mercoledì 30 settembre 2015

Il saggio di Bagnai, l’intervista di Fassina, significati di ri-evoluzione

di Stefano Santachiara da stefanosantachiara2.wordpress.com

“Pratica il dubbio ogni volta che l’agire collettivo contrasta col tuo sforzo di essere libero”. Le parole di Pietro Ingrao, ad oggi, mi suscitano riflessioni sul valore dell’evoluzione personale. Nell’introdurre l’intervista di Stefano Fassina su Left Avvenimenti del 19 settembre 2015 vorrei premettere che non sono un economista, quindi ho cercato di snodare il percorso cognitivo secondo una logica etimologicamente essenzialista, laicamente scettica. Con colpevole ritardo, sto studiando gli scritti del professor Alberto Bagnai, l’econometrista che da anni sta cercando di spiegare agli italiani la nocività dell’Unione monetaria europea. “L’Italia può farcela”, secondo saggio di successo dopo Il Tramonto dell’euro, è un compendio di dati statistici, rigorose analisi, aneddoti che limitando al necessario il tecnicismo chiariscono i passaggi chiave. In sostanza avvalorano convinzioni maturate anche in coloro i quali per lavoro si occupano d’altro (dalle inchieste giudiziarie alla geopolitica) favorendo la comprensione delle dinamiche della struttura macroeconomica. Ad esempio Bagnai rende intellegibili i meccanismi con cui la gabbia dell’aggancio valutario fornisce al capitalismo finanziario una serie di strumenti per massimizzare i profitti e riprodursi al Potere, accrescendo le disuguaglianze. Nella fattispecie l’Euro favorisce le esportazioni tedesche impedendo la rivalutazione del marco a fronte di un surplus commerciale della Germania e, simmetricamente, penalizza i paesi con deficit di partite correnti che in un sistema di tasso di cambio variabile avrebbero beneficiato della svalutazione competitiva. La Bce, affidata a tecnocrati indipendenti, è perno di un’architettura istituzionale che assieme agli organi esecutivi (Consiglio d’Europa e Commissione) ha svuotato le facoltà decisionali dei popoli nell’interesse delle elitè finanziarie. Bagnai spiega in che modo la massa monetaria, causa o effetto dell’inflazione a seconda delle teorie economiche, venga comunque determinata dalle banche private che prestano a imprese e cittadini il denaro ricevuto dalla Centrale in ragione della domanda (e dalle garanzie) dei clienti. Ragion per cui non c’è Quantitative Easing che possa incidere se manca la fiducia e la spirale di recessione non si arresta. Il mandato della Bce a mantenere costante l’inflazione, che secondo l’autore è anche lo scopo della Uem, ha ragioni opposte alla presunta ossessione storica della Germania per il rincaro dei prezzi. Scorrendo il testo, colpisce il parallelo inquietante con l’avvento del nazismo, che attecchì su masse di lavoratori disoccupati e impoveriti non per l’eccesso di inflazione ma per via delle politiche di austerity con cui la Repubblica di Weimar rispose alla crisi di Wall Street del 1929. Cosa vi ricorda?

In breve. L’inflazione è legata alla domanda aggregata e dunque alla buona salute delle fasce medio-basse (piccole partite Iva, salariati, pensionati e fruitori del welfare state) mentre è temuta dal capitalismo finanziario (istituti di credito, shadow banking, imprese quotate) che desidera mantenere stabile il valore del denaro investito in mutui, obbligazioni, prestiti a lungo termine. Per smontare l’argomento secondo cui pensionati e lavoratori dipendenti avrebbero lo stesso problema delle grandi banche, a parte l’evidente sproporzione delle somme, Bagnai esemplifica una situazione sempre più comune, quella di genitori che adoperano i rimborsi previdenziali per sostenere i figli rimasti senza lavoro per la perdurante recessione legata alla carenza di domanda.

La lettura di “L’Italia può farcela”, di cui condivido le principali analisi geopolitiche, è consigliata anche a chi appone il pregiudizio di filoleghismo sull’autore, oggetto della fatwa del sistema e del provincialismo piccolo borghese che non consegna mai, neppure per sbaglio, “una goccia di vita e di bellezza” (Camillo Langone, collega cattolico liberale, dunque ai miei antipodi). Il significante incide nell’evoluzione collettiva non in base al complesso di idee di chi lo esprime ma al significato che fa emergere in trasparenza e all’utilità sociale. In altre parole, si può essere in disaccordo su molte questioni ma se l’interlocutore ti arricchisce su un tema cruciale, non va ignorato. L’unica precondizione è il rispetto umano e ambientale. Primum vivere, deinde philosophari: si prenda per metonimia la vexata quaestio di vantaggi e limiti del linguaggio e della comunicazione nell’èra digitale, asettico involucro di un dato momento del progresso. La dialettica sterile su aspetti nozionistici e superflui distrae i lettori dallo studio di fenomeni e relative gerarchie (Romàn Jakobson) secondo priorità e principi proporzionali volti al confronto inclusivo.

La perdita di potere operativo e di democrazia degli Stati dell’Eurozona è ultratrentennale. In Italia nel 1981 si consuma il divorzio fra ministero del Tesoro e Bankitalia, sancito da uno scambio epistolare privato tra il ministro Beniamino Andreatta e il governatore Carlo Azeglio Ciampi. Da quel momento la banca centrale italiana non fu più tenuta a finanziare lo Stato sottoscrivendo titoli pubblici non allocati sul mercato, ciò ha consentito ai prestatori privati di esercitare una crescente pressione al rialzo di tasso di interesse di Bot e Cct incrementando il debito pubblico ben più dei famigerati livelli di corruzione e sprechi. Ma il punto è che andrebbe stimato come problema cruciale il debito privato verso l’estero e non quello pubblico. Il secondo, dopo la crisi finanziaria legata al crac Lehman Brothers, è stato elevato dalle sovrastrutture a incubo assoluto perchè i creditori, in particolare le banche di Germania e Scandinavia, dovevano rientrare delle esposizioni nei confronti di imprese e famiglie. La troika ha permesso il salvataggio di istituti di credito del nord Europa e di Mps ma si guarda bene dal valutare una ristrutturazione del debito pubblico della Grecia nei confronti di Bce, Fmi e delle banche, benchè sia stato dichiarato insostenibile da Premi Nobel e dirigenti del Fondo monetario. La mobilitazione per il referendum ellenico contro il memorandum e l’evidenza di una recessione europea che dura da 8 anni e sta investendo i tedeschi, ha almeno acceso i fari sull’inganno dei trattati. Da tempo Usa e Giappone, per citare due potenze, si portano dietro debiti pubblici notevoli per sviluppare policy espansive che in Eurozona sono off limits, salvo per la Germania che nel 1993 violò il rapporto del 3% previsto da Maastrich continuando a garantire sussidi ai lavoratori colpiti dalla politica dei mini-job del governo Spd di Schoreder.

