domenica 30 ottobre 2016

Viaggio ad Aleppo - La verità Nascosta dalla Propaganda NATO

Viaggio ad Aleppo – Parte Prima: la Verità Nascosta Dietro la Propaganda NATO

di Vanessa Beeley (da MintPress News)
20 settembre 2016
Traduzione per Doppiocieco di Domenico D'Amico

Il popolo siriano soffre a causa dei “ribelli moderati” e delle “forze di opposizione” appoggiate dagli Stati Uniti, dai membri della NATO e dai loro alleati tra gli stati del Golfo, nonché da Israele. Eppure la sua sofferenza viene quasi del tutto ignorata dai mass media, a meno che non favorisca l'agenda imposta dal Dipartimento di Stato.

Attraversando Khanaser, al-Safira, e la città industriale di Sheikh Najjar, lungo il percorso per Aleppo. (Foto di Vanessa Beeley)

Aleppo, Siria – Per quelli la cui percezione delle condizioni di questa nazione dilaniata dalla guerra è incanalata dalla visione dei grandi media, Aleppo è diventata sinonimo di distruzione e di “violenza di stato”.
I mezzi di comunicazione schierati con la NATO mantengono un controllo stretto sull'informazione proveniente da questa città assediata, assicurandosi che qualunque cosa trapeli sia preconfezionata per adattarsi alle esigenze del Dipartimento di Stato e delle richieste di un cambio di regime. La macchina della propaganda sforna storie già sentite di armi chimiche, assedio, gente alla fame e civili obbiettivo di bombardamenti, tutto ciò attribuito al governo siriano e al suo esercito, con scarse variazioni sul tema.
Lo scopo di questo servizio fotografico e del mio viaggio ad Aleppo del 14 agosto era di scoprire in prima persona, da giornalista occidentale, la verità dietro la narrazione dominante di Stati Uniti e NATO riguardo la Siria.

sabato 29 ottobre 2016

Il tradimento della sinistra

di Sergio Cesaratto da Micromega

Il volume di Aldo Barba e Massimo Pivetti è di gran lunga la più importante provocazione intellettuale alla sinistra degli ultimi anni. Pivetti, il più senior della coppia e ben noto economista eterodosso (con fondamentali contributi di analisi economica), non è certo nuovo a queste provocazioni, tanto da meritarsi nel lontano 1976 l’appellativo di “simbionese” (più o meno sinonimo di “terrorista”) da parte di Giancarlo Pajetta. La sinistra avrà tre possibilità di fronte a questo libro: ignorarlo del tutto; criticarlo sulla base degli aspetti più “coloriti” del volume - quelli in cui gli autori s’indignano per certe posizioni della sinistra antagonista; discuterlo a fondo.

E’ facile pronosticare che gran parte della sinistra italiana, troppo intellettualmente pigra o troppo radical-chic per entrare seriamente nel merito, sceglierà le prime due strade (ah, sono solo aridi economisti se non peggio). Ma il volume è ora lì come un macigno a pesare su una sinistra che ha perso, in Italia ma non solo, ogni reale contatto con le classi che rappresentavano un tempo la propria ragione sociale. Una sinistra che non solo ha perduto questo contatto, ma che è ormai da tempo considerata dai ceti popolari come propria nemica. Raccontano gli autori che pare che François Hollande in privato si riferisca ai ceti popolari come agli “sdentati”. Siamo anche convinti che, tuttavia, il volume rappresenterà occasione di dibattito e un randello da usare in ogni occorrenza per quel che resta di una sinistra intellettualmente solida e che delle ragioni di ampi strati della popolazione fa la propria ragion d’essere.
La tesi

La tesi centrale del libro è così riassumibile: gli anni gloriosi del capitalismo (1949-1978) videro la centralità degli Stati nazionali nel perseguire politiche di pieno impiego e di sostegno della domanda aggregata attraverso elevati salari reali diretti e indiretti (stato sociale), godendo di significativi margini di autonomia nella conduzione delle proprie politiche economiche (nei soli Stati Uniti la spesa militare sostituì in parte il sostegno al welfare state). Questi margini si esplicavano nel controllo dei movimenti di capitale e di merci, ma anche dei flussi migratori. La sinistra non ebbe una parte preminente nel disegno di questo modello, anche se talvolta lo gestì. Ruolo centrale ebbe piuttosto la risposta che il capitalismo fu costretto ad avanzare alla sfida del socialismo reale. Col successivo indebolimento di questa sfida, il capitalismo liberista riprese vigore. La sinistra, a quel punto, non solo si mostrò nel complesso incapace di rispondere, ma si incaricò di gestire il progressivo smantellamento delle istituzioni e degli avanzamenti conseguiti negli anni gloriosi.

L’ala più anarcoide e anti-statuale della sinistra, frutto dell’anti-autoritarismo studentesco del 1968, prevalse su un’ispirazione più statalista – operazione facilitata dal fatto che in fondo le istituzioni degli anni gloriosi non furono un frutto di un’elaborazione della sinistra, lo statalismo di sinistra essendo più collegato all’esperienza sovietica in discredito presso la sinistra anti-autoritaria.

Centrale nella capitolazione della sinistra al neo-liberismo fu l’episodio della Presidenza Mitterrand. Eletto nel 1981, e dotato di una grande maggioranza parlamentare, Mitterrand cominciò a eseguire il programma delle sinistre che comunisti e socialisti avevano elaborato sin dal 1972. Questo era un programma molto avanzato di nazionalizzazioni e misure redistributive, oltre che di riduzione dell’orario di lavoro. Le nazionalizzazioni di banche e imprese dovevano essere funzionali a una politica industriale volta a rafforzare l’apparato produttivo allo scopo di ridurre la dipendenza del paese dalle importazioni dall’estero, e rendere perciò possibili politiche espansive interne senza incorrere nel vincolo della bilancia dei pagamenti.

Barba e Pivetti ritengono che già nella preparazione del programma la sinistra compì l’errore esiziale di trascurare l’impellenza del vincolo estero alla crescita tenuto conto sia di lentezza degli effetti della politica industriale, che del mutato clima internazionale segnato dall’avvento delle politiche deflazionistiche di Reagan e Thatcher. Né la sinistra francese fece tesoro del dibattito nel Labour inglese su come affrontare il vincolo esterno e di come l’accettazione supina di quest’ultimo avesse portato il governo laburista a misure deflazionistiche impopolari e alla successiva storica sconfitta del 1979. Invece, dal 1983 prevalsero nel Partito Socialista francese gli esponenti più neoliberisti alla Rocard e soprattutto alla Delors che si incaricarono di disegnare la nuova Europa cosmopolita e anti-statalista come nuovo spazio entro cui la “sinistra” si doveva muovere. L’intellighenzia francese più à la page assecondò l’operazione, sin dalla riscoperta da parte di Michel Foucault delle virtù dell’ordoliberismo.

Questo complesso ragionamento si dipana su sette capitoli, gli ultimi due dei quali dedicati rispettivamente ai comunisti italiani e alla cosiddetta sinistra radicale o antagonista, come la chiamano gli autori.
Il ragionamento

I primi due capitoli del volume sono dedicati al progressivo smantellamento delle istituzioni statuali che avevano assicurato margini di indipendenza delle politiche economiche nazionali, in particolare il controllo dei movimenti di capitale, segnando così il passaggio dagli “anni gloriosi” a quelli “pietosi”: “La liberalizzazione valutaria fu dunque in Europa la madre di tutte le riforme liberiste, in quanto minò alla base la capacità dello Stato di esprimere un indirizzo di politica economica autonomo, sia al suo esterno (ossia nei confronti degli altri Stati), che al suo interno (ossia nei confronti degli interessi dominanti).” (p. 33; se non altrimenti specificato, i riferimenti di pagina sono al volume qui recensito).

