mercoledì 30 marzo 2016

Dopo Palmira, obiettivo su Raqqa

di Alberto Negri dal ilsole24ore
  
Gli occidentali sembrano specialisti nell’arte della guerra stupida. C’è da augurarsi di essere smentiti ma qualche domanda, mentre si prepara l’offensiva su Raqqa, capitale del Califfato e direzione strategica del terrorismo, bisogna farsela. Cosa sarebbe accaduto se Putin non fosse intervenuto a fianco di Assad? Forse oggi non parleremmo della liberazione di Palmira, uno degli scoop militari e mediatici meglio riusciti a Mosca.
E cosa sarebbe successo se nel settembre 2013 Stati Uniti eFrancia avessero “punito” Damasco? Bashar Assad stava per fare la fine di Gheddafi e il califfo al-Baghdadi avrebbe fatto colazione sulle rovine di Aleppo e Damasco. Noi occidentali eravamo saldamente dall’altra parte sostenendo un’improbabile opposizione “moderata”: Francia e Stati Uniti in realtà avevano dato via libera alla Turchia per aprire l’autostrada del Jihad e far affluire migliaia di combattenti destinati ad abbattere il regime alauita, alleato dell’Iran e inviso ai sunniti.
Come è andata è sotto gli occhi di tutti: i jihadisti hanno ingrossato le file dell’Isis e di Jabat al Nusra e si vendicano con i kamikaze nelle nostre strade per avere perso la guerra. E ora si aspettano di suscitare reazioni guidate dalla paura non dalla razionalità.
Prima di un’altra guerra al terrorismo l’Occidente dovrà sciogliere le sue contraddizioni altrimenti ne resterà avviluppato. Gli Stati Uniti e la coalizione dei “volenterosi”, alcuni dei quali sostenitori di ideologie vicine ai jihadisti, hanno dichiarato guerra all’Isis nel 2014 ottenendo qualche modesto successo in Iraq dove l’offensiva contro Mosul, annunciata da un anno, non si è ancora vista perché l’esercito di Baghdad è costituito soprattutto da milizie sciite. Non solo. Gli occidentali si sono entusiasmati per la resistenza di Kobane ma non dicono una parola sulla Turchia, la legittimano come un interlocutore privilegiato per tenersi i profughi siriani e i veti di Ankara tengono fuori i curdi siriani dai negoziati di Ginevra. Non c’è da meravigliarsi se Erdogan sbeffeggia i diplomatici europei presenti al processo contro i giornalisti di Chumurryet.
Damasco e la Russia hanno dei piani, gli Usa non hanno idea di come “liberare” Mosul che nel 2014 hanno visto occupare dal Califfato senza fare una piega perché pensavano che ricompensasse i sunniti della caduta di Saddam. Non si può fare una guerra senza una politica. Lo ha detto lo stesso Obama, quando era ancora senatore dell’Illinois: «Non sono contro le guerre ma contro la guerra imbecille, fondata non sulla ragione ma sulla collera».
Ma l’Occidente si prepara ad altre guerre insensate. La Libia pone le stesse domande della Siria: interverremo come nel 2011 lasciandoci alle spalle un caos irrimediabile? Oppure ingaggeremo un conflitto “cosmetico” per nascondere la sconfitta della Siria dove hanno perso tutti coloro che volevano abbattere Assad: turchi, sauditi, americani, francesi e un corteo di medie potenze, dal Qatar agli Emirati, il cui titolo di merito è investire a casa nostra e fare le guerre in casa d’altri per tenerle lontane da loro. Tra l’altro Riad deve anche occultare il disastro dello Yemen, un Vietnam arabo dove ha creato un caos inestricabile. La strategia occidentale basata sui bombardamenti e manovrando i combattenti locali non solo è fallita in Siria, Iraq e Afghanistan ma con il terrorismo è tornata indietro come un boomerang: un’altra guerra inutile sarebbe imperdonabile.

Is democratic socialism the American Dream?

 

Each week, In Theory takes on a big idea in the news and explores it from a range of perspectives. This week, we’re talking about the rise of socialism.
John Bellamy Foster is editor of Monthly Review, an independent socialist magazine, and co-author with Robert W. McChesney of “The Endless Crisis: How Monopoly-Finance Capital Produces Stagnation and Upheaval from the USA to China.”
National income can be likened to a pie. If between one year and the next the pie gets bigger, everyone can have a bigger slice. But if, instead, the size of the pie stays the same, a bigger slice for some can only mean a smaller slice for others.
This helps us understand the present dismal state of the U.S. economy and the impetus behind Bernie Sanders’s electoral campaign, which is aimed at the needs of workers and working families. For decades, U.S. economic growth has stagnated, with each succeeding decade experiencing a lower rate of growth. Under these circumstances, the rapidly increasing income of those at the top — or what Sanders likes to call the “billionaire class” — is at the expense of the income shares (slices of the pie) of those at the bottom.
The 400 richest billionaires in the country now have more wealth than the bottom half of income earners, representing some 150 million people. The share of wages in national income has been falling while property income has been increasing. Jobs are more precarious. Vast numbers of people have dropped out of the labor force. Although official unemployment has decreased in the past few years, good jobs paying livable wages remain extremely hard to come by. More people are falling into poverty. A majority of students in public schools are now classified as poor or near-poor.
The political establishment, consisting of the duopoly of the Democratic and Republican parties, has been largely oblivious to the deteriorating conditions of the majority of people. Since the poor, including the working poor, are much less likely to vote and have little financial clout, they are easily discounted. Money dominates U.S. politics at every level. The Supreme Court’s 2010 Citizens United decision, which opened the floodgates to unrestricted large donations from the corporate rich, has enormously tarnished the image of American democracy. It is now common to hear that the United States is, to quote the memorable phrase of economists Paul Baran and Paul Sweezy in 1966, “democratic in form and plutocratic in content.”
It is this worsening condition of the U.S. body politic that accounts for the extraordinary phenomenon of Bernie Sanders’s campaign for president. Sanders portrays himself as a democratic socialist in the mold of the most radical phase of the Franklin D. Roosevelt administration, which proposed an Economic Bill of Rights to guaranteed full employment and economic security for all Americans.

martedì 29 marzo 2016

Teorie del complotto, Social Intelligent Design e disuguaglianza globale

di Francesco Suman da Micromega



Le teorie del complotto, proponendo versioni ipersemplificate della realtà sociale, presentano un'architettura esplicativa, finalistica e intenzionale, del tutto simile alla teoria dell'Intelligent Design che mirerebbe a spiegare la complessità del mondo naturale come prodotto di un agente superiore. La diffusione della disinformazione online è considerata una delle più serie minacce per la società odierna. Per questo i complottismi non vanno liquidati con quattro risate, ma colti per quello che sono: campanelli d'allarme.

