domenica 2 gennaio 2011

Psicoanalisi ed altro

postato su doppiocieco il 29 Maggio 2008

Questo scritto è un po’ datato e forse risente di qualche ingenuità di troppo, ma la validità di alcune argomentazione rimane a mio avviso inalterata.

di Franco Cilli

La psicoanalisi non è un metodo di cura, e se pretende di esserlo compie un’evidente forzatura. Di questo sono profondamente convinto, per la mia esperienza personale, per gli anni trascorsi come psichiatra, prima volontario e poi effettivo, nei sevizi psichiatrici di mezza Italia, per aver lavorato a fianco di psicoanalisti, per le mie letture.
Curiosamente, un aneddoto letto molti anni fa ha contribuito ad  incrinare la mia “fede” nei riguardi della psicoanalisi. L’aneddoto descriveva un intervento operato da due psicologi, Haughton e Ayllon, nei confronti di una paziente con diagnosi di schizofrenia catatonica, internata in ospedale da 20 anni, la cui unica occupazione era quella di fumare ogni giorno un numero considerevole di sigarette.
Haughton e Ayllon si proposero di produrre in questa paziente un nuovo comportamento che consisteva nello spazzare una stanza. Per raggiungere tale obiettivo, utilizzarono delle tecniche comportamentali che si avvalevano delle sigarette come rinforzo. Il risultato fu che alla fine la paziente trascorreva gran parte del proprio tempo a scopare la stanza in modo quasi compulsivo.
A questo punto Haughton e Ayllon invitarono due psichiatri a esaminare la paziente e a formulare una diagnosi nei suoi confronti.
Il primo psichiatra formulò questa diagnosi: “La scopa rappresenta per la paziente un elemento di rilievo nel suo campo percettivo. Non si sa come ciò sia avvenuto: si potrebbe pensare a un’interpretazione di tipo simbolico su basi freudiane oppure una di tipo comportamentale, secondo la quale questo comportamento costituisce un’abitudine essenziale a mantenere la tranquillità interiore della paziente. In ogni caso si tratta certamente di un tipo di comportamento stereotipato che è piuttosto diffuso negli schizofrenici regrediti e che presenta analogie col modo in cui bambini molto piccoli si rifiutano di separarsi dal loro giocattolo preferito.”
Il secondo psichiatra sostenne invece il seguente punto di vista: “Il fatto che la paziente spazzi costantemente la stanza in modo compulsivo può essere considerato come una procedura ritualistica, un’azione magica. Quando la regressione si impossessa dei processi associativi, il comportamento viene controllato da forme di pensiero primitive e arcaiche. Il simbolismo diviene il modo predominante utilizzato per esprimere desideri insoddisfatti profondamente radicati e impulsi istintuali. Mediante la magia, la paziente controlla gli altri e mette a propria disposizione poteri cosmici, mentre oggetti inanimati diventano creature viventi. La scopa quindi potrebbe essere 1. un bambino che le offre amore 2. un simbolo fallico 3. lo scettro di una regina onnipotente. Il suo vagare ritmico e prestabilito all’interno di un certo spazio non assomiglia tanto alle ossessioni del nevrotico, quanto invece a una procedura magica mediante la quale la paziente gratifica i propri desideri in modo molto diverso da quello nostro razionale e convenzionale.
Questo aneddoto descritto da Meazzini nel suo libro
Il Comportamentismo: una Storia Culturale, era in realtà utilizzato dall’autore per mettere in rilievo le differenze tra il modello d’intervento medico e il modello psicologico, sottolineando come il modello psicologico comportamentale, diversamente da quello analitico e da quello puramente medico, rivolga la sua attenzione a “tutti quei fattori ambientali presenti hic et nunc”, rifiutando un’interpretazione storica del disturbo comportamentale. Purtuttavia, nei casi descritti il modello interpretativo e con esso la psicoanalisi finiscono per apparire perlomeno paradossali se non addirittura ridicoli.
Interpretazione a parte, la psicoanalisi non funziona nel momento in cui cerca di affermarsi come metodo clinico partendo dal suo corpus teorico tradizionale e in particolare dalla metapsicologia. Può semmai  funzionare lo “stile” psicoanalitico, cioè quella particolare inclinazione dello psicoterapeuta o medico che sia, quale portato di esperienze personali e di una specifica formazione professionale, nel momento in cui si intravede la possibilità  di un tale stile di lavoro di funzionare come agente di cambiamento positivo nell’ambito di una data sintomatologia, di tratti personologici o stati esistenziali non altrimenti modificabili. In generale funziona con determinati individui appartenenti a ceti sociali elevati e con una certa cultura (e con molti soldi da spendere), che devono rimettere insieme pezzi della loro esistenza. Se persone siffatte non trovano sulla loro strada psicoanalisti che si limitano a ripetere in maniera rituale frasi del tipo “mi rendo conto” oppure  “capisco” o  “vada avanti” – molti psicoanalisti teorizzano il non dire e il non fare nulla, al punto che non si vede cosa ci stiano a fare, visto che potrebbero essere validamente sostituiti da una scatola di scarpe – bensì trovano nel setting psicoanalitico uno spazio di confronto e di dialogo, potranno sicuramente giovarsi dell’ausilio di persone esperte. Si tratta ovviamente di persone senza grossi problemi. Non parliamo poi di psicoanalisti che fanno le solite interpretazioni, ormai divenute più che altro materia da avanspettacolo, su conflitti edipici, fissazioni allo stadio anale, genitale e via discorrendo, che a mio avviso sono causa di veri e propri eventi iatrogeni.