La verve polemica del lavoro entra nel vivo nel capitolo 3 in cui viene illustrata l’esperienza del governo Mitterrand. Le realizzazioni sociali e le nazionalizzazioni attuate nel 1981-82 furono invero significative, ma l’esperienza incontrò presto il vincolo dei conti con l’estero, portati in rosso dalle politiche di sostegno della domanda interna conseguenti all’aumento dei salari e della spesa sociale. A quel punto, sostengono gli autori, si sarebbe dovuto mostrare adeguato coraggio politico:

Nel breve-medio periodo … l’allentamento dei vincoli di bilancia dei pagamenti alla realizzazione del programma della sinistra avrebbe richiesto il ricorso a restrizioni quantitative delle importazioni e restrizioni delle esportazioni di capitali, le une e le altre tanto più estese e severe quanto maggiormente deflazionistico-recessivo si fosse rivelato l’orientamento della politica economica perseguita dai principali partner della Francia. Il fatto è, però, che la coalizione di sinistra era ben lungi dall’essere unanime al suo interno circa il ruolo delle nazionalizzazioni, e, più in generale, circa la gestione del vincolo esterno.” (p. 97)

Gli autori non discutono della possibilità di svalutare il tasso di cambio a cui il governo francese apparentemente rinunciò. Il mancato approfondimento delle ragioni di questa scelta fa trasparire lo scetticismo degli autori verso questo strumento, convinti dell’importanza di riuscire a preservare il valore esterno della moneta nell’ambito del perseguimento di politiche di pieno impiego. E’ quella del sostegno di cambi fissi una posizione tradizionalmente condivisa a sinistra, sia per gli effetti negativi delle svalutazioni sui salari reali, che per la connessa possibilità di effetti recessivi, laddove la caduta del potere d’acquisto dei lavoratori abbia effetti negativi sulla domanda interna.

Affidare tuttavia alla fissità del tasso di cambio un primario ruolo nello stabilizzare la distribuzione del reddito può avere controindicazioni, se la perdita di competitività dovuta a un tasso di cambio reale forte incide sulla bilancia commerciale e da ultimo, attraverso la necessità di contenere la domanda interna, su occupazione e salari reali diretti e indiretti. Inoltre, l’esperienza storica suggerisce che sistemi di cambio fissi sono volti a contenere il conflitto distributivo – è l’esperienza italiana con lo SME e con l’euro, mentre negli anni settanta la politica del cambio accomodava il conflitto.

Ciò detto, le forme di protezionismo proposte dagli autori fanno parte del bagaglio di strumenti noto agli economisti e sono solo superficialmente avverse al commercio internazionale. Anzi, combattendo la deflazione come modalità di aggiustamento dei conti nei paesi deficitari, o come strumento del mercantilismo economico per i paesi in avanzo, il protezionismo favorisce il mantenimento del commercio internazionale almeno sui livelli raggiunti. Gli eredi del perbenismo economico del PCI (che certamente ancora allignano nella sinistra PD) non mancheranno di attaccare il volume su questo. Ma basti qui ricordare che a dar man forte agli autori vi sono le esplicite prese di posizione di Federico Caffè che introducendo un famoso studio sulle politiche di pieno impiego steso ad Oxford nel 1944 con al centro la figura di Michael Kalecki, scriveva:

non può escludersi che, tra le concause della diffusione dell’odio che rattrista i tempi in cui viviamo, non rientri l’aver, con ingiustificato ottimismo alimentato anche illusorie forme di collaborazione internazionale, trascurato a lungo il messaggio essenziale di questa raccolta di saggi: ” (Caffè 1979).

Comunque sia, nel 1982-83 il governo francese operò una svolta rigorista senza apparenti opposizioni, neppure dal Pcf, e nel 1986 la destra tornò al potere. Il j’accuse degli autori è netto:
“Si può in definitiva affermare che la svolta rigorista del 1982-1983 non fu imposta a Mitterrand e al governo Mauroy né dall’esterno della coalizione di sinistra né dall’esterno della Francia. Si trattò di una scelta in senso liberista e filo-capitalista autonomamente compiuta in piena coscienza dalla maggioranza della sinistra francese – una scelta gradualmente maturata nel corso del precedente quindicennio, lasciata a covare sotto la cenere in vista delle contese elettorali del 1981 e che a partire dal 1983 non fu mai più abbandonata.” (p. 102)

La cenere che covava era, secondo gli autori, principalmente rappresentata da Jacques Delors, ispiratore e artefice della svolta “liberista e filo-capitalista” (ma altro eroe della sinistra che lo ritiene keynesiano). Il disegno di Delors era che:

la libertà di circolazione dei capitali in Europa sarebbe stata il primo indispensabile passo di un percorso che avrebbe portato all’unione monetaria; più in generale, la libera circolazione internazionale dei capitali, proprio perché perseguita con determinazione da un Paese ad essa tradizionalmente ostile come la Francia, avrebbe contribuito a diffondere dappertutto la convinzione che il contesto nazionale non era più quello rilevante per la politica economica, che il tempo delle soluzioni nazionali ai problemi economici era ormai tramontato.” (p. 104).

Insomma:

L’unificazione politica del continente … avrebbe alla fine compensato le singole nazioni della perdita della loro sovranità monetaria, fiscale, eccetera.” (pp. 105-6)
Le due sinistre

In verità, sostengono gli autori, a cavallo fra gli anni sessanta e settanta si delineano in Francia due sinistre: quella operaia, “statalista e sovranista” (Pcf e la sinistra Ps rappresentata dal Ceres di Chevènenment) e quella studentesca “dell’insofferenza verso ogni forma di autorità e di potere, dell’individualismo anarcoide, dell’autogestionismo antistatalista” (e dell’anti-sovietismo) (pp. 110-11). La prima sinistra riuscì effettivamente a influenzare la stesura del programma comune mentre la seconda si tenne “in disparte, coltivando però con cura i suoi rapporti con l’intellighenzia del Paese” (p. 111).

La seconda sinistra fu così pronta a balzar fuori alle prime difficoltà economiche del programma comune, proponendo un progetto opposto basato sullo svuotamento dello Stato-nazionale sostituito col progetto europeo, un esito “sostanzialmente autoritario” (p. 108). Del resto, sferzano gli autori citando un famoso passaggio di Gramsci, i figli della borghesia si fanno talvolta capi delle classi lavoratrici, pronti però a tornare all’ovile alle prime difficoltà - ma non senza aver lasciato macerie intellettuali nel movimento operaio sembrano far capire gli autori. L’abbandono della tradizione interventista francese e la riscoperta del mercato diventa caratteristica dell’intellighenzia di sinistra francese, da Claude Lévi-Strauss, a Foucault, Deridda e Lacan. Foucault il più influente, il quale conosce poco Marx e certamente ignora Keynes o Sraffa, viene però affascinato dall’ordo-liberismo.

L’accusa che gli autori muovono alla sinistra, con cui si apre il capitolo 4 è di non aver subito il cambiamento politico, ma di averlo “deciso e gestito” (p. 125). Sul punto più dolente, quello dell’immigrazione, essi sono molto espliciti: “l’ostilità del lavoro dipendente indigeno all’immigrazione, la dimensione più immediatamente e “fisicamente” percepita della mondializzazione, ha di fatto determinato il suo distacco definitivo dalla cosiddetta sinistra del continente.” (p. 137).

Barba e Pivetti ricordano l’attacco mediatico mosso al Pcf nel 1981, quando quel partito cercò di evitare questo distacco - col risultato che la classe operaia francese fece poi armi e bagagli spostandosi stabilmente nel Front National. Naturalmente gli autori non mancano di denunciare le devastazioni del Washington Consensus come una delle cause dell’esplosione dei flussi migratori - a cui si sono aggiunte le aggressioni militari ai regimi medio-orientali. E al fondo, chiosiamo, v’è sempre l’intento di distruggere gli Stati nazionali e la possibilità di vie nazionali allo sviluppo, cosa che può richiedere nei contesti di società instabili e culturalmente disomogenee la presenza di regimi autoritari. Con lucidità gli autori riassumono quello che finì per unire, nelle sue diverse sfaccettature, la gauche plurielle, come si pavoneggiava a definirla da noi il leader frivolo:

Nel corso dell’ultimo trentennio, non solo per la sinistra modernista ma anche per la sinistra cosiddetta antagonista la difesa della sovranità nazionale in campo economico, più in generale della sovranità popolare, ha cessato di essere bussola di azione politica. Essa rigetta con orgoglio ogni forma di nazionalismo. La sua ideologia è ormai essenzialmente costituita da una miscela di antirazzismo e multiculturalismo, una sorta di cosmopolitismo intriso di marxismo volgare, visto cioè come un aspetto ineluttabile di quella forza continuamente sovvertitrice del capitalismo che sarebbe reazionario oltre che insensato cercare di contrastare ed alla quale conviene invece adattarsi come ad un’”. (p. 142).

