lunedì 28 dicembre 2015

domenica 27 dicembre 2015

Il due contro uno elettorale

di Tonino D’Orazio

In Europa vi sono due gruppi politici preminenti, i Popolari (insieme a varie destre, chiamati pudicamente conservatori) e i Socialisti (anche loro insieme a varie destre democratiche), un tempo un po’ alternativi, ma dall’inizio dell’euro, sono diventati programmaticamente uguali (eccetto per chi vuol vedere qualche sfumatura per rincuorarsi) e ormai disperatamente solidali.

Perdono consensi di milioni di voti, in ogni paese da una elezione all’altra, ma in due sono ancora forti contro tutti e continuano imperterriti la distruzione dell’Europa sociale e la sua credibilità pur di consegnarla definitivamente all’ideologia capitalistica statunitense. Quando perdono si stupiscono e sono ancora convinti di essere gli unici a poter governare, democraticamente o meno. Gli altri hanno sempre torto nel voler cambiare i loro disgustosi, nefandi e nefasti programmi, ormai più che evidenti e provati.

Hanno a favore, martellanti per anni, tutti i mass media possibili per far credere, malgrado i disastri, quanto sono bravi e indispensabili. Giocano solo nella fatalità del meno peggio, ma il peggio continua. Secondo loro la colpa è del fenomeno naturale chiamato crisi, che dispiace ma è inevitabile, fatale e non c’è alternativa. Eppure perdono e spesso insultano l’intelligenza di chi non li vuole più tra i piedi. Compresa quella meramente orgogliosa metà dei cittadini che non votano più, percentuale in tutti i paesi europei. Peggio per loro. Gli insulti più ripetuti e comuni sono “fascisti” e “populisti”. “Fascisti” sono un po’ loro se si pensa che lo scopo principale di quella teoria è quello di sfruttare e ridurre in schiavitù la classe lavoratrice, come hanno effettivamente fatto, il resto a questo punto è folclore. “Populisti” cercano di esserli anche loro ma il popolo comincia ad avere dubbi che si occupino di lui e del suo benessere.

Quelli che non li vogliono più sono gruppi variegati e sempre più forti, malgrado tutto. Nel variegato c’è di tutto ovviamente, ma non necessariamente più nefasti di loro due. Non abbiamo ancora prove attualizzate, e in questa fase Syriza non fa testo. Stranamente sono uniti però da un pensiero: non vogliono più questo tipo di Europa con paesi che si scannano fra di loro e con uno in particolare che impone i suoi interessi a tutti gli altri. Nessuno seriamente voleva questo: si pensava di costruire una Comunità solidale su saldi e storici principi sociali, che in fondo quei due partiti avevano comunque portato avanti, bene o male, fino alla fine del secolo scorso. Anche se allora fortemente spinti e pungolati  dal rischio che i lavoratori, assai numerosi e coscienti, prendessero davvero il potere. Questo non è successo anche per cattiva volontà dei lavoratori stessi che si sono sempre chiesti perché andare al potere e cambiare veramente le cose, oltre che affidarsi ad improbabili partiti amici.

L’elenco di quelli che non vogliono più, è fortemente aumentato in questi ultimi tre anni, in modo esponenziale, in numero e in voti. Hanno messo in dubbio il bipolarismo, con le sue aggregazioni  programmatiche semi contrastanti, ma tant’è, il potere è potere. Malgrado i premi di maggioranza hanno messo in dubbio il bipartitismo alla statunitense, grande aspirazione di molti partiti da Blair in poi. Che poi i due partiti possano diventare “simili”, in alternanza e non in alternatività, cacciando tutti gli altri, sembra una premessa futura. Cioè la salda “democrazia oligarchica capitalistica”. Quindi i due devono unirsi per mettere fuori gioco il resto. Il terzo e il quarto, con l’aiuto anche del quinto, in questa fase non ci stanno, ma non sono ancora sufficientemente forti per allearsi e battere i due. Soprattutto se si va al ballottaggio, e i due si uniscono, indipendentemente dal loro credo politico contro qualsiasi “nemico” che li possa insidiare. Si può solo tentare di separarli, ma non si sa bene a che prezzo. E’ quello che abbiamo e avremo davanti.

Syriza in Grecia, che poi ha un po’ ceduto nei suoi principi ispiratori e programmatici popolari. Il M5S in Italia in continua crescita da più due anni ma con tutti addosso perché sembra pericoloso soprattutto ai due. Non succede per la Lega, che più le spara da razzista più viene intervistata. Podemos appena vittorioso (perché non esisteva prima e ottiene per la prima volta un numero impressionante di deputati) in Spagna. Non c’era l’anno scorso ma sono riusciti ad affiancargli un populista di destra (Ciudadanos) pronto a possibile alleanza con i Popolari che pur sconfitti perché non possono governare si dichiarono vittoriosi e esigono di poter continuare a governare da minoranza. Podemos, terzo, riesce a bloccare l’accordo del due contro uno ormai di cultura politica di inciucio tedesco. Vedremo se i socialisti spagnoli sono capaci di dire no al PSE. Comunque soprattutto Podemos  innesca la fine del bipartitismo. Bipartitismo difficile ma rilanciato dal gongolante Renzi in Italia con il suo personale e anticostituzionale Italicum. La sinistra radicale e comunista in Portogallo con un nuovo governo socialista (bloccando anche un presidente di destra recalcitrante alla sconfitta), che speriamo resista anche lui al PSE tedescofono e non faccia come Hollande in Francia, cioè “passata la festa gabbato il santo”, e poi correre a sostenere la destra adesso diventata amica. In Polonia è stato eletto  un presidente anti euro e anti Europa, che impone il reddito di cittadinanza, aiuti alle famiglie e la prossima nazionalizzazione delle banche. Incredibili questi comunisti di destra! In Inghilterra il partito di Nigel obbliga e spinge i conservatori di Cameron (nei popolari nel Parlamento europeo) ad un referendum anti-Europa, promesso e che si farà, malgrado quest’ultimo tenti di addossare le responsabilità alla Commissione europea perché non accetta i suoi impossibili ricatti. Ma quelli di ricatti se ne intendono un po’ più di lui.

Lo scatenarsi ufficiale in rivolta dei paesi del nord e dell’est sui diktat tedeschi in merito ai rifugiati e alla libera circolazione dei siriani turcomani; la veloce decisione della Commissione della proroga alle suicide sanzioni alla Russia per sei mesi, perché sanno che l’unanimità non ci sarà più, tracciano una situazione di gran confusione se non di inizio di disgregazione dell’Unione. Adesso la sanzione è stata votata anche da Syriza, ormai defilata e inglobata nell’austerity dall’Europa a trazione tedesca e Nato. Oggi le speranze suscitate contro l’austerity (quaresima dei poveri) di qualche mese fa continuano in altri paesi, intanto del Mediterraneo, aspettando l’Italia in qualche modo.

Ora è la Finlandia, unico paese scandinavo della zona euro, a trovarsi nelle condizioni della Grecia. Come anche i paesi baltici di fronte, Estonia, Lituania e Lettonia, tutti inguaiati dall’euro. Da scommettere la nascita e l’espansione del terzo, ma avendo i socialdemocratici scandinavi fatto scomparire, grazie alla guerra fredda, l’esistente alla sua sinistra si ritrovano con il “populismo” di destra in casa. Come tutti i paesi del centro-nord  Europa. Olanda, Danimarca, Belgio, e Germania compresa. Però l’estrema destra va storicamente e idealmente bene anche al capitale perché sarà sempre il suo baluardo. La storia ha dei ricorsi, si può dire, ma pilotati. Solo che i terzi, quarti o quinti sono pieno di giovani, mentre uno e due pieno di vecchi, responsabili volenti o nolenti del disastro sociale europeo, e di falsi giovani.

Malgrado trent’anni di manifestazioni anti fasciste, anti razziste e di mobilitazioni, l’estrema destra è sempre più presente. Virulente come in Grecia, in Ungheria e in Svizzera. Più “educate” in Francia e in Italia. In quest’ultimo paese con un ottimo trasformismo (ben insegnato alla Le Pen) che ha già permesso loro di governarlo per 20 anni con i normali amici neoliberisti; i lavoratori ne vedono tutti i risultati, se hanno ancora un po’ di memoria. Adesso finito quel camaleontico partito, AN, ne sorge meglio un altro, la Lega, quello sì di estrema destra sfacciata e disgregante nei toni e nei propositi. Hanno trovato di nuovo la vittima, non più gli ebrei ma i musulmani e gli immigrati (spesso musulmani). Una pacchia per dividere cittadini e lavoratori che abboccano in molti, ormai con le pezze al culo, e hanno trovato anche i colpevoli da dare loro in pasto.

Altri cercano di sfuggire alla presa destra/sinistra e si rifugiano nel basso contro alto. D’altra parte la guerra dei ricchi (alto) contro i poveri (basso) è più che evidente di anno in anno. Molti poveri non se ne sono ancora accorti, altri non sanno a che santo votarsi, anche se ce ne sono molti in giro e ogni paese ha il suo, non solo con l’aureola, ma con in mano la perenne speranza. Ma guai se fa parte di uno o due.