Nelle maggioranza dei casi la psicoanalisi non funziona poiché l’idea che è alla base del metodo analitico, far riemergere alla luce il rimosso per eliminare il conflitto e con esso il sintomo, è un’idea decisamente infondata e corrisponde a una visione deterministica ispirata alla dinamica dei fluidi, il “modello idraulico “ della psicoanalisi. In altre parole l’idea che rimuovendo il blocco, all’interno di un sistema psichico descritto come una mappa topografica, l’energia torni a scorrere liberamente e  si risolva il conflitto, raggiungendo la catarsi e recuperando il benessere e l’armonia, fa acqua da tutte le parti. Questa idea non corrisponde minimamente all’idea che abbiamo oggi di malattia in senso psichico, sia come portato genetico sia come somma di variabili sociali e ambientali. Oggi ad esempio si parla sempre di più di
endofenotipi per indicare aspetti innati di determinate funzioni psichiche, sulla base dei quali l’interazione con l’ambiente, le relazioni sociali, fattori imprevisti come traumi o malattie, modellano la struttura psichica dell’individuo e possono rappresentare dei veri e propri markers biologici di malattia (un esempio sono i deficit di attenzione e della working memory nella schizofrenia). Inoltre le malattie stesse, come ad esempio la depressione, finiscono per rimodellare l’intera struttura dell’individuo sia in senso adattivo che degenerativo.
Guarire, quindi, per molti pazienti è un concetto improprio perché presuppone l’eliminazione non solo della noxa patogena, ma la modificazione e per certi versi il
reset dell’intero sistema di funzionamento  dell’individuo e di tutta la sua storia, in poche parole del proprio sé, nonchè la improbabile reversibilità di processi cronico-degenerativi determinati dalla malattia stessa. Neanche nella depressione, che è una delle patologie con prognosi migliore rispetto all’episodio, si può parlare di guarigione, visto che sappiamo che nella maggioranza dei casi la malattia è solo congelata, e che prima o poi si ripresenterà, determinando una sempre maggiore difficoltà di recupero.
Il problema della cura si pone senz’altro, e anzi ritengo sia preminente, sebbene sia necessario ridefinirne le modalità e le finalità.
Non voglio qui riprendere le tesi di Grunbaum o di Popper o di numerosi altri autori per dimostrare la non scientificità della psicoanalisi, è un concetto che mi pare acquisito e buona parte degli psicoanalisti stessi non pretende più nemmeno, come faceva Freud, di usare un sistema di rappresentazione della psiche umana di tipo psicodinamico in attesa che progressi della scienza svelino i correlati anatomo-fisiologici delle patologie mentali. Buona parte degli psicoanalisti, in particolare coloro che hanno una preminente formazione umanistica, tendono a considerarsi un corpo autonomo dalla scienza, con proprie regole e con uno spartito che non suona le note della scienza comunemente intesa. Sono aggrappati al concetto di teoria motivazionale: la teoria clinica, definita nei suoi termini costitutivi “è essenzialmente una teoria motivazionale (...); ha a che fare con un resoconto del comportamento (...) più che con le esatte concatenazioni consequenziali di avvenimenti secondo il tradizionale concetto di causa (...); fa riferimento alla motivazione, intesa come fini agiti e vissuti nei rapporti interpersonali (Klein); o anche al concetto della cosiddetta coerenza narrativa, che si distingue in “coerenza interna” e “coerenza esterna”. La coerenza interna, in parole povere, significa che se io psicoanalista do un’interpretazione dei tuoi conflitti coerente con il  racconto che tu mi esponi, basta questo a validare la mia interpretazione. Rovesciando il concetto, se io racconto frottole è sufficiente che il mio analista faccia un’interpretazione coerente con le menzogne che racconto per avvicinarsi alla realtà. La coerenza esterna sembrerebbe un concetto più convincente: essa fa riferimento ad una consonanza con le evidenze accettate e riconosciute dal mondo scientifico. In pratica quello che affermo ha una sua validità che mi deriva dall’aver acquisito nozioni entrate a far parte del senso comune in ambito scientifico.
Non si vede però come nuove scoperte scientifiche possano aiutare la psicoanalisi ad essere più coerente, visto che il suo è e rimane pur sempre un procedimento maieutico che si basa su presupposti tutto sommato abbastanza stabili; semmai le nuove scoperte vanno tutte a detrimento della psicoanalisi stessa. Non si comprende insomma in che maniera conoscenze scientifiche più aggiornate possano servire al terapeuta se non per dare corpo alle sue interpretazioni. Sebbene più “corpose” però, le interpretazioni rimangono pur sempre tali e quindi assunti arbitrari che alla meglio possono essere utilizzate come ipotesi di lavoro e in quanto tali devono essere sottoposte a verifiche serie con il metodo dell’evidenza scientifica. Tutto ciò è in maniera evidente molto poco psicoanalitico.