Il pericolo che gli autori paventano è che la sostanziale paralisi della sinistra di fronte alla questione immigrazione, questione drammatica e lacerante, lasci il campo aperto a soluzioni di stampo fascista, che molti ritengono inevitabili (tralasciando gli antagonisti che ritengono di poter cavalcare la tigre, l’”opportunità” di cui parla il volume). In ogni caso, il mio invito al lettore è di dare il giusto peso al tema dell’immigrazione, per non farlo diventare un ulteriore elemento di lacerazione e impotenza a sinistra. Il tema chiave è lo Stato, la riappropriazione della libertà economica dei popoli. Con politiche nazionali diverse anche il problema dell’immigrazione potrebbe essere affrontato con maggiori strumenti e risorse, da noi e nei paesi di provenienza.
I sinistrati

Mentre il capito 5 descrive i mutamenti (peggiorativi) occorsi nel mercato del lavoro e nello stato sociale e i processi di privatizzazione dell’industria pubblica, la verve polemica del volume si riaccende negli ultimi due capitoli dedicati, rispettivamente al PCI e alla sinistra radicale. Quello che ne esce è il tremendo vuoto culturale della sinistra italiana accompagnato dalla condivisione da parte del Pci delle scelte liberiste.

A rileggere i passi degli esponenti comunisti nel corso degli anni settanta, pur concedendo loro l’attenuante di circostanze come la strategia della tensione e il golpe cileno, o lo shock petrolifero, si è colti da un fremito di indignazione. Il leitmotive dei vari Peggio, Lama, Napolitano, Berlinguer, Trentin e compagnia cantando è uno e uno solo: il riequilibrio dei conti con l’estero deve ricadere sulle spalle dei lavoratori: “Ora bisogna battersi per i sacrifici!” dichiara nel 1976 un presunto eroe della sinistra, Bruno Trentin, che a un famoso convegno del Cespe (una sorta di ufficio studi economico del Pci), in maniera “surreale” chiosano gli autori, precisa che la contropartita consisterà “nella possibilità offerta alla classe operaia di partecipare alla gestione dei suoi sacrifici”. Cornuti e mazziati, insomma.

Il sentimento che suscitano quei passi è che costoro fossero oggettivi avversari del popolo, altro che loro rappresentanti. Da notare come a quel convegno Lama attaccò per nome Massimo Pivetti, reo di aver proposto la strada alternativa dei controlli – strada difesa invece, l’anno successivo, da Federico Caffè (1977). La Troika era peraltro rappresentata in quegli anni dall’economista, naturalizzato americano, Franco Modigliani che nella sua visita annuale in Italia non mancava di impartire lezioni di liberismo a destra e a manca, presenziando come star al convegno del Cespe. Gli altri due dissenzienti a quel convegno, accanto a Pivetti, furono Domenico Mario Nuti e Bob Rowthorn. Nuti ha da poco firmato con noi più “giovani” la risposta a Lunghini su il manifesto.

Il Pci e i sindacati mai più si ripresero da tale distacco dalle masse popolari, concludono gli autori, e il Pci era già finito ben dieci anni prima della Bolognina. (Forse uno scatto di reni si ebbe sull’adesione allo SME nel 1979, ma si trattò di un gesto presto dimenticato).

Ma cosa ci fu dietro tanta pochezza del Pci? L’unico punto di riferimento solido del togliattismo, sostengono gli autori, era l’esperienza sovietica che aveva assicurato in un paese retrogrado, insieme alla piena occupazione, “un alloggio caldo … una buona istruzione… una distribuzione molto ugualitaria …una marcata parità effettiva tra uomini e donne” (p. 201).

Il riferimento al socialismo reale fu frettolosamente cancellato da Berlinguer, il quale fu invece in continuità con il secondo aspetto del togliattismo, la subalternità alla cultura economica laico-liberale. L’intellighenzia organica del Pci brillò, infatti, per l’assenza della principale scienza sociale, rispetto a discipline più umanistiche, un partito crociano verrebbe da dire. L’unica eccezione fu il Piano del lavoro presentato dalla CGIL nel 1951, di chiara impronta keynesiana. Le sole parole di apprezzamento nel libro per un esponente comunista sono infatti per Di Vittorio.

Fu quella una proposta riformista in linea con quanto accadeva al di sopra delle Alpi, che rimase però isolata, mentre la cultura del Pci restò profondamente succube di idee mutuate da Einaudi o dalla borghesia laico-liberale, come l’ossessione della lotta ai monopoli (un mantra simile a quello odierno della lotta alla corruzione). Del resto Togliatti si disinteressava di economia e già nell’elaborazione gramsciana la cultura economica appare come un dente dolente dei comunisti italiani – nonostante qualche sforzo di Sraffa di indirizzare Gramsci su sentieri più solidi. Croce ed Einaudi (o Ernesto Rossi e più tardi Spinelli) furono le stelle polari del Pci, più che Marx o Keynes o Sraffa.

Al riguardo mi sembra doveroso notare come il volume è forse ingiusto nei confronti delle socialdemocrazie nordiche che non subirono passivamente l’esperienza degli anni gloriosi in quanto risposta capitalistica alla sfida sovietica, ma la disegnarono anche sulla base di una propria elaborazione teorica. Con Myrdal, questa muoveva dalla negazione di una distribuzione “di equilibrio” (o naturale) del reddito e dunque di “interessi nazionali” che sovrastassero quelli di classe – “interessi” che il Pci considerava invece sovversivo toccare - promuovendo il controllo dello Stato nazionale da parte dei partiti operai, con uno spostamento stabile delle quote distributive e la creazione di uno spazio “demercificato” coincidente con lo stato sociale. (Fu proprio Myrdal a proporre la medaglia speciale della Corte di Svezia per l’economia a Sraffa, onore che questi condivide con Keynes e assimilabile a un genuino premio Nobel).

Della sinistra antagonista Barba e Pivetti denunciano “lo spostamento della sua attenzione dalla sfera dei diritti sociali a quella dei diritti civili” (p. 225). Temi come la decrescita, il femminismo della differenza biologica, il multiculturalismo, i beni comuni (visti in funzione anti-statalista), l’altra economia e altre amenità (fino alla difesa fascista dell’utero in affitto da parte di una macchietta, ex leader di una formazione di sinistra - gli aggettivi sono miei) diventano i temi centrali di questa “sinistra”, a cui nulla perdonano gli autori. In particolare non le perdonano l’istigazione “all’odio verso se stessi”, inteso come odio per la cultura occidentale e il benessere conseguito da milioni di lavoratori. Al fondo v’è l’idea che questi avanzamenti culturali e materiali siano il frutto di uno sfruttamento verso il terzo mondo di cui si deve ora pagare pegno.