Il debito privato, di cui nessuno si occupa, in Italia è cresciuto in particolare dal 1996 al 2007 a causa del deficit nella bilancia dei pagamenti e alla svalutazione del lavoro dovuta alla moneta unica e corroborata dalle leggi Treu e Biagi. Il concetto si comprende bene osservando Stato e cittadini alla stregua di vasi comunicanti: il deficit statuale equivale a risorse versate a persone fisiche sotto forma di stipendi, welfare, sussidi, consulenze professionali e a quelle giuridiche in appalti, investimenti, incentivi e detassazioni. L’iniezione di domanda, e non di offerta bancaria, rappresenta una virtuosa politica anticiclica rispetto alla pratiche organiche deflattive. Naturalmente sarebbe deleterio se la spesa pubblica fosse destinata soprattutto al capitalismo finanziario, come avvenuto anche di recente col salvataggio di svariate banche secondo il principio del “too big to fail”. Al contrario, coniugando le teorie postkeynesiane ad una tassazione progressiva (periodica patrimoniale secondo la proposta di Thomas Piketty) si porrebbero le basi per un’azione di vera redistribuzione sociale. Ogni proposta però va a cozzare nella gabbia dei non-Stati della zona Euro che impedisce policy di crescita e/o progresso, provocando il calo di import e export, quindi accresce l’indebitamento dei ceti medio-bassi attraverso la disoccupazione e il precariato, reso permanente in Italia dalla contestuale approvazione del Jobs Act. E cosa provoca il disagio sociale, con la complicità di un circuito politico-comunicativo che fomenta le guerre tra poveri e penalizza ogni eventuale rinascita di autentica Sinistra, se non la crescita di movimenti populisti e xenofobi?

L’escatologia del potere economico che governa il mondo attraverso le proprie sovrastrutture istituzionali, tecnologiche, culturali e mediatiche (il concetto di governamentalità neoliberale da “La ragione del mondo” di Pierre Dardot e Christian Laval) è sempre la medesima: sfuggire alla sovrapproduzione trovando nuovi sbocchi per occupare risorse, mercati e sfruttare lavoratori con meno diritti. Ma c’è una nuova chiave del successo che connota il capitalismo finanziario rispetto a quello industriale: la trasformazione dei cittadini (salariati/consumatori) in debitori. Alberto Bagnai, Vladimiro Giacchè, Emiliano Brancaccio, lo storico dell’economia Alessio Ferraro (autore de “L’Europa tradita dall’euroliberismo”) sono stati emarginati dal dibattito generalista per aver sfidato il monismo euroliberista, edificato più di un trentennio orsono. Da quando si sono accavallati eventi storici centrali come la crisi dell’Unione Sovietica, l’avvento di Thatcher e Reagan e l’integrazione monetaria nello Sme, i centri di diffusione del sapere hanno negato spazi a economisti eterodossi come Federico Caffè e Augusto Graziani. Gli ultimi baluardi politici furono il Psf fino alla retromarcia di Mitterrand e il Pci, contrario per bocca di Napolitano alle condizioni di ingresso nello sistema monetario europeo https://www.facebook.com/Santachiarra/posts/943548042358270

Ora neppure il fallimento dell’austerity, stanti gli attuali rapporti di forza, porterà al mutamento dei trattati che auspica la “sinistra europea” di Fassina, Varoufakis e Lafontaine. Secondo Massimo D’Alema, che ha denunciato la mancanza di proposta del Pse, si dovrebbe andare nella direzione di un’integrazione politica in vista di “un’armonizzazione delle politiche fiscali e sociali, una mutualizzazione del debito”. Tuttavia il progetto, se mai dovesse superare la ferma opposizione di Germania e paesi scandinavi, potrebbe essere il grimaldello dei conservatori per deprivare ulteriormente gli Stati dell’area Euro e implementare le “riforme”, intese nel mistificante significato attuale di tagli pubblici e del lavoro, opposte dunque al modello sociale europeo delle trente glorieuses. Considerati tecniche e scopi della governamentalità neoliberale, se si vuole radicare un’alternativa forse occorre ripartire dall’analisi della società e dei conflitti sociali, tenendo in considerazione il contributo di economisti capaci di riprendere il filo dello sviluppo di una teoria socialista di governo. Rossana Rossanda (Quando si pensava in grande, 2013) ricorda un concetto caduto nell’oblio e su cui convergevano le diagnosi di Marx e Keynes: “La totale divergenza di interessi fra capitale e lavoro”. Per citare l’esempio più lampante, gli Stati Uniti, che mai si sono dotati di dottrine rigoriste, hanno visto crescere dagli anni ’70 la disuguaglianza sociale senza soluzione di continuità (L”Italia può farcela”, tabella di statistica 27, pag.201). Un altro mito da sfatare pertiene al carattere salvifico dell’afflusso dei capitali internazionali, che la nostra stampa invoca dolgendosi di burocrazia, lentezza dei processi, corruzione e mafia. Eppure i fondi di investimento e le multinazionali, che nel mondo vanno trovando dumping salariale e fiscale, puntano ai rami d’azienda pubblici e privati poiché recepiscono know-how e brand di qualità. A prescindere dal fatto che i posti di lavoro ereditati dalle international companies non di rado si riducono o sono esposti a ricatti come nel caso di Electrolux, il Prodotto nazionale lordo italiano cala per il trasferimento dei profitti all’estero. Bagnai sostiene che tali investimenti hanno una logica in un paese povero alla ricerca di finanziamenti e competenze, come fu la Cina negli anni ’80, il cui Pil valeva come il nord Italia. Fra l’altro la Repubblica popolare sin dai tempi di Mao seppe valorizzare settori diversi per aree e innovazione, a differenza della pianificazione dell’Unione sovietica che somiglia ai rigidi vincoli comuni dell’Eurozona.

Un punto di rottura nei confronti della sinistra ancillare al pensiero neoliberale è rappresentato da Jeremy Corbyn (http://www.left.it/2015/09/11/jeremy-corbyn-labour/). E’ interessante osservare come gli attacchi contro il nuovo segretario del Labour si stiano diradando negli altri paesi. Il Potere sa brandire l’arma del silenzio per evitare contraccolpi in una fase in cui l’energia propositiva di Corbyn potrebbe favorire la rinascita internazionale della Sinistra. Intanto spuntano gli esegeti, cowboy democratici che vantano collaborazioni con Aspen Italia e interpretano in chiave moderata il suo punto di vista.

Le tecniche di persuasione sono molteplici. I paladini della moralità pubblica, sedicenti progressisti, sono adusi a mescolare allarmi per i diritti acquisiti e messaggi in cui invitano a riformarli. Si pensi alle campagne del Fatto Quotidiano in difesa dei sindacati che però sono da cambiare (Landini dixit), o al botta e risposta tutto in famiglia (renziana) fra il finanziere Davide Serra che vorrebbe abolire diritto di sciopero e Oscar Farinetti che ne fa un problema di tempistica. Il circuito politico-mediatico-finanziario apre di continuo varchi alle “riforme” su pensioni, scuola, sanità. Pensate che Eugenio Scalfari, come poi Walter Veltroni, si sia speso casualmente per appiattire la figura di Enrico Berlinguer alla sola questione morale, dimenticando che il segretario del Pci era un comunista in lotta contro l’ingiustizia sociale? Nel tempo il fondatore di Repubblica si è confermato un fedele sostenitore dei tecnocrati (da Ciampi a Padoa Schioppa per finire a Monti e Draghi) che in questi anni hanno contribuito a ridurre gli spazi di politica e democrazia.