 

sabato 26 dicembre 2015

Buon Natale a Benigni (Roberto) e famiglia

Ieri mi chiedevo cosa gli passa per la testa a gente come Benigni, che  da una gioventù dissacrante e rivoluzionaria rovinano verso una mezza età conformista e piatta.
Sarà la fisiologia che induce la gente a pensieri conservatori, essendo il soma più a rischio perchè vecchio e fragile, e quindi da tutelare, assestando il proprio sistema interno su valori di attivazione più blandi, oppure semplicemente uno così è, solo che da giovane devi guadagnarti la notorietà, mentre da vecchio ti conviene il conformismo. In quest'ultimo caso la persona in questione sarebbe un figlio di buona donna dalla nascita che indossa maschere diverse a seconda del contesto storico-sociale a della convenienza del momento. 
Non lo so, certo che quando ho visto la rappresentazione di Benigni sui dieci comandamenti per la prima volta ho pensato che fossero una totale assurdità anche per un neoredento. L'artista interpreta, d'accordo, ma fare delle tiretere infinite su delle brevi frasi che avevano un compito normativo in una società primitiva, attribuendo loro significati così intensi e profondi, non è nè esegesi, nè arte, è solo ruffianeria.
Comunque un buon natale a Benigni è appropriato, almeno lui può cogliere l'ironia del gesto.

giovedì 24 dicembre 2015

La Turchia dagli Ottomani agli Islamisti

di Tonino D’Orazio


L’impero Ottomano è sempre stato una spina nella storia europea, con una presenza militare, culturale ed economica. Era, ed è, una porta geofisica, (Costantinopoli-Bisanzio-Istambul) tra Europa, Euroasiatici e Medio Oriente, e tramite il passaggio dello Stretto Dardanelli o del Bosforo verso il Mediterraneo con la storia dei suoi popoli. Insomma il contatto di tre continenti.
Sconfitta dopo la prima guerra mondiale, poiché alleata dell’impero austro-ungarico, la Turchia rischia di scomparire e comunque gran parte dei suoi territori vengono suddivisi e ritagliati dalle nazioni vincitrici. Trattato di Sèvres del 1920. A seguito dello scoppio della guerra di Indipendenza Turca (contro gli invasori europei vincitori), dal 1923, la Turchia guidata da Atatürk diventa una Repubblica parlamentare unicamerale. Le sue istituzioni sono tuttavia fortemente condizionate dalle forze armate, il cui ruolo politico è stato fissato nella Costituzione laica da Atatürk  (Mustafa Kemal), ribadito nell'ultima Costituzione del 1982, ma emendata nel 1995 con la scelta dell’elezione del Presidente (che nomina addirittura direttamente i membri della Corte Costituzionale) a suffragio popolare. Parimenti il Parlamento viene eletto a suffragio universale (con sbarramento al 10%, ponendo fuori gioco le minoranze etniche e politiche).  Mi sembra  il sogno in atto di Renzi e della impunita e trionfante Boschi: unicamerale e, ultimo atto della P2 di Gelli, il presidenzialismo totale dell’uomo solo al comando. Alla Erdogan, attuale revanscista territoriale di parti del disperso impero ottomano, esempio luminoso di nuova dittatura democratica e guerrafondaia di questo inizio secolo.
Atatürk, mitico eroe protagonista della cacciata degli europei occupanti gran parte della Turchia, in rottura con l’eredità musulmana, riorganizzò lo stato in termini laici, (imponendo all’esercito di garantirlo), con uno sguardo alle democrazie europee, persino modificando la scrittura araba in alfabeto latino. Dopo la seconda guerra mondiale la Turchia entrò nella Nato in funzione antisovietica all’inizio della guerra fredda e nella “via del capitalismo” contro il comunismo. Alla caduta del muro di Berlino, la costituzione venne riformata e l’esercito golpista rispedito nelle caserme. Iniziava un nuovo periodo storico, con al potere il Partito della Giustizia, con principi islamici (eufemisticamente chiamati post-islamici), e con la richiesta di adesione alla Comunità Economica Europea (1987). Richiesta fortemente sostenuta dai sempre presenti statunitensi e dalla Germania (con già 5 milioni di turchi immigrati). Il timore dell’entrata di 80 milioni di musulmani nel cuore dell’Europa ha raffreddato (ancora oggi) le aspettative turche. Piano piano, il Partito della Giustizia, che pur aveva operato inizialmente delle riforme democratiche di tipo europee, scegliendo la linea neoliberista ha introdotto profonde ineguaglianze sociali, a riprova della sua ideologia deleteria, e riacutizzato rivalse etniche e territoriali mai sopite. La crisi irrisolvibile ha portato Erdogan ad un sempre maggiore autoritarismo e ipernazionalismo, anche utilizzando la coesione base della religione islamica, (nazionalismo che in genere, dappertutto copre il fallimento sociale del potere) fino all’ultima sfida aperta con la Russia, che, con il recente intervento militare, ha bloccato le sue mire territoriali sulla parte nord della Siria (e dell’Iraq, anche se quest’ultima in mano “autonoma” dei curdi e “protetta” teoricamente da quel che abbiamo visto questi giorni dagli americani), territorio una volta parte dell’impero ottomano e abitata ancora oggi in gran parte da siriani turcomani.  Non è indifferente o ingenua la decisione della Merkel di accogliere i “siriani” che avevano libero passaggio alle frontiere turche. Nemmeno indifferente l’intervento dei turchi e il sostegno, in tutti i modi, sia all’opposizione siriana che all’appoggio ai gruppi siriani dell’Isis (sunniti), ormai evidente a tutti. Il 93% della popolazione è di religione musulmana sunnita, come gli arabi sauditi, rimasti fedeli in tutto alla cultura, alla gestione politica tipo impero ottomano e all’alleanza con la Turchia.
Sul piano “rivoluzionario” Atatürk fonda la prima repubblica parlamentare del Medio Oriente; libera la donna dagli harem, diventando essa giuridicamente libera; diventa elettrice ed eleggibile; organizza l’abolizione dell’analfabetismo, facilitato dall’aver imposto l’alfabeto latino; organizza un esercito laico e al servizio unicamente degli interessi nazionali. Rimpiazza le vecchie leggi con il codice civile svizzero, il codice penale italiano, il codice commerciale tedesco e la procedura francese. Il meglio del pensiero europeo. Niente di inglese; questi avevano tragicamente spadroneggiato troppo in quelle terre. Non vestì mai più l’uniforme militare e adottò il motto:”Pace nel paese e pace nel mondo”. Si riconciliò con la Grecia, storica nemica. Firmo il trattato di amicizia con la Russia bolscevica. Purtroppo morì nel 1938 senza aver potuto “educare” completamente una nuova generazione di amministratori e un progressista apparato politico. Senza aver potuto completare l’obiettivo di portare il suo paese e il suo popolo, “arretrati”, alla civiltà, all’occidente. Ma il sentiero era, o sembrava, profondamente tracciato.
Il dopo la seconda guerra mondiale, con il tentativo dei russi di controllare lo Stretto del Bosforo, (1947), la Turchia si schiera con gli statunitensi e entra nella Nato. Da allora sarà la loro più fedele alleata. Inviò persino “guerrieri” turchi nella guerra di Corea. Ancora oggi è la più fedele insieme a noi. Si può ritenere che, siccome non hanno mai fatto un passo senza autorizzazione, come noi, la provocazione attuale alla Russia abbia sicuramente secondi fini programmati. Troppo facile pensare che Erdogan sia “matto”.
Cosa ne è oggi dell’eredità laica di Atatürk. Quasi più nulla, un po’ come la nostra Costituzione nata su principi ideali, ma inutili, se non contrari, ad un capitalismo prepotente e dilagante.
Vari periodi di dittatura militare (anni’60 e ’70 ma soprattutto il colpo di stato del 1980), distrussero tutti gli elementi di progresso del paese, dai sindacati ai partiti dell’opposizioni, non solo comunisti, ma anche socialisti e repubblicani. Furono aboliti i Diritti Umani, il parlamento, chiuse o riportate “all’ordine” le università, fu decretato il delitto di opinione per giornalisti e intellettuali.  Riapparve il terrorismo comodo dei gruppi fascisti (Lupi Grigi). Reiniziò il massacro, non ancora finito, delle popolazioni curde, popolo celato sotto la definizione di “turchi di montagna” per evitare la terminologia internazionale sul genocidio.
Le politiche neoliberiste, già dagli anni ’80 hanno cancellato il tentativo di equilibrio e di giustizia sociale predisposto dalla costituzione di Atatürk. Quindi essa fu modificata, non era più gradita al libero mercato nascente. In assenza di strutture sociali distrutte e con un ritorno ad una cultura islamica dilagante come potente movimento sociale e di azione politica, oltre che coesa in sostegno dovunque ai fratelli musulmani, (esempio agli islamisti di Hamas nella striscia di Gaza o in Egitto), la Turchia iniziò a regredire sul piano della laicità. Oggi il partito di Erdogan è un partito islamista e alcune regole di quella cultura cominciano ad incidere pesantemente sulla società. Compresa la concezione normale dell’autoritarismo di Erdogan e delle sue ripetute violenze e assassinii contro manifestanti e oppositori, (Parco di Gezi, 2013),  compresa  l’ultima strage, (stazione di Ankara, 95/125 morti in una manifestazione pacifista nell’ottobre scorso), sicuramente “di Stato” vista la sua tragica utilità elettorale. Puntuale, con tante analogie con la nostra ancora oscura storia italiana quando si rischiava di non essere più così fedeli agli statunitensi. Forse non c’è la sempre presente “pista anarchica”, ma le impronte ritrovate sui fiammiferi vicino all’ordigno esploso ci indica che più la balla è grossa più è forse credibile. Addirittura questa volta sarebbe l’Isis, infida e ingrata dopo gli aiuti ricevuti a rifargli la camicia pulita.
In rapporto all’islamizzazione un esempio sensibile sono, come sempre le donne, chissà perché nemiche storiche ma consenzienti in quella religione. Negli ultimi tre anni le spose sotto i 16 anni in Turchia sono state 181mila. Solo nel 2012, 20mila famiglie hanno portato all’anagrafe i documenti per accasare le loro figlie minorenni. Molti matrimoni vengono contratti in moschea con rito religioso, non ancora riconosciuto dalla legge turca, che ammette solo il matrimonio civile e quindi non sono nemmeno registrati. Saranno registrati dopo la maggiore età oppure la consuetudine religiosa creerà un immenso silenzio sul caso. Tra l’altro sono riapparsi da un decennio i fazzoletti obbligatori in testa alle donne se non il burka in alcune regioni. Abolito il diritto a l’aborto. Restrizione della vendita delle bevande alcoliche. (Grazie Coca-Cola!)
La Turchia ha scelto l’Islam come cultura politica e non quella dell’Europa. Atatürk e i laici hanno perso. In Italia anche i Partigiani e i loro morti. Avanziamo insieme verso un regime. Cioè torniamo tutti indietro.