E’ quest’ultima una tesi molto diffusa “a sinistra” sui cui gli autori avrebbero potuto spendere qualche parola di più, ci auguriamo lo facciano in successivi interventi. Personalmente credo che non ci si possa colpevolizzare per processi storici di sfruttamento, accaduti nel nord come nel sud del mondo, lasciando demolire ciò che può essere di guida per i mezzogiorno del mondo, ovvero la difesa di politiche pubbliche progressiste e i valori di tolleranza democratica - come è stato almeno in certa misura negli anni cinquanta e sessanta sino a che la furia economica e militare liberista (con al seguito il flagello connivente delle ONG) non si abbattesse su quei paesi distruggendo le vie nazionali e socialiste allo sviluppo.
Il futuro

In questo quadro sconfortante gli autori chiudono con una nota di ottimismo, indicando l’occasione storica offerta alla sinistra dalla diffusa protesta popolare contro banche e finanza, per la difesa del lavoro e dello stato sociale, contro una classe politica asservita agli interessi dei pochi, della riconquista degli spazi nazionali di democrazia e di intervento pubblico, quello che noi abbiamo altrove definito “Polany moment”, mentre solo la parte “più disorientata della gioventù” difende i temi del cosmopolitismo (p. 246). Un Polany moment può avere, com’è noto, anche un connotato di destra, come le vicende della Brexit per esempio suggeriscono.

Come abbiamo detto all’inizio, la sinistra potrà ignorare questo volume, o potrà entrare in polemica solo sui temi più caldi dell’immigrazione o del multiculturalismo, dimostrando in questo precisamente i limiti culturali denunciati nel libro. Potrà invece discutere la tesi centrale del volume: il necessario recupero delle politiche nazionali d’intervento pubblico come asse della sinistra. Ci aspettiamo che qualche grillo saccente contrapponga questa prospettiva alla presunta tradizione internazionalista della sinistra. Non avrebbe capito nulla, naturalmente. Lo spazio delle politiche di sinistra è, nelle circostanze storiche date, lo Stato nazionale, e solo una sinistra che operi in questa direzione potrà essere stimolo per l’emulazione a livello internazionale sì da costruire un internazionalismo dei fatti e non delle parole. Chi ha letto il mio libro (numerosi a quanto pare!) riconoscerà l’influenza che l’insegnamento teorico e politico di Pivetti, accanto a quello di Sraffa e Garegnani, ha avuto sulla mia formazione. Mi piace pensare che i due volumi giochino di squadra nel contribuire a una seria rifondazione della sinistra.
Riferimenti

Aldo Barba, Massimo Pivetti, La scomparsa della sinistra, Reggio Emilia, Imprimatur, 2016.

Federico Caffè, Introduzione a AAVV., L'economia della piena occupazione, a cura di F. Caffè, Torino, Rosenberg e Sellier, 1979

Federico Caffè, E’ consentito discutere di protezionismo economico?, in ID, La solitudine del riformista (a cura di N.Acocella e M.Franzini), Torino, Boringhieri, 1990 (originariamente pubblicato in: L’astrolabio, vol. 15 (12), 1977).

Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia - Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Reggio Emilia, Imprimatur, 2016.

martedì 25 ottobre 2016

UBU RE: Scenari di guerra IV

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venerdì 21 ottobre 2016

Il Diario di Spinoza: Nazionalismo ed empriostupidismo

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mercoledì 19 ottobre 2016

Viva il nazionalismo democratico. Contro l'ideologia dello stato federale europeo

di Enrico Grazzini da Micromega
 

Ebbene sì, lo confesso: sono un convinto nazionalista! La grande maggioranza dei politici e degli intellettuali invoca più Europa per uscire dalla crisi in cui l'Unione Europea è precipitata: chiede una Europa federale perché teme il ritorno dei nazionalismi nel vecchio continente. Per combattere il risorgere degli spettri del nazionalismo molti (soprattutto a sinistra) chiedono più UE e più federalismo. A mio parere la rottura dell'eurozona prima o poi è inevitabile e la UE dell'euro è entrata in coma politico. Occorre allora innanzitutto difendere decisamente l'interesse nazionale. E introdurre anche forme di autonomia monetaria.

La battaglia contro lo sciovinismo e la xenofobia è sacrosanta e la minaccia è purtroppo tanto reale quanto pericolosa. Credo però che siano proprio le politiche liberiste e neo-colonialiste della UE ad alimentare il peggior nazionalismo, a gettare benzina sul fuoco del populismo. E' la feroce e inutile austerità dell'euro che genera, per reazione difensiva, il nazionalismo esasperato. E quindi penso che occorra contrastare apertamente l'Unione Europea, la moneta unica per 19 diversi Paesi, e l'ideologia federalista che legittima la UE e l'eurozona, la sostiene e la promuove.

Il sogno federalista degli Stati Uniti d'Europa è condiviso in Italia da un ampio schieramento, che va dalla Confindustria ai sindacati, da settori del centro-destra al centro-sinistra e alla sinistra: ma è una fantasticheria del tutto irrealistica. Germania e Francia non rinunceranno assolutamente mai (e insisto: proprio mai!!!) alla loro sovranità per condividerla con altri paesi, e non si sobbarcheranno mai i debiti dell'Europa del sud! Inoltre l'Europa federata sarebbe anti-democratica: infatti comporterebbe una centralizzazione estrema del potere statale. La guida sarebbe inevitabilmente tedesca. L'utopia degli Stati Uniti d'Europa è quindi, oltre che fantastica, intrinsecamente autoritaria.

Gli Stati Uniti d'Europa sono un sogno ma, se questo per assurdo si avverasse, diventerebbe un incubo: l'Europa unita sarebbe dominata dalla Germania. Per contrastare questa UE e il suo fanatico programma di attacco ai diritti sociali e alla spesa pubblica, occorre promuovere con forza il nazionalismo democratico, il nazionalismo partecipativo, l'unico realmente rispettoso della sovranità popolare. Infatti la sovranità del popolo non si esercita mai al di fuori delle frontiere territoriali, linguistiche e culturali degli stati nazionali.

Susan Strange, l'economista donna che per prima denunciò il casinò capitalism, aveva già indicato che tutte le strutture sovranazionali nate dai governi (anche quelle più necessarie e utili, come l'ONU) non sono mai realmente al di sopra delle nazioni, ma sono sempre lo schermo dell'egemonia delle nazioni più forti[1]. L'ONU è dominata da Usa, Russia e Cina mentre la UE dalla Germania riunificata, con l'alleanza complice e subalterna della Francia di Francois Hollande.

La Strange aveva già previsto anche l'insostenibilità dell'euro. Una moneta unica – che impone a 19 diversissimi paesi europei un unico tasso di interesse, un unico tasso di cambio, e una unica politica di regolazione della massa monetaria e del credito bancario – è infatti palesemente assurda. Da qui la necessità di recuperare forme sostanziali di sovranità nazionale, e anche di sovranità monetaria, grazie (come vedremo) alla moneta complementare.

La sovranità popolare non si esprime mai al di fuori delle istituzioni che gli stessi popoli si sono dati, e non si esercita certamente nelle istituzioni intergovernative. La storia non può essere scavalcata: le nazioni sono state costruite in secoli di lotte e di compromessi sociali; e dentro i confini nazionali sono nate le democrazie e il welfare. L'Unione Europea si propone proprio di cancellare le autonomie nazionali, le sovranità statali, in nome della libertà dei capitali e della deregulation.

Il progetto di un'Europa federale vorrebbe sorpassare la sovranità dei singoli stati per trasferirla a istituzioni centralizzate a livello europeo. Questa UE dimostra chiaramente di essere il “comitato d'affari della borghesia”, anzi della grande finanza parassitaria. Perché volerla rafforzare?

Il neo-colonialismo non si esprime più, in Europa come in altre parti del mondo, a livello militare e politico, e con l'occupazione territoriale, ma si afferma utilizzando strumenti monetari e finanziari. Il neo-colonialismo toglie moneta ai paesi subalterni e specula sul loro debito. Il nuovo capitalismo speculativo non produce niente, ma come un vero e proprio parassita si alimenta delle attività produttive e del lavoro altrui. Chi non si sottomette viene tagliato fuori dal mercato mondiale dei capitali, non ha più accesso ai mercato finanziari (ricordate l'Argentina e la crisi del 2001?). Chi tenta di ribellarsi è privato della moneta (ricordate la Grecia, quando la BCE chiuse il rubinetto dei bancomat una settimana prima del referendum?).

