’ascesa del fascismo vero. Fino a che, nel 1935, il VII congresso dell’Internazionale comunista non varò la linea dei Fronti popolarix, ossia dell’alleanza antifascista non soltanto con la socialdemocrazia, ma anche con la borghesia democratica mostrando come il processo rivoluzionario, che già si era complicato con il Fronte unito, per farsi più efficace debba farsi più spurio. Qui si apre una questione storiografica e politica di estrema delicatezza e difficoltà. Fu, quella linea, soltanto l’effetto della teoria staliniana del socialismo in un paese solo, e quindi della necessità di difendere l’Urss alleandosi coi governi democratico-borghesi e con quelli delle nazioni anticolonialiste? Fu quella la causa principale della sconfitta del movimento rivoluzionario in occidente (costretto a rinunciare ai suoi obiettivi per quelli genericamente democratico-nazionali), e quindi dell’esplosione della Seconda guerra mondiale? Oppure fu il colpo di genio che rallentò l’affermazione del fascismo, consentì all’Urss di rafforzarsi e poi di vincere, favorì il radicamento di massa dei partiti comunisti nell’occidente postbellico? Sul punto si potrà discutere all’infinito, ma c’è una considerazione che deve precedere tutto: la scelta del Fronte unito o del Fronte popolare, il rifiuto del velleitarismo rivoluzionario, il bisogno di articolare lotta per il socialismo e lotta nazionale possono essere argomentati realisticamente anche senza dover far ricorso all’influenza dell’Urss e della teoria del socialismo in un paese solo. Influenza che ci fu, spesso fu decisiva e a volte fu nefasta, ma che può essere considerata come causa fondamentale delle difficoltà del movimento comunista soltanto se si presuppone l’esistenza continua di situazioni o di forti potenzialità rivoluzionarie, cosa che non è dato riscontrare in quegli anni e con quella continuità presupposta dai critici del bolscevismo e dello stalinismoxi. Insomma, non c’era bisogno dell’ascendente dei bolscevichi per capire che il giovane e gracile partito comunista cinese poco avrebbe potuto in uno scontro immediato col Kuomintang, e che in una fase iniziale meglio avrebbe fatto, come fece, a partecipare direttamente a quella formazione democratico-borghese pur mantenendo la propria autonomia organizzativaxii. Né c’era bisogno dell’ascendente di Stalin per capire che di fronte al nazifascismo era necessaria una politica di larghe o larghissime alleanze. Forse soltanto nel caso della Spagna si può sostenere che un diffuso movimento rivoluzionario sia stato scientemente bloccato dalle imposizioni dell’Urss e si può argomentare che tale blocco abbia reso più difficile proseguire efficacemente la guerra contro Francoxiii. Ma anche in quel caso la necessità di pensare prima alla vittoria contro il fascismo e poi alla rivoluzione faceva parte delle opzioni realistiche (tanto che gli stessi anarchici parteciparono in maniera significativa al governo frontista di Largo Caballero). E la stessa decisione comunista di porre al movimento spagnolo compiti puramente democratici e non socialisti non era soltanto consona all’interesse sovietico per i buoni rapporti con il capitalismo liberale europeo, ma era anche legata al fortissimo rischio di isolamento che avrebbe corso una Madrid rossa di fronte all’inevitabile reazione anglo-americana e alla già dimostrata connivenza francese. Quanto alla Cina è innegabile che, tra gravi errori e forti contraddizioni, la linea frontista, e la capacità di sospenderla e riprenderla a tempo debito, è stata una delle condizioni della splendida vittoria del ’49, che peraltro si deve in gran parte anche dalla capacità di iniziativa autonoma del PCC sia nelle zone liberate sia nella gestione della guerra antigiapponesexiv. L’aver scelto, dopo sbandate e tentennamenti, una politica di fronte antifascista e anticoloniale, ha consentito al movimento comunista, e ancor di più all’idea di comunismo, di diffondersi ovunque e di mantenere una significativa presenza anche nell’Europa capitalista: se oggi qualcuno parla ancora di comunismo è anche grazie a quell’esperienza. E se oggi in Europa ancora c’è uno straccio di welfare lo si deve in buona misura al terrore che Lenin e Stalin hanno seminato in tutta la borghesia, e a quelle Costituzioni democratico-sociali che (come ben ha compreso il capitale finanziario che non a caso le detesta) sono il più importante sedimento dell’onda lunga del 1917. Su questo punto, insomma, le critiche delle diverse varianti del comunismo di sinistra non mi paiono realistiche. Non a caso, in 100 anni, quelle posizioni critiche, anche se hanno influenzato importanti esperienze di movimento e serie riflessioni teoriche, non hanno mai condotto a nessuna vittoria storica significativa. Un esito che consente loro, paradossalmente, di riprodurre la tendenza estremista perché le libera dall’obbligo di rispondere alle inevitabili delusioni a cui è esposta ogni concreta realizzazione storica: chi non vince mai, non deve render conto di nulla.