Viviamo nell'era della condivisione dell'informazione: facebook, twitter, youtube, google plus, instagram, snapchat, sono alcuni dei più fruiti social media attraverso cui scorrono flussi rumorosi di informazioni di ogni tipo. Possiamo improvvisarci giornalisti filmando con lo smartphone un atto di vandalismo o le conseguenze di un'alluvione e caricarlo su youreporter per rendere testimone il mondo intero. Abbiamo un accesso potenzialmente illimitato e subitaneo a informazioni provenienti da ogni angolo del globo. Eppure, uno studio che ha fatto il giro del mondo, pubblicato sulla prestigiosa rivista PNAS da un gruppo di studiosi italiani che lavora al laboratorio di Computational Social Science dell'Istituto IMT Alti Studi di Lucca, diretto da Walter Quattrociocchi (The spreading of misinformation online), afferma che viviamo nell'era della disinformazione. Com'è possibile? È presto detto.
È noto che online girano tante bufale, informazioni non verificate e non filtrate che si diffondono in modo virale fino a costituirsi in leggende metropolitane o teorie del complotto. Si passa da i sempreverdi avvistamenti UFO alla presenza sulla terra di extraterrestri rettiliani, alcuni dei quali sarebbero persino piazzati in strategiche posizioni di potere. Lo sbarco sulla Luna? Mai avvenuto. Le scie chimiche lasciate dagli aerei in quelle giornate terse sono un lento strumento di avvelenamento della popolazione da parte di un potere occulto, ma c'è anche la variante secondo cui servirebbero a influenzare il cambiamento climatico. Altre teorie invece negano proprio il cambiamento climatico. Vi sono poi teorie di dominio economico che incolpano un occulto e settario potere bancario detentore delle sorti dell'ordine mondiale. È difficile essere precisi nella descrizione di queste teorie, perché l'oggetto in questione, per sua definizione e natura, è esso stesso sfuggente e non definito. Il lettore può dilettarsi nella libera esplorazione del web e cercare i dettagli delle suddette teorie, rimanendo perplesso o, perché no, persuaso, dai loro argomenti.
Baggianate da liquidare con quattro risate riterranno i più. Invece no. Il World Economic Forum nel 2013 ha incluso la diffusione di informazioni fasulle tra le più serie minacce per la società. Notizie e informazioni si accumulano in modo letteralmente incontrollabile nel web, proprio per la sua natura reticolare e partecipativa. Una voce corre online e può risuonare fino all'altra parte dell'oceano in men che non si dica. Internet ci ha restituito una sorta di versione tecnologicamente implementata di cultura orale, con fascino e rischi annessi. Informazioni caotiche, e fluttuanti in prima istanza, tendono prima o poi ad aggregarsi, catturate dalle scelte dei fruitori, arrivando a costruire cluster più o meno coerenti di notizie, che, per facilità di accesso, giocano un ruolo preminente nei processi di opinion making di oggi. Ma con quali criteri avvengono l'aggregazione dell'informazione online e conseguentemente la formazione di opinioni?
Lo studio di Quattrociocchi e colleghi mostra che il “pregiudizio di conferma” (confirmation bias) è tra i criteri decisionali fondamentali alla base di questi processi. In un contesto di flusso massivo di informazioni non filtrate, si tende a privilegiare (e a riconoscersi in) informazioni che confermano ciò che già si pensa. Se una persona ha fatto un investimento in banca - “Sicuro eh!”, gli era stato detto - ma vede la banca precipitare nel baratro portando con sé i suoi risparmi, e contemporaneamente legge online che le banche sono istituti il cui unico interesse è il profitto, non curanti dei servizi che dovrebbero garantire o delle sorti del malcapitato risparmiatore, c'è da aspettarsi che quest'ultimo manifesti la sua approvazione alla “teoria del signoraggio bancario” almeno con un “like”.
Il pregiudizio di conferma, esteso su larga scala, tende a creare le cosiddette echo chambers, ovvero luoghi virtuali di aggregazione in cui tutti i presenti tendono a pensarla allo stesso modo riguardo a uno specifico tema (sia questo la negazione del cambiamento climatico o dell’evoluzione darwiniana, le scie chimiche, o gli UFO). Chi entra in queste camere di risonanza lo fa perché sente che le proprie precostituite convinzioni, spesso istintive, grezze, di pancia, hanno finalmente voce. Il fatto è che da lì il pensiero tende a non venire elaborato ulteriormente, anzi, semmai l'intuizione ingenua, di pancia, si rinforza attorno a pochi punti dando luogo a proto-teorie o credenze a dire il vero alquanto bizzarre. Le teorie del complotto che proliferano online, oggetto di studio dell'articolo summenzionato, sarebbero precisamente il prodotto di tali meccanismi.
Cosa c'è che non va nelle teorie del complotto? Proviamo a dirla con William Gibson, il padre del genere letterario cyberpunk: “Le teorie del complotto sono popolari perché, non importa di cosa trattino, sono tutte realtà confortevoli, perché sono tutte modelli di semplicità totale. Penso che facciano leva sul nostro lato infantile che vuole sempre sapere cosa sta accadendo.”
(tradotto da un'intervista rilasciata nel 2007 http://thetyee.ca/Books/2007/10/18/WillG...)
Le teorie del complotto hanno così successo perché partono da fatti molto vicini alla vita quotidiana dei più e in pochi passaggi logici (o meno) giungono a individuare la causa ultima responsabile di quegli eventi; nel fare ciò, delineano una visione del mondo, che spesso identifica un nemico contro cui schierarsi. Strumenti psicologici basilari e efficacissimi per innescare meccanismi di identificazione e consenso, purtroppo all'opera anche in sistemi di reclutamento che costituiscono minacce ben più tangibili delle scie chimiche (si pensi al ruolo della rete nel reclutamento dei foreign fighters e nel processo di radicalizzazione islamica di giovani europei che in taluni casi non avevano avuto alcun contatto personale precedente con reclutatori  - un ottimo libro recente su questo è “L’ultima utopia” di Renzo Guolo, Guerini, 2015).
E’ interessante notare una similitudine tra la struttura esplicativa di queste “teorie” e l'argomento della complessità irriducibile portato dai sostenitori dell'Intelligent Design. Entrambi condividono una struttura esplicativa iper-semplificatoria.
Partiamo dal secondo. Alla sua base vi sta la tanto intuitiva quanto ingenua analogia tra complessità di artefatti umani, frutto dell'attività di un agente intenzionale dotato di scopi, e complessità di strutture naturali. Se troviamo un orologio di pregiata fattura, spiegava William Paley nella sua Teologia naturale del 1802, saremmo portati a credere che sia frutto del progetto e dell'azione intenzionale di un orologiaio; non attribuiremmo mai la complessa interazione degli ingranaggi dell'orologio al prodotto del puro caso. Così se lungo una spiaggia trovassimo il complesso disegno a spirale su di una conchiglia non potremmo fare altro che pensare all'azione di una mente suprema che ha progettato l'universo, la natura e i suoi prodotti. L'evoluzione esiste, ma non può che essere l'esito di un disegno intelligente.
Questo tipo di spiegazione è iper-semplificatoria perché salta dal prodotto finale alla causa ultima, ignorando un'infinità di passaggi intermedi: non prende in considerazione i tempi del processo evolutivo; non prende in considerazione le interazioni con altri soggetti del contesto (ecologico) entro cui l'evoluzione si compie; non prende in considerazione i meccanismi che possono condurre alla formazione del pattern osservato. In più, il ragionamento è uno dei più classici esempi di detestabile antropomorfismo (una forma di egocentrismo cosmico), ovvero l'attribuzione di proprietà umane, intenzionali, finalistiche, agenziali, a un'entità – la natura – che di umano non ha necessariamente niente.
Fortunatamente questi argomenti, nel dominio delle scienze biologiche, sono stati smontati (seppur non senza difficoltà, dacché sostenitori dell'Intelligent Design proliferano tutt'oggi in paesi avanzati che si dicono paladini di libertà e democrazia) dalla teoria dell'evoluzione neodarwiniana, oltre ogni ragionevole dubbio. Sfortunatamente, ad oggi, le scienze sociali non hanno ancora visto nascere il loro Charles Darwin, e venire a capo della complessità delle dinamiche sociali con un'unica elegante teoria esplicativa è un'impresa lungi dall'avere un traguardo in vista.
Avremmo proprio bisogno di una sorta di “teoria della società” che mostrasse come il salto esplicativo da evento singolo (come la perdita dei propri risparmi per colpa di un agente bancario truffaldino) alla sua causa ultima (complotto globale del signoraggio bancario), proposto dalle teorie del complotto, sia logicamente del tutto ingiustificabile, in quanto un super-agente che agisca in maniera intenzionale e che disponga del controllo di tutti i livelli di complessità dei nodi della rete sociale, e che per di più sia in grado di tenere nascosti i propri piani, pur riuscendo a metterli sistematicamente in atto, assomiglia molto a qualcosa che potremmo definire Social Intelligent Design.
Karl Popper si pronuncia così nel secondo volume de La Società aperta e i suoi nemici: “Bisogna riconoscere che la struttura del nostro ambiente sociale è, in un certo senso, fatta dall’uomo: che le sue istituzioni e tradizioni non sono il lavoro né di Dio né della natura, ma i risultati di azioni e decisioni umane, ed alterabili da azioni e decisioni umane. Ma ciò non significa che esse siano tutte coscientemente progettate e spiegabili in termini di bisogni, speranze e moventi. Al contrario, anche quelle che sorgono come risultato di azioni umane coscienti e intenzionali sono, di regola, i sottoprodotti indiretti, inintenzionali e spesso non voluti di tali azioni. (…) Io non intendo affermare, con questo, che cospirazioni non avvengano mai. Al contrario, esse sono tipici fenomeni sociali. (…) Cospirazioni avvengono, bisogna ammetterlo. Ma il fatto notevole che, nonostante la loro presenza, smentisce la teoria della cospirazione, è che poche di queste cospirazioni alla fine hanno successo. I cospiratori raramente riescono ad attuare la loro cospirazione”
Cosa intende qui Karl Popper ce lo spiega oggi David Robert Grimes, un fisico dell'università di Oxford, che ha mostrato con una formula pubblicata in un articolo apparso su PLOS ONE (http://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0147905), che le grandi cospirazioni non possono restare segrete troppo a lungo: questo tipo di macchinazioni necessariamente coinvolge un numero di “complici” elevato al punto che la probabilità che uno di questi non faccia un passo falso, facendosi scoprire, è troppo bassa per far sì che la cospirazione si realizzi.
L'intenzionalità dell'azione umana ha un raggio d'azione limitato. La libertà individuale finisce dove comincia quella degli altri, ma si potrebbe dire anche che l'intenzionalità di un'azione finisce quando si incontra con l'intenzionalità degli altri. All'interno della rete sociale, l'intenzionalità individuale si diluisce, e un soggetto super partes capace di direzionare un'amplissima moltitudine di intenzionalità singole, per di più in maniera occulta, semplicemente non può esistere. L'azione collettiva è un risultato non intenzionale di interazioni intenzionali a livello individuale.
Nonostante tutto questo, le teorie del complotto persistono e anzi, come mostrato da Quattrociocchi e colleghi, più ci si sforza di smontarle (facendo azione di debunking) più i loro sostenitori si chiudono a guscio all'interno delle loro camere di risonanza, attaccandosi alle loro convinzioni.
Ricercare le cause di un evento traumatico (la perdita dei risparmi, o la paura derivante da un percepito stato di instabilità) è un meccanismo di elaborazione fondamentale che si innesta per affrontare il superamento del trauma. Le risposte cui si giunge sono però spesso più autoconsolatorie che veramente conformi alla realtà delle cose. Come venire a capo allora di questo enorme fenomeno psicodrammatico-sociale nel villaggio globale?
Le soluzioni immediate sembrano non esserci. Siamo destinati ad andare incontro a un mondo in cui vige l'anarchia intellettuale, ovvero in cui non abbiamo modo di discriminare tra diversi sistemi di credenze, all'interno della medesima società e del medesimo intorno culturale? È davvero equivalente credere che i vaccini facciano venire l'autismo oppure essere convinti che vaccinarsi sia l'unico metodo sicuro per prevenire la diffusione di gravi malattie infettive?
Karl Popper, assieme a molti altri filosofi della scienza, dedicò gran parte della sua vita a ragionare intorno al cosiddetto Principio di Demarcazione, ovvero sviluppare un criterio secondo cui distinguere rigorosamente una proposizione scientifica da una proposizione pseudo-scientifica o metafisica. Spesso ai filosofi viene rimproverato che il loro lavoro non ha ricadute applicative sulla società. Sarebbe interessante e proficuo se i filosofi riuscissero a sviluppare (se mai fosse possibile) un Principio di Demarcazione che ci aiutasse a saggiare la qualità dell'informazione, a distinguere cosa può essere ritenuto informazione affidabile, verificata, filtrata e cosa informazione inaffidabile, spazzatura, infondata. Il ramo della filosofia dell'informazione - un'interessante intersezione tra filosofia della scienza e etica, di cui si occupa Luciano Floridi, docente di Oxford  e membro dell'“Ethics Advisory Group on the ethical dimensions of data protection” - potrebbe essere un buon candidato a studiare soluzioni a riguardo.
Applicando poi il noto slogan di Marshall McLuhan “il medium è il messaggio”, dovremmo forse incolpare direttamente internet per la scarsa qualità delle informazioni che produce? Certo la struttura degli strumenti di diffusione dell'informazione influenza di molto la ricettività delle informazioni stesse, ma addossare la colpa a internet e demonizzarlo, come molti già fanno, sarebbe un po' come incolpare il motore a scoppio per il tasso di inquinamento delle nostre città, invece di prendersela con la gestione miope delle giunte comunali. Internet è una tecnologia dalle potenzialità rivoluzionarie e ciò che aiuterebbe sarebbe una maggiore educazione all'uso di questo strumento straordinario: viviamo in un'epoca in cui metà della popolazione (quella vecchia) è analfabeta digitale e l'altra metà (quella giovane) soffre di bulimia digitale. Anche in un mondo futuristico, i vecchi rimedi (istruzione, ricerca, innovazione) non sono mai da buttare.
Infine, una riflessione in parte politica. La classe dirigente e quella intellettuale troppo spesso si misurano con i cosiddetti “complottisti” con una detestabile, e invero poco intelligente, supponenza, liquidandoli per lo più come gli ultimi difensori dell'ancien régime trattavano la plebe ignorante. Le teorie del complotto sono una manifestazione di un'inquietudine e un malcontento della società troppo profondi per essere archiviati con quattro risate. Questo disagio, che si manifesta in espressioni ingenue, paranoiche, o addirittura patetiche (dal complotto rettiliano all'ordine mondiale in mano a una sorta di Spectre), sta in realtà per qualcos'altro, di molto più grave, che riflette una realtà di fatto alla base delle più grosse questioni globali degli anni a venire: l'allargamento della forbice della disuguaglianza. Le teorie del complotto altro non sono che elaborazioni collettive, immaginifiche e fantasiose, che riflettono la struttura bipolare del sistema economico odierno, che ha portato a concentrare enormi capitali, di denaro e di potere, in mano a pochi, lasciando un sempre più alto numero di persone a farsi la guerra per le briciole. Questa distribuzione purtroppo si rivela valida sia a livello nazionale sia a livello globale. Esistono colossi aziendali (settori energetico, informatico, della grande distribuzione) che hanno fatturati di gran lunga superiori a PIL di Stati nazionali e non riconoscere che questi possono trattare alla pari, se non dall'alto in basso, almeno con i piccoli Stati è ingenuo quanto credere alle teorie del complotto. Queste ultime lanciano un'indiretta ma fortissima critica a un modello di sistema economico che genera storture, accusandolo di essere lontano dagli interessi dei molti e vicino agli interessi di pochi.
Le teorie del complotto rappresentano una sorta di bestemmia contro ciò che viene avvertito come un potere lontano e dispotico, un impotente e frustrato grido di ribellione contro un ordine odiosamente immutabile, che schiaccia. Le teorie del complotto sono il prodotto grezzo di un incontro inedito: un sentimento collettivo di frustrazione implementato da una nuova tecnologia, la rete. Forse non sono tra le più eleganti espressioni di critica ai sistemi totalitari come possono essere stati 1984 di Orwell o The Wall dei Pink Floyd (che difficilmente liquideremmo come opere di complottisti), ma sono comunque una nuova forma di espressione, a tratti addirittura inconsapevole, in quanto frutto di un'azione collettiva non del tutto intenzionale, di forte critica al potere costituito e al sistema economico ad esso intrecciato.
In questo senso le teorie del complotto dovrebbero essere un campanello d'allarme capace di sollevare una questione politica. Sempre che vi sia una classe politica, dirigente e intellettuale capace di cogliere i segnali d'allarme. L'attenzione su questi temi deve crescere e non è un caso che il premio Nobel per l'economia 2015 sia stato assegnato allo scozzese Angus Deaton per i suoi studi sui consumi, sulla povertà e sul welfare.
In conclusione, le iper-semplificazioni sono ciò di cui occorre diffidare, sempre. La realtà è complessa ad un livello inavvicinabile anche dalle più audaci fantasie. Per questo non c'è nulla di più affascinante da indagare che le trame della realtà stessa, senza cedere a scorciatoie esplicative che ci priverebbero di quel gusto unico e irrinunciabile di scoprire le cose. Diceva Charles Darwin, nell'Origine delle specie (p. 241, edizione Bollati Boringhieri): “è indispensabile che la ragione vinca; ma io ho sentito troppo acutamente queste difficoltà per essere sorpreso dell'altrui esitazione”