D’altro canto c’è chi invece tenta di recuperare una credibilità scientifica stabilendo un apparentamento tra la psicoanalisi e le neuroscienze,  sulla base del fatto che sempre di più le neuroscienze  tendono a mettere al centro della vita psichica le emozioni “come pattern unico di risposta con cui la struttura cerebrale affronta qualsiasi stimolo, interno e esterno; un pattern organizzato su base genetica che si sviluppa, anche questo ovviamente, in seguito ad una serie di stimoli che lo organizzano, lo personalizzano e lo fanno evolvere”. Siccome la psicoanalisi si occupa principalmente di emozioni, ecco che la stessa resuscita in una sorta di nemesi biotecnologica. Inoltre, sempre le ricerche nel campo delle neuroscienze hanno dimostrato che certe funzioni mnesiche sono in parte o del tutto inconsce. Questo ha fatto fare salti di gioia agli psicoanalisti, al grido “lo aveva detto Freud, e più di cento anni fa!”
Ammettiamo pure che la psicoanalisi si diversifichi dalle altre discipline per la prevalenza data alla sfera emotiva, e che questa costituisca il suo campo di applicazione, e ammettiamo pure che taluni processi mentali siano inconsci, ma tutto ciò ha un nesso reale con i processi di cura? In primo luogo, lavorare sulle emozioni non vuol dire automaticamente stabilire dei processi di cura e di guarigione, a meno che non si riesca ad approntare dei protocolli che attraverso tecniche consolidate approdino a dei risultati previsti e desiderati; in secondo luogo, l’emozione rimane pur sempre un concetto astratto, il quale se svincolato da una problematica di disagio ben definita o da un chiaro quadro patologico rientra in un ambito di cosiddetta normalità e quindi non si vede il senso del “lavorarci sopra”. Il problema rimane quello di definire il contesto.
Come è facile desumere, neppure abbandonando il “modello idraulico” e abbracciando quello delle emozioni e del viaggio verso “l’esperienza psicoanalitica”, la psicoanalisi risulta convincente.
La questione fondamentale, al di là delle emozioni e di incauti apparentamenti con le neuroscienze,  è che la psicoanalisi rimane pervicacemente legata all’idea del soggetto. Rifiuta di mettere fra parentesi il soggetto e la sua narrazione temendo che abbandonare il soggetto al metodo scientifico  equivalga alla sua reificazione, alla possibilità di scomporlo e ricomporlo a piacimento , magari dopo averlo riparato a dovere. Rifiuta di uscire da una logica autoreferenziale che spiega tutto senza l’intervento di procedimenti empirici tanto fastidiosi quanto aridi.
Le giustificazioni addotte dagli psicoanalisti potrebbero apparire  lodevoli se non fosse che a questo punto non si capisce che ci stiano a fare le neuroscienze, a meno di non ritirare fuori la vecchia divisione mente/corpo di tipo cartesiano o mente/cervello,concedendo a ciascuno il proprio orto: agli psicoanalisti la mente ai neuro scienziati il  cervello, dando per scontato un dualismo che si nega a priori.
Peraltro , tanto zelo nel volere tutelare il soggetto , fa sorgere forte il sospetto che questo nasconda il timore concreto di perdere la propria sfera di influenza e di potere.
Significa che dobbiamo dimenticarci del soggetto? Abbandonarlo al suo destino? Al contrario significa   piuttosto che invece che dare semplicemente voce al soggetto dobbiamo cercare di ricollocare la soggettività in un contesto dove accanto al racconto ci si ponga il problema concreto della cura, basandosi non su sistemi predefiniti ma sulle evidenze scientifiche, accettando il presupposto che il  disagio  psichico è un insieme complesso di  problemi dove l’elemento biologico in alcuni casi preponderante si intreccia ad una dimensione sociale ed antropologica difficilmente separabile dal contesto generale, problemi che  richiedono soluzioni che passano anche attraverso procedimenti di  verifica ed analisi quantitative , attraverso il problem solving, la ricerca clinica e di laboratorio, con soluzioni innovative ed estemporanee e non  attraverso il semplice esercizio di una coerenza narrativa per mezzo di  sistemi di decodifica anacronistici e del tutto inverosimili. Questi concetti sono per la verità quasi universalmente accettati, persistono delle resistenze proprio laddove si continua a coltivare un’idea del soggetto come crinale tra una civiltà umanisticamente intesa e un’idea di società tecnocratica e spersonalizzante.