Il progetto di un'Europa politicamente omogenea e federata non solo è impraticabile e anti-storico ma è anche intrinsecamente autoritario. Mi sfugge come lo stato federale europeo potrebbe decidere con giustizia ed efficacia contemporaneamente sull'agricoltura finlandese, l'industria francese, l'energia atomica in Germania e quella a carbone in Polonia. Mi sfugge come e perché i cittadini italiani, per esempio, dovrebbero essere coinvolti nelle decisioni relative alle politiche portoghesi; e come 28 Paesi potrebbero decidere a maggioranza quale politica estera avviare con la Russia.

Il coordinamento a livello europeo è indispensabile, forme flessibili e confederate di partnership europea sono necessarie, ma le democrazie possono vivere solo in un ambito nazionale. La democrazia non può essere esportata nelle istituzioni intergovernative come la UE.

L'Europa è un insieme di situazioni, di istituzioni, di popoli, di storie e di interessi troppo diversi per essere rigidamente ricondotti a un unico fattore comune. L'Europa è oggi, oltre che un'espressione geografica, un unico grande mercato. Non esistono sindacati e partiti europei, non c'è un'opinione pubblica europea, non ci sono neppure lotte sindacali o politiche che unificano l'Europa.

Le due forze che oggi maggiormente unificano il vecchio continente sono la Nato e il consumismo: ma ambedue fanno capo agli USA. Non a caso per comunicare in Europa si usa la lingua americana- inglese. Nessuna forza sociale europea – nonostante i desideri di Yanis Varoufakis di democratizzare l'intero continente – è davvero in grado di incidere sulla UE. L’europeismo “internazionalista” è una astrazione velleitaria, vuota retorica astratta coltivata da una sinistra ingenua, impotente e talvolta collusa.

Purtroppo anche il sindacato italiano è europeista, certamente per generoso idealismo: ma l'europeismo è controproducente dal momento che l'euro è stato creato proprio per indebolire il movimento dei lavoratori e la sinistra. L'adesione dell'Italia all'euro è avvenuta proprio per battere la forza dei sindacati e dei lavoratori. E la UE e la BCE vogliono tuttora imporre politiche liberiste pro deregulation, di deregolamentazione del mercato del lavoro contro i sindacati e la partecipazione dei lavoratori.

Occorre opporsi all'Unione Europea e alla moneta unica. Anche in Italia occorre ristabilire la sovranità nazionale (per quanto possibile nel quadro attuale): una sovranità democratica, partecipata e conflittuale. Bisogna reclamare con forza l'intervento pubblico a favore degli interessi del nostro Paese, della nostra industria, dell'occupazione dei giovani e dei lavoratori. Per rivendicare la legittimità e la necessità del nazionalismo democratico non dovrebbe essere necessario evocare figure come Enrico Mattei e Raffaele Mattioli, o i partigiani che si battevano per l'Italia liberata dal nazi-fascismo.
La libera circolazione dei capitali è il fondamento della UE

La UE nata a Maastricht e guidata da Berlino si fonda sulla libera circolazione dei capitali (Articoli da 63 a 66 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), integrati dagli articoli 75 e 215 del TFUE). Alla base delle istituzioni e della politica dell'Unione Europea c'è la piena e completa libertà del capitale finanziario. Chiedere la limitazione alla libertà di movimento dei capitali significa quindi chiedere anche l'abolizione di Maastricht. Un obiettivo legittimo, ma astratto, ovvero politicamente attualmente irraggiungibile.

La UE non incoraggia gli investimenti produttivi e la piena occupazione ma tutela innanzitutto la finanza speculativa che vive e prospera come un parassita sui debiti delle nazioni, sulle attività produttive e le famiglie. La UE favorisce sfacciatamente gli stati creditori (in primis la Germania) e penalizza quelli debitori (a cui le banche di Germania e Francia hanno prestato irresponsabilmente troppi soldi).

Questa Unione Europea, nata con la riunificazione della Grande Germania sotto il segno dell'euro, è in crisi praticamente irreversibile perché è la forma continentale della globalizzazione del capitale, e perché impone alle nazioni più deboli, forme insopportabili di sfruttamento finanziario, di subordinazione neo-coloniale, di impoverimento. Il caso della Grecia è assolutamente esemplare.

L'economia europea è dissanguata e i Paesi sono sempre più disuniti: quelli del nord Europa contro quelli del sud, quelli dell'est contro quelli dell'ovest. In nome dell'illusione disastrosa degli Stati Uniti d'Europa, i cittadini italiani sono costretti ad accettare di diventare più poveri. Sull'altare dell'utopia lontana e impossibile di una Europa federata viene sacrificata un'intera generazione di giovani senza lavoro e senza prospettive!

La UE, agli occhi del mondo, per il governo americano, quello cinese, quello russo, è ormai diventata uno zombie, un morto vivente che cammina nella nebbia senza più alcuna direzione precisa. Gli unici che credono testardamente all'Europa unita sono gli ingenui della sinistra e qualche romantico idealista. La UE si sta disintegrando ma mantiene un unico orientamento: l'Unione Europea a guida tedesca attua volontariamente e coscientemente una politica di strangolamento deflattivo dell'economia! Lo strumento principale di questa politica è l'euro.

Riformare l'Europa, cioè rivedere i trattati europei e spostarli a sinistra, è pura utopia. Dovrebbe essere chiaro che solo lottando innanzitutto e soprattutto a livello nazionale si può tentare di battere l'austerità europea, l'attacco europeo ai diritti e ai servizi sociali. Lo stato nazionale è e rimane la principale arena della lotta politica e sociale. Ed è l'unico che può opporre alla moneta unica europea forme di moneta complementare come la moneta fiscale.

Purtroppo la sinistra italiana, dopo il crollo del comunismo, ha adottato acriticamente la generosa ideologia europeista di Altiero Spinelli, che considerava gli stati nazionali un relitto della storia da superare con gli Stati Uniti d'Europa. L'utopia di Spinelli nasceva da nobili esigenze di pace e solidarietà ma è ingenuo, irrealistico e sbagliato cancellare gli stati nazionali, cioè i luoghi storici della democrazia e dei conflitti sociali.

Se vogliamo assicurarci la democrazia e limitare i danni della globalizzazione, cogliendo invece i frutti positivi dell'apertura dei mercati, dobbiamo quindi recuperare innanzitutto sovranità nazionale. E poi trovare i punti di incontro con gli altri paesi europei, in direzione di una Confederazione europea assai più flessibile dell'Unione Europea attuale.
La crisi italiana e le timide trattative sulla flessibilità

La UE doveva procurare benessere, sviluppo e solidarietà, e doveva farci diventare più competitivi nell'economia globalizzata. Non ha mantenuto nessuna promessa. Secondo il Fondo Monetario Internazionale l'eurozona è il pericolo principale per l'economia mondiale! La moneta unica impone austerità ma resta fragilissima: molti continuano a dubitare che sopravviverà alla prossima crisi. La Banca Centrale Europea non potrà sostenerla per sempre.

L'economia italiana, dopo venti anni di stagnazione, grazie alla cura europea si avvia al disastro: il Fondo Monetario Internazionale indica che, continuando con l'austerità, l'Italia ritornerà alla situazione pre-crisi solo tra 20 anni. Ma non è detto che l'economia nazionale non inciampi prima. Occorre una svolta. Il governo di Matteo Renzi comincia a mostrare qualche timida insofferenza verso la UE, ma si sforza inutilmente di rispettare i vincoli europei e continua a implorare più flessibilità.