La dialettica all’opera
Eppure, se è vero che la variegata sinistra comunista non avrebbe saputo assicurare quello sviluppo mondiale del movimento che fu invece assicurato dal frontismo, è anche vero che dialetticamente (e quindi ironicamente) in quella stessa diffusione dei partiti e dell’orientamento comunista c’era il germe del successivo disfacimento. Un germe che può essere individuato in ciò: non fu la scelta del fronte il vero errore, e nemmeno fu l’eccessiva fiducia riposta in questa o quella borghesia nazionale o la stessa sbagliata concezione dell’inevitabilità dei due tempi (prima la democrazia, poi il socialismo). Fu piuttosto l’idea che il fascismo fosse l’ultima parola del capitalismo, che quest’ultimo avesse davanti a sé soltanto l’opzione reazionaria e stagnazionista, che nel capitalismo postbellico ogni idea di pianificazione fosse pura propaganda ed ogni espansione dei consumi fosse impossibile. E che per questo motivo la strategia comunista si poteva ridurre alla lotta per la democrazia e per lo sviluppo, non soltanto perché questo imponeva l’ordine di Yalta, ma perché in ogni caso democrazia e sviluppo, erano tendenzialmente connotate in senso socialista a causa dell’incapacità del capitalismo di assicurare l’una e l’altroxv. Inoltre nell’idea di Togliatti, che è indubbiamente colui che più ha affinato la prospettiva frontista, la democrazia, lo sviluppo e la stessa possibile torsione socialista dell’una e dell’altro erano garantite essenzialmente dalla presenza attiva del partito comunista all’interno dello stato: e questa presenza politica era ritenuta sufficiente a guidare la macchina statale anche se essa restava istituzionalmente identica, o quasi, a quella forgiata dalle classi dominanti. Nessuno spazio, quindi, per forme autonome di democrazia popolare capaci quantomeno di entrare in dialettica con quello stato. Ma nessuno spazio anche per “eccessivi” interventi pianificatori e redistributivi: tutto doveva essere valutato in funzione della possibilità di restare al governo, o di tornarvi. La democrazia progressiva come forma intermedia tra capitalismo e socialismo eludeva così, in realtà, ogni prospettiva di transizione. Strategia gravida di conseguenze, inizialmente positive (non cesseremo di studiare la natura e lo sviluppo del PCI come partito di massa), ma alla fine disastrose. L’alterità comunista, fondata non più su una concreta prospettiva socialista, ma sulla presunzione di essere l’unica forza capace di assicurare un qualche progresso, svanirà quando il capitale, smentendo clamorosamente il catastrofismo della III Internazionale, si mostrerà capace di pianificare lo sviluppo in una cornice democratica. Peggio ancora, la diffusa presenza dei comunisti nelle istituzioni politiche ed economiche date li trasformerà col tempo, privi com’erano di una vera autonomia culturale nelle questioni nodali dell’economia e dello stato, in agenti di quelle istituzioni stesse, dimostrando così, in negativo, il valore dell’etica di Lenin. Il crollo dell’Urss ed il trionfo della globalizzazione libereranno fino in fondo le pulsioni dirigenziali degli eredi di Togliatti consentendo loro di candidarsi finalmente a compiti di governo. E questa parabola presenterà, in Italia, una caratteristica aggiuntiva: la centralità della presenza istituzionale del partito, unita allo scetticismo sull’utilità del piano all’interno di un economia capitalista, farà sì che fin da subito il Pci sia relativamente indifferente ai contenuti “tecnici” delle scelte di politica economica, a condizione di avere un ruolo decisivo in quelle scelte stesse. Ciò condurrà ad accettare di fatto l’egemonia culturale dell’antifascismo liberista (che identificava i mali del regime essenzialmente con gli eccessi di statalismo e con la distorsione monopolistica della concorrenza), a perdere ogni ostilità di principio verso le politiche di stabilità monetaria, ad accogliere, pur tra qualche resistenza interna, misure economiche tradizionalissime che ribadivano le gerarchie sociali del paesexvi. Ne deriveranno la politica economica (sostanzialmente liberista)della Ricostruzione, l’atteggiamento verso il centro sinistra (fatto di critiche all’esclusione dei comunisti ma anche di convergenze su una versione soft dell’intervento pubblico) e soprattutto la riscoperta dell’ “interesse generale” alla deflazione, riscoperta fatta alla fine degli anni’70 e destinata a lungo successo. Sia chiaro: alle tante colpe di Stalin non si deve aggiungere quella di aver generato i D’Alema e i Bersani. La trasformazione del Pci in Pds segna comunque una rottura storica. Ma l’identificazione del progresso col mercato, la limitazione dell’azione governativa alla liberazione della concorrenza, la deferenza (peraltro comune a molta sinistra) nei confronti della Banca d’Italia, e quindi l’apprezzamento della sua autonomia, non sono state inventate oggi né si devono alla nefasta influenza di Eugenio Scalfari. Vengono da lontano.