Appare paradossale , ma forse il più convinto assertore dell’origine biologica dei disturbi mentali era proprio Freud, che considerava la psicoanalisi un campo di ipotesi da verificare nel momento in cui avremmo avuto a disposizione sistemi di ricerca adeguati. Per restare in Italia , lo stesso Basaglia , considerato  ingenuamente  il padre dell’antipsichiatria italiana , aveva idee tutt’altro che antiscientifiche e negatrici delle basi biologiche delle stesse malattie mentali. Ciò che Basaglia affermava in sostanza è che non ha nessuna importanza quale sia la causa della schizofrenia , la quale avrà con ogni probabilità delle cause organiche, quello che importa è che la persona che abbiamo davanti ha una storia e che il suo stare al mondo è il frutto di questa storia fatta di mutilazioni, violenze ed emarginazione che non possono essere sanate dal farmaco o dalla cura miracolosa ma che richiedono il ripristino di quegli assi fondamentali quali gli affetti, il lavoro , le relazioni sociali , la casa ,che sono elementi fondanti dell’identità di ciascuno e rappresentano un requisito indispensabile per il recupero di una dignità perduta.
Quando penso al soggetto psicoanalitico, non posso fare a meno di fare un parallelo con i discorsi sulla soggettività all’interno del movimento. Mi pare che una simile deformazione nel voler privilegiare il soggetto, come caposaldo dell’agire politico sia presente tutt’ora dentro il movimento, con il rischio forte anche qui di cadere nell’autorefenzialità.
L’attaccamento al soggetto è credo  considerata una pratica di non neutralità rispetto alla storia ed al conflitto capitale/lavoro..Questo era forse comprensibile nel secolo scorso, ma oggi ci pone dei problemi rilevanti. Mi sembra che ci vincoli eccessivamente ad una visione parziale che lega le sorti del mondo ad un singolo soggetto, costringendoci a ragionare secondo le coordinate di una logica dicotomica e non multidimensionale.
Credo che il larghissima parte il movimento si sia liberato dell’ombra incombente della soggettività sebbene permangano all’interno del movimento stesso tentazioni egemoniche, riproposizione dei vari ismi, chiavi di lettura incentrate sulla vecchia contrapposizione tra “spontaneisti ed organizzativisti”sempre legate al pensiero della soggettività. La preoccupazione maggiore è che questo riproduca  una dialettica senza fine. Ma se è vero che nessuno vuole più la dialettica che bisogno c’è del soggetto inteso come polo di contrapposizione e di distinzione?
Privilegiare il soggetto al singolare come movente dell’azione e della prassi porta inevitabilmente a privilegiare l’esperienza soggettiva alla prassi intesa come ricerca di strumenti idonei al raggiungimento dell’obiettivo.  Prendiamo l’esempio della medicina. Molti compagni e non preferiscono valorizzare l’aspetto esperienziale delle medicine alternative piuttosto che affidarsi alla fredda evidenza, spesso avvilente, della terapia tradizionale , tendenzialmente basata sul dato e su criteri quantitativi. Il quantitativo sarebbe appunto  il luogo dell’oggettivo. L’esperienza è il luogo del soggettivo, che non si preoccupa della dimostrazione, dell’evidente, ma bensì preferisce il “vissuto” quel luogo dove il confine tra verità e menzogna risiede nell’orizzonte senziente del soggetto, nell’illuminazione, nell’estasi.
E’ evidente che le medicine alternative , con tutto il loro corollario di “culture alternative”,  sono  perlopiù fandonie allo stato puro, quando non assumono la forma di deliri veri e propri. Non c’è nulla , proprio nulla che ci lasci supporre che buttando un cucchiaio di una determinata sostanza nell’oceano pacifico e dopo averlo accuratamente rimescolato, le acque dello stesso oceano acquistino una proprietà curativa dovuta alle concentrazioni infinitesimali della predetta sostanza.  Eppure molti ci credono. Perché? Perché l’ipotesi è suggestiva, fa parte di un racconto fiabesco che coniuga la promessa di una cura efficace alla dolcezza ed alla “naturalezza”.
Che dire di chi pensa che manipolando i campi energetici si possa guarire la gente anche a distanza, o di chi usa cristalli o odori per guarire? Queste sono esperienze, ma per liberare l’umanità dalle catene ci vogliono ben altro che i racconti e le esperienze suggestive. E’ ovvio che anche qui prevalga un criterio basato sulla coerenza narrativa e su atteggiamenti puramente fideistici circondati da un forte alone emotivo.
Occorre mettersi d’accordo una volta per tutte su alcune questioni di metodo. Prendiamo a mò di esempio un concetto ignorato da molti naturisti ed alternativi: il concetto di “statisticamente significativo” così come viene espresso dall’edizione italiana di “Clinical evidence”.
" L’espressione statisticamente significativo viene usata per indicare una bassa probabilità che le differenze osservate nei campioni studiati siano dovute al caso.
Convenzionalmente si fa riferimento come valore soglia al livello di significatività del 5% che significa che la probabilità che l’evento osservato sia dovuta al caso si presenterebbe una volta su 20(5%) se l’ipotesi di non differenza tra i due interventi/trattamenti fosse vera.