Sponda Corriere della Sera. Gian Antonio Stella, altro simbolo dell’anticastismo militante, scrive nell’incipit dell’articolo del 24 settembre dedicato all’eccesso di procedimenti contro ospedali e operatori, che i “medici più battaglieri contro l’andazzo della cause giudiziarie agli ospedali” sono favorevoli alla decisione della ministra Lorenzin di “porre limiti all’abuso dilagante di prestazioni, radiografie, analisi e farmaci”. Il soggetto è autorevole, noto per scrupolosità e moderazione, dunque sdogana meglio di chiunque altro l’accettazione dei tagli alla sanità. Lo stesso vale per le strutture e le aziende pubbliche sfiorate da inchieste della magistratura, che i cultori dell’austerity puritana vorrebbero privatizzare in nome del Dio mercato, riequilibratore e purificatore. Peccato che gli interessi del funzionario corrotto e del corruttore siano privati e che gli introiti delle cessioni siano risibili, sottolinea Stefano Fassina, a fronte di una “perdita di capacità industriali e di dividendi preziosi per il bilancio dello Stato”.


Trasferiamoci ora alle discipline giuridiche e investigative, per le quali vige analoga unità di misura della materia economica: correttezza delle fonti e dei dati di verità sperimentale. Nel sistema non sono rare le condotte al confine tra la sciatteria deduttiva, l’omissione e il depistaggio. Inoltre sarebbe bene distinguere i professionisti dell’antimafia e dell’antiterrorismo (da Saviano in giù: https://www.facebook.com/Santachiarra/posts/929078330471908 ) da quei colleghi che associano al metodo del riscontro il coraggio della ricerca abduttiva, scoprendo tasselli sulle pagine oscure italiane pur non lavorando per i principali giornali italiani: da Simona Zecchi a Paolo Cucchiarelli e Stefania Limiti, da Andrea Carancini a Luca Rinaldi, Enrico Ruffino e Ines Macchiarola.

Ai pionieri che contribuiscono a rovesciare la prospettiva multi o unidisciplinare (economica, politica, culturale, investigativa, quest’ultima naturalmente più rischiosa), sono riservate intimidazioni anonime e accuse di “complottismo” prive di fondamento, mentre il mainstream interviene rapidamente con atti e analisi per anticipare o almeno affiancare chi sta proponendo all’opinione pubblica una formulazione sgradita. I rapidi riposizionamenti rispetto a inchieste importanti, o contro l’euroliberismo, vanno dunque soppesati, annotando quando e dove. Aderendo a interessi privati forti, i mezzi di comunicazione di massa non lasciano al caso la rottura di un tabù importante, senza calcolare pro e contro.

L’interrogativo centrale dovrebbe riguardare il come, quando e perchè si trascende. E’ una buona cartina di tornasole, non per stabilire chi taglia prima il traguardo dello scoop né per additare erronee valutazioni (chi non ne fa?), ma per comprendere la presenza o l’assenza della qualità fondamentale in ogni campo dell’esistenza: l’onestà intellettuale. Ciascuno segue un percorso di predisposizioni genotipiche, interiorizzazione ambientale, possibilità economiche, studi ed esperienze. Allora come si concepisce l’elemento più importante, risalendo alle direttrici che dal background conducono l’individuo ad una data espansione culturale? Mettendo in relazione scritti e azioni, mutamenti e crescita, e verificando se essa sia votata alla ricerca e alla diffusione delle priorità conoscitive o si sperda su elementi distraenti. Quale credibilità può avere, ad esempio, chi si indigna periodicamente paventando la fine della democrazia per un voto contingentato in Parlamento e non ha mai speso un titolo contro il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio in Costituzione? Ieri ho dialogato con un agricoltore sulla peculiarità della vite nei periodi di secca, sul fatto che lo sviluppo del vino eccellente è garantito da un’adeguata azione collettiva di difesa dei chicchi. Lo ritengo più interessante di tanti esperti eno-politologi: (https://stefanosantachiara2.wordpress.com/2014/09/29/scanzi-il-filo-renziano-che-processa-moretti/).

Per decostruire l’egemonia subculturale e risalire alla sorgente è sufficiente un collage di vecchi articoli e dichiarazioni. Se in prima e nelle pagine economiche si detta una linea a favore del governo Monti e della cancelliera Merkel non ci può lavare la coscienza ospitando qualche articolo interno contro l’austerity e giustificandosi ex post con l’ignoranza in materia. Un bel tacer, non fu mai scritto. Se si attaccano idee e partiti progressisti palesando sostegno a Matteo Renzi come se fosse sceso dalla Luna, è possibile poi contestarlo dal minuto dopo che è asceso al governo? Le inchieste sul Pd sono sacrosante, quando fatte per tempo: ne “I panni sporchi della Sinistra” (Chiarelettere, 2013) inserii un capitolo dedicato ai legami opachi fra l’allora sindaco fiorentino al gotha della finanza che ne appoggiava l’imminente scalata a Pd e governo.

Dopo il quando, il perchè. Quali ragioni spingono un soggetto al rovesciamento di prospettiva? Che non si debba mai smettere di studiare è un dato acquisito, ma diventa più difficile dispiegare il processo cognitivo in presenza di una rimessa in discussione dei propri convincimenti. Chi cambia parametri e idee lo fa per convenienza o segue coerentemente la propria evoluzione? Inutile dire che i primi casi sono la stragrande maggioranza: la Storia è scritta dai vincitori e dagli opportunisti, ma le donne (soprattutto) e gli uomini che hanno contribuito al progresso umano e ambientale si sono superati senza tema di fallire, nel microcosmo quotidiano e nelle leggi scientifiche. Oggi come ieri la governamentalità neoliberale teme la rinascita della Sinistra autentica, quel luogo di idee e prassi che può germogliare quando si è in grado di riconoscere “l’ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo” (lettera di Ernesto Che Guevara alle figlie). Nihil novum sub sole, così come la dinamica dell’infiltrazione che il Potere attua ogni qualvolta si affaccia il rischio di una lotta vera contro l’ingiustizia sociale. Occorre chiedersi però la ragione per cui statisti come Boldrini e D’Alema, sindaci come Marino e alcune forze come Sel finiscano nel mirino di campagne e di attenzioni di stampo poliziesco. Lo stesso vale per economisti, intellettuali, giornalisti. Il Potere censura e, ove non può incidere direttamente e stima che la misura sia colma, attua condizionamenti di vario genere. Metafora militare: se si intende resistere all’”invasione della Polonia” (Woody Allen), rectius alle truppe di Bismark a Parigi nel 1870, occorre audacia, chiarezza e unità comunarda, interna ed esterna. Solo in tal caso il Potere sarà fermato alla Baia dei Porci. Prima di lasciarvi all’articolo di Left, rimetto in fila i sassolini lasciati sul mio scalcagnato blog a euro 0: prima e dopo “la morte di Dio”, per adoperare l’allegoria della psicanalista russa Lou Salomè nella quale “i credenti” suscitavano pena e simpatia, e i falsi ripugnanza. Ciascuno può applicarla alla propria esperienza, che ha un ante, nel mio caso Gazzetta di Modena e di Reggio, Modenaradiocity, le battaglie su L’Informazione di Modena e il caso Mascaro per il quale inizio a subire minacce, le inchieste su corruzione e mafia per Il Fatto Quotidiano; e un un post: il self publishing di Calcio, carogne e gattopardi, la partecipazione al Festival delle Storie di Vittorio Macioce, l’appassionante collaborazione con Left che va dallo Speciale ‘Ndrangheta in Emilia all’eterno patriarcato, dalla funzione storica di Rosy Bindi e quella di mister Goldman Claudio Costamagna, dal ritratto della direttrice del Fmi Christine Lagarde all’ intervista a Jamie Galbraith, dal ruolo cruciale di Spd e Martin Schulz al ritorno al futuro del Labour. Infine il network “sabaudo-ulivista” che ruota attorno a Farinetti: https://www.facebook.com/Santachiarra/photos/a.622957324417345.1073741830.578084708904607/950316641681410/?type=3&permPage=1

E ora l’intervista a Stefano Fassina

E’ la rottura di un tabù nella famiglia politica progressista. Forze alla sinistra del Pse ma con esperienza di governo progettano alla luce del sole un’alternativa all’euro. E mentre nel Regno Unito Jeremy Corbyn vinceva le primarie del Labour mettendo in soffitta la Terza Via, uno accanto all’altro di questo discutevano Stefano Fassina, Yanis Varoufakis, il leader del Front de Gauche Jean Luc Mélenchon, il fondatore della Die Linke Oscar Lafontaine.