Historia magistra
Tutta questa vicenda è chiaramente ricca di insegnamenti. Oltre a quello, da tempo oggetto di discussione, dell’impossibilità di concepire le alleanze come rinuncia a qualunque iniziativa autonoma da parte dei comunisti, due insegnamenti mi paiono molto importanti per noi, oggi. Il primo riguarda le forme della politica, prima ancora dei contenuti. Abbiamo imparato che la rivoluzione o è spuria o non è, e che non è possibile evitare di confrontarsi con l’apparato di stato, di costruire alleanze, di definire obiettivi intermedi. Ma abbiamo imparato anche che se il movimento dei comunisti è gestito da una sola istituzione e se questa istituzione è un partito che vede principalmente nello stato esistente il suo spazio di realizzazione, l’inevitabile cooptazione del partito nello stato trascina con sé la metamorfosi negativa di tutto il movimento rivoluzionario. Per ovviare a ciò è necessario un pluralismo istituzionale del movimento. Il “partito” dei comunisti (sia esso composto da una o da diverse organizzazioni) deve essere distinto dal partito democratico di larga coalizione che occupa l’amministrazione, ed entrambi devono essere distinti sia dai sindacati che dalla rete di istituzioni popolari autonome. Ognuno di questi elementi è chiamato a dirigere la danza, se sa farlo. E se uno fallisce o passa dall’altra parte, qualcun altro può subentrare. L’altro insegnamento riguarda l’internazionalismo. Abbiamo imparato che un associazione internazionale può trasformarsi nello strumento della potenza di una nazione soverchiante. Ma non possiamo dedurne che un processo rivoluzionario debba essere scadenzato fin dall’inizio sui tempi e i modi di un movimento internazionale. La rivoluzione ha inevitabilmente una dimensione locale (perché lo spazio globale è soltanto lo spazio del capitale) che a sua volta è quasi sempre una dimensione nazionale, ed è a partire da questa dimensione che si pongono gli inevitabili e decisivi problemi di collocazione internazionale che ogni rivoluzione deve risolvere. Il rapporto con altri stati è con altri movimenti è inevitabilmente mediato dalle caratteristiche nazionali e dalle divergenze fra le nazioni (divergenze storico-geografiche, oggi acuite dalle dinamiche dell’accumulazione capitalistica mondiale). Certo, anche Trotskij sapeva che “la rivoluzione socialista comincia sul terreno nazionale, si sviluppa sull’arena internazionale e si compie sull’arena mondiale”xvii. Ma a mio parere sottovalutava (e di molto) i condizionamenti imposti dall’inevitabile dimensione nazionale dell’inizio della rivoluzione, perché presupponeva un astratto interesse comune del proletariato mondiale alla rivoluzione, mentre questo interesse comune non può essere pensato come un presupposto ma è il risultato di un faticoso lavoro di mediazione tra i diversi interessi immediati dei lavoratori dei diversi paesi. Di più, nelle condizioni attuali non si può pensare l’internazionalismo come un rapporto che si stabilisca solo tra nazioni orientate al socialismo, ma lo si deve vedere come un rapporto tra nazioni e/o blocchi aventi il comune obiettivo di ridurre la libertà di circolazione capitale e di gestire politicamente i rapporti fra stati in modo da non costringere nessuno di essi alla subordinazione o alla deflazione competitiva.
Dividere l’uno in due
Era necessario Stalin? Potrei dire che era necessario forzare sia la collettivizzazione che l’industrializzazione, senza le quali la II guerra mondiale sarebbe finita molto diversamente. Potrei aggiungere che era necessaria una soluzione autoritaria al problema del potere in Unione sovietica, per l’ampiezza dell’impero, per la durezza dei conflitti interni ed esterni, per le tradizioni politiche e per le stesse innegabili caratteristiche autoritarie del bolscevismo (autoritarismo che Lenin superò nella pratica, ma non sufficientemente nella teoria). E potrei concludere che non era però necessaria una soluzione autoritaria all’interno del partito, visto che Lenin era riuscito a garantire la più ampia discussione anche in momenti assai più critici di quelli vissuti da Stalin. Ma riconosco di non poter rispondere seriamente a questa domanda, e penso anche che ad essa, come a tutte quelle che riguardano l’involuzione del socialismo reale si potrà iniziare a rispondere seriamente solo quando un nuovo movimento socialista sia cresciuto abbastanza, in intelligenze e risorse, per poter riprendere lo studio sistematico delle esperienze del passato. Un tale studio dovrebbe essere guidato dal un orientamento dialettico. Nella discussione su Stalin, e sul socialismo reale, la fa da padrona la sterile fissità delle opposizioni, mentre dovremmo essere in grado di comprendere che i rapporti più importanti sono vere e proprie contraddizioni, dove l’un polo può esistere ed essere definito solo nella relazione che lo oppone all’altro, e dove nessuno dei due poli può essere definitivamente assorbito nell’altro. Partito e movimento, democrazia e centralismo, offensiva e difensiva, nazione ed internazionalismo, piano e mercato sono appunto i poli di altrettante ineliminabili contraddizioni. E la soluzione di tali contraddizioni non consiste nella sparizione dell’uno dei termini o nella conciliazione degli opposti, ma nel trovare per ciascuna di esse, nella concretezza della prassi, una forma di svolgimento a noi favorevole. Ciò vale soprattutto per la contraddizione che, quando si parla di stalinismo, è forse più la più “pesante”, ossia quella fra stato e società. Anche e soprattutto in questo caso non si può abolire uno dei due termini, e quindi non si può abolire lo stato. Si può abolirne il carattere di classe, farlo gestire da personale proveniente dai ceti subalterni, rendere obbligatoria per i funzionari la consultazione continua dei gruppi sociali, si può e si deve porre di fronte ad esso il contraltare delle istituzioni popolari autonome. Si può fare tutto ciò, ma non si può eliminare la funzione dello stato come ente distinto dalla società, agente attraverso norme generali garantite in ultima istanza da un potere coercitivo. Dobbiamo riconoscerlo con pacatezza: la teoria dell’estinzione dello stato, nella sua forma più estrema, è sbagliata; e riconoscerlo non significa affatto ammainare la bandiera rossa, anzi: significa lavorare per una più forte democrazia popolare. Infatti, anche se eliminassimo formalmente i centri di potere statale, le esigenze di organizzazione sociale e l’emergere di nuove