Attacco alla Sanità. «Servizi inefficienti, tagli di spesa, lunghe attese? Strategia per aprire al privato»

Pubblichiamo l’intervento che il professor Maciocco, tra i massimi esperti in politiche sanitarie e salute globale, ha tenuto lo scorso 12 marzo a Volterra in occasione della giornata Orgoglio Comune, convocata dai sindaci per dire no alle fusioni obbligatorie e chiedere una sanità pubblica di prossimità, che tenga conto dei territori e dei piccoli centri (leggi). L’intervento mirava a spiegare quali strategie  stanno alla base del fenomeno che stiamo vivendo intorno ad uno dei servizi fondamentali per una comunità, la sanità.

di Gavino Maciocco da agenziaimpress.it


In Italia è in atto un vero assalto al servizio sanitario nazionale. Questo assalto prevede l’attuazione di una strategia ben nota e descritta precisamente da Noam Chomsky: «That’s the standard technique of privatization: defund, make sure things don’t work, people get angry, you hand it over to private capital» (Questa è la tecnica standard per la privatizzazione: togli i fondi, assicurati che le cose non funzionino, fai arrabbiare la gente, e lo consegnerai al capitale privato).
Togliere i fondi L’Italia è tra i pochi paesi dell’OCSE, insieme a Grecia, Spagna e Portogallo, a registrare, dal 2010 in poi, una costante riduzione della spesa sanitaria pubblica. Anche per questo si trova nelle posizioni di coda delle classifiche internazionali. Secondo i calcoli della Conferenza delle Regioni il settore sanitario pubblico ha subito negli ultimi anni tagli cumulati per Il professor Gavino Macciocco31,7 miliardi di euro, a cui va aggiunto il taglio di 2,3 miliardi di euro previsto dalla legge di stabilità 2015. Il salasso è destinato a proseguire dato che il DEF 2015 prevede una progressiva contrazione dell’incidenza della spesa sanitaria pubblica sul Pil: dal 6,9% nel 2014 e 6,5% nel 2019.

Assicurarsi che le cose non funzionino Il funzionamento della sanità si basa innanzitutto sul
capitale umano. Sulla competenza e sulla capacità di relazione (e quindi anche sul tempo a disposizione) degli operatori sanitari. Blocco del turn-over e pre-pensionamenti sono le misure scelte per mettere al tappeto il servizio sanitario pubblico. In Toscana nel biennio 2015-16 se ne andranno 2.260 operatori (e non saranno sostituiti), che sommati ai 2.500 dipendenti “persi” negli ultimi anni portano a un taglio del personale del servizio sanitario regionale vicino a un – 10% del totale. Aumenteranno le liste di attesa e soffrirà la qualità dei servizi, mentre, a causa del blocco delle assunzioni, crescerà l’esodo di giovani medici e infermieri verso l’estero. Del resto è lo stesso assessore alla sanità della Toscana, Stefania Saccardi, senza ombra di rammarico o scusa, ad ammetterlo. «Già oggi tanti si rivolgono a Misericordie e Pubbliche Assistenze per visite e esami (a pagamento NDR) visto che il pubblico espelle dal suo circuito un numero enorme di persone non garantendo la tempestività delle prestazioni».

Fare arrabbiare la gente Per provocare il distacco dei cittadini dal servizio sanitario pubblico bisogna anche infliggergli un danno economico, ovvero tenere molto alto il livello dei ticket, fino a raggiungere il prezzo pieno della prestazione. Negli ultimi anni il ticket ha cambiato la sua natura: da strumento di dissuasione nei confronti dei consumi impropri (soprattutto farmaceutici), con l’imposizione di pochi euro a ricetta, a vera e propria tassa sulla malattia: tanto più malata è una persona, tanto più paga. Una tassa esosa e iniqua che non dovrebbe esistere in un sistema universalistico già finanziato, quindi pre-pagato, dalla fiscalità generale.
Consegnare il servizio sanitario al capitale privato Il Project Financing, meglio conosciuto come Private Financing Initiative (PFI), degli ospedali fu introdotto nel Regno Unito negli anni del governo Thatcher ed è stato il precursore delle privatizzazioni avvenute in sanità negli anni seguenti. Una recente analisi della situazione dei 101 ospedali britannici costruiti col PFI mostra che tali contratti non sono vantaggiosi per il servizio sanitario nazionale e mettono in pericolo l’assistenza dei pazienti. Come minimo andrebbero rinegoziati. Da quel poco che si è potuto vedere in Italia, e anche in Toscana, il PFI si è dimostrato, come nel Regno Unito, un affare assai asimmetrico: molto favorevole per il concessionario privato e molto problematico per l’ospedale pubblico.
Ma in Italia la spinta verso la privatizzazione non passa attraverso complessi meccanismi finanziari. E non c’è bisogno di grandi esperti per inventare la ricetta giusta. Il banale mix di lunghi tempi di attesa e di ticket particolarmente costosi è in grado di produrre migrazioni di massa verso il settore privato, soprattutto se questo mette sul mercato prestazioni low cost. l “banale mix” che porta alla privatizzazione ha naturalmente costi sociali elevati, rappresentati dalle persone che rinunciano a prestazioni sanitarie o all’acquisto di farmaci a causa di motivi economici o carenze di strutture di offerta. “Lunghe liste di attesa nella sanità pubblica e costi proibitivi in quella privata. Per questo – rileva una ricerca del Censis – quasi una famiglia su due rinuncia alle cure. Nel 41,7% dei nuclei familiari, almeno una persona in un anno ha dovuto fare a meno di una prestazione sanitaria. I cittadini, inoltre, pagano di tasca propria oltre 500 euro procapite all’anno, mentre nell’ultimo anno al 32,6% degli italiani è capitato di pagare prestazioni sanitarie in nero”.