lunedì 21 dicembre 2015

"E' attacco ai risparmi degli italiani". Giacchè teme il peggio

di Roberto Santilli da Abruzzoweb



L'AQUILA - "È un attacco ai risparmi degli italiani".
Lo schema di garanzia europea dei depositi bancari scompare dalle conclusioni dell'ultimo vertice Ue dei capi di Stato e di governo.
E adesso la situazione per le banche italiane si complica ulteriormente.
A fare il punto è l'economista Vladimiro Giacchè, autore, tra l'altro, di due testi molto conosciuti e apprezzati come "Anschluss - L'Annessione", e il recente "Costituzione italiana contro Trattati europei, il conflitto inevitabile".
Giacchè è presidente del Centro Europa Ricerche di Roma e collaboratore di Micromega e il Fatto Quotidiano.
"Ancora una volta - dice Giacché ad AbruzzoWeb - è stata data vinta al ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, il quale aveva affermato che non avrebbe fatto passare la mutua garanzia dei depositi fra le banche europee. Questa è la ciliegina sulla torta di una unione bancaria che è stata costruita in un modo tale che non riduce, ma enfatizza le asimmetrie tra i sistemi bancari nazionali dell’Eurozona".
Il tutto mentre ancora non si placano le polemiche sul crack delle quattro piccole banche - Banca Etruria, Banca Marche, Cassa di Risparmio di Ferrara e Cassa di Risparmio di Chieti - da anni in grave difficoltà ma "miracolate" grazie al decreto "salva-banche" del governo italiano "aggrappato" alle regole europee.
"L'unione bancaria - spiega Giacchè - si fonda su tre pilastri: il primo è la sorveglianza della Banca centrale europea sulle banche europee, il secondo è il Resolution Mechanism, il sistema accentrato per la gestione delle crisi bancarie nei paesi aderenti all’area euro, e il terzo quello che avrebbe dovuto essere la mutua garanzia tra le banche a livello europee. E che, a quanto sembra, almeno per il momento non ci sarà".
Il primo pilastro, secondo l’economista di La Spezia, è stato negoziato dalla Germania "per sottrarre alla sorveglianza europea gran parte del suo sistema bancario. Prendiamo le casse di risparmio, le cosiddette Sparkassen, che in Germania sono 417 e fanno crediti per mille miliardi di euro: soltanto una di esse sarà controllata da Bruxelles grazie al fatto che il livello minimo di attivi necessari per essere vigilati da Bruxelles ammonterà a ben 30 miliardi di euro. Visto che il sistema bancario tedesco è meno concentrato rispetto a quelli italiano e francese, ad esempio, aver posto la soglia minima per essere vigilati da Bruxelles a un livello così alto è stato un ingiustificato privilegio per la Germania".
Il secondo, invece, "prevede che siano sostanzialmente impediti gli aiuti di Stato alle banche in crisi".
Le banche in difficoltà, infatti, dovranno in primo luogo chiedere i soldi ai loro azionisti, ai loro obbligazionisti e anche ai loro depositanti, il cosiddetto bail-in.
Ma qui, avverte Giacchè, sorge un ‘piccolo’ problema, poiché “dal 2008 in poi gli Stati europei hanno versato un fiume di denaro per salvare le loro banche, una cifra di 1.616 miliardi di euro che, se si includono le garanzie, supera il muro dei 5 mila miliardi”.
Ma, precisa l’economista, “a fronte di quella cifra citata prima, gli aiuti italiani alle banche in crisi ammontano ad appena 15 miliardi di euro, tra l’altro prestiti a titolo oneroso alle banche e non finanziamenti a fondo perduto. Quindi la situazione è questa: tutti i grandi sistemi bancari europei a parte il nostro sono stati salvati con enormi flussi di denaro pubblico, parliamo di cifre superiori a quelle sborsate negli Usa, riportando in vita sistemi bancari che erano in sostanza falliti nel loro insieme e quindi alterando gravemente la concorrenza tra le banche in Europa".
"Ma l'Italia non ha fatto nulla di tutto ciò: quindi, negoziare una restrizione degli aiuti di Stato generalizzata e valida per tutti allo stesso modo in realtà congela il vantaggio concorrenziale acquisito da alcuni sistemi bancari grazie al denaro dei contribuenti. Si tratta di una misura solo apparentemente equa, che in realtà è gravemente iniqua a danno dell’unico Paese che non aveva impegnato il bilancio pubblico per i salvataggi. Si sarebbe potuto pensare che alla luce di tutto questo l’Italia avrebbe potuto almeno godere di un occhio di riguardo da parte di Bruxelles in relazione alla recente richiesta di creare una bad bank, ossia un veicolo societario in cui far confluire gli asset ‘tossici’ delle banche, o anche soltanto il via libera all’utilizzo del fondo interbancario di tutela dei depositi per risolvere la crisi delle quattro banche italiane. Ma nulla di tutto questo è accaduto, l’atteggiamento di Bruxelles, in entrambi i casi, è stato di ingiustificata chiusura".
Dunque, per i primi due pilastri, il "riassunto" di Giacchè è semplice: il primo ha delle regole con effetto asimmetrico sui diversi sistemi bancari, il secondo costituisce un ingiustificato privilegio nei confronti di chi ha speso soldi enormi per salvare banche decotte.
"Due a zero contro l’Italia e il suo sistema bancario", commenta con gergo calcistico il direttore del Centro Europa Ricerche di Roma.
E il terzo pilastro?
"Non ci sarà - commenta lapidario l’economista - anche se un meccanismo di mutua garanzia tra le banche europee, non più nazionale ma europeo, avrebbe rappresentato la vera alternativa agli aiuti di Stato. Apparentemente, questa è la scusa ufficiale, perché Schaeuble teme di dover pagare per altri sistemi bancari in crisi, crede cioè che il famoso risparmio tedesco venga impiegato per salvare altri sistemi bancari. Questo è quello che racconta e che purtroppo anche i nostri giornali ripetono. Qui però vanno fatte notare due cose. Per ora è il risparmio degli altri Paesi che ha salvato le banche tedesche, e non viceversa. In effetti il Meccanismo europeo di stabilità (Esm), ossia il cosiddetto Fondo ‘salvastati’, è servito prima a mettere in sicurezza i cattivi crediti delle banche tedesche e francesi alla Grecia, ossia a trasferire il rischio sui contribuenti europei, poi a salvare le banche spagnole. Dunque, il risparmio degli italiani è già servito più volte in questi anni a risolvere i problemi dei sistemi bancari altrui".
"Insomma - dice ancora Giacchè - volendo buttarla in battuta si potrebbe tradurre così le parole del ministro delle finanze tedesco: 'vogliamo evitare che in futuro capiti ai risparmiatori tedeschi ciò che grazie a noi tedeschi è capitato ai risparmiatori italiani'. Ma anche questa traduzione sarebbe troppo benevola. Perché il vero motivo della ferma opposizione di Schaeuble è la paura che rientri dalla finestra ciò che lui ha tenuto fuori buttandolo fuori dalla porta: ossia che qualcuno in Europa possa finalmente guardare dentro il sistema bancario tedesco, che è e deve rimanere ‘opaco’. La posizione di Schaeuble sarebbe una difesa della poca trasparenza del sistema bancario tedesco".
"E il perché molto semplice da spiegare. Per partecipare a un sistema di mutua garanzia, ovviamente, l’intervento delle singole banche è misurato dalla rischiosità che esprimono: in parole povere vuol dire che se io sono in ottime condizioni pagherò di meno questa sorta di assicurazione europea di quanto dovrà fare chi è messo peggio di me. Ma come si fa a sapere quale banca sta bene e quale meno bene? Deve essere di fatto sottoposta a forme di vigilanza europea ogni banca, cioè anche quelle che il ministro delle Finanze tedesco ha tenuto fuori. Schaeuble sta continuando a difendere strenuamente gli interessi del sistema bancario tedesco, e soprattutto delle casse di risparmio, storicamente vicine alla Cdu, l’Unione cristiano-democratica, che attualmente 'esprimono" il 24 per cento dei prestiti alle imprese tedesche".
Insomma, "abbiamo costruito un altro Frankenstein normativo in Europa, ma attenzione, questo mostro non è aggressivo allo stesso modo nei confronti di chiunque, perché è evidente che chi ha rimesso a posto i bilanci delle sue banche con enorme iniezione di denaro pubblico, oggi è una posizione più sicura. Chi non lo ha fatto e negoziando male si è precluso la possibilità di farlo, oggi può avere problemi seri visibili nella percezione, da parte dei mercati, di una maggiore debolezza del sistema bancario italiano. Questa debolezza è oggettiva: il sistema bancario italiano è oggi in acque meno buone di 5 anni fa, essenzialmente a causa della crisi, la peggiore crisi economica in tempo di pace vissuta dal nostro paese dai tempi dell’Unità d’Italia, e della conseguente crescita notevolissima delle sofferenza bancarie. E tale percezione dei mercati, in assenza di meccanismi di garanzia non soltanto italiani, ma europei, può oggettivamente creare una ondata di vendita di titoli bancari e, su alcune banche particolarmente esposte, anche fenomeni di fuga dei depositanti. Per il semplice motivo che questi ultimi, grazie alle nuove regole europee come il bail-in, ossia il fatto che nei salvataggi bancari devono essere coinvolti anche i depositanti, possono vedere effettivamente a rischio i risparmi depositati in banca o almeno la quota che eccede i 100 mila euro. E si faccia molta attenzione, perché questo tipo di fenomeni avviene secondo il meccanismo, ben noto a chi opera sui mercati, delle previsioni che si autoavverano: la mia paura che la mia banca sia insolvente, se spinge me e tutti quelli che la pensano allo stesso modo a ritirare i risparmi depositati in banca può effettivamente creare l’effetto di cui ha paura, cioè l’insolvenza della mia banca. Va da se che questo può facilmente creare reazioni a catena e originare una crisi a carattere sistemico".
"Al di là di questo rischio - afferma poi - cito un ultimo dettaglio: le norme del bail-in, che coinvolgono i risparmiatori delle banche in crisi, sono anche incostituzionali per noi. Infatti, l’articolo 47 della nostra Costituzione ci dice che è tutelato il risparmio in tutte le sue forme".
Giacché sinora non ha invece fatto alcun riferimento agli scandali trattati dai media in questo periodo, come il caso del coinvolgimento del papà e del fratello del ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, nel caso della Banca Etruria, una delle quattro salvate dal governo. Perché?
"Perché si tratta in buona parte di un falso bersaglio. I fenomeni di cattiva gestione bancaria ci sono in tutto il mondo da quando esiste il sistema bancario. Ritenere che questi fenomeni siano determinanti oggi, significa non capire quello che sta succedendo: l’attacco, l’impossessamento dei risparmi degli italiani da parte di banche straniere, che tra l’altro sin dall’inizio della crisi hanno dimostrato ampiamente di fare un uso della finanza molto più spericolato delle banche italiane, e di essere gestite in modo che eufemisticamente possiamo definire molto opinabile".
Per Giacchè, "la conclusione generale da trarre, se si vuole, è indiretta. Io mi continuo a imbattere in politici e in parte della cosiddetta élite che chiede di avere ‘più Europa’. Se l’Europa consiste in queste regole zoppicanti e asimmetriche, punitive nei nostri confronti mentre favoriscono altri, io di Europa ne voglio di meno. E sopratutto pretendo che chi negozia le regole per questo Paese sia all’altezza del suo compito. E che se ha negoziato delle normative che ci danneggiano e che oltretutto vanno contro la nostra carta fondamentale, ne paghi le conseguenze politici. L’irresponsabilità a questi livelli non può essere ulteriormente tollerata".