Fassina, partiamo da Corbyn. A suo avviso può contribuire alla rinascita della sinistra dopo un trentennio di subalternità alla dottrina neoliberale?

Non guardiamo a Corbyn come un potenziale Papa straniero ma la sua vittoria indica un risveglio culturale e politico. Con una coincidenza straordinaria è emerso mentre a Parigi parti significative della sinistra europea per la prima volta prospettano un’alternativa all’euro. Con Corbyn, che ha la fortuna di non stare nell’Eurozona, dobbiamo ricostruire insieme le condizioni di un protagonismo politico del Lavoro.

Chi si pone in modo autentico in lotta contro le disugliaglianze subisce attacchi pesanti da parte del capitalismo finanziario e delle sue sovrastrutture…

La guerra che è stata fatta alla Grecia ne è la conferma. L’obbiettivo è quello di dimostrare che non esiste alternativa, l’offensiva è stata a livello mediatico, accademico, politico e sociale.

Cosa rappresenta la vostra sinistra europea?

Il nostro progetto non è l’embrione di un altro soggetto politico ma l’avvio di una discussione che comprende la Linke, il Fronte de Gauche, Podemos, la sinistra greca. Ora, con Mélenchon, già al fianco di Mitterrand e ministro, gli ex ministri Varoufakis e Lafontaine, mettiamo sul tavolo un nodo decisivo per una sinistra di governo nel segno dell’alternativa al liberismo.

Lafontaine uscì dal governo Schoreder in dissenso con la Spd che si stava piegando all’austerity insita nell’Eurozona. Perchè lei non ha rotto col Pd ai tempi del Fiscal Compact?

Dissi che era un errore sul piano economico. Ma era prima delle elezioni (francesi, tedesche, italiane e infine europee) e con la vittoria nostra e delle forze socialiste. puntavamo a recuperare in un vero bilancio europeo i margini di manovra persi a livello nazionale. Poi abbiamo visto com’è andata a finire: l’inesistenza delle condizioni politiche per correggere in modo radicale i trattati. Non a caso la proposta di lavorare a un Piano B arriva ora anche per Lafontaine, Varoufakis e Melanchon dopo le sconfitte e, da ultimo il vertice europeo del 13 luglio: il golpe finanziario della troika in Grecia.

Nel piano A vi prefiggete una modifica radicale dei patti di stabilità che hanno impoverito i popoli dell’area euro. In che modo, coi rapporti di forza attuali, potrete incidere sui governi?

Alla luce dei clamorosi fallimenti dell’agenda liberista e dei trattati. Dopo 8 anni di svalutazione del lavoro e pesante austerity, l’Eurozona è l’unica area al mondo che ancora non ha recuperato il livello del Pil del 2007 mentre i debiti pubblici sono aumentati dal 65 al 95%. Di fronte all’oggettivo fallimento del mercantilismo liberista imposto dalla Germania è dovuta intervenire in modo emergenziale la Bce. C’è una sofferenza economica e sociale che si traduce in adesione sempre più ampia a movimenti nazionalisti e xenofobi. In questo contesto è ridicolo continuare con la retorica degli Stati Uniti d’Europa. Mettere in campo un piano B vuol dire provare a incidere su quei rapporti di forza.

In cosa consiste tecnicamente il piano B per l’Eurexit?

Varoufakis in Grecia ideò un sistema di pagamento attraverso i debiti-crediti fiscali dei cittadini ma il piano B può essere articolato in modalità diverse a seconda delle situazioni: moneta parallela, accordo monetario analogo allo Sme, moneta comune che si affianca alle monete nazionali, uscita dall’euro, ma in primo luogo ricostruzione di un controllo democratico sulla Banca centrale. Gli aspetti tecnici sono rilevanti e saranno discussi ma il dato politico è che per la prima volta forze di sinistra che non vengono dal minoritarismo hanno messo sul tavolo un’alternativa all’euro, in totale discontinuità rispetto agli ultimi trent’anni della sinistra subalterna al neoliberismo.

La battaglia per la modifica dei trattati si fa anche attraverso il piano B: consente ad un governo nelle condizioni di ricatto cui è stato sottoposto l’esecutivo di Tsipras, di avere un’altra strada difficile, accidentata, ma percorribile.

D’Alema ha denunciato l’involuzione della socialdemocrazia europea. E’ possibile un rovesciamento di prospettiva nel Pse?

Soltanto se c’è competizione con una sinistra alternativa al liberismo. Ad esempio la presenza di Podemos in Spagna ha portato il Psoe su posizioni meno subalterne ai conservatori. Bisogna affermare un’altra linea mettendo in campo un’opzione che raccoglie consenso. Ma è improbabile un cambiamento visti i segni profondi di subalternità nella famiglia socialista, da Hollande alla Spd al Pd.

Il suo giudizio negativo su Jobs Act, Buona Scuola, privatizzazioni, tagli pubblici è noto. Cosa salva del governo Renzi?

La nuova legge sugli ecoreati. Altro, di rilevante, non mi viene in mente

I progressisti italiani sono frammentati per sigle e contenuti. Si costituirà mai un grande partito della sinistra?

Vedo uno spazio potenziale molto ampio. Quando in Emilia Romagna vota il 37% degli elettori, in Toscana il 48% e cresce il M5Stelle, significa che una parte rilevante del popolo Pd ha abbandonato il Pd ma non trova risposte. Serve dunque una proposta di governo, credibile, una prospettiva alternativa come il piano B.

Se foste al governo, quali priorità nelle policy? 


Un rilancio di investimenti pubblici innovativi su una strategia politica industriale per rivalutare il lavoro, per uno sviluppo sostenibile. Eviteremmo di firmare trattati che aggraveranno le condizioni di lavoratori e consumatori come il Tttp, lavoreremmo per inserire regola al movimento dei capitali.

lunedì 28 settembre 2015

La salute mentale e i tagli alla sanità. Ecco perché si rischia il naufragio di un intero settore

da quotidianosanità.it

Il nostro settore della Salute mentale è una reale anomalia positiva nel panorama dei Paesi occidentali avanzati. Ma oggi questo patrimonio è messo seriamente a rischio dalla politica persistente (e che sembra confermata anche nel 2016) dei tagli lineari, ovvero nel ridimensionamento a monte dei finanziamenti alla sanità pubblica


28 SET - La prospettiva di nuovi, ulteriori, tagli alla Sanità getta non pochi dubbi sulla sostenibilità del sistema di cura per la Salute mentale nel nostro Paese. Se il Servizio sanitario italiano è tra i più virtuosi al mondo, quando si considerano i risultati ottenuti a fronte della spesa, che è stabilmente inferiore alla media dei paesi Ocse, il settore della Salute mentale, cui viene destinato il 3-3.5% del Fondo sanitario, è una reale anomalia positiva nel panorama dei Paesi occidentali avanzati.