Un valore dell’1% o 1 per mille esprimono in questo caso un valore di probabilità inferiore che il risultato sia dovuto al caso(rispettivamente di 1 volta su 100 e di 1 volta su mille). “
Concetti del genere sono alla base della ricerca odierna e ci consentono di dare validità a determinate ipotesi. Se consideriamo che un concetto molto semplice come il valore preventivo dell’aspirina nelle recidive di determinate malattie cardiovascolari ha richiesto anni di studio e l’impiego di campioni di popolazioni numericamente considerevoli, si capisce lo scetticismo dei ricercatori nei confronti di ipotesi balzane portate avanti dagli assertori della medicina alternativa. Certo tali concetti non devono essere presi necessariamente per buoni , il problema è che mi sembra che allo stato attuale non abbiamo niente di meglio.
A ben guardare l’idea di cultura alternativa non è certo nata negli anni settanta, ma è un concetto antico. Già nel medioevo le streghe, progenitrici degli stregoni moderni erano portatrici di una cultura alternativa, la quale si esplicava principalmente nel campo dei rimedi contro le malattie e   probabilmente aveva le sue  radici in determinate tradizioni locali. Questa cultura si  poneva  in un’ottica relativamente autonoma rispetto alla cultura ufficiale. Tutto ciò rappresentava forse il tentativo di emersione di una soggettività “alternativa” duramente represso dalle autorità religiose del tempo. Se però questa concezione alternativa era comprensibile allora, in una fase in cui l’organizzazione sociale ed economica era di tipo precapitalista e lo sviluppo delle scienze doveva ancora iniziare lo è forse molto meno ora in una fase di pieno dispiegamento dell’economia e di forte sviluppo tecnologico.  Oggi considerare  l’alternativa come sinonimo di alternanza di domini contrapposti in base al dualismo scienza ufficiale e non ufficiale, appare improprio e non congruente con la realtà in cui viviamo. Il General Intellect, il lavoro immateriale è  virtualmente alternativo al capitale nel suo riappropriarsi del prodotto , nel suo  sviluppo di sistemi di produzione di tipo cooperativo, ma è al tempo stesso integralmente inserito nei meccanismi produttivi ed è all’interno di questi stessi meccanismi che produce paradigmi scientifici ed ipotesi di lavoro sottoposti a costante verifica.
Tornando alla psicoanalisi anch’essa come le medicine alternative sebbene in   modi diversi è  dispensatrice di esperienze e di racconti. Non può realmente curare tranne che per una pura casualità poiché nulla fa supporre che possa farlo e probabilmente nemmeno vuole più farlo: molti psicoanalisti spostano il discorso appunto sull’ ”esperienza psicoanalitica “ e non sulla guarigione.  Non possiede  sistemi di verifica,non c’è nessuna riproducibilità dell’evento. Nessuno potrà mai  dimostrare mai l’esistenza dell’Es o del super Io semplicemente perché sono il parto di una concezione solipsistica ed ottocentesca della scienza , basata  su  ipotesi  ed evidenze costruite sulla base di un determinismo puramente semantico: se c’è un conflitto ci deve essere  un inconscio che rimuove e il rimosso che tenta di emergere alla coscienza provoca la malattia. Oggi è impossibile ragionare così. Ripongo la domanda: perché continuiamo a farlo?
Un altro aspetto paradigmatico di un modo di ragionare improntato all’emotività ed imbevuto di ideologia è quello relativo all’elettroshock. Un tabù talmente grande che non è nemmeno lecito discuterne se non vuoi fare la figura del subdolo restauratore di pratiche abominevoli nel solo interesse di una minoranza cinica e famelica di “psichiatri biologici” a caccia di denaro e di potere. Non sono favorevole a questo tipo di terapia, ma le argomentazioni che vengono portate a discapito di questa tecnica sono puramente ideologiche . L’argomentazione più ricorrente è quello della spersonalizzazione del malato, ridotto a puro oggetto da riaggiustare e ricomporre come un pezzo meccanico, al di fuori di una qualsiasi relazione fra soggetti umani dotati di una storia e di una propria individualità. Questo equivale a dire che se ho l’appendicite acuta e devo operarmi ciò significa spersonalizzarmi e reificare la mia persona? Mi sia consentito dirlo chiaro: tutte balle. Il problema in questo caso è: esiste una patologia depressiva? Se si, esiste nell’ambito di questa patologia una forma suscettibile all’elettroshock ? Sembrerebbe in effetti che alcune forme depressive con comportamenti suicidari e con sintomi deliranti rispondano bene all’elettroshock. Sembrerebbe appunto, le evidenze portate non sono ancora del tutto convincenti, ma se accettiamo l’ipotesi che esiste una malattia depressiva  e viene dimostrato che  questa è suscettibile all’ECT non c’è nessuna ragione per non usare questa tecnica se i benefici ovviamente sono superiori agli svantaggi, l’ ECT equivale né più né meno che ad un farmaco o ad una tecnica chirurgica. L’aspetto fondamentale  sta nella socializzazione del problema e nella capacità di sottoporlo ad una dibattito costante nell’ambito della comunità degli uomini e non relegarlo solo all’ambito della comunità scientifica, per evitare usi impropri e strumentali.