concentrazioni di potere tecnologico-finanziario sempre possibili anche all’interno del lavoro cooperativo, creerebbero centri di forza tanto più potenti quanto più occulti. Meglio dunque una sovranità palese e contestabile che una occulta e inattingibile. Si risponde: fondiamo lo stato sui soviet. Ma che succede se il soviet A diviene più ricco o potente del soviet B e lo prevarica? Chi ristabilirà l’eguaglianza se non un ente terzo dotato di potere coercitivo? E soprattutto, cosa che non mi stancherò mai di ripetere, chi svolgerà la funzione essenziale di contestare lo stato dall’esterno e di preparare eventualmente gruppi alternativi di funzionari, chi lo farà se e quando i soviet saranno divenuti tutt’uno con lo stato, saranno lo stato? Infatti, se dico che lo stato è inevitabile, dico anche che è inevitabile la tendenza alla degenerazione autoritaria o autoreferenziale dello stato; e quindi aggiungo immediatamente che nel momento in cui costruiamo un nuovo stato dobbiamo da subito creare dei contrappesi: le garanzie del diritto, l’attività di organismi sociali autonomi, la separazione del partito dagli apparati di stato. Se invece penso che lo stato o il semi-stato socialista siano in linea di principio esenti da tare interne in quanto espressione immediata del popolo o della moltitudine, mi consegno disarmato alla riproduzione, su scala pericolosamente allargata, dei poteri indiscutibili ed informali che inevitabilmente lievitano nelle situazioni di formale assenza di potere. Qui si vede come le posizioni consiliariste, democraticiste, anarchiche possono giungere anch’esse ad esiti del tutto opposti a quelli sbandierati – tragedia che quindi non colpisce soltanto il bolscevismo. E possono giungervi non soltanto perché il disordine sociale generato dall’applicazione integrale delle loro tesi provocherebbe una inevitabile reazione autoritaria. Ma perché esse contengono un forte elemento di autoritarismo implicito in quanto condividono con lo stalinismo una idea monistica del potere. Stalin assorbe la società nel partito-stato. I suoi avversari fanno l’opposto. Ma in questo come in altri casi bisogna, al contrario, mantenere la tensione fra i due poli. E, come diceva Mao – forse il più importante critico dello stalinismo – dividere l’uno in due.
1960 – 1980
Se la prima ondata causata dal terremoto del ’17 si è infranta sugli scogli dell’Europa centrale, se la seconda (1935-1949) ha rotto quegli argini, guadagnando in ampiezza ma diminuendo in intensità (salvo che in Cina e Jugoslavia), e quindi facendo sedimentare le Costituzioni democratico-sociali europee, la terza ondata, iniziata nella seconda metà degli anni ’60, pur non essendo paragonabile alle prime due quanto ad intensità e ferocia delle vittorie e delle sconfitte, e pur rappresentando, a ben vedere, soltanto una mezza rivoluzione, ha dato comunque la stura ad una controrivoluzione in piena regola. Vien da dire che anche se solo una parte minoritaria degli operai e degli intellettuali che occupavano fabbriche, scuole, piazze in quegli anni di libertà era consapevole di aver alzato la stessa bandiera del ’17, la totalità della classe opposta avrebbe invece compreso molto in fretta che la posta in gioco del conflitto era in fondo la stessa. La forza dei movimenti sociali di quegli anni era dovuta agli effetti di quelle Costituzioni che a loro volta erano debitrici di Lenin e di Stalin. L’americanismo fondato su alti salari ed alti consumi era una tendenza interna del capitale, ma la sua diffusione e la coloritura socialista che esso assunse in Europa molto devono alla concreta esistenza di un minaccioso blocco comunista. La piena occupazione consentiva di porre nuovamente non solo il problema del salario, ma anche quello del controllo della produzione. Lo stridore fra le permanenti diseguaglianze e l’aumento della ricchezza materiale, reso più evidente dal contrasto con le promesse costituzionali, allargava il conflitto e faceva convergere strati sociali diversi. La lotta esplose, e durò a lungo. Ma nonostante ciò non fu una rivoluzione. I suoi punti alti furono i consigli operai ed alcuni momenti di alleanza fra diverse classi popolari (in particolare fra operai e studenti di origine piccolo borghese). Nonché alcune riforme che accentuavano il potere dello stato rispetto a quello della singola impresa privata. Ma non fu una rivoluzione perché mancò l’aspetto della crisi generale del sistema, perché l’intervento pubblico seppe lenire gli effetti della crisi economica, perché partiti e sindacati operai erano già da tempo divenuti parte integrante dell’apparato di stato (intendendo lo stato nel senso ampio, “gramsciano” del termine). Il problema ben compreso dai capitalisti, però, era che la forza del movimento dei lavoratori non derivava da vicende occasionali ma dalla posizione strutturale del lavoro in un quadro di piena occupazione, dall’ideologia dell’eguaglianza che a questo quadro era connessa, dalla convergenza dell’intellettualità su questa stessa ideologia, e infine dal ruolo diretto assunto nella gestione dell’economia da uno stato che, almeno in linea di principio, avrebbe potuto davvero cadere in mani pericolose. Ripeto: le lotte di quegli anni erano il risultato della lunga durata della Rivoluzione. Per contrastarle ci volle quindi una controrivoluzione che fu diversa dalle altre solo per il tasso minore di violenza ed il tasso maggiore di ristrutturazione economica ed ideologica. Una ristrutturazione che ha il suo apice nella globalizzazione: incalzato dal lavoro, il capitale si libera dai confini degli stati nazionali e dai pericolosi progetti semisocialisti delle burocrazie ed inizia la fantastica avventura della finanziarizzazione. Disoccupazione e delocalizzazione frammentano la classe operaia, aumentano le divisioni tra skilled e no, i ceti prima attratti dalla classe operaia vengono ora nuovamente sedotti dal capitale, che opera una magistrale sussunzione degli aspetti individualistici e libertari del’68 a scapito di quelli egualitari. Proprio quando la rivoluzione sembrava essersi impadronita delle dinamiche sociali più profonde ed essere pronta a riemergere direttamente, il neoliberismo e la contemporanea sconfitta del socialismo la rendono remota come non mai. Nulla testimonia di più di questo fatto quanto la spensierata spregiudicatezza con la quale oggi, quando si vuole spacciare una nuova merce, si può parlare di rivoluzione senza temere che la parola assuma altri significati.