Deleuze, Foucault, Lacan e i guasti del cambio fisso (parte I)

Ormai sono anni che mi ripropongo di scrivere qualcosa su gente come Deleuze, Foucault, Lacan e compagnia, battezzati loro malgrado come post-strutturalisti un quarantennio fa in una mitica conferenza americana dedicata allo strutturalismo. Alla fine credo che rinuncerò a scrivere un testo organico e ben articolato, troppa fatica e troppa poca la resa. Oltretutto non sono così colto, che vado cercando? Eppure qualche parola bisognerà pur dirla per togliersi quel sassolino molesto dalle scarpe. 
Bene lo voglio dire, basta il fatto, almeno per un sempliciotto come me che cerca un utile nelle lettura, che usino un linguaggio oscuro e senza senso (che il senso difetti lo hanno dimostrato ampiamente Sokal e Brichmont nel loro libro "Imposture Intellettuali"), per classificare i loro scritti come pura diarrea verbale. D'accordo direte, ma come si fa a dire che non ha senso ciò che dicono solo perchè tu non lo capisci? E sia, ammettiamo che io e qualche altro milione di ignorantoni non capiamo, ma non capire presuppone una sorta di codice intrinseco nelle parole, che rimandano ad una verità conoscibile solo attraverso un processo di conoscenza per iniziati, una gnosi insomma, degna delle migliori religioni sulla piazza. Va bene, ammettiamo che sia così, che la "Cosa Freudiana" , celi tesori di conoscenza nascosti, accessibili a pochi, e che qualche eletto avrà sicuramente capito, ma cosa ne hanno fatto, gli eletti,  di cotanta conoscenza? A cosa è servita, quali risultati tangibili ha prodotto nel miglioramento della condizione umana? Risposta facile: una beata mazza. Come diceva un compagno comunista americano di fronte allo spiazzamento operato in america da una abbagliante French Theory: "questa è rivoluzione verbale" e nient'altro. La loro preziosa gnosi non ha fatto che sedimentare un discorso su cui si sono innestati processi ricorsivi che richiamano ad altri sviluppi parlalleli e tutti insieme richiamano all'originale. Tutto questo in una spirale di referenzialità multiple che generano una tradizione dal nulla, o meglio dal verbo. 
Pensare che con che le parole e con la costruzione di narrazioni cervellotiche si possa incidere sulla realtà e influenzare una prassi politica non è purtroppo un'illusione, è una tragica realtà. Nel condannare a morte senza mezzi termini la tecnica e la scienza, e per estensione il pragmatismo, come puri dispositivi del potere capitalista è stata una sciagura che ha messo Marx in cantina e il cervello in ammollo, influenzando generazioni intere, che finiscono per ingrossare le file dei potenziali delusi dalla sinistra. Piaccia o non piaccia senza una scienza degna di questo nome, non si combina nulla nè in politica nè in economia. Per inciso, appropriarsi poi di Nietzsche, arrogandosi il diritto di ricreare di sana pianta un senso privatro dalle sue parole, ignorando quanto di esplicitamente razzista e aristocratico ci fosse nei suoi scritti, è puro funabolismo semantico, che privilegia la spettacolarità del segno alla fruibilità del testo. 
Oggi scopro con sollievo che un giovane studioso belga, Daniel Zamora, ha ipotizzato, attraverso un'attenta analisi degli scritti foucaltiani, che il santo Foucault, nella sua critica ai meccanismi di oppresione statale, con la sua idea di biopolitca alla fine non facesse altro che sferrare un attacco allo concetto stesso di sicurezza e garanzia del diritto, insite in ogni costituzione statale, in favore di una libertà che è molto simile a quella propugnata dai liberisti di ogni latitudine e aggiugerei io, anche dai libertarian, che considerano qualsiasi funzione statale, un'ingerenza nella propria libertà e un indebito controllo sulla persona. Insomma un congegno biopolitico infernale, nato per opprimere. Non credo però che quelli che vengono curati negli ospedali pubblici sarebbero o meglio curati da associazioni private, magari rette da mutinazionali. 
Non so se Zamora abbia colto nel segno, certo che a me Foucault mi aveva incantato in gioventù, finchè non sono andato a lavorare in un Dipartimento di Psichiatria e mi è sembrato che i problemi non fossero quelli del controllo, ma i soliti banali problemi della mancanza di fondi, di training adeguati, di conoscenze scientifiche al passo coi tempi ecc. Insomma se devo dirla tutta la sua adesso mi appare come letteratura intrigante, ma inservibile...