Se l'Italia continuerà a seguire le politiche dettate da Bruxelles e Berlino diventerà la prima vittima della prossima crisi europea e globale! Parlano da soli i drammatici dati (dati ISTAT a prezzi costanti 2015, miliardi di euro) della recessione italiana, cominciata nel 2008 con la crisi dei subprime, mal gestita dai governi italiani, ma aggravata pesantemente dalla politica europea di austerità.
2007 2015

PIL 1.783 1.642 Disoccupati (mni) 1,151 2, 965 Consumi 1.385 1.313 Investimenti 386 273 Esportazioni 478 494 Importazioni 475 442

Il PIL reale è inferiore di oltre 140 miliardi di euro rispetto ai livelli del 2007; e i disoccupati sono aumentati di quasi due milioni. Mentre i paesi fuori dall'eurozona sono riusciti a risalire la china, l'Italia con l'austerità dell'euro non esce dalla crisi. Se fosse possibile il governo italiano dovrebbe staccare subito la spina allo zombie UE. Ma non è così facile uscire dall'imbuto in cui l'europeismo servile dei governi italiani (di centrosinistra soprattutto) ci hanno cacciato.

Il ministro delle Finanze, l'europeista Padoan, si confronta con timore ed ossequio con istituzioni nominate dagli altri governi. La nostra principale legge di bilancio, la legge finanziaria, può passare solo se approvata da politici europei nominati da altri governi, come il lussemburghese Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione UE. Ma il Lussemburgo è un piccolo stato di poco più di 500 mila abitanti (nemmeno la metà degli abitanti di Milano) noto solo per essere uno dei maggiori paradisi fiscali del mondo.

Tuttavia è proprio Juncker che comanda sul nostro bilancio, ovvero sulle nostre tasse e sulle spese pubbliche nazionali. E non basta: più di lui conta il ministro tedesco delle finanze Wolfgang Schaeuble: è lui che decide davvero sul nostro bilancio pubblico. Schaeuble conta certamente più di Renzi, di Padoan, di Juncker e forse anche più del premier tedesco Angela Merkel.. Mi chiedo dove stia la democrazia in tutto questo! Il Parlamento e perfino il governo Renzi sono esautorati. Contano come il due di picche. Senza democrazia (e senza una moneta nazionale) l'economia, l'occupazione e il lavoro italiano non ripartiranno mai.

L'Europa vuole infilarci in un tunnel senza uscita. Diventa infatti sempre più difficile ripagare i debiti se la UE ci impone una politica deflattiva e quindi il PIL ovvero il reddito nazionale con cui pagare il debito si riduce o stagna. Anche la crisi bancaria italiana è di difficile soluzione senza l'intervento dello stato, che però è proibito dalla UE per volontà della Germania. Il sogno segreto di buona parte dell'establishment tedesco è evidentemente di costringerci a chiedere l' “aiuto europeo”, cioè di farci commissariare dalla Troika, come la Grecia.

L'Italia è considerata il punto debole dell'eurozona. La politica dell'austerità avvicina pericolosamente il nostro Paese al cosiddetto “Minsky moment”, il momento del default. Se non ci fosse la BCE ad acquistare (ma per quanto?) i titoli italiani e dei paesi mediterranei, i rendimenti del debito pubblico sarebbero già saliti alle stelle e l'Italia quasi certamente dovrebbe chiedere la ristrutturazione dei debiti o dichiarare fallimento. Ma se fallisse l'Italia, la moneta unica crollerebbe come un castello di carta.
Nazionalismo democratico versus nazionalismo tedesco

L'euro, con la sua architettura deflattiva, non penalizza però tutti gli stati europei. Grazie all'euro la Germania e i paesi forti, quelli della cosiddetta (ex) area del marco, acquistano sostanziali vantaggi competitivi. La Germania mercantilista – e il mercantilismo in economia è l'equivalente dello sciovinismo in campo politico – esporta contro le regole UE il 9% del suo PIL, esportando anche deflazione e disoccupazione nei paesi europei. In questo modo “fotte i suoi vicini”.

La Germania chiede agli altri paesi di fare i compiti a casa ma in casa sua non applica le regole europee. Quando ha voluto ha sforato il tetto del deficit pubblico e ha salvato le sue banche con 250 miliardi di aiuti statali. Tuttavia impedisce agli altri paesi di intervenire nelle crisi bancarie, mettendoli in crisi perenne. E rifiuta qualsiasi momento di cooperazione – come la realizzazione di un fondo federale europeo, gli eurobond, forme iniziali di mutualizzazione dei debiti, ecc - ponendo come pre-condizione agli altri paesi il pareggio di bilancio, ovvero il soffocamento della loro economia mediante il taglio della spesa pubblica. Come Reagan, la UE di Berlino si propone di “affamare la bestia”, lo stato sociale.

In Italia dovremmo allora diventare “nazionalisti” e difendere la nostra industria, le nostre banche (magari nazionalizzandone alcune e buttando fuori i manager incapaci e corrotti), la nostra democrazia parlamentare, il nostro lavoro, il nostro welfare, la nostra Costituzione che le grandi banche d'affari internazionali e le istituzioni europee vorrebbero fosse abbattuta e stravolta in senso autoritario e decisionista.

Occorre rivalutare il nazionalismo democratico, anche contro quella parte di grande borghesia cosmopolita e “senza patria” (vedi per esempio la Fiat, la maggiore industria ex nazionale che ha abbandonato l'Italia) che promuove le politiche liberiste e antipopolari delle istituzioni sovranazionali. Se le forze progressiste e nazionali – quelle che pretendono di rappresentare i lavoratori, il ceto medio produttivo, l'imprenditoria sana, non venduta alla grande finanza – non difenderanno il loro Paese, allora i popoli si rivolgeranno inevitabilmente alle formazioni populiste di destra, e al peggior nazionalismo xenofobo.

Questo è purtroppo quanto sta già accadendo in molti paesi europei. Ma la responsabilità è anche e soprattutto della sinistra e dei verdi europeisti. In questo senso per fortuna che in Italia c'è Grillo, il quale fin dall'inizio ha denunciato l'imperialismo economico e finanziario della UE. Tuttavia c'è da chiedersi come i 5 stelle vogliono concretamente portare avanti la battaglia per uscire dalla crisi. La durissima sconfitta di Tsipras in Grecia ha in effetti avuto ricadute negative in tutto il continente, e ha mostrato che non è facile sganciarsi dall'eurozona.
Superare l'euro con la Moneta Fiscale

La moneta unica non è neutra, ha un'architettura depressiva, costituisce il principale strumento dell'egemonia tedesca ed è l'arma più efficace in mano al capitale finanziario. Non per caso l'economista Robert Mundell, considerato il padre della moneta unica, è stato anche uno degli artefici principali della Reaganomics.

La moneta unica ha tre difetti congeniti: 1) impedisce politiche espansive a causa dei vincoli automatici sul debito e sul deficit; 2) impedisce le svalutazioni, ovvero il riallineamento dei prezzi da parte delle nazioni meno competitive; 3) obbliga i singoli stati a pagare i loro debiti in una moneta straniera (l'euro, appunto) sulla quale non hanno alcun controllo. Alla BCE è proibito finanziare i deficit pubblici dei paesi dell'euro. Così i Paesi europei corrono il rischio di non potere pagare i loro debiti in valuta estera, in euro. Il default è sempre possibile.

Non esiste ormai più alcun motivo di seguire le regole dell'eurozona, se non l'estrema difficoltà a uscire dalla stretta gabbia costruita su queste regole. Uscire oggi unilateralmente dall'euro sarebbe un'avventura rischiosissima. Provocherebbe un'altra crisi difficilmente sopportabile per i lavoratori e il ceto medio, già stremati dalla recessione. Spaccherebbe il Paese.

Nonostante quello che predica l'economista Alberto Bagnai, uscire dall'euro non è facile[2]. E' stato relativamente semplice uscire dallo SME, dal sistema monetario europeo, un sistema di cambi semi-fissi tra le valute europee. Allora l'Italia aveva ancora la lira, la sua moneta, e una banca centrale autonoma. Bastava non difendere la lira per tornare a un sistema flessibile di cambio. Oggi invece noi non abbiamo una moneta e dovremmo crearne una nazionale per uscire dall'eurozona. L'euro cesserebbe di esistere e l'uscita unilaterale dall'eurozona provocherebbe sconquassi a livello globale anche e soprattutto sul piano geopolitico. Avremmo contro USA, Cina e Russia. I risultati finali sarebbero probabilmente estremamente pesanti. Anche l'alleanza con la Francia per rovesciare l'austerità teutonica è improbabile perché la Francia teme la rottura con la Germania, il suo più potente partner. Inoltre concordare uno scioglimento equilibrato dell'euro con la Germania è una pura illusione.