Con il numero dei posti letto più basso dei Paesi Ocse, una frequenza di trattamenti obbligatori che è anche 20-30 volte inferiore a quella di molti Paesi anglosassoni o scandinavi, l’Italia ha mostrato da lungo tempo che è possibile fare a meno degli Ospedali psichiatrici (più recentemente anche degli Ospedali psichiatrici giudiziari) ponendo fine ai trattamenti inumani e degradanti che in quei luoghi si perpetravano. E’ possibile, cioè, affrontare i disturbi psichiatrici sul territorio, nei luoghi di vita, attraverso una rete capillare di servizi di Salute mentale di comunità, attraverso una capacità di contatto per oltre 2 mila persone ogni 100 mila abitanti in età adulta e di presa in carico per almeno la metà di esse, evitando contestualmente l’istituzionalizzazione della sofferenza. Inoltre, con l’azione combinata e coordinata d’interventi sanitari e sociali, con la reale intersettorialità della Salute mentale nelle politiche dell’istruzione, del lavoro, della casa, dell’inclusione comunitaria, l’Italia ha dato corpo e sostanza ai principi di cittadinanza e di non discriminazione invocati dalle Carte fondamentali Italiana, Europea, delle Nazioni Unite.

Occorre dare atto, naturalmente, delle significative differenze inter-regionali. Tuttavia le criticità, laddove si manifestano, non riguardano in modo specifico ed esclusivo la salute mentale ma impattano, seppur con modalità ed intensità diversa, su tutti i settori della Sanità essendo esse stesse il sintomo di una più generale sofferenza dei sistemi di welfare. Ciononostante, questo Sistema di Cura e inclusione sociale costituisce un vero e proprio laboratorio di comunità a cielo aperto cui Organismi internazionali e altri Paesi guardano come modello per orientare ed implementare azioni riformatrici locali.

Purtroppo oggi tutto questo viene messo in seria discussione
Proprio quando la sanità si avvia con maggior decisione sulla strada della de-ospedalizzazione, della prossimità territoriale delle cure, della domiciliarità degli interventi, il settore della salute mentale - che più di altri ha tradotto questi principi in pratica quotidiana negli ultimi 35 anni - viene messo in crisi dall’annuncio di tagli lineari e generalizzati. Non si è spenta l’eco del DL 78/2015 sugli Enti locali e del taglio di 2 mld e 350 milioni alla sanità per il 2015, che giungono infatti le parole del presidente del Consiglio che ha fissato l’asticella del fondo sanitario 2016 a 111 miliardi, quindi circa 2 miliardi in meno rispetto agli stanziamenti previsti dallo stesso decreto Enti Locali di solo due mesi fa. Le conseguenze di un’applicazione indiscriminata di queste scelte sul settore già gravemente sottofinanziato della Salute mentale, potrebbero essere devastanti. Le parole d’ordine per il raggiungimento dell’obiettivo di risparmio sono “lotta agli sprechi” attraverso recupero di “appropriatezza” e “riduzione della spesa per beni e servizi”. Vediamo come potranno essere declinate in Salute mentale.

Recupero di appropriatezza e salute mentale
Sui tagli 2015 ci limitiamo ad osservare che tra le prestazioni elencate nel Documento prodotto dal ministero non vi sono prestazioni della salute mentale. Né potrebbe essere diversamente, essendo l’elenco delle prestazioni del Ssn ancorato ad una logica fondata sulla bipolarità ospedale-ambulatorio, senza alcuna considerazione della complessità delle attività e degli interventi che caratterizzano la presa in carico territoriale. Sul versante delle prestazioni ambulatoriali, basti pensare che nel tariffario nazionale (DM 18.10.12) le prestazioni per la Salute mentale sono genericamente classificate come colloquio psicologico o psichiatrico e visita psichiatrica di controllo, alle quali si aggiungono la psicoterapia (individuale, familiare o di gruppo) e financo l’ipnoterapia.

Il nuovo schema dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), in via di approvazione da parte del Governo, identifica 17 tipi di attività nei vari ambiti di cura (dall’individuazione precoce e proattiva dei disturbi” a “interventi psicoeducativi rivolti alla persona e alla famiglia”, passando per i vari interventi clinici, psicologici, psicoeducativi, psicosociali) attraverso la presa in carico multidisciplinare e lo svolgimento di un programma terapeutico individualizzato.

Il Sistema informativo per la Salute mentale prevede 26 attività fondamentali ed ulteriori 8 (macroattività) che non vengono rilevate, ancorché centrali nelle attività di governo clinico della Salute mentale. Del resto, come non dare atto dell’impegno che i servizi producono per le diversificate attività cliniche rivolte al paziente e alla famiglia, per l’integrazione tra sociale e sanitario, per attività di riabilitazione o di tipo socio-assistenziale? Non si tratta certo di impegno comprimibile nei 15 minuti riservati in media ad una visita specialistica in altre branche della medicina. E che dire della rete di comunicazione, formazione e lavoro congiunto, formalizzazione di protocolli di intervento, che deve precedere, accompagnare e seguire la decisione di un Trattamento sanitario obbligatorio? E del tempo necessario a sollecitare, negoziare, promuovere una scelta volontaria di trattamento in una persona non consenziente?

I servizi psichiatrici giudiziari
Sarà il caso anche di citare tutto ciò che è formalmente e rigorosamente richiesto ai Servizi - per definire con l’Autorità giudiziaria e i suoi periti, il personale dell’Amministrazione penitenziaria, i Servizi sociali degli Enti locali, i soggetti della cooperazione sociale, il Progetto terapeutico riabilitativo individualizzato di una persona con disturbi psichiatrici che ha commesso un reato. Ad oggi, tutto ciò fa parte delle funzioni complessive che vengono assolte da un Servizio di Salute mentale territoriale e non possono essere semplificate nelle prestazioni previste dal tariffario nazionale. Accanto alla anacronistica semplificazione delle “prestazioni psichiatriche” contenute nel tariffario nazionale, qualsiasi operazione di recupero di appropriatezza dovrà necessariamente tener conto della valorizzazione economica delle prestazioni stesse.

In questo ambito la sotto-valutazione delle attività per la salute mentale assume plastica configurazione. Basterà segnalare che gli interventi più frequenti – colloquio psichiatrico o psicologico – “valgono” nel tariffario nazionale neanche 20 euro, con fluttuazioni in più o in meno nelle diverse Regioni. Una ricerca condotta in un ampio campione di servizi rappresentativo della realtà nazionale aveva evidenziato per confronto – già 20 anni fa – che il costo di una visita psichiatrica diagnostica aveva un costo medio (rivalutato al 2015) di 64 euro e quello per una psicoterapia individuale di 83 euro. Una più recente ricerca ha dimostrato che un’attività assolutamente centrale per caratterizzare la territorialità del lavoro dei servizi di salute mentale - la visita domiciliare - ha un valore di almeno 63 euro e che una riunione di più operatori su un determinato caso, strumento essenziale nel lavoro di equipe e nella gestione integrata dei percorsi diagnostico terapeutici, quando valutata sulla base dei fattori produttivi effettivamente concorrenti, assume una valorizzazione di quasi 160 euro (costi rivalutati al 2015).
Anche sul versante ospedaliero, oltre alla già citata, massiccia, operazione di de-ospedalizzazione, che ha condotto l’Italia ai valori minimi di posti letto per popolazione residente tra i Paesi Ocse, va segnalata una perdurante sotto-valutazione dell’impegno economico necessario per assicurare livelli ottimali di assistenza. Ne è rappresentazione evidente la valorizzazione del Drg di un ricovero per “psicosi”, la condizione psicopatologica potenzialmente più grave e impegnativa sul piano assistenziale.