sabato 19 dicembre 2015

Illuminismo islamico

Ci si chiede come mai in "Arabia" non ci sia mai stato un secolo dei lumi, allo stesso modo che in occidente, e come mai non  non si sia avviato anche lì un processo di secolarizzazione che conducesse a  quel "politeismo dei valori" che tanto piace alle culture evolute come la nostra. 
Forse perchè loro, gli arabi, gli "islamici" un secolo fecondo e illuminato lo avevano già avuto prima che noi ce neaccorgessimo e fossimo capaci di apprezzarlo. 
Quando noi evoluti occidentali ancora la facevamo per strada, vestivamo di pelli animali e abitavamo in tuguri umidi e freddi, loro, gli "islamici" coltivavano la bellezza, l'arte, la scienza, i modi raffinati di chi la sa lunga e ti guarda da lontano con benevola curiosità. Noi quella luce l'abbiamo spenta e invece di tendere la mano abbiamo pensato che la loro bellezza fosse blasfema e li abbiamo bastonati. 
Ai nostri giorni abbiamo pensato di tenerli nel medioevo perchè questo come dice Lutwak è un "big deal" per noi  evoluti occidentali e per il nostro business. Così al moderno Afaganistan degli anni '60 con donne libere e ammiccanti abbiamo preferito l'incubo degli uomini neri  amici dell'occidente e nemici delle donne, custodite in sacofaghi di panno, amici che alla bisogna diventano nemici.
Oggi il secolo dei lumi è lontano e la sola fiammella che arde è quella delle armi. 
Avessero almeno una borghesia "illuminata", gli arabi. Nemmeno quella, solo principi, sovrani, e cacicchi da una parte e plebe dall'altra. 
La plebe non sa che farsene dei nostri lumi.

lunedì 14 dicembre 2015

Michel Foucault: liberalismo e critica

 Daniel Zamora


Nel dicembre scorso Daniel Zamora, un giovane studioso belga, ha rilasciato un’intervista al settimanale francese «Ballast» dal titolo ambiguamente provocatorio “Peut-on critiquer Foucault?”.
L’intervista, concessa in occasione dell’uscita del volume – a cura dello stesso Daniel Zamora – Critiquer Foucault. Les années 1980 et la tentation néolibérale (Aden Editions, 2014) e tradotta poi in inglese qui dalla rivista Jacobin, ha originato un vivace dibattito (qui un riepilogo) che ha avuto risonanza anche Oltreoceano (qui e qui).
C’è un grande equivoco di fondo nel dibattito contemporaneo attorno alla figura di Foucault. Si tratta della sua storicizzazione e canonizzazione all’interno di una tradizione di pensiero sezionata in categorie predeterminate, dalla quale discende la crescente volontà filologico-esegetica dei sempre più numerosi foucaultiani sparsi per il mondo, o – a contrario – la critica serrata a singoli passaggi e interpretazioni testuali, magari relativi all’antichità. Zamora si innesta su questo terreno scivoloso con una “vecchia” innovazione, più affine all’intervento militante contemporaneo che all’analisi a distanza: la critica del portato politico e della ricaduta sociale all’interno di una cornice ideologica ben circoscritta. All’apparenza distanti, queste due strategie riposano su un medesimo presupposto: il passaggio dal lavoro con i testi e il pensiero di Foucault al lavoro sui testi e il pensiero stessi. Proponiamo di seguito alcuni estratti dell’intervista concessa da Daniel Zamora, cui seguirà nelle prossime settimane una nota critica (a cura di Giacomo Tagliani e Antonio Iannello) che vuole essere anche un invito ad aprire sul nostro blog uno spazio di discussione sul pensiero di Michel Foucault in merito alle sue analisi dei dispositivi, delle pratiche storiche, i discorsi, le razionalità politiche che hanno contribuito alla nascita e al consolidamento di quella forma economica, politica sociale e militare che ha preso il nome di Stato liberale in Europa occidentale.

La traduzione italiana dell’intervista completa è a cura di Martina Battaglia.

1. Ballast Revue – Veyne, nota che il pensiero di Foucault e la sua persona erano inclassificabili politicamente e filosoficamente. «Non credeva né a Marx, né a Freud, né alla rivoluzione né a Mao, sogghignava in privato dei buoni sentimenti progressisti e non ho conosciuto una sua posizione di principio su problemi più vasti, terzo mondo, società dei consumi, capitalismo, imperialismo americano». Tu scrivi che è sempre stato «un passo avanti rispetto ai suoi contemporanei», cioè?
Daniel Zamora: Diciamo che si può difficilmente togliere a Foucault il fatto di aver messo in luce problematiche che erano chiaramente ignorate, addirittura messe da parte dagli intellettuali dominanti della sua epoca. In particolare la tradizione marxista che si è occupata solo tardivamente di quello che sta ai margini del mondo del salariato [le salariat]. Dalla psichiatria alla prigione o alla sessualità, i suoi lavori hanno chiaramente posto l’attenzione su temi «impensati» nel campo intellettuale. Ci ha insegnato a mettere in questione politicamente i temi che sembravano «al di là» di ogni sospetto. Mi ricordo ancora della sua famosa intervista con Chomsky quando dichiarava che il vero compito politico ai suoi occhi era quello di criticare le istituzioni «apparentemente neutre e indipendenti» e attaccarle «in modo tale che la violenza politica che si esercitava oscuramente in esse venisse smascherata». Se io provo talvolta dei dubbi sulla natura delle sue critiche – ci torneremo – rimane che questa era una sfida più che innovatrice e stimolante.
2. B – Foucault compatibile con neoliberismo. Il suo libro farà digrignare i denti agli ambienti radicali dove normalmente Foucault ha il ruolo del Profeta.
Z: Lo spero! È un po’ lo scopo del libro. Volevo chiaramente rompere con l’immagine fin troppo consensuale di un Foucault in opposizione completa al neoliberismo durante l’ultimo periodo della sua vita. Da questo punto di vista io penso che le interpretazioni tradizionali di questi ultimi lavori siano erronee o quantomeno evitino una parte del problema.
Non è solo il suo corso al Collège France che pone la questione (Nascita della biopolitica) ma numerosi articoli e interviste che sono molto accessibili. Foucault era molto attratto dal liberismo economico. In effetti, vi vedeva la possibilità di una forma di governamentalità molto meno normativa e autoritaria rispetto alla sinistra socialista e comunista che egli trovava completamente superata. Vede nel neoliberismo una politica «molto meno burocratica» e «molto meno disciplinarista» di quelle proposta dallo Stato sociale del dopoguerra. Sembra immaginare un neoliberismo che non proietta i suoi modelli antropologici sugli individui e che offre loro una autonomia maggiore di fronte allo Stato. Anche Colin Gordon, uno dei principali traduttori e commentatori di Foucault nel mondo anglosassone, non esita a dichiarare di vedere in lui una sorta di precursore della terza via di Blair, che inseriva nel corpus social-democratico alcuni elementi della strategia neoliberista.
Questa constatazione è particolarmente importante se vogliamo comprendere i cambiamenti del post ’68. La maggior parte delle opere consacrate alla svolta conservatrice degli anni Ottanta è stata articolata intorno all’idea del “tradimento”. In fondo, erano di sinistra, poi hanno cambiato casacca per “opportunismo”. È una lettura sommaria e completamente scorretta dal mio punto di vista. Studiando seriamente l’analisi di Foucault – ma anche di molti altri – a cavallo degli anni Ottanta, si capisce subito che il loro gauchisme o le loro critiche vertevano essenzialmente su tutto quello che aveva incarnato la sinistra del dopoguerra. Lo Stato sociale, i partiti, i sindacati, il movimento operaio organizzato, il razionalismo, la lotta contro le disuguaglianze. In fondo, al di là di Foucault, non penso che questi intellettuali abbiano “cambiato casacca”. Erano predisposti, per le loro critiche e per il loro odio nei confronti della sinistra classica ad abbracciare l’opinione neoliberale.

[…]
4. B  Nel tuo testo, tu contesti la sua visione della sicurezza sociale e della redistribuzione delle ricchezze: puoi parlarcene?
Z: È una questione quasi inesplorata dall’immensa produzione dei foucaultiani. A dire il vero io stesso non pensavo di lavorare a tale questione quando ho immaginato il progetto del libro. Il mio interesse per la sicurezza sociale non era inizialmente legato direttamente a Foucault. Le mie ricerche su tale questione mi avevano portato a interrogarmi sul modo in cui si è passati, nel corso degli ultimi quarant’anni, da una politica che mirava a lottare contro le disuguaglianze, ancorata nella sicurezza sociale, a una politica che mira a combattere la povertà, sempre più organizzata intorno ai budget specifici e calibrata su obiettivi pubblici. Per portare a compimento a questa piccola rivoluzione è stato necessario un lungo lavoro di delegittimazione della sicurezza sociale e delle istituzioni legate al salariato. Ed è percorrendo con attenzione le pagine dell’«ultimo» Foucault, fine degli anni Settanta e inizio degli anni Ottanta, che mi è apparso chiaro come egli abbia preso pienamente parte a questa operazione. Egli rimette in causa non solo la sicurezza sociale ma è anche sedotto dall’alternativa dell’imposta negativa proposta da Friedman in questa epoca.