Che fare allora? Non dovremmo rassegnarci alla passività e alla rassegnazione. Pur restando nel quadro dell'euro, l'unica soluzione viabile e concreta è affiancare all'euro forme di moneta nazionale, come la Moneta Fiscale proposta tra gli altri dal compianto Luciano Gallino[3]. Solo così si potrà finanziare una politica espansiva a favore del lavoro e dell'occupazione.

La Moneta Fiscale è un titolo denominato in euro e convertibile in euro utilizzabile per pagare le tasse dopo due anni dall'emissione. E' del tutto compatibile con i trattati e le norme europee, perché in campo fiscale lo stato italiano è ancora sovrano e perché l'emissione di questi titoli di credito non crea debito pubblico. La moneta fiscale si autofinanzia grazie alla crescita del PIL.

Il governo italiano potrebbe e dovrebbe emetterli in piena autonomia per rilanciare l'economia e l'occupazione in Italia, sfuggendo alla terribile morsa di Bruxelles e Berlino. Grazie alla moneta fiscale si potrebbero finanziare le famiglie (soprattutto quelle a basso reddito) e le imprese. Si potrebbero alimentare i consumi e gli investimenti.

Con la moneta fiscale si potrebbero finalmente effettuare investimenti pubblici per istruzione, ricerca, sanità, riassetto idrogeologico, ecc, fare politica industriale e mantenere le industrie strategiche sotto il controllo nazionale. Sarebbe possibile incentivare uno sviluppo economico sano, fondato sulla conoscenza e sulle energie pulite. L'ossigeno monetario ci farebbe uscire dalla trappola della liquidità, e grazie al moltiplicatore keynesiano, il debito pubblico non aumenterebbe: con la crescita del PIL, diminuirebbe il rapporto debito/PIL. La moneta complementare potrebbe poi essere adottata dagli altri paesi europei.

Un fatto è certo: se gli stati europei continueranno a seguire passivamente e docilmente le politiche suicide dell'Unione Europea, la crisi continuerà fino a precipitare. E, senza opposizione efficace e proposte concrete da parte delle forze progressiste, senza politiche di riscossa nazionale, le destre scioviniste e xenofobe domineranno minacciosamente la rivolta contro questa Europa della finanza speculativa.
Enrico Grazzini

NOTE

[1] Susan Strange “Denaro impazzito. I mercati finanziari: presente e futuro”, edito da Einaudi, 1999; e “Chi governa l'economia mondiale? Crisi dello Stato e dispersione del potere”, edito da Il Mulino, 1998
[2] “Alberto Bagnai “Il tramonto dell'euro” Imprimatur Editore, 2012
[3] Vedi eBook edito da MicroMega: “Per una moneta fiscale gratuita. Come uscire dall'austerità senza spaccare l'euro”, 2015, a cura di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Enrico Grazzini e Stefano Sylos Labini, con la prefazione di Luciano Gallino.

(19 ottobre 2016)

venerdì 14 ottobre 2016

Il diavolo non fa i coperchi nemmeno per le pentole di Renzi



"Con lo sciopero e il NoRenziDay del 21 e 22 ottobre abbiamo una prima occasione per far sentire a questi imbroglioni cosa pensiamo di loro e della loro APE".
 
  
di Giorgio Cremaschi da l'Antidiplomatico

Nonostante gli sforzi del governo Renzi e dei suoi alleati Marchionne e Confindustria, i salari non sono ancora precipitati così in basso.

Un ferroviere, una maestra d'asilo, un operaio edile che abbiano accumulato almeno 35 anni di contributi regolari non portano a casa, per fortuna, meno di 13000 euro netti all'anno.

Eppure Renzi e Poletti hanno messo proprio quel tetto come condizione per accedere al famigerato anticipo pensionistico, l'APE, che scatterebbe dopo i 63 anni di età. Anche così, comunque,  non pare che sia gratis l'operazione, visto che si dovrà accedere ad un mutuo ventennale e pagare una polizza che assicuri la banca contro i rischi di morte o insolvibilità del pensionato. Non è ancora chiaro in che misura il governo contribuisca a questa porcheria, comunque pare che  per tre  anni di anticipo pensionistico si dovrebbe vedere decurtata la pensione del 15%, cioè 1000 euro mensili diventerebbero 850!


Ma ripetiamo l'APE è costruita per essere praticamente inaccessibile anche a chi volesse farsi del male.

Intanto però Renzi e Poletti suonano la grancassa sul fatto che sarebbero riconosciute a fini pensionistici le condizioni diverse di chi fa un lavoro usurante. E lo stesso fanno per i lavoratori "precoci", cioé coloro che sono andati a lavorare prima dei 19 anni e che quindi dovrebbero continuare per molti anni ancora. Per costoro, gorgheggia Poletti, basteranno 41 anni di contributi per accedere all'APE. Peccato però che per poter usufruire di quel dono sopraffino chi ha maturato 41 anni di contribuiti debba essere disoccupato!  Anche qui si costruisce un requisito che è semplicemente una truffa. Soprattutto se si ricorda che prima della Fornero con 40 anni e 6 mesi di contributi si andava in pensione, senza essere stati licenziati.

La Fornero come sappiamo ha anche prodotto la disgraziata categoria degli esodati, cioé di coloro che son stati fregati per l'improvviso innalzamento della età pensionabile, avendo già concluso il rapporto di lavoro  proprio in vista della pensione. Per centinaia di migliaia di persone lasciate dalla Fornero senza lavoro e senza pensione sono già state effettuate
7 "salvaguardie", cioè provvedimenti che permettessero l'accesso ad un reddito. Apposite voci di bilancio sono state stanziate allo scopo, solo che poi i governi le hanno utilizzate per altri scopi di spesa sociale, o per mance elettorali. Così gli esodati ci sono ancora e ci saranno anche dopo l'ottava salvaguardia promessa da Renzi e Poletti, che non copre tutti gli aventi diritto.

Ma il massimo di clamore della propaganda renziana sarà sicuramente dedicato all'aumento e all'estensione della platea della quattordicesima. Qui i trucchi li scopriremo tutti quando vedremo le cifre e i requisiti esatti. Sicuramente gli 80 euro lordi mensili, si sa Renzi ama quella cifra, toccheranno molte meno persone di coloro che se li aspettano. E saranno anche ridotti ad una cifra minore.

Questo lo possiamo dire già ora, visto che il governo annuncia per tutte queste operazioni uno stanziamento di 2 miliardi all'anno per tre anni. Cifra assolutamente insufficiente a fare giustizia, se consideriamo che la legge Fornero ha tolto ai pensionati sinora 30 miliardi. E che almeno 15 di essi vengono dalla mancata indicizzazione delle pensioni. La Corte Costituzionale aveva dichiarato incostituzionale il taglio, ma come suo solito, il governo ha sfacciatamente ignorato la sentenza e non ha restituito i soldi. Soldi con i quali ora finanzia la quattordicesima. Dunque sono gli stessi pensionati che pagano gli aumenti per i più poveri tra loro.

CgilCislUil che ora lamentano di essere state truffate, solo pochi giorni  fa avevano firmato un protocollo che autorizzava il governo a tutti questi raggiri. Ed ora beffardamente Renzi e Poletti fanno partire le loro Misure dal 1 maggio 2017!

Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, dice un vecchio proverbio. Che vale anche per le pentole che vende Renzi e che oramai nessuna persona onesta o di buonsenso dovrebbe più comprare.
 
Con lo sciopero e il NoRenziDay del 21 e 22 ottobre abbiamo una prima occasione per far sentire a questi imbroglioni cosa pensiamo di loro e della loro APE.
 

martedì 11 ottobre 2016

lunedì 10 ottobre 2016

Emigrazione e numeri



di Tonino D’Orazio 8 ottobre 2016.