2017
E’ finita la Rivoluzione? Apparentemente sì. Apparentemente la globalizzazione ha dissolto tutti gli effetti derivanti dalla lunga durata della rottura bolscevica. E soprattutto ha chiuso lo spazio di ogni rivoluzione, o, meglio, lo ha aperto in modo tale da far divenire inattingibile quel potere che il ’17 aveva spezzato. Gli effetti (e con essi la prospettiva) della rivoluzione sembrano quindi morti. Ma a ben vedere tutto ciò riguarda l’ideologia e non la realtà della globalizzazione. E non mi riferisco soltanto al fatto, importantissimo, che il sogno unipolare dei Bush e di Toni Negri è da tempo finito, infranto da due paesi che in forza della rivoluzione si sono dati un capitalismo di stato che collide col capitalismo liberista e che in tal modo può aprire spazi a chi deve allontanarsi dal blocco occidentale. Mi riferisco a qualcosa di ancor più immediato e tangibile. Mi riferisco proprio a noi, perché si sta ricostituendo lo spazio della nostra azione, e perché questa azione deve di nuovo urtare contro lo sviluppo del capitalismo europeo. La globalizzazione divora sé stessa: i suoi squilibri riproducono l’esigenza di una politica nazionale e con questo riaprono la possibilità di un intervento dei comunisti su un potere localizzato. Già nella semiperiferia latinoamericana si sono da tempo aperte possibilità per importanti esperienze orientate al socialismo. Ma nella stessa Europa avanzata si realizzano inedite situazioni di subordinazione di interi paesi, condannati ad essere strangolati dai meccanismi che rendono permanenti gli squilibri interni all’area e dal conseguente indebitamento. La Grecia, che è la nostra culla, è anche la nostra verità: dimostra che anche una semplice richiesta di redistribuzione del reddito non può essere soddisfatta se non scegliendo una via rivoluzionaria, che è tale perché implica la conquista (e la ricostruzione) delle leve di comando, il mutamento del personale di governo e del suo rapporto con le classi subalterne, il rilancio dello stato come centro di orientamento dell’economia, la ricollocazione internazionale del paese. Via rivoluzionaria che richiede di trovare ed esplicitare il legame tra autonomia di classe ed indipendenza nazionale, e quindi di ribaltare la strategia di distruzione delle nazioni, tipica dell’attuale forma dell’imperialismo. Tutto ciò (che per alcuni palati difficili è ancora “troppo poco”, ma per gli imperialisti è comunque inaccettabile) non è altro che il farsi di nuovo tangibile del problema dello stato. E il ’17 altro non è, in fondo, che la dimostrazione che per le classi subalterne è necessario ed è possibile conquistare e trasformare il potere di stato in funzione dello sviluppo di un progetto socialista. Forme, tempi, modi del processo sono indiscutibilmente mutati dal ’17; e la sconfitta finale del socialismo di stato pesa ancora sulle nostre spalle. Ma nessun movimento popolare attende, per svilupparsi, che qualcuno abbia elaborato il lutto di una sconfitta: se deve nascere nasce comunque. Ed ogni volta che verrà posto concretamente il problema dello stato, e quindi ogni volta che una rivoluzione anticapitalista cercherà la sua strada, è al ’17 che si dovrà fare riferimento.
i Luciano Canfora, L’uso politico dei paradigmi storici, Laterza, Bari 2010, p. 59.
ii Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 1997, p. 45. Nel volume, ottimamente curato da Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, si trovano, tra l’altro, anche i materiali preparatori delle Tesi, da cui traggo questa limpida osservazione: “Marx dice che le rivoluzioni sono le locomotive della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno.” (p.101).
iii Anatolij Lunacarskij, Profili di rivoluzionari, De Donato, Bari, 1968, pp. 47 e 65.
iv Isaac Deutscher, I dilemmi morali di Lenin, in Ironie della storia, Longanesi, Milano, 1972, pp.133-145.
v György Lukács, Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario, Einaudi, Torino, 1970, p. 127.
vi Pierre Broué, Rivoluzione in Germania 1917-1923, Einaudi, Torino, 1977; F.L. Carsten, La rivoluzione nell’Europa centrale 1918/1919, Feltrinelli, Milano, 1978.
vii Pierre Broué, op.cit., p.101.
viii Ibidem, p. 756. Cfr. anche Enzo Collotti, Socialdemocratici e spartachisti: conquista o rottura dello stato borghese, in AA.VV., Dopo l’ottobre. La questione del governo: il movimento operaio tra riformismo e rivoluzione, Mazzotta, Milano, 1977, p. 40.
ix Un giudizio analogo si trova in Andreina De Clementi, L’Internazionale, il fascismo e Gramsci, in Dopo l’Ottobre, cit., pp. 139-140.
x Per la genesi ed i temi del VII congresso è utile la lettura di Franco De Felice, Fascismo, democrazia, fronte popolare. Il movimento comunista alla svolta del VII Congresso dell’Internazionale, De Donato, Bari, 1973. L’orientamento togliattiano di questo libro può essere bilanciato dai testi di Nicos Poulantzas, Fascismo e dittatura. La terza internazionale di fronte al fascismo, Jaca Book, Milano, 1971 e di Stefano Merli, Fronte antifascista e politica di classe. Socialisti e comunisti in Italia, 1923 – 1939.