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Dal suo punto di vista, i meccanismi di assistenza e di assicurazione, che egli mette sullo stesso piano della prigione, delle caserme e delle scuole, sono istituzioni indispensabili «per l’esercizio del potere nelle società moderne». Visti i troppi difetti che comporterebbe il sistema classico di sicurezza sociale Foucault sembra allora interessato al progetto di sostituirlo con un sistema di imposta negativa. L’idea è relativamente semplice, consiste nell’offerta da parte dello Stato di un sussidio a tutti coloro che si trovano al di sotto di un certo livello di reddito. L’obiettivo è di fare in modo, senza grandi sforzi amministrativi, che nessuno possa trovarsi al di sotto di un livello minimo di reddito. In Francia è attraverso l’opera di L. Stoléru, Vaincre la pauvreté dans les pays riches, che questo dibattito appare nel 1974. Da questo punto di vista, l’entusiasmo appena celato con cui Foucault parla della posizione di Stoléru fa parte di un movimento più ampio che procede di pari passo con il declino della filosofia egalitarista della sicurezza sociale a vantaggio di una lotta liberale contro la povertà.
Per quanto possa sembrare sorprendente, questa lotta, lungi dall’aver limitato gli effetti delle politiche neoliberali, ha in realtà operato in favore della loro egemonia politica. Detto questo, non dovrebbe sembrare strano vedere i più ricchi al mondo come Bill Gates e Georges Soros impegnarsi in questa lotta alla povertà nel mondo continuando a difendere senza contraddizione apparente la liberalizzazione dei sevizi pubblici, la distruzione di tutti i meccanismi di redistribuzione della ricchezza e le «virtù» del neoliberalismo. Lottare contro la povertà permette di includere le questioni sociali nell’agenda politica senza tuttavia dover lottare contro le disuguaglianze e i meccanismi strutturali che le producono. Questa evoluzione ha dunque pienamente accompagnato il neoliberismo e Foucault ha la sua parte di responsabilità in questa deriva.
5. B – La questione dello Stato è sempre presente nell’opera. Chi critica la sua esistenza sarebbe un liberale: questo comporta dimenticare la tradizione anarchica, anti-Stato, e anche quella marxista. Engels e Marx parlavano di una sua «scomparsa» e Lenin ha teorizzato la sua riduzione. Non hai ignorato questa dimensione?
Z: Non penso. Mi sembra che la critica della tradizione marxista o di quella anarchica siano molto differenti da quella formulata da Foucault e da una parte non trascurabile del marxismo degli anni Settanta. Io sono sempre stato molto contrariato da questa idea abbastanza diffusa nella sinistra radicale per cui la sicurezza sociale sarebbe fondamentalmente uno strumento di controllo sociale da parte del grande capitale. Questa idea manifesta una ignoranza totale della storia e delle origini dei nostri sistemi di protezione sociale. Essi non sono stati instaurati dalla borghesia per controllare il popolo. Queste istituzioni, frutto di una posizione di forza del movimento operaio all’indomani della liberazione, sono state inventate dal movimento operaio stesso. Nel Diciannovesimo secolo gli operai e i sindacati avevano, per esempio, costituito le casse di mutuo soccorso per versare dei sussidi a chi fosse stato impossibilitato a lavorare. È dunque la logica stessa del mercato e le enormi incertezze che essa fa pesare sulle vite degli operai che hanno spinto questi ultimi a sviluppare dei meccanismi che permettessero di socializzare una parte dei loro redditi.
Da questo punto di vista, se con l’industrializzazione solo i proprietari potevano dirsi pienamente cittadini, è – come sottolinea R. Castel – con la sicurezza sociale che ha avuto luogo la «riabilitazione sociale dei non proprietari». Essa instaura quindi, a fianco della proprietà privata, una proprietà sociale destinata a fare realmente entrare nella cittadinanza le classi popolari. Questa idea è quella che difendeva Polanyi ne La grande trasformazione, vedendo in ogni principio della protezione sociale l’obiettivo di svincolare l’individuo dalle leggi del mercato e dunque di riconfigurare i rapporti di forza tra capitale e lavoro. Si può certamente criticare la gestione statale della sicurezza sociale e dire, per esempio, che sono dei collettivi che la dovrebbero amministrare – anche se io non ci credo molto – ma criticare lo strumento e i suoi fondamenti ideologici in quanto tali è molto differente… Quando Foucault arriva a dire che è «chiaro che non ha alcun senso parlare di diritto alla salute» e si domanda se «una società deve cercare di soddisfare con degli strumenti collettivi il bisogno di salute degli individui» e «se è giusto e legittimo che gli individui rivendichino un diritto alla soddisfazione di questi bisogni» non si è più nel registro anarchico.
[…]
8. B – Debray scrive, in Modernes catacombes, che Foucault, la penna ribelle degli emarginati, è diventato un «filosofo ufficiale». Come ti spieghi questo paradosso, con il quale sembri d’accordo? E come spieghi che egli possa sedurre gli ambienti radicali che, affermano e spesso con clamore, di volere superare l’era neoliberale?
Z: È una questione molto interessante e alla quale io non ho una risposta esaustiva. Tuttavia io penso che questo fatto sia in gran parte dovuto alla struttura dell’ambiente accademico stesso. Bisogna tornare a Bourdieu e ai preziosi lavori di L. Pinto per comprendere meglio questa evoluzione. Non bisogna mai dimenticare che inserirsi in una “scuola” o in una prospettiva teorica di un autore è anche inserirsi in un campo intellettuale dove c’è una lotta importante per avere accesso a posizioni dominanti. In fondo, dirsi marxista nella Francia degli anni Sessanta, quando il campo accademico è parzialmente dominato da autori che rivendicano tale appartenenza, non è la stessa cosa che essere marxista oggi. I concetti e gli autori canonici sono evidentemente degli strumenti intellettuali, ma essi corrispondono ugualmente ad altrettante strategie per inscriversi nel campo e nelle lotte di cui sono l’oggetto. Le congiunture intellettuali sono in parte determinate dal rapporto di forza interno al campo stesso. E mi sembra che i rapporti di forza nel campo accademico siano considerevolmente cambiati a partire dalla fine degli anni Settanta e che , in seguito al declino del marxismo, Foucault vi occupi un ruolo centrale. Io penso che egli offra in realtà una posizione molto comoda permettendo un certo grado di sovversione senza perdere posizioni nel mondo accademico. Richiamarsi a Foucault oggi è relativamente valorizzato e permette spesso ai suoi difensori di essere pubblicati dentro riviste prestigiose, di inserirsi in una larga rete di intellettuali, di pubblicare libri, eccetera. Lungi dall’essere sovversivo, oggi vaste aree del mondo intellettuale fanno riferimento a Foucault nei loro lavori e gli fanno dire tutto e il suo contrario.

Can We Criticize Foucault?

Late in life, Michel Foucault developed a curious sympathy for neoliberalism.


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Since his death in 1984, Michel Foucault’s work has become a touchstone for the academic left worldwide. But in a provocative new book published in Belgium last month, a team of scholars led by sociologist Daniel Zamora raises probing questions about Foucault’s relationship with the neoliberal revolution that was just getting started in his last years.
In an interview this month with the new French journal Ballast, Zamora discusses the book’s fascinating findings and what they mean for radical thought today. Below is the text of the interview, translated from French by Seth Ackerman.



In his book Foucault, Sa Pensée, Sa Personne, Foucault’s friend Paul Veyne writes that he was unclassifiable, politically and philosophically: “He believed in neither Marx nor Freud, nor in the Revolution nor in Mao, in private he snickered at fine progressive sentiments, and I knew of no principled position of his on the vast problems of the Third World, consumerism, capitalism, American imperialism.”


You write that he was always “a step ahead of his contemporaries.” What do you mean by that?

It should be said that Foucault undeniably put the spotlight on themes that were very clearly ignored, even marginalized, by the dominant intellectuals of his era. Whether it was on psychiatry, the prison, or sexuality, his works clearly marked out a vast intellectual terrain. Of course he was part of an era, a much wider social context, and he wasn’t the first to work on these questions. These themes were popping up everywhere and became the objects of significant social and political movements.
In Italy, for example, the anti-psychiatry movement initiated by Franco Basaglia didn’t have to wait for Foucault to challenge the mental asylum to formulate stimulating political proposals of its own for replacing that institution. So obviously Foucault did not originate all these movements — he never claimed to — but he clearly opened the way for a very large number of historians and scholars working on new themes, new territories that had been little explored.
He taught us to always politically question things which at the time seemed “beyond” all suspicion. I still remember his famous discussion with Chomsky, where he declared that the real political task in his eyes was to criticize institutions that were “apparently neutral and independent” and to attack them “in such a way that the obscured political violence within them would be unmasked.”
I might have some doubts about the nature of his critiques — we’ll come back to that I’m sure — but it was nevertheless an extremely novel and stimulating project.

By making Foucault compatible with neoliberalism, your book could ruffle a lot of feathers.