Dal 1861 fino alla prima guerra mondiale, in 60 anni, con ondate ad ogni crisi ventennale, andarono via dall’Italia circa 15 milioni di connazionali. La stragrande maggioranza era del Mezzogiorno, ma non furono da meno i veneti, né gli allora austroungarici friulani. Dall'epoca dell'unità forzata del Paese sono state registrate più di 27 milioni di partenze. A partire dall’unificazione nel 1861, l’Italia ha conosciuto un espatrio di quasi 30 milioni di persone, compresi i non registrati. Tra le varie generazioni dell’emigrazione che si sono susseguite nei cinque continenti, attualmente si contano in circa 4.636.647, secondo il più recente Rapporto della Fondazione Migrantes (2015), gli italiani che hanno conservato la cittadinanza e sono iscritti all’Anagrafe dei residenti italiani all’estero (Aire). Cifra irrisoria  rispetto agli 80 milioni di oriundi che le stime più attendibili confermano essere oggi l’entità della comunità d’origine italiana all’estero. (vedi dati e studi Filef). L’Abruzzo e il Molise, hanno oggi corregionali all’estero in numero uguale alla popolazione residente. Per esempio, un abruzzese o un molisano su due vive fuori, all’estero. Succede a quasi tutte le regioni del mezzogiorno. Questa “problematica”sconvolgente però non fa parte, nei libri di testo, della storia del nostro paese. Se la storia la fanno i vincitori, gli emigrati sono considerati perdenti.
La nostra Costituzione Repubblicana e democratica, fino ad oggi, è fondata sul lavoro, ma, in concomitanza con i grandi drammi degli esodi migratori dal sud del mondo, ci troviamo anche di fronte ad un nuovo consistente esodo di giovani, e non giovani, connazionali, paragonabile a quello, finita la ricostruzione, degli anni ’60, nella quasi indifferenza del mondo politico italiano, come allora. Anzi, mentre De Gasperi invitava lavoratori appena alfabetizzati ad imparare le lingue e ad andare all’estero, possiamo dire che oggi, poiché un po’ di inglese che si studia a scuola i giovani lo conoscono, possono anche essere definiti in “apertura al mondo”, veri e propri turisti. Magari nascondendo le cause strutturali di un paese senza futuro, perché anche senza dignità del lavoro, e invitando imprenditori stranieri ad investire in Italia perché vi sono i salari più bassi d’Europa e le “intelligenze” rimaste più disponibili. Pubblicità internazionale del Ministero dello Sviluppo Economico: I costi del lavoro in Italia sono ben al di sotto dei competitor come Francia e Germania. Inoltre, la crescita del costo del lavoro nell’ultimo triennio (2012-14) è la più bassa rispetto a quelle registrate nell’Eurozona (+1,2% contro +1,7)”.  Oppure Migrantes: i giovani " sono una generazione penalizzata dal punto di vista delle possibilità lavorative, sono i più esposti alla disoccupazione e vedono l'emigrazione non come una fuga ma come un mezzo per soddisfare ambizioni e nutrire curiosità'". E forse poter vivere dignitosamente. Bene se fosse una libera scelta. I lavoratori non hanno mai libera scelta.
Purtroppo, per esempio, non sono soltanto in più di centomila quelli che se ne sono andati dall’Italia nel 2015, come risulta dai dati disponibili, (AIRE-Istat), ma molto di più: stando ai dati forniti da altri paesi, per esempio dalla Germania e dalla Gran Bretagna, il nuovo esodo italiano in questi che sono i due paesi di massimo afflusso di connazionali, è superiore di almeno 4 volte a quello dell’Aire. Riguardo a questi due paesi infatti che in questo momento risultano essere le mete più ambite della nuova emigrazione, nel corso degli ultimi 4 anni, cioè dal 2012 al 2015, secondo i dati italiani sarebbero emigrati 43.401 italiani in Germania; secondo i dati registrati dai tedeschi, invece, (dello Statistisches Bundesamt) ve ne sono arrivati 200.180. Analogamente, in Gran Bretagna, sarebbero stati, secondo l’Istat, 39.278; mentre per gli inglesi, (dello National Insurance Number) sono stati 158.400.
Sulla base di questi dati è sostenibile la stima che l’entità della nuova emigrazione italiana si aggiri, negli ultimi anni, tra le 250.000 e le 300.000 unità all’anno. Nell’ipotesi più contenuta, ciò corrisponde al flusso di espatri medio che si registrò dal 1965 al 1970 che fu complessivamente di 1.078.000 (mentre nel quinquennio 1960-1964 furono invece 1.556.000, cioè circa 300mila all’anno). L’emorragia silenziosa è in continuo aumento.
Abbiamo di fronte le contraddizioni, le incoerenze della politica e delle istituzioni, le insufficienze e gli errori di un sistema paese che mentre da dieci anni ambisce a rilanciare la crescita, lascia tranquillamente defluire le migliori competenze e energie giovanili della nuova emigrazione verso altri lidi, ad arricchire altri paesi. Con il rischio concreto che la perdita sia definitiva e permanente. Non c’è ritorno se il tessuto di partenza rimane uguale se non peggiore. L’impoverimento del Mezzogiorno continua ferocemente e inesorabilmente. Ma dal rapporto 2015 (Migrantes) le regioni che più perdono oggi sono Lombardia e Veneto.
Dati Migrantes (rapporto 2016). Su 107.529 espatriati nell'anno 2015, i maschi sono in leggera maggioranza, oltre 60 mila (56,1%). L'analisi per classi di età mostra che la fascia 18-34 anni è la più rappresentata (36,7%) seguita dai 35-49 anni (25,8%). I minori sono il 20,7% (di cui 13.807 mila hanno meno di 10 anni) mentre il 6,2% ha più di 65 anni (di questi 637 hanno più di 85 anni e 1.999 sono tra i 75 e gli 84 anni).
Inoltre dagli ultimi dati la percentuale degli oltre cinquantenni che lasciano il paese è pari a quella dei giovani 18-34 anni. Il fatto che sia costituito in maggioranza da uomini lascia presupporre che siano di nuovo i “padri di famiglia” che ripartono a cercare un lavoro che non si trova più in Italia, data l’età di “rottamazione” dovuta anche dal jobs act. La storia ci dice che il ricongiungimento familiare, prima o poi, è ineluttabile. Da qui l’ultima sparata del colonnello francese Hollande presentando una nuova legge per impedire questo ricongiungimento e rincorrere la Le Pen. Inoltre, nei dati, già il 20% è rappresentato da minori, cioè un altro pezzo del futuro a medio termine. Anche gli anziani che, in mancanza di prospettive di vita dignitosa e affettiva, senza futuro diritti sanitari, li raggiungeranno. (cfr l’Inps con l’aumento del numero delle pensioni pagate all’estero e l'impossibilità per milioni di accedere alle costose visite specialistiche).
Stranamente sembra esserci quella regola per cui la natura ha orrore del vuoto. Quello lasciato si sta riempiendo diversamente. Basta sommare il 7% di italiani, spesso qualificati, andati all’estero in questi ultimi anni e l’8% degli immigrati approdati in Italia. Si tratta di un’enorme risorsa di relazioni e competenze umane, internazionali e interculturali, che attende di essere innescata e che può costituire uno degli elementi di forza per il nostro paese, e le nostre regioni, laddove la Politica operi con intelligenza e lungimiranza. Purtroppo i due elementi sembrano divaricarsi e la struttura politico-economica li ha abbandonati completamente in una assente capacità programmatica di considerare i due fenomeni una risorsa per il nostro paese e le nostre regioni. Sono uno straordinario patrimonio umano e necessitano che vi sia la capacità di ascolto e di cooperazione, in termini di politica economica, perché oggi sembriamo capire solo questa, di investimenti. Questo però necessita lungimiranza, meno mediocrità e che vi siano dei veri statisti.

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...