John Bellamy Foster: È il socialismo democratico il Sogno Americano?


dal Blog di Maurizio Acerbo 




Tra gli effetti del successo della campagna di Bernie Sanders c’è quello di trovare un articolo di un marxista come John Bellamy Foster, il direttore della Montly Review, sul Washington Post. Il socialismo tornerà di moda! Buona lettura!

Il reddito nazionale può essere paragonato a una torta, tutti possono avere una fetta più grande. Ma se, invece, la dimensione della torta rimane la . Se tra un anno e l’altro la torta diventa più grandestessa, una fetta più grande per alcuni può significare solo una fetta più piccola per gli altri.
Questo ci aiuta a capire il deprimente stato attuale dell’economia degli Stati Uniti e la tensione attorno alla campagna elettorale di Bernie Sanders che è incentrata sui bisogni dei lavoratori e delle famiglie che lavorano.
Per decenni, la crescita economica degli Stati Uniti è rimasto ferma, con ogni decennio successivo fare esperienza di un più basso tasso di crescita. In queste circostanze, il rapido aumento del reddito di quelli in alto – o di quella che Sanders ama chiamare la “classe miliardaria” – è a scapito delle quote di reddito (fette di torta) di quelli in basso.
I 400 miliardari più ricchi del paese ora hanno più ricchezza che la metà inferiore dei percettori di reddito, che rappresenta circa 150 milioni di persone. La quota dei salari sul reddito nazionale è in calo, mentre i redditi da capitale sono andati aumentando. I lavori sono più precari.
Un gran numero di persone hanno abbandonato la forza lavoro. Sebbene la disoccupazione ufficiale sia diminuita negli ultimi anni, dei buoni posti di lavoro che pagano salari vivibili rimangono estremamente difficili da trovare. Sempre più persone stanno cadendo nella povertà. La maggioranza degli studenti nelle scuole pubbliche sono ora classificati come poveri o quasi poveri.
L’establishment politico, costituito dal duopolio dei partiti democratico e repubblicano, è stato in larga parte noncurante del deteriorarsi delle condizioni della maggioranza delle persone. Dal momento che i poveri, inclusi i lavoratori poveri, sono molto meno propensi al voto e hanno poco peso finanziario, sono facilmente sottovalutati. Il denaro domina la politica degli Stati Uniti ad ogni livello. La decisione della Corte Suprema Citizens United nel 2010 che ha aperto le porte alle grandi donazioni illimitate da parte delle ricche aziende ha enormemente appannato l’immagine della democrazia americana. E’ ormai sentire comune che gli Stati Uniti sono, per citare la frase memorabile degli economisti Paul Baran e Paul Sweezy nel 1966, “democratici nella forma e plutocratici nel contenuto”.
È l’aggravamento di questa condizione del corpo politico americano che spiega lo straordinario fenomeno della campagna di Bernie Sanders per la presidenza. Sanders si ritrae come un socialista democratico dello stampo della fase più radicale dell’amministrazione Franklin D. Roosevelt che proponeva un Bill of Rights Economico per garantire piena occupazione e sicurezza economica per tutti gli americani.
Nel sostenere il socialismo democratico, Sanders ha promosso una politica pragmatica della sinistra. Le sue proposte comprendono un forte aumento delle imposte sulla classe miliardaria, studi universitari gratuiti e assicurazione sanitaria per singolo contribuente, che garantisce l’assicurazione sanitaria a tutta la popolazione, indipendentemente da posti di lavoro e dal reddito. Egli sostiene programmi di occupazione nella tradizione del New Deal. Tutte queste proposte rappresentano cose che sono state realizzate in altri paesi, in particolare dalle socialdemocrazie scandinave, dove le popolazioni stanno meglio secondo ogni indicatore sociale.
Con il raffigurarle come possibili qui, Sanders ha portato l’idea del socialismo – anche se di un genere moderato – dai margini verso il centro della cultura politica degli Stati Uniti.
La cosa più notevole circa il fenomeno Sanders è che, nonostante l’ostilità implacabile da parte dei guardiani dello status quo nei media – per esempio, Adam Johnson su FAIR.org ha documentato che il Washington Post ha pubblicato 16 storie negative su Bernie Sanders in 16 ore l’8 marzo – egli ha continuato ad attirare folle record. Ha anche ottenuto più voti di quelli sotto i 30 anni che Clinton e Trump messi insieme, puntando a un indebolimento del potere dei media delle corporations sull’informazione politica nella società degli Stati Uniti e sulla crescente influenza dei social media, almeno tra i giovani. Come ha riferito David Auerbach di Slate, “Il social networking online ha permesso ai sostenitori Sanders di rafforzare l’un l’altro le convinzioni, in modo che il generale shutout di Sanders dai media mainstream – e anche una buona dose di media di sinistra – ha permesso a Sanders di sopravvivere laddove sarebbe soffocato anche nel 2008″.
Se c’è una lezione più grande qui è la capacità di ripresa e la diffusa attrazione del socialismo con i suoi valori egualitari di base. Il socialismo ha sempre fatto parte della cultura americana. Senza dubbio turberebbe il partito repubblicano di oggi apprendere che uno degli scrittori politici preferiti di Lincoln era Karl Marx, articolista europeo per il giornale di Horace Greeley, la New York Tribune.
Nella visione di Sanders del socialismo democratico, una società priva della basilare uguaglianza e equità per ogni individuo non può essere considerata una società democratica, in ogni senso significativo. Una democrazia reale, viva conduce in direzione del socialismo. Per milioni di americani oggi, ciò che Sanders sta esprimendo nella sua idea di socialismo democratico non è altro che il sogno americano.