I hope so. That’s sort of the point of the book. I wanted to clearly break with the far too consensual image of Foucault as being in total opposition to neoliberalism at the end of his life. From that point of view, I think the traditional interpretations of his late works are erroneous, or at least evade part of the issue. He’s become sort of an untouchable figure within part of the radical left. Critiques of him are timid, to say the least.
This blindness is surprising because even I was astonished by the indulgence Foucault showed toward neoliberalism when I delved into the texts. It’s not only his Collège de France lectures, but also numerous articles and interviews, all of which are accessible.
Foucault was highly attracted to economic liberalism: he saw in it the possibility of a form of governmentality that was much less normative and authoritarian than the socialist and communist left, which he saw as totally obsolete. He especially saw in neoliberalism a “much less bureaucratic” and “much less disciplinarian” form of politics than that offered by the postwar welfare state. He seemed to imagine a neoliberalism that wouldn’t project its anthropological models on the individual, that would offer individuals greater autonomy vis-à-vis the state.
Foucault seems, then, in the late seventies, to be moving towards the “second left,” that minoritarian but intellectually influential tendency of French socialism, along with figures like Pierre Rosanvallon, whose writings Foucault appreciated. He found seductive this anti-statism and this desire to “de-statify French society.”
Even Colin Gordon, one of Foucault’s principal translators and commentators in the Anglo-Saxon world, has no trouble saying that he sees in Foucault a sort of precursor to the Blairite Third Way, incorporating neoliberal strategy within the social-democratic corpus.

At the same time, your book is not a denunciation or a prosecutorial inquiry. As you said earlier, you recognize the quality of his work.

Of course! I’m fascinated by the personality and his work. To my mind it’s precious. I also enormously appreciated the work recently published by Geoffroy de Lagasnerie, La dernière leçon de Michel Foucault. Ultimately his book is sort of the flip side of ours, since he sees in Foucault a desire to use neoliberalism to reinvent the Left. Our perspective is that he uses it as more than just a tool: he adopts the neoliberal view to critique the Left.
Still, Lagasnerie underlines a point that to my mind is essential and goes to the heart of numerous problems on the critical left: he argues that Foucault was one of the first to really take the neoliberal texts seriously and to read them rigorously. Before him, those intellectual products were generally dismissed, perceived as simple propaganda. For Lagasnerie, Foucault exploded the symbolic barrier that had been built up by the intellectual left against the neoliberal tradition.
Sequestered in the usual sectarianism of the academic world, no stimulating reading had existed that took into consideration the arguments of Friedrich Hayek, Gary Becker, or Milton Friedman. On this point, one can only agree with Lagasnerie: Foucault allowed us to read and understand these authors, to discover in them a complex and stimulating body of thought. On that point I totally agree with him. It’s undeniable that Foucault always took pains to inquire into theoretical corpuses of widely differing horizons and to constantly question his own ideas.
The intellectual left unfortunately has not always managed to do likewise. It has often remained trapped in a “school” attitude, refusing a priori to consider or debate ideas and traditions that start from different premises than its own. It’s a very damaging attitude. One finds oneself dealing with people who’ve practically never read the intellectual founding fathers of the political ideology they’re supposedly attacking! Their knowledge is often limited to a few reductive commonplaces.

In your book, you contest his vision of social security1 and wealth redistribution. Could you talk about that?

It’s practically an unexplored issue within the immense corpus of the “Foucauldians.” To tell the truth, I didn’t think I’d be working on this when I was thinking up the plan of the book. My interest in social security wasn’t originally connected to Foucault directly, but my research on this issue led me to think about how over the past forty years we’ve gone from a politics aimed at combatting inequality, grounded in social security, to a politics aiming to combat poverty, increasingly organized around specific budget allocations and targeted populations.
But going from one objective to the other completely transforms the conception of social justice. Combatting inequalities (and seeking to reduce absolute disparities) is very different from combating poverty (and seeking to offer a minimum to the most disadvantaged). Carrying out this little revolution required years of work delegitimizing social security and the institutions of the working class.
It was while reading closely through the texts of the “late” Foucault (from the late seventies and early eighties) that it became clear to me that he himself fully took part in this operation. So, he not only challenged social security, he was also seduced by the alternative of the negative income tax proposed by Milton Friedman in that period. To his mind, the mechanisms of social assistance and social insurance, which he put on the same plane as the prison, the barracks, or the school, were indispensable institutions “for the exercise of power in modern societies.”
It’s also interesting to note that in François Ewald’s central work, he doesn’t hesitate to write that “the welfare state fulfills the dream of ‘biopower.’” No less! [Ewald was Foucault’s disciple and assistant, now a leading intellectual aligned with France’s insurance industry and the Medef, the main French business federation.]
Given the many defects of the classical social security system, Foucault was interested in replacing it with a negative income tax. The idea is relatively simple: the state pays a benefit to anyone who finds themselves below a certain level of income. The goal is to arrange things so that without needing much administration, no one will find themselves below the minimum level.
In France this debate begins to appear in 1974, through Lionel Stoléru’s book Vaincre la pauvreté dans les pays riches (Conquering Poverty In the Rich Countries). It’s also interesting to note that Foucault himself met with Stoléru several times when Stoléru was a technical advisor on the staff of [right-wing French president] Valéry Giscard D’Estaing. An important argument runs through his work and directly attracted Foucault’s attention: in the spirit of Friedman, it draws a distinction between a policy that seeks equality (socialism) and a policy that simply aims to eliminate poverty without challenging disparities (liberalism).
For Stoléru, I’m quoting, “doctrines. . . can lead us either to a policy aiming to eliminate poverty, or to a policy seeking to limit the gap between rich and poor.” That’s what he calls “the frontier between absolute poverty and relative poverty.” The first refers simply to an arbitrarily determined level (which the negative income tax addresses) and the other to overall disparities between individuals (which social security and the welfare state address).
In Stoléru’s eyes, “the market economy is capable of assimilating actions to combat absolute poverty” but “it is incapable of digesting overly strong remedies against relative poverty.” That’s why, he argues, “I believe the distinction between absolute poverty and relative poverty is in fact the distinction between capitalism and socialism.” So, what’s at stake in moving from one to the other is a political issue: acceptance of capitalism as the dominant economic form, or not.
From that point of view, Foucault’s barely masked enthusiasm for Stoléru’s proposal was part of a larger movement that went along with the decline of the egalitarian philosophy of social security in favor of a very free-market-oriented fight against “poverty.” In other words, and as surprising as it may seem, the fight against poverty, far from limiting the effects of neoliberal policies, has in reality militated for its political hegemony.
So it’s not surprising to see the world’s largest fortunes, like those of Bill Gates or George Soros, engaging in this fight against poverty even while supporting, without any apparent contradiction, the liberalization of public services, the destruction of all these mechanisms of wealth redistribution, and the “virtues” of neoliberalism.
Combatting poverty thus permits the inclusion of social questions on the political agenda without having to fight against inequality and the structural mechanisms that produce it. So this evolution has been part and parcel of neoliberalism, and the objective of my text is to show that Foucault had his share of responsibility in this development.

The question of the state is omnipresent in your book. Whoever critiques its raison d’être is allegedly a liberal. But isn’t that forgetting the traditions of anarchism and Marxism, from Bakunin to Lenin? Aren’t you overlooking that dimension?

I don’t think so. I think the critique from the Marxist or anarchist tradition is very different from the one Foucault was formulating, and not only him but also a significant swath of the Marxism of the 1970s.
First, for the simple reason that all those old anarchist and Marxist writers knew nothing of social security or the form the state would take after 1945. The state Lenin was addressing was effectively the state of the dominant class, in which workers played no real role. The right to vote, for example, wasn’t really generalized — for men — until the interwar era. So it’s hard to know what they would have thought of these institutions and their so-called “bourgeois” character.
I’ve always been very irritated by this idea, which is relatively popular within the radical left, that social security is ultimately nothing more than a tool of social control by big capital. This idea demonstrates a complete misunderstanding of the history and origins of our systems of social protection. These systems were not established by the bourgeoisie to control the masses. On the contrary, it was totally hostile to them!
These institutions were the result of the strong position held by the workers’ movement after the Liberation. They were invented by the workers’ movement itself. From the nineteenth century onward, workers and unions had established mutual societies, for example, to pay benefits to those unable to work. It was the very logic of the market and the enormous risks it imposed on the lives of workers that pushed them to develop mechanisms for the partial socialization of income.
In the early phase of the industrial revolution, only property owners were full citizens, and as the sociologist Robert Castel emphasizes, it was only with social security that the “social rehabilitation of non-property-owners” really took place. It was social security that established, alongside private property, a social property, intended to usher the popular classes into citizenship. This is the idea Karl Polanyi advances in The Great Transformation, which sees in the principle of social protection the aim of withdrawing the individual out of the laws of the market and thus reconfiguring relations of power between capital and labor.
One can, of course, lament the statist form in which social security is managed, or say, for example, that it ought to be run by collectives — though I don’t really buy that — but criticizing the tool and its ideological basis as such, that’s very different. When Foucault goes so far as to say it’s “clear that there is hardly any sense in speaking of a ‘right to health,’” and asks, “should a society seek to satisfy individuals’ need for health? And can those individuals legitimately demand the satisfaction of those needs?” we are no longer really within the anarchist register.
For me, and contrary to Foucault, what we should do is deepen the social rights that we have already, we should “build on what already exists,” as Bernard Friot says. And social security is an excellent tool that we should both defend and deepen.
Along the same lines, when I read the philosopher Beatriz Preciado, who writes in Libération that “we’re not going to cry over the end of the welfare state, because the welfare state is also the psychiatric hospital, the disability office, the prison, the patriarchal-colonial-heteronormative school,” it makes me think that neoliberalism has done much more than transform our economy; it has profoundly reconfigured the social imagination of a certain “libertarian” left.