Nel Dm sulla remunerazione delle prestazioni di assistenza ospedaliera per acuti (Dm 18.10.12), che costituisce riferimento anche per la Tariffa unica convenzionale, la valorizzazione per un ricovero ordinario per psicosi di durata superiore ad 1 giorno viene fissata a 1.942 Euro. Se si considera che il più recente report sulle attività di ricovero per acuti (Sdo 2014), segnala una durata di degenza media per psicosi pari a 11,7 giorni, si calcola un valore giornaliero medio del ricovero ospedaliero acuto per psicosi di 166 Euro. Questa cifra è di gran lunga inferiore a quella prevista da alcune Regioni che acquistano dalle strutture private accreditate prestazioni ospedaliere (ad es.: in regione Emilia-Romagna la tariffa giornaliera è fissata a 319 euro al giorno) e dalla quasi totalità delle Regioni per le attività residenziali extra-ospedaliere, che implicano (almeno teoricamente) un’intensità assistenziale molto più contenuta.

L’appropriatezza in Salute mentale
Ne deriva che il concetto di appropriatezza in Salute mentale ha bisogno di essere declinato, a regime, secondo coordinate ben più complesse di quanto consentito dagli strumenti attualmente disponibili. Una revisione degli stessi ne suggerirebbe l’aggiornamento, sulla base delle migliori evidenze disponibili, per evitare contraddizioni conseguenti ad un loro uso “meccanico”. Va tuttavia sottolineato che l’applicazione del concetto di appropriatezza va fatta a tutto tondo, non concentrandosi esclusivamente sul recupero di risorse “sprecate” per un sovra-utilizzo ingiustificato di trattamenti ma considerando anche l’impegno di risorse necessario per correggere il sotto-utilizzo di trattamenti indicati come raccomandati.

Ciò è particolarmente vero in Salute mentale. L’esempio più eclatante in questo senso è costruito dalla drammatica evidenza di una riduzione della speranza di vita nelle persone con disturbo psichiatrico (pari a circa 20 anni) per la maggiore frequenza, spesso iatrogena di sindrome dismetabolica, di stili di vita non salutari (sovrappeso, fumo, sedentarietà), di impedimenti all’accesso ai servizi sanitari. Si tratta, con tutta evidenza, di cause evitabili per le quali esistono appropriati interventi correttivi, che tuttavia non vengono applicati in oltre la metà dei casi per mancanza di tempo o di fondi, per sottovalutazione del problema, per mancanza di coordinamento con la medicina generale, per la più generale necessità di maggiore impegno motivazionale nei confronti di persone con disturbi psichiatrici. Un recupero di appropriatezza imporrebbe maggiore attenzione verso la salute fisica nei Servizi per la Salute Mentale, sostenuta da adeguati investimenti per incrementare il tempo/operatore disponibile nei servizi e per praticare le indagini laboratoristiche e strumentali necessarie.

Il paziente morto a Torino in Tso
E ancora, richiamando il drammatico episodio di Torino, in cui un paziente sottoposto a Tso è morto, uno dei rilievi riscontrati dagli ispettori del ministero, inviati a verificare l’operato dei sanitari intervenuti, riguarda il mancato contatto del Servizio col paziente il quale aveva interrotto la terapia da diversi mesi. Nonostante le raccomandazioni disponibili indichino la necessità di un “trattamento continuativo in fase di mantenimento” e di “contatti clinici regolari nel periodo seguente l’interruzione del trattamento”, tali prassi non costituiscono la norma. Un recupero di appropriatezza imporrebbe maggiore attenzione ai percorsi terapeutici interrotti non consensualmente ed un atteggiamento proattivo dei Servizi. Tutto ciò, una volta adottate le misure organizzative opportune, impone inevitabilmente costi maggiori, almeno nel breve termine, e l'impiego dell'unica tecnologia di rilievo nelle pratiche di Salute mentale: operatori motivati, competenti, empatici.

In definitiva, come abbiamo provato a dimostrare, ricercare l’appropriatezza in Salute mentale ha una dimensione molto più ampia del contenimento dell’inappropriatezza. Soprattutto preme sottolineare che non è etico interpretare l’appropriatezza a senso unico (ossia limitando l’attenzione alle sole condizioni di uso non giustificato dei trattamenti) ma essa, in salute mentale, deve riguardare soprattutto l’applicazione estensiva di interventi di provata efficacia, oggi limitata dalle gravi condizioni di sotto-finanziamento e da rigidità amministrativo-gestionali che privilegiano l’uso di risorse preformate. Gli obiettivi di efficienza delineati nel Dl Enti locali e i conseguenti tagli da “recupero di appropriatezza” non sembrerebbero pertanto applicabili in salute mentale, ove al contrario occorrono investimenti significativi.

Il taglio ai Beni e servizi in Salute mentale
Nelle intenzioni dichiarate l’ulteriore taglio che si prospetta per il 2016, potrà essere ottenuto da una razionalizzazione della spesa per “beni e servizi”. L’obiettivo è ridurre la variabilità determinata dalle migliaia di stazioni appaltanti (ed evitare il famoso paradosso della siringa, i cui costi sembra che lievitino da una Regione all’altra, con un gradiente sud-nord).

In questo caso, la Salute mentale è fortemente coinvolta: l’acquisizione di beni e servizi riguarda infatti ben più del 50% della spesa complessiva del settore (fino a superare il 70%). E tuttavia, se si scompone questa voce generale, si osserva che la gran parte della spesa è attribuibile all’acquisto di prestazioni ospedaliere, residenziali sanitarie e di specialistica ambulatoriale dalla Sanità privata accreditata e di servizi ed attività residenziali, semi-residenziali e territoriali (di area sanitaria e sociosanitaria) dal privato sociale. Pur nella variegata combinazione di modalità adottata nelle singole Regioni, si ha l’impressione che sia possibile individuare ampi varchi per un recupero di efficienza.
Per quanto concerne, infine, le prestazioni ospedaliere, residenziali, sanitarie e di specialistica ambulatoriale dalla Sanità privata accreditata, un primo elemento di rilievo attiene alle caratteristiche dell’accordo che ciascuna Regione stipula con l’Aiop, in genere con valenza pluriennale, nel quale si definisce un budget (“tetto massimo raggiungibile”) per ciascuna struttura, commisurandolo in genere alla capacità di offerta (posti-letto) della struttura stessa. I principali nodi critici che tale assetto comporta vengono sintetizzati di seguito.