domenica 27 marzo 2016

Un D’Alema baumaniano

di Tonino D’Orazio


Finalmente D’Alema ha detto qualcosa di sinistra, dopo anni di silenzio assenso in direzione contraria. Il rispetto della nostra Costituzione in merito alla parità di tutte le religioni. Quindi anche all’8 per mille per i musulmani. Così potranno costruirsi le loro moschee e pregare il loro dio. Magari senza l’aiuto dello stato e dei comuni, ma nella pace delle varie religioni, anche con i soldi dei volontari cristiani. Giustissimo. E’ un problema di libertà loro e di tutti i credenti.
Qualcuno ha subito aggiunto il veleno nella coda:”così potranno essere controllati meglio”. Invece, quando si riuniscono in topaie e sottoscale, va bene. I soliti puristi delle etnie che fanno buon viso a cattivo gioco. Tralasciamo i commenti leghisti. Quelli sono contro la Costituzione e le leggi da sempre. Sono i nuovi fascisti. I neo già ci sono, sdoganati da tempo. Tralasciamo anche la destra, in gran parte cattolica e conservatrice nel nostro paese. Non amano il loro capo Francesco né quello che dice in qualità di vicario di Cristo, e diventano subito disubbidienti silenti, sostenuti da una cricca cardinalizia chiacchierona e revanscista di destra. Per loro l’ecumenismo cattolico e la riunificazione delle religioni cristiane sembrano farsa e spettacolo. Non ci credono almeno da un secolo. Figuriamoci con i monoteisti musulmani, anche se con un corano in sostanza completamente scopiazzato dalla bibbia.
Il segnale di D’Alema, in un momento così critico, uguale in fondo a quello del sociologo Zygmund Bauman, è quello dell’accoglienza, della tolleranza e dell’integrazione. Una voce controcorrente, uno spazio di apertura civile e culturale. Certamente, togliere dalla mente che il “problema immigrazione” non è un problema di sicurezza nazionale ma solo un problema di integrazione sociale è diventato oggi molto difficile. I peggiori “nemici” sono rappresentati da un’orda di giornalisti prezzolati (ormai sempre pagati da qualche padrone, pubblico o privato), senza cervello, senza profonda cultura di giornalismo, semplice manovalanza. La qualità non è richiesta. Sparano a zero su tutto quello che si muove “nell’altro campo”, all’unison, ritenendosi, spesso illogicamente o moralmente, sempre nel “campo giusto”. Parlano e smuovono quel popò di feccia che un po’ tutti hanno sedimentato nella coscienza, nelle trippe, e che al momento opportuno rispunta quasi senza controllo. Stare in una muta ululante si rischia di gridare più forte degli altri.
Questo concetto del campo giusto è una vera negazione per quelli che considerano “ingenuo” lo stato belga per aver perseguito la strada dell’integrazione. Almeno il più possibile e meglio degli olandesi di un ventennio fa, perché da allora, spinto dai nuovi nazi-fascisti al governo, anche in Belgio, le cose sono cambiate di molto. Chi ha vissuto queste esperienze direttamente, comprese le immense difficoltà politico-amministrative, pur con un popolo aperto e accogliente dal 1830 come quello belga, non deve ammettere che per quattro balordi possano saltare anni di sacrifici, se non decenni, per essere pienamente accettati. Fanno sorridere i commentatori francesi che sparano a zero sul Belgio, pur sapendo che gran parte delle periferie-bidonville delle loro grandi città sono sedute sulla dinamite della disgregazione sociale. Forse anche qualche generale nostro quando parla pomposamente in televisione, a postiori, di “falla” nei servizi di sicurezza del Belgio, non si rende conto della trave nell’occhio considerando la pagliuzza del vicino. Ma noi siamo così sicuri dei nostri “tappi” aspettando Roma? Già più volte minacciata e ripropostoci tante volte dai nostri telegiornali, seminando e sedimentando terrore e insicurezza, con grande felicità dell’Isis.
Quello che è successo a Bruxelles, o a Parigi, (o prima a Londra e Madrid) non può esserci riproposto per giorni o settimane, in tutti i clonati talkshow, da “giornalisti” come avvoltoi che si compiacciono nel sentimentalismo. Fanno la gioia, e lo scherno, mondiale dei Jhadisti. Certamente c’è la dovuta informazione e l’angoscia, ma devo dire che ho visto almeno 100 volte come hanno sparato a Salah. Non sono compiaciuto e non faranno di me un vendicativo pronto alla guerra o alla pena di morte. Capisco soltanto che presto saremo tutti schedati, con DNA e chip sottopelle, per il “nostro bene”, e per “combattere il terrorismo”. Diventerà anche un problema di selezione di razza? Quante affinità, sottilmente sottintese, con la cultura xenofoba nazi-fascista. Questa volta sembra che gli ebrei se la scampino visto che adesso ci sono i musulmani. La grandiosità inumana di partecipare di nuovo a “guerre sante”, a guerre “di razza”. In realtà bisognerebbe misurare quanto abbiamo già ceduto di democrazia a causa della paura, e fin dove potremo arrivare.
Si capisce che i governi non hanno interesse a placare le paure dei cittadini, piuttosto alimentano l’ansia che deriva dall’incertezza del futuro spostando la fonte d’angoscia dai problemi che non sanno risolvere a quelli con soluzioni più facilmente “mediatiche”. Non possono parlare sempre di aumento del numero dei disoccupati, della povertà che avanza, dell’incertezza del futuro, dei giovani senza lavoro e di disperazione sociale, per quanto riescano a mentire con i numeri. Finalmente due o tre settimane di guerra e di angoscia, sì, ma anche di “pace informativa sul sociale”.
Il concetto espresso da D’Alema è la via giusta per interrompere la spirale della contrapposizione. Bisogna dare la possibilità di un’interazione autentica tra etnie e religioni, di rispetto reciproco almeno umano, pur nell’assunzione di una legislazione fondamentalmente contro le ingiustizie, comprese quelle alla persona, per tutti. Il tema dell’ingiustizia sociale accumula, in tutti, più rancori di quel che si possa pensare. Molti giovani terroristi sono cittadini francesi, belgi, inglesi… “E’ un errore sovrapporre terrorismo a immigrazione” (Bauman). Sono due cose completamente diverse, è vero, ma che l’arrivo di altre decine di migliaia di profughi o semplici affamati sulle nostre coste (una volta pagata e chiusa la frontiera turca e con la Grecia satura e allo sbando), rischiano di confondersi. Ma ormai non è più nemmeno dato sapere chi siano e quanti siano esattamente, anche se i terroristi conosciuti di questi tempi viaggiano in aereo,  in macchine ben equipaggiate, armi moderne e con documenti a posto.
Una verità di fondo è che la stragrande maggioranza della popolazione europea, attanagliata da una crisi indotta da banche e oligarchie antidemocratiche varie, non ha la capacità culturale e sociale di pensare anche agli immigrati che arrivano e che arriveranno sempre più. C’è rimasto veramente poco da dividere e di già anche i nostri 100.000 nuovi emigrati italiani all’anno fuggono all’estero. In questo contesto, se ne ha le capacità, D’Alema, anche se già “rottamato” dal suo partito, dovrebbe insistere e rilanciare un vero dibattito. Ne uscirebbe qualcosa di sinistra, cioè di umano.

giovedì 24 marzo 2016

La sinistra e l’euro

di Guida Iodice e Thomas Fazi da sbilanciamoci.info 

Ammetto che non ho ben compreso la logica di questo articolo, che suona un po' come: non possiamo abbandonare la nave che affonda se non vogliamo fare la fine dei topi, ma è meglio aspettare per vedere se tutti i topi riuniti riescono a tenere a galla la nave. Diversamente, se tutto va in malora, i topi possono almeno mettersi d'accordo su chi abbandona la nave per primo. Probabilmente è una buona idea. Non so. Ad ogni modo i due economisti, contrariamente ad una sinistra acefala e priva della benchè minima nozione in materia economica, provano a dire la loro utilizzando un linguaggio consono e senza supercazzole. 
Certo è che ci siamo ficcati in una bella trappola
Per salvare l’Europa serve “meno Europa”. Pubblichiamo un estratto dal libro di Thomas Fazi e Guido Iodice, “La battaglia contro l’Europa” in uscita in questi giorni