If you look at the few critical intellectuals who contest Foucault (I’m thinking of Mandosio, Debray, Bricmont, Michéa, Monville, or Quiniou), you might say, in broad terms, that they criticize him for positioning himself as more “sociétal” than “social” [i.e., more socio-cultural than socio-economic].


But in focusing on “the marginal” (the excluded, the prisoners, the mad, the “abnormal,” the sexual minorities, etc.), didn’t Foucault make it possible to bring into the light all these people who had until then been ignored by orthodox Marxism — which had only been able to see economic relations?

You’re absolutely right. I’ll say it again: his contribution on this point is very important. He clearly removed from the shadows a whole spectrum of oppressions that had been invisible before. But his approach did not solely aim to put these problems forward: he sought to give them a political centrality that can be questioned.
To say it plainly: in his eyes, and in the eyes of many writers of that period, the working class today is “embourgeoisée,” it is perfectly integrated into the system. The “privileges” that it obtained after the war make it no longer an agent of social change, but, on the contrary, a brake on the Revolution. This idea was very widespread at the time, it can be found in authors as varied as Herbert Marcuse or André Gorz. Gorz would go so far as to speak of a “privileged minority,” with respect to the working class.
The end of this centrality — which was also a synonym for the end of the centrality of work — would find its outlet in the “struggles against marginalization” of ethnic or social minorities. The lumpenproletariat (or the “new plebeians,” to use Foucault’s term) acquired a new popularity and was now seen as a genuinely revolutionary subject.
For these authors, the problem is thus no longer so much exploitation, but rather power, and modern forms of domination. As Foucault wrote, if “the nineteenth century was concerned above all with relations between large economic structures and the state apparatus,” now it was “the problem of petits pouvoirs [little powers] and diffuse systems of domination” which “have become fundamental problems.”
The problem of exploitation and wealth had been replaced by that of “too much power,” the power of control over personal conduct, and forms of modern pastoral power. At the dawn of the 1980s, it seems clear that for Foucault it was no longer a question of redistributing wealth. He has no trouble writing: “One could say we need an economics that deals not with production and distribution but an economics that deals with relations of power.” Thus, it’s less about a struggle against power “as economic exploiter,” and more about struggles against day-to-day power, embodied especially by feminism, student movements, prisoners’ struggles, or those of the undocumented.
Let me be clear, the problem is obviously not to have placed on the agenda a whole spectrum of dominations that had once been ignored, the problem comes from the fact that these dominations are more and more theorized and thought outside of questions of exploitation. Far from outlining a theoretical perspective that thinks through the relations between these problems, they are little by little pitted against each other, even thought of as contradictory.

That’s essentially what some people criticize him for: praising the figure of the “delinquent,” the criminal, and the lumpen while ridiculing the “conservative” laborer and worker.


In your book, Jean-Loup Amselle draws a link between this abandonment of “the people” and the “écolo-bobo” position of the governmental left, along the lines of Terra Nova [a neoliberal French think tank close to the Socialist Party]. What do you think of that?

The problem is that this dismissal of the working class had rather astonishing effects. It put at the forefront of public debate the “social exclusion” of the unemployed, immigrants, and the youth of the banlieues as the principal political problem. This evolution ended up being the point of departure — on both the Right and the Left — for the centrality “the excluded” were to assume, the idea that now “post-industrial” society would divide between those who have access to the labor market and those who, to one degree or another, are excluded from it — thus displacing the focus from the world of work to exclusion, poverty, or unemployment.
As the sociologists Stéphane Beaud and Michel Pialoux have noted, this displacement would indirectly place workers “on the side of the ‘ins,’ those who have a job on the side of the ‘privileged’ and ‘unearned advantages.’”
This logic, which redefined the social question on both sides — on both the Right and on the Left — as a conflict between two factions of the proletariat, rather than between capital and labor, is something that needs to be examined. On the Right, the aim was to limit the social rights of the “surplus population” (surnuméraires) by mobilizing the “workers” (actifs) against them, and on the Left it was about mobilizing the “surplus population” against the embourgeoisement of the “workers.” Both sides, then, accept the centrality of the factions “excluded” from the stable workforce, at the expense of the “workers.”
We can thus ask ourselves whether, when Margaret Thatcher contrasted the “protected” and “coddled” “underclass” with those “who work,” was she not expressing in inverse form the thesis of Foucault or André Gorz? This new doxa of the conservative neoliberal right seeks essentially, as Serge Halimi notes, “the redefinition of the social question in such a way that the line of cleavage no longer divides rich from poor, capital from labor, but rather two fractions of the ‘proletariat’ from each other: that which is suffering from ‘compassion fatigue’ from that which represents the ‘welfare nation.’”
Obviously the political content of these right-wing statements differs radically from those of these late 1970s authors, but they both presuppose that today it is “the excluded” who pose the problem, or the solution; it is the surplus population that has become the central political subject and no longer the working class.
Indeed, how can we not see a strange paradox between Gorz’s “non-class” and the “underclass” that is so dear to the ultra-conservative ideologue Charles Murray? Both for Gorz and for the neoliberal movement, it is no longer the fact of being exploited that poses the problem, so much as one’s relationship to work. Gorz sees the way of life of the surplus population as a “deliverance” from work, and Thatcher sees a “vice” of laziness that must be combated. One elevates a “right to be lazy” to the status of virtue, whereas the other makes it out as an injustice that must be destroyed.
But underneath, these two versions function in the same logic. Thus, both the Left and the Right want the “surplus population” to be the problem, thereby supplanting those old, out-of-date, dogmatic ideas that placed exploitation at the heart of the social critique.
Both the Left and the Right want to pit against each other two factions of the proletariat which, with the neoliberal economic evolution, have entered into a destructive competition with each other. As the Marxist philosopher Isabelle Garo described it so well, this shift would help to “replace exploitation and the critique of it with a centering of the victim who is denied justice, the prisoner, dissident, homosexual, refugee, etc.”

Debray writes in Modernes catacombes that Foucault, the rebel and subversive, has become an “official philosopher.” How do you understand this paradox? And how do you explain how Foucault can seduce so many of those in radical milieus who nevertheless affirm with force that they wish to put an end to the neoliberal era?

It’s a very interesting question, but one I don’t have a satisfying answer to. I would, nevertheless, suggest that it’s in large part due to the structure of the academic field itself. You’d have to go back to Bourdieu and the precious works of Louis Pinto to better understand this evolution.
It should never be forgotten that joining a “school,” or associating oneself with a certain theoretical perspective, means associating oneself to an intellectual field, where there is an important struggle for access to the dominant positions. Ultimately, calling oneself a Marxist in the France of the 1960s — when the academic field was in part dominated by self-identified Marxists — did not have the same meaning as it does to be a Marxist today.
Concepts and canonical authors are obviously intellectual instruments, but they also correspond to various strategies for becoming part of the field and the struggles over it. Intellectual developments are then partly determined by relations of power within the field itself.
Also, it seems to me that relations of power within the academic field have changed considerably since the end of the 1970s: after the decline of Marxism, Foucault occupied a central place. In reality, he offers a comfortable position that allows a certain degree of subversion to be introduced without detracting from the codes of the academy. Mobilizing Foucault is relatively valued, it often allows his defenders to get published in prestigious journals, to join wide intellectual networks, to publish books, etc.
Very wide swaths of the intellectual world refer to Foucault in their work and have him saying everything and its opposite. You can be an adviser to the MEDEF and edit his lectures! [A reference to François Ewald, adviser to the main French business federation; see above.] I would say that he opens doors. And you can’t really say the same of Marx nowadays.

This critique of the “margins” as the center of political combat could end up delighting all manner of counter-revolutionaries in France or Belgium. Aren’t you afraid of playing into their hands?

I do think there exists a “conservative” critique of Foucault — and more broadly of what May ’68 represents in French social history. This critique is no longer marginal at all: you can find it among the thinkers of the conservative right like Eric Zemmour or within the National Front. It openly critiques the whole feminist, anti-racist and cultural legacy of May ’68 while having much less to say about the economic ravages of neoliberalism. It’s as if the problem were the political liberalism that came with the 1980s, and only by going back on these societal evolutions will we be able to “faire société.”
One often hears this kind of thinking, according to which it was the destruction of family values or communitarian forms of the social bond that allowed the expansion of neoliberalism. There may be a grain of truth in these analyses, but they are totally deluded when they propose a return to more “traditional” ways of life. We’re heading towards a much more authoritarian kind of liberalism, with a return to family values, a return to a total fantasy of national culture, and the good old pre-globalized capitalism…
As for the idea of “playing into their hands,” I don’t think it’s a problem. If there’s a problem with certain aspects of the legacy of May ’68, the role of the Left is not to close its eyes because the far right is saying it, but on the contrary, to render its own judgment, to formulate its own critique, so as not to totally lose the ideological battle. That is the task we need to get started on in order to reconstruct a left that is both radical and popular.


1. “Social security” is used here in its French meaning, to refer to all social insurance. For example, France’s national health insurance is part of its “social security” system.

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...