Potremmo seguire la stessa linea di ragionamento se parliamo di biotecnologie o di clonazione terapeutica. Anche qui l’atteggiamento di molte persone di sinistra e non , riecheggia una sorta di fondamentalismo catto-ecologista, che ha molto di ideologia e fideismo e molto poco di valutazioni in termini scientifici e sociali del problema.
Se è vero, come è vero che gli OGM sono una sciagura per la biodiversità, per i risvolti di tipo economico nei riguardi dei cosiddetti paesi in via di sviluppo, il giudizio non può essere esteso in assoluto a tutte le biotecnologie e aggiungerei nemmeno agli OGM in generale. Per quanto riguarda poi tecniche come la clonazione terapeutica è’ sconcertante sentire le dichiarazioni di certi verdi, che nel tentativo di mettere in guardia l’opinione pubblica dagli eccessi di questa tecnica, tirino fuori argomentazioni del tipo: “ andremo a finire poi  che qualcuno magari vuole un fegato più scattante”.
E’ ovvio che il problema non è il fegato più scattante, che sarebbe auspicabile , dato che non si vede lo scandalo ,  nel poter disporre di organi di ricambio, magari più scattanti dei vecchi.
Qui il discorso è l’affermazione di un presunto stato di natura dove il soggetto mondo e il soggetto umano “naturalmente” si collocano , di un “naturale” divenire dei rapporti e delle consuetudini umane , sottolineate da una didattica ecologista che ci ricorda costantemente che quello che importa è avere uno stile di vita consono e in sintonia con la natura piuttosto che cercare delle scorciatoie che violino l’intima essenza della natura stessa allo scopo di allungarci innaturalmente l’esistenza. Nel frattempo mentre decidiamo quali debbano essere gli stili di vita consoni e “naturali” la maggioranza delle persone continuerà a morire di malattie che potremmo curare con maggiore successo se non si opponessero ostacoli alla ricerca. Chi può dire cosa sia naturale? E perché ciò che eventualmente non lo fosse deve essere bandito. Ed inoltre naturale non è certo sinonimo di inoffensivo: la digitale è un prodotto “naturale”, molti farmaci antitumorali sono “naturali”, ma esplicano un’azione chimica che a dosi massive può risultare letale. La storia dell’uomo in realtà a ben guardare non ha niente di naturale. Insomma il soggetto idealisticamente inteso prevale , forse per la necessità anche questa umana di aggrapparsi ad una narrazione, a quel filo rosso che tiene insieme le emozioni , le aspirazioni, gli affetti, colorandoli di tonalità emotive intessute in una trama narrativa.
Se è vero come alcuni psicologi dicono che l’esistenza umana è teatro, che qualsiasi atto quotidiano dal più semplice quali il salutare il vicino mentre scendi le scale al più complesso  quale presenziare il matrimonio della propria figlia, sia preceduto e diretto da rappresentazioni mentali che in una sorta di canovaccio anticipano l’evento in tutti i suoi particolari, allora dobbiamo dedurre che ciò che muove gli uomini e le donne è la trama che si sono scelti e che procura loro emozione , e non già la razionalità.
C’è da chiedersi allora se non sia forse il caso a questo punto di costruire storie finalmente a lieto fine, forse con meno pathos, ma più consapevolezza ed autodeterminazione collettiva.
Al di là delle storie un’altra domanda risuona insistentemente: è ancora il tempo per produrre senso indipendentemente dall’urgenza ambientale entro la quale viviamo? L’arte, sia essa l’arte di fare politica, di guarire o produrre icone astratte, che collocazione ha all’interno di  questo contesto  emergenziale?  Non è forse  urgente ricercare un metodo che accanto all’arte fornisca strumenti concreti idonei a curare le varie pestilenze che mettono seriamente a rischio la sopravvivenza della specie?
Sono consapevole che l’idea di concretezza, l’idea di uscire da un orizzonte se vogliamo, puramente metafisico, non è certo nuova. E’ un’idea che nasce già nel seicento con la disputa tra spiritualismo e materialismo e successivamente nell’ottocento tra idealismo e positivismo, per arrivare ai giorni nostri, dove assistiamo alla pretesa disputa tra analitici e continentali(pretesa poiché qualcuno afferma che dal momento in cui Husserl può essere considerato il padre di entrambi è forse improprio stabilire una contrapposizione).
L’esigenza di un metodo razionale, scientifico o anche materialista in contrasto con le “ vaporosità metafisiche” è un tema presente anche nella cultura italiana dei primi del ‘900. E’ celebre l’orazione inaugurale napoletana di Francesco De Sanctis del 16 Novembre del 1872 (“ la scienza altro non è se non restituzione de’ limiti della coscienza, la riabilitazione di tutte le sfere della vita….la società non può vivere lungamente sopra idee che non generano, che non organizzano”) che, insieme alla conferenza romana dell’ 11 Marzo 1883 risultano estremamente significativi: “ Una volta il nostro spirito era disposto a cercare le idee o i concetti delle cose, l’esprit des chose,la filosofia delle cose, la filosofia della storia, filosofia del linguaggio, filosofia del diritto. Oggi prendiamo vivo interesse a studiare le cose in se stesse, nella loro esteriorità, nella loro natura ,nella loro vita. Le basi dei nostri studi erano grammatiche, retoriche, logiche , metafisiche….oggi…vogliamo il laboratorio anche nelle scienze spirituali “.