Esce oggi in libreria “La battaglia contro l’Europa” di Thomas Fazi (collaboratore di Sbilanciamoci!) e Guido Iodice (coautore di Keynes blog). Il libro è anche acquistabile, scontato, online nei principali store, tra cui: Amazon (anche in formato e-book Kindle), IBS, Feltrinelli (anche come e-book EPUB). Qui di seguito un estratto dal libro.
Molti hanno sostenuto che la vicenda greca avrebbe palesato l’“irriformabilità” dell’Unione Europea e/o dell’unione monetaria. Ci pare una semplificazione eccessiva. Pensare che la soluzione sia farla finita con quel sistema per tornare a un sistema di Stati nazionali in competizione tra loro, senza nemmeno la parvenza di un’“unione” o di una “comunità”, vuol dire non aver colto la lezione greca. Detto questo, è evidente che qualunque progetto di riforma dell’UE e/o dell’unione monetaria – anche qualora si determinassero le condizioni politiche, oggi assenti, per avviare un conflitto interno all’eurozona – è destinato inevitabilmente a scontrarsi con l’intransigenza del blocco ordoliberale. Abbiamo visto nelle pagine precedenti come negli ultimi anni sia emerso in seno all’eurozona un “partito transnazionale” a guida tedesca, economicamente , politicamente e culturalmente molto omogeneo (una sorta di “supereuro”). Abbiamo visto anche come la Germania, dallo scoppio della crisi in poi, abbia capitanato una ristrutturazione radicale dell’eurozona all’insegna dell’austerità e del neomercantilismo estremo, ostacolando l’introduzione di qualunque elemento di flessibilità nella politica economica europea. Abbiamo visto come lo stadio finale – ancora da realizzare – di questo progetto consista nella costruzione di una “unione fiscale” che privi gli Stati nazionali di quel minimo di potere discrezionale che gli è rimasto, senza alcuna compensazione a livello europeo. Infine, abbiamo ipotizzato che la costruzione di questa “nuova eurozona” schäubliana passa necessariamente per l’espulsione – forzata o “concordata” – dall’unione monetaria di tutti quei paesi che per ragioni strutturali sono refrattari al riorientamento radicale richiesto dal modello tedesco.
Alla luce di ciò, è lecito immaginare che, qualora emergesse veramente un blocco di paesi alternativo a quello ordoliberale che si facesse promotore di un emendamento radicale dell’unione monetaria (in una direzione più keynesiana, poniamo), il risultato più probabile non sarebbe l’arretramento della Germania e della sua galassia, ma la frattura dell’eurozona. Ci troviamo, in sostanza, in una situazione piuttosto paradossale, in cui qualunque tentativo di riforma dell’unione monetaria rischia di precipitare la fine dell’unione stessa.
Dovremmo dunque concludere che tale tentativo, proprio perché destinato probabilmente a fallire, vada escluso a priori? Per chi scrive, assolutamente no. Al contrario, riteniamo che dimostri quanto sia semplicistico porre la questione in termini di euro sì/euro no. Il punto, come abbiamo già detto, è come trasformare i rapporti di forza – sia all’interno dei singoli paesi che tra i paesi stessi – per riuscire a incidere sui processi reali invece di subirli passivamente (a prescindere dall’obiettivo strategico che uno si dà).
Abbiamo già spiegato perché riteniamo che sia sbagliato da sinistra porre al centro della battaglia politica l’uscita dall’area dell’euro. Ma anche se si ritenesse che le dinamiche dell’eurozona siano tali da rendere inevitabile una dissoluzione del quadro europeo, che senso avrebbe accelerare quel processo, accettando subito il piano A di Schäuble per affrontare in isolamento i problemi di un’uscita? Come scrive Gabriele Pastrello, «perché scappare come topi dalla nave con la prospettiva di annegare subito da soli, invece di cercare di far emergere in questa crisi uno schieramento che possa proporre eventualmente, se la scelta si imponesse, delle modalità di scioglimento della zona euro ben diverse da quelle di lasciare il campo libero ai piani A o B dei dirigenti tedeschi?».
Per dirla diversamente, riteniamo che quello che determinerà le eventuali “modalità di scioglimento” dell’eurozona non saranno tanto le teorie sviluppate oggi all’interno della bolla idealistica della sinistra, teorie che difficilmente possono tener conto di tutte le variabili esogene che potrebbero mettere in crisi l’unione monetaria un domani, quanto le condizioni politiche concrete che saremo stati in grado di costruire nel frattempo. Il punto è che non ha senso parlare di piani B o C se non si articolano le necessarie leve nazionali ed europee, e se queste non si basano su convergenze e solidi fronti politici transnazionali. Per questo motivo non dedicheremo molto spazio in questo capitolo a un dibattito teorico – quello sulle possibili modalità di uscita, appunto – che ci appassiona poco e che riteniamo politicamente ininfluente, concentrandoci invece su alcune proposte che riteniamo fattibili nel breve.
A questo punto si possono trarre alcune prime conclusioni. La prima è paradossale: per salvare l’Europa e lo stesso euro, nelle attuali circostanze occorre battersi per meno Europa, non di più, al contrario di quanto sostengono i federalisti. In altri termini, gli Stati devono riconquistare spazio fiscale e politico. Spazio fiscale per poter attuare politiche sociali e anticicliche. Spazio politico per dare legittimità a un pluralismo politico interno all’UE in cui anche le forze della sinistra siano legittimate a governare i propri Stati nazionali e attraverso di essi incidere nelle scelte comunitarie. Piuttosto che chiedersi astrattamente se l’euro è riformabile o meno, vale la pena di provare a indicare alcune linee sulle quali potrebbero muoversi (e già si stanno muovendo) le forze progressiste e della sinistra radicale, le uniche che possono a nostro parere interpretare il cambiamento di rotta necessario. Come si può innescare un processo che porti a meno Europa? In primo luogo le forze della sinistra radicale devono arrivare al governo dei propri paesi. Quale che sia la strategia, è fondamentale che le forze di sinistra lavorino alla costruzione di un radicamento sociale profondo, che vada al di là del momento elettorale. Senza di questo SYRIZA non avrebbe mai potuto rimanere al governo. Ma è ancor più vero nel caso in cui esse debbano allearsi con i partiti socialisti, poiché questi ultimi sono tra gli autori del disastro europeo. Un’alleanza Podemos-PSOE non concluderà nulla senza una spinta dal basso anti-austerity e finirebbe come la triste vicenda del secondo governo Prodi, con la comune sconfitta tanto dei radicali quanto dei moderati alle elezioni successive.
In secondo luogo, una volta al governo, le forze della sinistra devono utilizzare tutti gli spazi, anche quelli apparentemente più insignificanti, per portare a casa dei risultati in controtendenza con le politiche di austerità: tornare indietro sulla flessibilità nel mercato del lavoro, redistribuire il carico fiscale dalle classi lavoratrici a quelle abbienti (in questa fase anche a saldi invariati), invertire la tendenza allo smantellamento del settore pubblico (in particolare la sanità e l’istruzione) sono forse le misure più immediate che possono essere realisticamente attuate da un governo progressista. Non si tratta, in questa prima fase, di ribaltare il tavolo, ma di ottenere risultati, anche piccoli ma concreti, che facciano percepire al proprio elettorato la differenza con le politiche delle destre liberiste. E proprio questi risultati sono ciò che può indurre gli elettori di altri paesi a seguire l’esempio, contribuendo a creare – sui fatti e non sugli appelli per un mondo migliore – un blocco sociale transnazionale contrapposto a quello liberista.
Dopo di questo, le forze di progresso devono puntare a conquistare nuovi spazi fiscali, allargando le maglie delle concessioni già in essere. Si tratta qui di giocare anche su più tavoli. Ad esempio, il governo italiano ha proposto un sussidio di disoccupazione europeo, ma è molto improbabile che i contribuenti tedeschi accettino di mantenere i disoccupati italiani e spagnoli. Allora la controproposta, sulla linea del “meno Europa”, può essere quella di uno scorporo, anche parziale e condizionato, delle spese per i sussidi dal deficit, che andrebbe a liberare risorse per altri interventi più incisivi per determinare la ripresa economica, a partire dagli investimenti pubblici, peraltro già in parte scorporati grazie al “piano Juncker”. In questo modo, senza neppure abolirlo formalmente, si neutralizzerebbe in parte il fiscal compact.
Certo, i rivoluzionari ci accuseranno di avere un programma minimo, troppo minimo. Ma, come abbiamo detto, i rapporti di forza attuali tra gli Stati e tra le classi richiedono di restare con i piedi per terra. E d’altra parte ogni singola tassa ridotta, ogni singolo dipendente stabilizzato, ogni singolo ospedale salvato è ciò su cui si verrà giudicati dall’elettorato. Se si vuole ottenere di più, è necessario conquistare consensi e portare sempre più le forze del cambiamento al governo, come è riuscito alla sinistra greca.
Solo dopo tutto ciò si porrà il problema di cosa fare dell’eurozona. E qui le opzioni sono tutte aperte, in teoria. Nella pratica, però, proprio l’esito dello scontro in Grecia ci dice che i generali senza esercito del radicalismo antieuropeo hanno molti meno spazi nella società reale di quanto si potrebbe pensare leggendo i giornali o interagendo sui social network. Se è così, invece di immaginare piani B di fuoriuscita concordata (con chi?) dall’eurozona, che somigliano alle «ricette per l’osteria dell’avvenire» di cui parlava Marx, è il caso di concentrarsi su come, con chi e in quali tempi attuare il piano A. Senza per questo precludersi a ogni esito di una battaglia politica che abbiamo ancora tutta davanti e non certo alle spalle.
È tutto maledettamente complicato e in salita, sia chiaro. Ma nel pessimismo della ragione, a cui sempre occorre improntare le proprie analisi, non possiamo però chiudere gli occhi di fronte ad alcuni segnali importanti, che vengono anche dal mondo fuori dall’eurozona, in primo luogo la nuova leadership laburista del Regno Unito e l’incredibile entusiasmo suscitato dalla candidatura del “reo confesso” socialista Bernie Sanders nella corsa per la Casa Bianca, candidatura che ha costretto persino una centrista come Hillary Clinton a schierarsi nientemeno che contro il libero scambio! L’eurozona non è una monade: ciò che accadrà nei paesi anglosassoni non potrà che avere pesanti (e interessanti) ripercussioni su di essa. Per ora non resta che constatare con amarezza che c’è più sinistra negli Stati Uniti di quanta ce ne sia in molti Stati europei.

martedì 22 marzo 2016

Basta con questa Europa e con le sue guerre!

di Giorgio Cremaschi da contropiano


È insopportabile la retorica europeista che accompagna le stragi che colpiscono le città europee, ultima Bruxelles. Il dolore per le persone uccise del terrorismo jihadista, la paura di esserne prima o poi vittime, vengono oramai stravolti e sottomessi al dominio ideologico della casa comune europea assediata.
Cento e più anni fa il nazionalismo era amministrato paese per paese, oggi viene diffuso in una dimensione continentale, ma con gli stessi scopi e non facendo meno danni.
Ricordate l’immagine della manifestazione dei governanti a Parigi, poco più di un anno fa dopo il massacro di Charlie Hebdo? Un clamoroso falso mediatico (dietro i capi di governo non c’era nessuno) che voleva mostrare che i governi europei uniti guidavano il corteo dei loro popoli.
Ma di quale Europa stiamo parlando? Di quella che ha fatto mercato dei migranti con la Turchia, organizzando la più grande deportazione di massa dalla fine della seconda guerra mondiale? Quale Europa, quella che con le politiche di austerità sta da anni colpendo le conquiste sociali dei suoi popoli? Quale Europa, quella che nelle periferie delle sue città più ricche accumula il rancore dei suoi cittadini figli di migranti, fascinati dal fanatismo assassino dei kamikaze?
Quale Europa, quella che da 25 anni viene trascinata in guerre sempre più vaste che hanno fatto milioni di morti, guerre promosse dai governi di Francia, Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti, che non sono europei ma comandano? Abbiamo appreso che l’Italia ha soldati persino in Mali solo perché, nelle stesse ore di Bruxelles, sono sfuggiti ad un attentato. Quale Europa ha deciso di mandarceli?
La solidarietà verso le vittime del terrorismo è sentimento ben diverso da quello che la propaganda ci vuole imporre. C’è un potere che usa le stragi per convincere i popoli della bontà della costruzione europea e della necessità di difenderla con le armi. Così chi mette in discussione l’euro è anti patriottico, come lo è chi non vuole che si vada a bombardare, o a invadere, la Libia.
Bisogna fermare la guerra proprio nel nome delle vittime innocenti delle stragi che si susseguono. La guerra non è la soluzione, è il problema e dopo 25 anni di interventi militari che han solo provocato altri interventi militari e stragi, questo dovrebbe essere persino scontato. Invece non lo è , perché l’Europa è imprigionata nella spirale guerra-terrorismo e non riesce a muoversi dal vicolo cieco in cui l’hanno portata i suoi governi e il sistema di potere della sua Unione. E il vicolo cieco della guerra è lo stesso ove la barriera delle politiche di austerità fa dilagare l’ingiustizia sociale e la rottura delle solidarietà.
Bisogna uscire da questa costruzione europea e dalle sue guerre prima che sia troppo tardi per tutti i suoi popoli.

domenica 20 marzo 2016

Sapir: 5 tesi sull’euro

Come di consueto, Sapir ha parole sagge sul suo blog in tema di eurocrisi. L’economista francese articola in cinque tesi i modi in cui la moneta unica sta condannando alla miseria un intero continente. Occorre al più presto riconoscere la verità: l’euro è la causa, non la soluzione dei nostri problemi. E l’unico modo di salvare l’Europa è superare questo strumento inadeguato, tornando alle flessibilità valutarie.