Le difficoltà della programmazione pubblico-privato nel modello in convenzione
La definizione dell’accordo in sede regionale, e con valenza pluriennale, limita di fatto l’attività di programmazione e la diversificazione dell’offerta a livello locale, specie quando sia necessario affrontare contingenze economiche che impongono maggiore efficienza e flessibilità dell’offerta.
In concreto, l’adozione di modalità assistenziali coerenti con una riduzione dell’ospedalizzazione e della residenzialità sanitaria, orientate verso forme più flessibili e personalizzate di residenzialità sociosanitaria o sostegno alla domiciliarizzazione degli interventi, non possono essere realizzate in partnership con il soggetto privato accreditato, che per sua natura è esclusivamente di tipo sanitario. In alcuni ambiti regionali, inoltre, vige un sistema di compensazione del budget regionale, con redistribuzione delle eventuali economie conseguite da un Dsm (sul budget per l’ospedalità privata accreditata), agli altri soggetti privati accreditati operanti nella regione che abbiano sforato il budget assegnato. Il paradosso che ne consegue è che se il Dsm X promuove un maggiore impegno territoriale e una riduzione dei ricoveri, riceve il “danno” di una maggior spesa per attività domiciliari e sociosanitarie e “la beffa” di un’assegnazione dei propri fondi destinati all’ospedalità privata collocata nell’area del Dsm Y, che invece ha prodotto tassi e durate di ospedalizzazione superiori a quelli programmati. Si tratta con tutta evidenza di una modalità che “cristallizza” l’offerta ospedaliera e residenziale sanitaria e crea un sistema di convenienze che penalizza l’innovazione.

Un altro punto di rilievo attiene alle modalità di invio alle strutture residenziali sanitarie, vero elemento cardine per l’affermazione dei criteri di priorità ed equità d’accesso. Non a caso esse sono regolamentate da uno specifico Accordo Stato-Regioni che testualmente recita: “L’inserimento in una struttura residenziale, nell’ambito del Ssn, avviene esclusivamente a cura del Csm”. Ciononostante persiste in alcune Regioni la possibilità di “auto-invio” da parte dei professionisti delle Case di Cura accreditate, con immaginabili conseguenze sul piano della regolamentazione e del controllo dei ricoveri, e più in generale sul piano della equità di accesso che il sistema sanitario pubblico deve garantire.

La remunerazione delle prestazioni ospedaliere

Un ulteriore elemento critico, riguarda la remunerazione delle prestazioni ospedaliere, residenziali sanitarie e di specialistica ambulatoriale. Per le prime, ferme restando le considerazioni già svolte sull’inadeguatezza della valorizzazione del Drg, andrebbe applicata la norma nazionale che prevede tale modalità di remunerazione sia per i ricoveri ospedalieri ordinari che per quelli in Dh, superando il pagamento su base tariffaria “a giornata”, che evidentemente incoraggia comportamenti opportunistici relativi alla durata di degenza. Per le seconde, occorrerebbe un’azione centrale di monitoraggio e verifica volta a districare la vera e propria “giungla tariffaria” che le varie Regioni hanno in autonomia determinato. In analogia con il “paradosso della siringa”, anche per la residenzialità sanitaria esistono variazioni significative nella remunerazione di una giornata di degenza, che apparentemente obbediscono a un gradiente nord-sud, inverso rispetto a quello della siringa, nonostante il citato Accordo Stato-Regioni fornisca elementi di riferimento sui fattori produttivi da impegnare. Per le prestazioni di specialistica ambulatoriale infine, andrebbe applicato il tariffario nazionale, con i necessari adeguamenti a discapito del pagamento a forfait, che di nuovo incoraggia comportamenti opportunistici poco compatibili con l’efficientamento del sistema.
 

Per quanto attiene ai servizi ed attività residenziali, semi-residenziali e territoriali (di area sanitaria e sociosanitaria) generalmente acquisiti dalla Cooperazione Sociale, la giungla tariffaria è, se possibile, ancora più folta ed inestricabile, come del resto risultano differenziate le varie definizioni di tali attività adottate nelle differenti Regioni. I principali nodi critici in questo ambito riguardano le caratteristiche di flessibilità e personalizzazione che tali servizi ed attività devono possedere per garantire efficacia, caratteristica questa che li rende difficilmente standardizzabili ex-ante. A questo è probabilmente dovuta la grande diffusione di affidi diretti tramite convenzione, rinnovati di anno in anno, nei quali la definizione del costo complessivo segue procedure di composizione che definire opache è eufemistico. Si tratta purtroppo di una modalità utilizzata ancora in numerose Regioni, che lascia spazio a non poche perplessità.
L’applicazione di procedure pubbliche di gara (ex DLgs 163/2006) viene da alcuni considerato elemento di garanzia per le persone assistite, senza far perdere ai servizi erogati le caratteristiche di personalizzazione necessarie. Questo perché, come è noto, in tema di servizi alla persona la legge prevede che la valutazione delle offerte tenga conto della vantaggiosità del prezzo sino ad un massimo del 40%. Almeno il 60% (ma talvolta fino all’80%) della valutazione verte su criteri di qualità, definiti dai professionisti stessi che hanno in carico le persone candidate ad usufruire dei servizi.

Il vero problema risiede semmai nella scarsa competizione per la qualità che si determina tra soggetti concorrenti. Trattandosi di servizi alla persona, che richiedono una forte connotazione territoriale, le gare pubbliche di dimensione europea assumono una dimensione solo formale, essendo del tutto improbabile che una cooperativa dislocata geograficamente lontana dalla regione in cui è in essere la gara pubblica, trovi vantaggioso un appalto, i cui costi sono determinati al 90-95% dalla qualifica e dal tempo / lavoro del personale impegnato. Le cooperative partecipanti saranno quindi quelle storicamente radicate sul territorio, poco interessate a creare conflittualità e tensione verso l’innovazione. La dimensione dell’impegno sarà direttamente proporzionale alla committenza dell’ente pubblico e quest’ultimo potrà incontrare serie difficoltà, quando non aperta ostilità, nel realizzare approcci innovativi che mettano in discussione il fatturato consolidato dalle compagini sociali, eventualmente riunite e rappresentate in organismi consortili.

Questa condizione di oligopolio che si riscontra in sede locale, dove sono presenti pochi players, può essere forse superata, o quanto meno attenuata, stimolando una maggiore competizione per la qualità e l’innovazione, ed eventualmente stimolando la costituzione di nuovi soggetti sociali in grado di acquisire competenze nel settore, attraverso la costituzione di albi fornitori aperti, rinnovabili liberamente nel corso del tempo, cui venga applicato il principio della rotazione, affermato dall’art. 59 del Codice Appalti (D.Lgs. 163.2006), armonizzato con il principio della personalizzazione dell’assistenza. In questo modo si può giungere, nel corso del tempo, alla costituzione di un sistema pluralistico, un quasi-mercato, dove si realizzi una reale competizione e stimolo alla innovazione dei servizi offerti.

Budget di salute
Le alternative, sia sul piano progettuale che amministrativo, esistono e sono state anche oggetto di convincenti sperimentazioni. Si fa qui riferimento al modello del Budget di Salute (BdS), secondo la definizione e le modalità amministrative di applicazione realizzate in provincia di Caserta e descritte in dettaglio altrove[1]. Purtroppo, la fortunata definizione ha generato, come per un diffuso settimanale di enigmistica, numerosi tentativi di imitazione che, ad eccezione delle antesignane esperienze condotte in FVG, hanno spogliato il BdS della sua forza rinnovatrice, adattandolo alle necessità degli apparati amministrativi piuttosto che delle persone con disagio psichico e delle loro famiglie.