xi Questo mi sembra il limite maggiore delle critiche formulate da Arthur Rosenberg, nella sua Storia del bolscevismo, Sansoni, Firenze, 1969, anche se il libro contiene acutissime osservazioni, come quelle relative ai limiti della tattica del fronte unito (p.183). Anche Fernando Claudín, che dello stalinismo è critico in fondo equilibrato, condivide questa sopravvalutazione generale delle potenzialità rivoluzionarie, visto che oltre ad enfatizzare, con molte ragioni, l’esperienza spagnola, vede situazioni analoghe anche nella Francia del governo frontista e nell’Italia resistenziale: si veda il suo La crisi del movimento comunista. Dal Comintern al Cominform, Feltrinelli, Milano, p. 482 e passim. Giudizio senz’altro molto ottimistico nel caso dell’Italia, ma anche nel caso della pur diversissima esperienza francese, come sostenuto da Giorgio Caredda, Il Fronte Popolare in Francia, 1934-1938, Einaudi, Torino, 1977.
xii Jacques Guillermaz, Storia del Partitito comunista cinese 1921/1949, Feltrinelli, Milano, pp. 83 e ss. .
xiii PierreBroué, Émile Témine, La rivoluzione e la guerra di Spagna, Mondadori, Milano, 1980.
xiv Jacques Guillermaz, op. cit., pp. 169 e ss.; Enrica Collotti Pischel, Storia della rivoluzione cinese, Editori Riuniti, Roma, 1972.
xv Franco Sbarberi, I comunisti italiani e lo stato, 1929-1956, Feltrinelli, Milano, 1980.
xvi Ibidem, pp. 229 e ss. . Si veda anche Leonardo Paggi e Massimo D’Angelillo, I comunisti italiani e il riformismo. Un confronto con le socialdemocrazie europee, Einaudi, Torino, 1986, nonché, dello stesso Paggi, Strategie politiche e modelli di società nel rapporto Usa-Europa (1930-1950), in Leonardo Paggi, a cura di, Americanismo e riformismo. La socialdemocrazia europea nell’economia mondiale aperta, Einaudi, Torino, 1989.
xvii Lev Trotskij, La rivoluzione permanente, Einaudi, Torino, 1967, p. 127.

giovedì 30 novembre 2017

La sinistra Subbuteo e la vera partita del paese

Mimmo Porcaro e Ugo Boghetta da socialismo2017


Il Brancaccio è fallito. Meno male. Forse qualcuno la smetterà di tentare di aggregare gli sconfitti usando le stesse parole d’ordine che hanno causato la sconfitta stessa. Forse qualcuno la smetterà di credere che la proposta dell’unità della sinistra sia il sostituto efficace di una vera strategia politica, quando per la maggior parte del popolo italiano “sinistra” significa per lo più delusione e liberismo. Il Brancaccio è fallito e questo, nel piccolo mondo della sinistra radicale, può essere un piccolo evento salutare perché impedisce che tutta quella sinistra si attacchi da subito al carro dei D’Alema e dei Bersani, e si presti perciò a fare la forza di complemento per i vari governi d’emergenza che dovranno garantire l’ “europeismo” del paese, e quindi la sua subordinazione al liberismo. E perché dopo il fallimento qualcuno ha pensato di reagire. Cosicché, dall’assemblea romana di Je so’pazz’, da Rifondazione, dal Partito Comunista, da diverse realtà di base e singoli militanti è emersa l’esigenza di formare una lista popolare per le prossime elezioni. La reazione è comprensibile e positiva, e addirittura, in qualcuno degli interventi in cui si è espressa, è accompagnata da qualche sortita dal linguaggio abituale e da qualche significativo spostamento in direzione anti Ue. Tanto che Eurostop, l’organizzazione di sinistra che con maggior impegno ed efficacia lavora per una rottura dei vincoli europei, ha accettato l’invito a discutere della fattibilità politica e tecnica della lista elettorale.
Ora, noi siamo da sempre sostenitori della necessità di presentare una lista (ed ancor prima un progetto) di lealtà costituzionale e recupero della sovranità in funzione e condizione di una rottura con le politiche neoliberiste, e crediamo che se qualcuno oggi volesse eludere il problema delle elezioni invocando la necessità di partire dal basso, dal “sociale”, indicherebbe una strada sbagliata, perché l’assenza di mobilitazione sociale è oggi in buona misura spiegabile proprio con l’assenza di prospettiva politica. E perché lo stesso lavoro di radicamento di massa richiede un impegno talmente grande (dovendo essere fatto nelle forme del mutualismo, del “partito sociale” e così via) da poter essere gestito soltanto da gruppi politici di una certa forza e di una certa dimensione: forza e dimensione che potrebbero aumentare a seguito di una prima vittoria politica dopo decenni di sconfitte.