di Jacques Sapir da vocidallestero

I problemi posti dall’euro diventano sempre più evidenti con le mobilitazioni e le dimostrazioni di piazza in Francia contro la cosiddetta legge “Labour”. E’ ormai evidente che la basi economiche di questa legge sono imposte dalla nostra partecipazione all’eurozona. Dal momento in cui gli Stati vengono privati della possibilità di regolare la loro situazione economica tramite la svalutazione (o la rivalutazione) del cambio valutario, e in assenza di qualsivoglia sistema di trasferimenti fiscali previsti a priori, gli aggiustamenti possono avvenire solo a spese del fattore lavoro. Questa è l’amara verità, che si evidenzia sempre di più sotto forma della legge “labour”, la cosiddetta legge El Khomri, ossia il nome del Ministro a cui è stato imposto di presentarla, senza avere la possibilità di prendere parte alla sua ideazione. I problemi creati dall’euro possono essere esposti in 5 punti.
  1. L’euro non è una moneta; non corrisponde a un singolo soggetto politico né a una volontà politica basata sulla legittimazione popolare.
L’euro è un sistema che paralizza il commercio tra paesi. E’ un regime di cambi fissi di fatto affine al gold standard. Non ammette alcuna flessibilità. I Paesi non hanno più la possibilità di aggiustare il proprio tasso di cambio, cosa che sarebbe necessaria, considerando le normalissime differenze strutturali tra i paesi interessati, e l’assenza di un budget europeo, ossia di trasferimenti fiscali tra paesi dell’eurozona.
CI sono 2 soluzioni a questo. La prima consiste nell’organizzare massicci trasferimenti fiscali come quelli che esistono all’interno delle economie dei singoli paesi. Per esempio c’è una rilevante eterogeneità tra le diverse regioni francesi, ma esse vengono tenute insieme grazie a trasferimenti fiscali netti di 300 miliardi di euro, mentre i trasferimenti a livello europeo ammontano a meno di 40 miliardi. Dovremmo quindi moltiplicare questi flussi di denaro di 7 o 8 volte, ossia fare un grosso balzo in avanti. Inoltre, questi flussi dovrebbero venire pagati essenzialmente da quei paesi che traggono beneficio dall’euro, proprio come in Francia i flussi di denaro vengono essenzialmente dalla regione di Parigi e della Valle della Senna. Questo non è un problema in Francia, perché siamo tutti Francesi e la redistribuzione tra regioni ci sembra normale, ma quando parliamo di eurozona, significa che tra l’8 e il 10% del PIL tedesco dovrebbe essere prelevato dalla Germania e trasferito a paesi come Grecia, Spagna, Portogallo, Italia e perfino la Francia. Tuttavia, non possiamo chiedere tanto ai tedeschi. Non è nemmeno questione di sapere se sarebbero d’accordo a farlo. Semplicemente, distruggerebbe la loro economia.
L’altra soluzione consiste nell’organizzare svalutazioni interne competitive. Questà è la via scelta dall’eurozona fin dal 2010. In concreto, significa applicare nel nostro paese la politica suicida che Brüning applicò in Germania tra il 1930 e il 1932. Fu questa politica che pose le basi all’ascesa del Nazismo, non l’iperinflazione. Ed è bene ricordare che essa fu praticata nel nome del salvataggio delle banche tedesche. Queste furono in effetti salvate, ma il prezzo in termini di disoccupazione e miseria sociale fu mostruoso. Queste politiche di svalutazione interna sono esattamente le stesse che vengono ora implementate: un calo nominale dei benefit sociali, sussidi di disoccupazione o pensioni, e un calo nei salari nominali ottenuto attraverso diversi trucchi. Queste politiche mettono i Paesi che le applicano su un sentiero di competizione reciproca profondamente distruttivo per l’economia europea. Per esempio, si sente molto parlare della ripresa spagnola. Non solo ci vorrebbe molta prudenza sull’argomento, ma bisogna anche comprendere che questa ripresa sta avvenendo a spese della Francia e dell’Italia.
Infine, dobbiamo ricordare che la sentenza della Corte di Karlsruhe del 2011, cioè che esistono Popoli europei, ma non esiste alcun “Popolo europeo”, e che è all’interno di un contesto nazionale che si svolgono i processi democratici. In altre parole, la creazione di un sistema federale porrebbe enormi problemi in termini di democrazia.
2. Di conseguenza, l’euro è causa di recessione, sia strutturale sia di breve termine
E’ anche causa di regressione perché, quando si impedisce che gli aggiustamenti avvengano attraverso il tasso di cambio, essi avvengono attraverso la disoccupazione che, deprimendo a sua volta il livello delle attività, produce altra disoccupazione. La votazione del Fiscal Compact da parte del Parlamento francese nell’ottobre 2012 ha congelato questa situazione, privando lo Stato della possibilità di condurre politiche fiscali adeguate. Infatti, come possiamo vedere nelle tabelle suguenti, la crescita dell’eurozona è stata molto minore di quella degli stati dell’UE che non utilizzano l’euro. C’è stato, tra il 2000 e il 2015, un gap di circa l’1% annual, ossia un gap totale del 17% circa sull’intero perodo. Questo è un fatto, e molto significativo.
Tabella 1
Confronto tra la crescita nei paesi dell’eurozona e in 5 altri paesi OCSE

PIL 2015, indicizzato 100= 1999 Crescita media nel periodo 1999-2015 Crescita media nel periodo 1999-2007 Crescita media nel perido 2008-2015 PIL per abitante nel 2015, indicizzato 100=1999 Crescita media del PIL per abitante 2015
Belgio 125,6% 1,43% 2,23% 0,6% 114,1% 0,8%
Finlandia 128,2% 1,56% 3,73% -0,6% 118,0% 1,0%
Francia 122,2% 1,26% 2,11% 0,4% 111,3% 0,7%
Germania 121,5% 1,23% 1,64% 0,8% 122,7% 1,3%
Grecia 104,7% 0,29% 4,07% -3,4% 103,6% 0,2%
Italia 102,9% 0,18% 1,48% -1,1% 97,2% -0,2%
Olanda 121,6% 1,23% 2,28% 0,2% 113,6% 0,8%
Portogallo 106,2% 0,38% 1,52% -0,8% 104,3% 0,3%
Spagna 130,6% 1,68% 3,74% -0,3% 112,4% 0,7%
Totale 9 paesi dell’eurozona 119,1% 1,10% 2,18% 0,0%  
Totala senza la Germania 118,1% 1,05% 2,40% -0,3%  
Canada 142,3% 2,23% 2,80% 1,7% 120,5% 1,2%
Svezia 140,2% 2,14% 3,24% 1,0% 126,4% 1,2%
Regno Unito 134,9% 1,89% 3,00% 0,8% 122,0% 1,1%
USA 137,5% 2,01% 2,65% 1,4% 119,5% 1,2%
Fonte : data base FMI
A questo punto, dovremmo avere il coraggio di guardare in faccia la verità: i Grandi Progetti Europei sono stati il frutto della cooperazione tra paesi, ma non dell’Unione Europea stessa. L’Airbus non è stato creato dall’Europa. E’ un consorzio nato da una cooperazione franco-tedesca, a cui si sono aggiunti spagnoli e inglesi. Il razzo Arianna non è un progetto europeo, ancora una volta è un progetto nato dalla cooperazione tra Francia, Germania e Regno Unito, che la Francia riuscì ad imporre con una forzatura, nel 1971, la necessità di una mente-guida, per porre fine ai ripetuti fallimenti del razzo Europa. Tutti questi progetti si sono rivelati dei successi perché portati avanti dalla volontà politica di un paese, non dalla somma delle volontà burocratiche di Bruxelles. Allo stesso modo, il CERN esiste da molto prima dell’Unione Europea. E’ quindi perfettamente possibile coordinare, o anche meglio, cooperare nell’ambito di grandi progetti industriali, senza le istituzioni europee e a maggior ragione senza l’euro. D’altra parte, possiamo notare un calo negli investimenti a partire dall’implementazione dell’euro.
Tablella 2
Calo degli investimenti produttivi

Investimenti globali Investimenti per abitante

Livello 2015 in percentuale sul 1999 Tasso di crescita annuale Livello 2015 in percentuale sul 1999 Tasso di crescita annuale
Belgio 120,8% 1,2% 109,8% 0,6%
Finlandia 114,9% 0,9% 107,9% 0,5%
Francia 122,9% 1,3% 111,9% 0,7%
Germania 96,2% -0,2% 97,1% -0,2%
Grecia 47,2% -4,6% 46,7% -4,7%
Italia 77,2% -1,6% 73,0% -2,0%
Olanda 97,0% -0,2% 90,6% -0,6%
Portogallo 53,6% -3,8% 52,6% -3,9%
Spagna 100,5% 0,0% 86,5% -0,9%
9 paesi dell’eurozona 98,3% -0,1% 92,5% -0,5%
Canada 163,2% 3,1% 138,2% 2,0%
Svezia 157,8% 2,9% 142,2% 2,2%
Regno Unito 123,8% 1,3% 111,9% 0,7%
USA 120,2% 1,2% 104,4% 0,3%
Fonte : database FMI