Quelle esigenze di  cui De Sanctis si fa testimone non hanno mai potuto avere uno sviluppo corrispondente ai propositi iniziali. La genuina necessità di contrapporre all’idealismo rigorose vedute logiche, organiche strutturazioni di piani di  ricerca ed in buona sostanza un metodo efficace che saldasse gli aspetti particolari alla “ veduta generale” è stata soffocata dal costituirsi di tali tendenze positiviste in una sorta di nuova cosmogonia antimetafisica. In pratica si è sostituito all’idealismo un nuovo idealismo che fatto ben presto rimpiangere il vecchio.
Tornando all’oggi , il problema non mi sembra quello di creare una nuova filosofia all’insegna del concreto, ripetendo gli errori del passato, il problema forse è quello di assumere un atteggiamento genuinamente “ strumentale” , che ci consenta di prendere gli strumenti giusti laddove si trovano, utilizzando quelli che riteniamo più efficaci e mettendo da parte quelli vecchi e non più utilizzabili.
Quello che emerge in questa epoca post-moderna  è l’urgenza di trovare soluzioni a problemi che sono alla base della sopravvivenza dell’intera umanità, la storia adesso è questa, meno romantica e meno suggestiva , ma sicuramente più protesa verso il conseguimento di obiettivi concreti che portino alla sconfitta delle pestilenze e delle schiavitù rimaste: le ingiustizie sociali, le malattie, la sofferenza, la morte. Credo che la filosofia continentale, interprete genuina del ‘900, per dirla in maniera semplice, abbia caratteristiche di profondità e di analisi irrinunciabili, ma credo anche che sia totalmente refrattaria ed inadatta a ragionare in termini di evidenza e di metodo. La filosofia continentale sa meglio di tutti dare voce ai soggetti, ma è abituata a concepire il discorso dell’organizzazione attorno a delle categorie le quali non possono essere disgiunte dagli obiettivi, poiché teme fortemente che tornando ad un generico concetto di “bene comune” si incorra nel rischio di “neutralizzare” il pensiero e la filosofia. Da qui la forte diffidenza verso la filosofia analitica , vista una volta da molti, come la punta più avanzata del capitalismo.  Un certo  pragmatismo anglosassone invece, almeno nelle sue versioni “aziendalistiche”, ha nel tempo affinato notevolmente la metodologia, non curandosi di interrogarsi sulla “missione” dell’agire, , ma organizzando l’agire in maniera efficiente e soprattutto efficace.
Da quello che si vede oggi il discorso sulla  neutralizzazione del pensiero appare fuorviante. Il  nemico “ di classe” da fronteggiare se vogliamo esiste ancora , sebbene l’esercito  che lo fronteggia, non sia un monolite bensì un insieme variegato e multicolore di soggetti  che oppongono alla sua marcia incessante interessi prurali , ma non inconciliabili  e convergenti verso un obiettivo comune.
Si tratta ripeto di elaborare strumenti e metodi efficaci.
Per chi ha partecipato al lavoro politico negli ultimi anni ed ha una lunga frequentazione del movimento ha potuto rendersi conto che uno dei problemi principali  è proprio la mancanza di un metodo condiviso che ponga un freno ai vari personalismi e consenta una reale partecipazione di tutti . Sappiamo bene come molte riunioni politiche vadano avanti per ore ed ore fra interventi  prolissi e avvitati su se stessi , estenuanti schermaglie fra i compagni, disquisizioni  inutili e  puntigliosità che spesso alla fine  lasciano un senso di forte frustrazione. Proprio per ovviare a questi inconvenienti è stato proposto il “metodo del consenso” come metodo di lavoro politico che lungi dall’essere solo un mero espediente tecnico rappresenta anche una filosofia che si ripropone di superare i personalismi ed affermare criteri genuinamente democratici, escludendo il ricorso alla maggioranza e privilegiando appunto il metodo del consenso. Il “ consensus model” o “ metodo del consenso” potrebbe essere un esempio di importazione di una metodologia efficace di stampo anglosassone e come sanno bene anche i disobbedienti , l’abitudine di organizzare corsi specifici su come difendersi dalle cariche della polizia o dai lacrimogeni è un modo di procedere tipicamente anglosassone , frutto di una cultura pragmatica. Purtroppo tale approccio nella sua globalità è visto ancora con diffidenza e con le resistenze e il disagio di chi si trova a dover utilizzare uno strumento nuovo. Inoltre come già accennato il pragmatismo parente stretto della filosofia analitica è visto anch’esso con diffidenza e  disprezzo.
Superare il soggettivismo senza mortificare il soggetto appare fondamentale, come pure superare il novecento senza anatemi ne pentimenti.