Ciononostante crediamo che la proposta di costruire oggi, in funzione delle elezioni di domani, una simile lista, arrivi davvero troppo tardi perché c’è pochissimo tempo e bisogna superare moltissimi ostacoli, che si riassumono semplicemente nella presenza diffusa di un sinistrismo che condannerebbe la lista al famoso Zero Virgola rendendo molto più difficile ogni mossa successiva. Un sinistrismo che consiste nel parlare di democrazia partecipata a chi non ha tempo e risorse per partecipare, di parlare di conflitto a chi non si trova nella posizione per farlo, nel parlare solo di accoglienza e di apertura a chi ha legittimamente paura che il mondo gli sia completamente ostile, nel parlare di classe quando la gran parte dei lavoratori occupati ed organizzati è al momento conservatrice, e la gran parte delle masse del quasi-lavoro si percepisce, se va bene, soltanto come popolo. Un sinistrismo che finirebbe in realtà solo per parlare a se stesso: come sempre. Un sinistrismo che riesce anche ad annacquare il riferimento alla Costituzione insistendo sull’aspetto della sovranità popolare per nascondere quello della sovranità nazionale, che è invece condizione di possibilità del primo. Un sinistrismo, infine che inchioda numerosi e validi militanti all’impotenza perché li costringe a ristagnare in un linguaggio che è una variante estremista del discorso delle élite globaliste: meno stato, niente nazione, poca politica e tanto progresso; nessuna rottura puntuale e localizzata del potere, nessuna riconquista della possibilità della politica nell’unico spazio possibile, quello nazionale. Con questo linguaggio una lista di presunta “vera sinistra” si condannerebbe a dire cose che agli elettori parrebbero uguali a quelle dei D’Alema e dei Fratoianni, solo dette in maniera più incazzosa. Un misto di estremismo verbale e moderatismo nei contenuti che spiega gran parte della triste irrilevanza politica di quest’area.
Ora questo sinistrismo comincia a scricchiolare, qualcuno comincia a parlare a ragion veduta di popolo, qualcuno si decide a fare il passo anti Ue, e tutto ciò, in un’ottica di medio periodo, è da considerarsi assolutamente positivo. Ma la partita oggi si gioca nel breve periodo, che diventa brevissimo se si considera che il lavoro da farsi è soprattutto di carattere culturale, e si riassume nella necessità di accettare pienamente la dimensione nazionale dell’azione (se Mélenchon e Corbyn hanno avuto qualche successo è anche grazie a questa scelta) vedendola non soltanto come una dura necessità ma come un’opportunità. Non è certo con artificiosi e verbosi compromessi sulla questione dell’ ”Unione dei Trattati” che si risolve il problema di cambiare l’impostazione rispetto alle esperienze precedenti: ultima la lista Tsipras. In questo cono d’ombra il programma diventa inevitabilmente la solita lista della spesa a cui manca proprio la condizione sine qua non per attuarla. E non serve a molto risolvere il problema con frasi scarlatte inneggianti ad un vago potere al popolo. Nel mondo degli imperialismi nazionali novecenteschi era giusto essere antinazionali –anche in quell’epoca, però, il discorso mutava quando si trattava di nazioni oppresse. Ma quando, come oggi, l’imperialismo della “triade” occidentale agisce attraverso la distruzione delle nazioni (delle nazioni subalterne, ovviamente); quando il sud d’Europa è posto in una condizione – inedita in Occidente – di dipendenza strutturale e permanente nei confronti del Nord; quando tale dipendenza rende inevitabile la compressione dei salari e del welfare; quando tutto questo accade l’autonomia di classe si lega strettamente all’autonomia nazionale. E la rivendicazione della sovranità nazionale diviene condizione necessaria, pur se insufficiente, sia della ripresa di un efficace conflitto di classe, sia del progresso civile del paese. Ma anche di contrasto al crescere della destre ed alle giravolte del M5S.
La dimensione nazionale della nostra iniziativa deve quindi divenire un nostro tratto distintivo, deve essere valorizzata nella battaglia culturale e nello scontro elettorale. E non soltanto perché questo ci consente di costruire più facilmente una vasta rete di alleanze sociali col pulviscolo delle partite Iva, coi piccoli e medi imprenditori, ecc.. Prima ancora, e soprattutto, c’è il fatto che la stessa unificazione dei lavoratori, data la dispersione sociale e culturale della classe, non può avvenire che attraverso il richiamo all’appartenenza comune ad un paese che è retto da una Costituzione lavorista e tendenzialmente socialista, possibile argine contro il liberismo dell’Unione. Insomma: nei nostri comizi dovremmo mescolare bandiere rosse e bandiere tricolori (e questa è ancora una proposta moderata: guardate i video dei comizi di Mélenchon…). Siamo capaci di farlo, oggi? A nostro parere no. Anzi, il trasformismo di alcuni propone di nascondersi dietro la foglia di fico di Mélenchon e Podemos fingendo di non capire, o non capendo davvero, che la cifra del loro successo è proprio la dimensione nazionale, il patriottismo democratico!
Allora, se non siamo ancora in grado di raggiungere queste consapevolezze, diamo tempo al tempo. Iniziamo già da oggi il lavoro, ma avendo in mente soprattutto la scadenza delle elezioni europee (2019) e considerando che dopo le esose richieste che la Commissione europea ci presenterà a primavera, sarà più facile stracciare gli ultimi residui di europeismo e lavorare per convergenze unitarie. Dunque, si apra subito il confronto, valorizzando al massimo le novità del momento. Ma lo si finalizzi alle elezione europee e, soprattutto, lo si basi su precise direttrici di metodo e di contenuto.
Quanto al metodo deve trattarsi di un confronto a tutto campo e coinvolgere, oltre ai già noti, i compagni della Confederazione di Liberazione Nazionale e l’area nella quale agiscono, la Lista di Popolo di Chiesa ed Ingroia, l’interessante esperienza di Senso Comune, le variegate componenti del sovranismo costituzionale, lo stesso composito movimento di De Magistris. La gran parte di queste forze può e deve convergere in una prospettiva nazional-democratica, e soltanto da questa convergenza può nascere una proposta politico-elettorale credibile: ma è chiaro che più largo è lo spettro delle forze interessate, più lungo è il processo di mediazione.