Che l’euro fosse una causa di recessione strutturale è un fatto noto già da prima della crisi finanziaria del 2007. In un lavoro pubblicato nel 2007, e scritto poco prima, molti economisti mostrarono che l’euro è una causa di mancata crescita a livello mondiale[1]. Infatti, l’euro è causa di recessione in molti paesi e, per di più, indebolisce complessivamente la domanda nell’intera eurozona, pesando così sensibilmente sulla situazione economica mondiale. Possiamo notare che, fin dai primi anni 2000, la crescita aggregata dei paesi dell’eurozona è stata significativamente inferiore a quella USA, a quella del Regno Unito e a quella degli altri paesi OCSE che non hanno l’euro. Si può quindi attribuire all’euro parte degli squilibri che sono emersi fin dal 2007.
Ma l’euro è anche causa di recessione a breve termine. “Dobbiamo salvare l’euro”: è a causa di questo slogan che le politiche di austerità sono state imposte su tutto una serie di Paesi, aggravandone direttamente la crisi, come è capitato in Spagna, Grecia, Portogallo e Italia. Riguardo l’Italia, per esempio, dobbiamo essere consapevoli che la recente crisi bancaria italiana ha origine essenzialmente nell’accumulazione di crediti inesigibili, che non sono legati al mercato immobiliare, ma nel 90% dei casi ai debiti delle imprese, piccole aziende che sono state destabilizzate delle politiche recessive messe in atto negli scorsi anni. Il governo Renzi sta disperatamente provando a far ripartire il motore economico, ma al momento è costretto ad affrontare i problemi ereditati dal passato, come i malandati bilanci di 4 o 5 banche (si parla di più di 400 miliardi di crediti deteriorati), che ha causato un pesante crollo nella borsa di Milano. L’euro aggiunge crisi a crisi. Certo, tra il 2000-2001 e il 2006-2007, la Francia ha vissuto un periodo di crescita superiore a parecchi paesi dell’eurozona, in particolare rispetto alla Germania, ma perché?
  • La forte svalutazione dell’euro in quegli anni ha avvantaggiato la Francia.
  • L’ampiezza delle esenzioni dei contributi previdenziali. Questo sistema non è equo, dato che favorisce le grandi aziende e crea tutta una serie di problemi, ma è quello che abbiamo. E se la Francia ha avuto una crescita superiore alla Germania, è solo attraverso un costante rafforzamento di questo sistema di esenzioni, in altre parole, attraverso la restituzione alle società con una mano di quello che le si era tolto con l’altra, in modo da compensare gli effetti dell’euro.
  • Una politica di bilancio piuttosto espansiva durante questo periodo, la quale ha avuto effetti positivi, ma ha anche peggiorato considerevolmente il nostro debito pubblico (e soprattutto la bilancia commerciale con l’estero… MdVdE).
  1. L’euro è causa di finanziarizzazione dell’economia
L’euro ha permesso alla Germania e alla Francia di ottenere l’attuale finanziarizzazione. Ma allo stesso tempo, paradossalmente, l’euro non è stato capace di resistere a una crisi finanziaria. Possiamo vedere molto chiaramente che le regole operative della BCE, e le regole che sono state adottate dai vari paesi, mirano a rendere le attività finanziarie il vero perno dell’attività economica. Ciò è profondamente sbagliato. Sto seguendo per conto della Russia una possibile ristrutturazione del loro sistema finanziario e, per quanto mi riguarda, sono un sostenitore di un ritorno a forme di intervento per controllare la finanza. Qualcuno la chiama “repressione finanziaria”, ma è una definizione senza senso. Possiamo parlare di “reprimere” persone, o popolazioni. Ma quando parliamo di finanza, si tratta semplicemente di regole. Tuttavia, mettere in atto una regolamentazione della finanza, cosa che dovrebbe essere fatta non solo in Francia, ma in tutta l’Europa, non è possibile all’interno della struttura dell’euro. Cercare di governare la finanza è impossibile all’interno delle regole operative dell’euro.
Occorre qui ricordare che la finanziarizzazione tende a focalizzare gli attori finanziari sul breve o brevissimo termine. C’è stato un dibattito molto importante a riguardo tra Von Mises [2] e Neurath negli anni ’20. Da questo dibattito è nato il tema della “pianificazione Neurath” di tendenza socializzante, riguardo alla decisione di produrre elettricità da fonti idroelettriche piuttosto che fossili. Von Mises, che difendeva la posizione liberista, sosteneva che è sufficiente guardare al costo marginale del capitale, e la soluzione si sarebbe trovata da sola. Secondo Otto Neurath[3] invece, esistono costi nascosti che non sono subito evidenti, ma si manifesteranno tra 20 o 30 anni. Per esempio, il costo della Silicosi sui minori, il costo dell’inquinamento prodotto dalla combustione del carbone, e così via. E’ quindi necessaria una decisione politica, in questo caso tra carbone e idroelettrico, perché tale decisione creerà le sue stesse condizioni di validazione economica. Per questa ragione Neurath era a favore della pianificazione economica. E questo è uno dei più grandi problemi che dobbiamo affrontare, ma che saremo in grado di risolvere solo se ci tireremo fuori dalla globalizzazione finanziaria. Per inciso e paradossalmente, Hayek, nel suo libro del ’45 sulla conoscenza[4], era d’accordo con Neurath e contro Von Mises, come mostra J. O’Neill[5].
Il più grande problema posto dalla finanziarizzazione è quello della perdita della conoscenza tacita o implicita[6], che gioca un ruolo importante nella relazione tra colui che presta e colui che contrae il prestito, dal momento che il prestatore è impegnato in un progetto imprenditoriale. Qualsiasi registro, per esempio quello che è in fase di implementazione tra banche dell’eurozona, per quanto perfetto possa essere, non è in grado di fornire tutte le informazioni necessarie a un creditore perché possa impegnarsi con un debitore. Per questa ragione, un contatto diretto o indiretto tra creditore e debitore rimane essenziale. Perché credete che i jet privati si siano sviluppati così tanto negli ultimi 40 anni, se non per creare questo contatto diretto e personale tra grandi creditori e grandi debitori? Si crea un problema, se si cerca di unificare i mercati di capitali. Ciò è cruciale anche per i grandi paesi, ed è per questa ragione in particolare che essi hanno banche locali e regionali. Si possono allora unire queste banche in una rete, subordinarle a un organismo centrale, come successo con il vecchio Crédit Agricole. Ma, in particolare per le piccole e medie imprese, è importante che i contatti rimangano, in una particolare forma di conoscenza che nessun registro potrà mai contenere. Ciò significa che se si ritiene importante, a livello macroeconomico, avere almeno una parziale unificazione dei mercati di capitali, allora questa parziale unificazione deve prendere la forma di banche nazionali di investimento, tenute insieme, se necessario, da un organismo a livello europeo che offra loro le migliori condizioni di rifinanziamento. Questa è una delle ragioni per le quali è indispensabile l’esistenza di un sistema di regole bancarie e finanziarie. Tuttavia, questo sistema è oggi in contraddizione con l’esistenza dell’euro. Se si vuole uscire dalla finanziarizzazione, si deve essere determinati nel superamento dell’euro.
  1. L’euro è una macchina da Guerra che favorisce la Germania
Questa è una verità che può essere spiacevole ma che dobbiamo affrontare. Dirlo non significa essere germanofobici, ma riconoscere realisticamente un progetto portato avanti dalle élite politiche ed economiche tedesche. E’ l’euro che ha permesso alla Germania di trarre vantaggio fin dal 1999 di una moneta ampiamente svalutata rispetto a quanto avrebbe dovuto essere il valore del Marco tedesco. Gli studi svolti a riguardo non lasciano dubbi: se non ci fosse stato l’euro, il Marco varrebbe ora tra gli 1,35 e 1,50 dollari mentre l’euro è tra 1,08 e 1,09 dollari. Ancor più importante, l’euro garantisce alla Germania che i Paesi dell’eurozona con i quali commercia non potranno compensare le loro differenze strutturali attraverso le svalutazioni. Ma le svalutazioni sono un meccanismo economico essenziale: i Paesi hanno logiche differenti nella composizione dei costi, ed è necessari che in certi momenti queste differenze vengano ribilanciate attraverso il cambio valutario. Le politiche di svalutazione interna portano a politiche di svalutazioni competitive che hanno in realtà effetti peggiori delle precedenti, perché combinano effetti distruttivi notevoli sulle economie nazionali. Ma si potrebbe arrivare a forme di coordinamento se si tornasse alla flessibilità dello strumento valutario. Si potrebbe concordare di calcolare di quanto alcuni paesi debbano svalutare o rivalutare le loro valute, ossia, si potrebbe coordinarsi.
Ma comunque, è vero che la Germania ha notevoli esigenze di strutture comunitarie. Non solo per quel che riguarda i migranti. Parte del sistema ferroviario e dei ponti, cade a pezzi. Ma allo stesso tempo, l’arrivo di più di un milione di persone farà abbassare i salari. Certo, ci sarà un salario minimo, ma possiamo comunque essere sicuri che nei prossimi 5 anni la proporzione di persone che recepirà il salario minimo aumenterà velocemente. Mentre il salario minimo era concepito inizialmente come un livello-base che doveva interessare soltanto un 10% dei salariati, la proporzione diventerà il 25-30%, cosa che continuerà a far calare il costo del lavoro, così come la domanda interna.
  1. L’euro è oggi causa di grandi conflitti in Europa.
L’euro è la causa principale dell’aumento del conflitto tra popoli europei. Basta andare ad Atene, a Roma o perfino in Spagna per farsi un’idea di come il clima che c’è tra popoli si sia profondamente deteriorato negli ultimi 3 o 4 anni. Oggi si possono sentire in Grecia e in Italia discorsi sui tedeschi che corrispondono pressappoco a quanto si diceva di loro negli anni ’50. Al di là delle questioni economiche, ora si pone un problema politico: come far sopravvivere l’Europa. Ma la sopravvivenza dell’Europa (che dobbiamo in questo caso separare dall’Unione Europea) può avvenire solo attraverso la dissoluzione dell’euro. Forse è ormai troppo tardi oggi per “salvare” l’UE, come possiamo constatare con la disintegrazione degli accordi di Schengen. Ed è anche vero che ormai l’UE si porta dietro il marchio indelebile di politiche antidemocratiche in molti paesi. Ma lo spirito europeo, la riconciliazione tra popoli, che non nega il fatto che gli Stati così come i popoli possano avere interessi divergenti, deve essere preservato. Tuttavia, tutto questo non sarà possibile se ci terremo l’euro.

Note
[1] Bibow, Jörg et Terzi, Andrea (dir.), Euroland and the World Economy, Londres, Palgrave MacMillan, 2007.
[2] Von Mises L. (1921), “Economic calculation in the Socialist commonwealth”, pubblicato inizialmente in Germania in Archiv für Sozialwissenschaften und Sozialpolitik , vol. 47, aprile 1921, riprodotto in F.A. Hayek, Collectivist Economic Planning , Routledge, Londres, 1935
[3] Neurath O., Empiricism and Sociology, Cluwer Publishers, Dordrecht, 1973
[4] Hayek F.A., « The Use of Knowledge in Society », in American Economic Review, , vol. 35, n°4/1945, (September), pp. 519-530
[5] O’Neill J. (1996), « Who won the socialist calculation debate », in History of Political Thought, vol. XVII, n°3, fall 1996, pp. 431-442
[6] Polanyi M., The Tacit Dimension, Univ. of Chicago Press, 1966.

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...