Forse il soggettivismo è morto negli anni settanta , quando formazioni politiche comuniste radicali come Potere Operaio, propugnavano una disarticolazione dello stato attraverso l’intervento sul salario, concepito come variabile indipendente. La strategia di base  presupponeva l’acquisizione di una forza rilevante  in termini di contropotere in grado di consentire un peso contrattuale nei riguardi delle classi dominanti  tale da produrre cambiamenti favorevoli alle classi subalterne. Questa impostazione si fondava su una visione soggettivistica estrema coniugata con il massimo dell’oggettivismo nei termini dell’organizzazione della struttura partito. Potremmo definirla l’interpretazione attuale(per quei tempi ) del leninismo.
Quel tipo di strategia e di visione è fallita per esplicita ammissione di coloro stessi che l’avevano concepita.
In quegli anni, sebbene con grosso azzardo poteva essere ancora concepibile una impostazione del genere,  (già allora però altre formazioni come Lotta Continua prefiguravano un’idea di soggettività “allargata” andando ad abbracciare anche sfere della vita collettiva classicamente non considerate dai puristi del marxismo, quali gli affetti, i sentimenti, la dialettica tra i generi, considerati elementi “sovrastrutturali” e quindi epifenomeni del conflitto capitale-lavoro ritenuto l’essenza di qualsiasi espressione sociale e politica e  persino psichica ), oggi dobbiamo inventarci qualcosa di costantemente rinnovabile.
Le elaborazioni politiche di quegli anni rientrano nell’ambito delle narrazioni moderne, un contesto che appunto privilegiava il soggetto quale tessitore di trame, protagonista di passioni e di eventi epocali, un soggetto che aveva dalla sua parte anche l’elemento tempo, poiché si vedeva immerso in un ambiente naturale dove le risorse apparivano illimitate e le storie potevano essere riscritte all’infinito. Mi sembra che questa visione estetizzante, sia oggi abbondantemente superata almeno concettualmente, considerando che viviamo in un  contesto estremamente fluido dove i confini tra i soggetti sfumano nella moltitudine e dove  il soggettivismo appare in contraddizione con l’elemento cooperativo(la cooperazione avviene tra soggetti e classi differenti) attorno al quale si fondano i discorsi di cambiamento e di rivoluzionamento dell’ordine sociale esistente.
Ma sebbene il tramonto del soggettivismo sia stato  recepito a livello concettuale,non è stato tuttora metabolizzato, i residui del medesimo continuano a condizionare il nostro agire politico attraverso una frammentazione di soggetti che non operano efficacemente in rete con altri poiché troppo impegnati a giocarsi la partita  della sopravvivenza , anteponendo la propria linea alla necessità di concentrare le proprie energie su obiettivi comuni.
In definitiva siamo passati dal grande proscenio novecentesco, dove andavano in scene le avventure epiche del soggetto , con il pathos delle grandi storie, ad una situazione che assomiglia più a quella dell’ esploratore, che  con le sue mappe  cerca il percorso migliore e i compagni di viaggio più adatti per raggiungere la meta. Siamo finalmente al nocciolo della questione: la soluzione nuda e cruda dei problemi, il problem solving. Come si cura una persona? Quale è il metodo più efficace?
Come si risolve il problema del cibo e dell’acqua, quello della carenza dei farmaci essenziali, della povertà, dell’inquinamento? Non  ci sono più grandi sistemi in grado di spiegare tutto.
In questo contesto cose come la psicoanalisi non hanno più senso. Ha forse senso l’idea di una psicologia clinica che superi tutti gli steccati e prenda quanto di buono c’è in tutti i vari orientamenti della psicologia e  nella ricerca psicologica avanzata  e perché no anche della psicoanalisi, quella stessa dottrina che per prima ha dato voce e rilievo a chi era solo un oggetto di congressi scientifici e di manipolazioni brutali da parte dei  medici (già in fin dei conti nessuno vuole tornare indietro ad un “oggettivismo” peloso e senza freni). Il fatto è che la psicoanalisi come pratica istituzionalizzata, con i suoi riti da iniziati, il suo alone chiesastico, i soldi estorti a poveracci ignari, non si decide a morire e come tutti  i fenomeni resistenziali continua a dare colpi di coda che confondono le idee. Per onestà bisogna dire che tali elementi rituali sono molto più presenti in Italia che in altre nazioni come la Francia , dove da anni è in atto una revisione critica degli aspetti più settari e dogmatici della psicoanalisi. Tutti gli altri problemi, in primis l’elemento interpretativo e soggettivistico però rimangono.
In realtà chi opera nei servizi, luoghi dove la maggior parte della gente accede, sa perfettamente che c’è una distanza abissale fra quello che è il mondo accademico psicoanalitico e quello che invece è il mondo degli operatori che lavorano dentro il  disagio mentale, con i problemi di chi con pochi mezzi deve fare miracoli, cosciente del fatto che il disagio psichico non ha niente a che vedere con le topiche freudiane, ma è qualcosa di molto più complesso.
Occorre che la secolarizzazione del pensiero si compia a tutti i livelli bonificando la mente da tutte le superstizioni e le credulonerie varie, forse allora cominceremo a ragionare.

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di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...