Quanto ai contenuti, per avere una minima possibilità di successo e per costituire il punto di partenza di una più ampia aggregazione una lista dovrebbe darsi almeno i seguenti punti programmatici:
  1. Dignità del lavoro/ dignità del paese. Il problema del lavoro si risolve soltanto con un programma di piena occupazione sostenuto da un intervento pubblico e da imprese e banche pubbliche (con la retorica dei beni comuni non si crea piena occupazione). Ma un tale programma è incompatibile con la sottomissione del paese ai vincoli dell’Unione europea e nell’Unione monetaria.
  2. Sovranità popolare/sovranità nazionale. Il rafforzamento del settore pubblico rappresenta un importante momento di attuazione della sovranità popolare perché funge da contrappeso al potere dei mercati. Una tale sovranità deve attuarsi anche nei confronti dello stesso settore pubblico, prevedendo forme di intervento diretto delle associazioni popolari nella definizione dei suoi indirizzi e nel controllo del suo funzionamento. Ma la riaffermazione della sovranità popolare è frase vuota se non si coniuga con la riaffermazione della sovranità nazionale, che è il presupposto dell’efficacia delle decisioni popolari, e quindi con la rottura dell’Unione europea.
  3. Rifinanziamento e ripubblicizzazione del welfare. Non è sufficiente superare la scarsità di mezzi a cui il liberismo condanna il welfare pubblico, bisogna anche ridurre tutte le forme di erogazione privata dei servizi sociali e tutte le forme di precarizzazione del lavoro che esse comportano. Anche se tutto ciò urta contro gli interessi materiali di una parte non piccola della sinistra che ha cogestito la privatizzazione scambiandola per socializzazione della sfera pubblica.
  4. Sicurezza. Ebbene sì: sicurezza per tutte e tutti, per bianchi e per neri. E’ un tema vissuto come decisivo dai ceti popolari e dunque deve essere decisivo anche per noi. Non si tratta di “inseguire la destra sul suo terreno”, ma di riprenderci un terreno che deve essere nostro. Sicurezza contro le turbolenze guerreggiate mondiali, sviluppando una politica internazionale di pace. Sicurezza contro la miseria, puntando su lavoro e welfare. Sicurezza contro la criminalità ed il degrado, sia facendola gestire direttamente dagli abitanti dei quartieri attraverso la riconquista e la cura degli spazi pubblici, sia ampliando e riqualificando gli organici delle forze di polizia, utilizzandoli con funzione di mediazione sociale invece che di ordine pubblico.
  5. Regolarizzazione e regolazione dell’immigrazione. Dobbiamo renderci conto che la giusta e necessaria regolarizzazione degli immigrati (fondamentale anche per una positiva gestione del mercato del lavoro) implica una regolazione del flusso dell’immigrazione senza la quale (se, come tutti prevediamo, questo flusso assumerà necessariamente dimensioni sempre crescenti) verranno a mancare le risorse economiche, sociali e politiche per la regolarizzazione stessa. Anche in questo caso non si tratta di inseguire la destra sul suo terreno. Si tratta di dire la verità: nessun paese, tantomeno un paese come il nostro, può pensare di non regolare in alcun modo i flussi. Nessun governo, nemmeno un nostro governo, potrebbe evitare di farlo. Non si tratta di imitare Minniti, si tratta quanto meno di porsi il problema. Parlando solamente di accoglienza perderemmo il contatto con la gran parte della nostra gente, e lo perderemmo per non aver detto cose… che saremmo poi costretti a fare se fossimo al governo. Un vero paradosso che può essere superato con la proposta convinta della coppia regolarizzazione/regolazione.
  6. Nuova collocazione internazionale dell’Italia. Tutto quanto sopra ha un senso ed è possibile soltanto se l’Italia esce dalla propria collocazione euroatlantista e partecipa alla costruzione di un’area di cooperazione economica e di pace (iniziando ad eliminare le atomiche dal proprio territorio) che possa costituire una terza forza nello scontro tra Occidente e Oriente. La rottura con l’Ue deve essere accompagnata da subito con una proposta di nuova alleanza fra gli stati del continente fondata questa volta su un patto politico che espressamente rifiuti una soluzione bellicista e la prosecuzione del mercantilismo che ha accresciuto le diseguaglianze, gli squilibri e la tendenza alla guerra. Rapporti con la Russia, la Cina e col complesso dei Brics devono divenire asse normale dello sviluppo del paese. Così è, ovviamente, per il ruolo nel Mediterraneo. L’obiettivo non può essere tanto, o immediatamente, quello della collaborazione con stati orientati al socialismo, quanto quello della collaborazione con stati che intendano sottoporre a controllo politico i movimenti del capitale e intendano accettare una regolazione degli scambi che non si traduca nella deflazione competitiva a danno dell’occupazione e dei salari.
Siamo sicuri che intorno a questo asse si possa costruire non soltanto una lista, ma, progressivamente, quella vera e propria coalizione costituzionale di cui questo paese ha bisogno (e che potrebbe anche essere lo spazio migliore per far crescere una autonoma presenza comunista). Siamo sicuri che dicendo queste verità si possa ottenere un buon consenso, quantomeno il consenso necessario a porsi ulteriori obiettivi di crescita politica. Così come siamo sicuri che la ripetizione del nostro solito frasario umilierebbe le nostre migliori idee e ci condannerebbe ad arrestare sul nascere un cammino che potrebbe invece portarci molto lontano. Servirebbe solo a regolare i conti nel nostro piccolo cortile, quando il campo della nostra azione potrebbe e dovrebbe essere molto più vasto. Sarebbe come restare a casa a giocare a Subbuteo fra amici quando si potrebbe giocare una partita vera.

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...