Il Modello BdS fa riferimento alle esperienze internazionali relative al c.d. “budget individuale”, ossia al finanziamento reso disponibile ad un individuo con disabilità per acquisire i servizi cui ha diritto nelle aree tipiche dell’integrazione sociosanitaria: casa, lavoro, inclusione sociale. Esso è tipicamente caratterizzato da un’elevata flessibilità, dalla strutturazione sui bisogni, e soprattutto dal non essere legato a un tipo particolare di servizio o ad uno specifico erogatore. Gli obiettivi che esso persegue sono la promozione dell’inclusione ed il mantenimento nel corpo sociale delle persone con disabilità sociale grave, ricentrando l’intera rete dei servizi sociosanitari sul benessere sociale dei cittadini piuttosto che sulla malattia dei pazienti. Attraverso questo modello si è ottenuta la trasformazione di fattori produttivi esterni all’Azienda in fattori interni, gestiti direttamente, con produzione di valore aggiunto e in partenariato con il privato sociale e imprenditoriale, il soggetto stesso e la sua famiglia.

Il modello BdS, sottoposto a valutazione, ha dimostrato incontestabili vantaggi sul piano dell’efficienza gestionale, dell’efficacia nella pratica, dell’economicità[2]. In particolare, esso ha mostrato di essere valido strumento per la riqualificazione della spesa sanitaria e sociale. L’applicazione di tale modello ha consentito inoltre l’attuazione reale del principio della sussidiarietà attraverso la valorizzazione delle risorse formali ed informali, promuovendo ed incentivando il protagonismo delle forme associative territoriali, vero “capitale sociale” della comunità, e degli utenti stessi, che partecipano non più soltanto come consumatori ma diventando a loro volta produttori di beni e servizi .

In tempi di spending review e di prospettati tagli agli acquisti di beni e servizi, l’applicazione del modello BdS può rivelarsi un potente catalizzatore di qualità dell’assistenza e di riduzione degli sprechi, non più sostenibili da un sistema sanitario che voglia continuare ad interpretare al meglio i principi di equità e giustizia sociale.

Fabrizio Starace
Direttore Dipartimento salute mentale -DP, Ausl Modena;
Hon. Lecturer in Public Health, Rfhsm University of London

[1] Starace F. - Manuale pratico per l'integrazione sociosanitaria. Il modello del Budget di salute – Carocci, 2011


[2] Adinolfi P., Starace F., Palumbo R. Oucomes and Patient Empowerment: the Case of Health Budgets in Italy. Journal of Health Management, in press. 

Quel che resta di Toni Negri (Non si muove foglia che il capitale non voglia)

Quel che resta di Toni Negri (Non si muove foglia che il capitale non voglia).

da Dacci Oggi il nostro Pane Quotidiano

 

Secondo Toni Negri, teorico dell’Impero, della Moltitudine e della crisi della marxiana legge del valore, «Parlare di Stato-nazione e di imperialismo senza periodizzarne la figura e la durata diviene molto pericoloso – quasi reazionario». Nientedimeno! Francamente non comprendo in che consista esattamente quel pericolo. Certo, se ci riferiamo a qualcuno che maneggia quei concetti in modo apologetico il «quasi» non ha ragion d’essere, e il pericolo che ci si para dinanzi possiamo fronteggiarlo con efficacia. In realtà la punta della critica negriana è rivolta contro la sinistra statalista, nostalgica del vecchio Capitalismo di Stato e sostenitrice di politiche neokeynesiane. E su questo punto egli mi trova del tutto in sintonia, e non da oggi. 

Ma il  tipo di critica che il bravo intellettuale scaglia contro chi vede «nella figura e nella presenza dello Stato-nazione la condizione essenziale dell’agire politico» non è aliena da ambiguità, e lascia immaginare una sua certa vicinanza, sebbene polemica e sofferta, a coloro che la sostengono, quasi fossero «compagni che sbagliano». Personalmente li ritengo funzionari del dominio sociale capitalistico alla stessa stregua dei cosiddetti «liberisti selvaggi», con l’aggravante, rispetto ai secondi, di aver non poco lordato la terminologia che ai tempi di Marx e di Lenin alludeva alla possibilità della rivoluzione sociale e dell’emancipazione universale.

Negri sostiene che «lo Stato-Nazione è in crisi». Bella scoperta! Nel Capitalismo avanzato lo Stato nazionale vive una condizione di crisi permanente, perché i sempre più rapidi mutamenti sociali innescati dal processo di produzione del valore stressano sempre di nuovo il politico, costretto a inseguire i mutamenti economici, tecnologici, psicologici, esistenziali nell’accezione più ampia e radicale del concetto, nel tentativo di smussarne le asperità, e di ricondurli, per quanto possibile, a un principio unitario. Sorto storicamente sulla base dello Stato nazionale, il Capitale ha avuto fin dal principio un carattere sovranazionale che gli deriva dalla sua smisurata necessità di trasformare l’intero pianeta e l’intera esistenza degli individui in occasioni di profitto.

Già nei primi scritti di Marx è chiaramente annunciata quella tendenza aggressiva ed espansiva del Capitale che agli occhi della «moltitudine» del XXI secolo appare in forma talmente dispiegata, da essere considerata come un fenomeno naturale e banale. Anche per questo il pensiero critico-radicale trova così tanta difficoltà ad affermarsi presso le «larghe masse»: la prossimità del Dominio lo rende quasi invisibile ai loro occhi, almeno nella sua interezza, nella sua reale dimensione. Ma più che di prossimità, dovremmo piuttosto parlare di intimità, di più: di consustanzialità. Infatti, sempre più il Dominio ci crea «a sua propria immagine e somiglianza»
come il buon Dio dell’Antico Testamento.


La violenta espansione geografica ed esistenziale (corpi “umani” compresi, ovviamente) delle esigenze economiche marchiate dal Capitale ci dà, a mio avviso, il corretto concetto di imperialismo e di globalizzazione. Due modi diversi di chiamare lo stesso processo sociale. Noi avvertiamo come «crisi dello Stato-Nazione» il suo continuo processo di adattamento a una società in continua trasformazione, quantitativa e qualitativa, a cagione della natura «rivoluzionaria», nell’accezione marxiana del concetto, del Capitalismo. Questo permanente stato di precarietà, o di «liquidità»per civettare con la sociologia alla moda, si acuisce nelle fasi di repentina accelerazione della tendenza «globalizzante». Non c’è dubbio che il ventennio che ci sta alle spalle abbia rappresentato un momento di accelerazione, che ha radicalmente cambiato la dislocazione del Potere (economico e politico) su scala mondiale. 

Scrive Marx: «Con la concorrenza universale [la grande industria] costrinse tutti gli individui alla tensione estrema delle loro energie. Essa distrusse il più possibile l’ideologia, la religione, la morale, ecc. e quanto ciò non le fu possibile ne fece flagranti menzogne. Essa produsse per la prima volta la storia mondiale, in quanto fece dipendere dal mondo intero ogni nazione civilizzata, e in essa ciascun individuo, per la soddisfazione dei suoi bisogni, e in quanto annullò l’allora esistente carattere esclusivo delle singole nazioni». La creazione del mercato mondiale da parte della grande industria, caratterizzata dalla sussunzione reale della capacità lavorativa sotto il dominio aggressivo ed espansivo del Capitale, crea la storia mondiale, nel cui seno esistono ed agiscono anche i Paesi non ancora giunti alla maturità capitalistica o addirittura ancora fermi a strutture sociali precapitalistiche. È, questo, lo spazio rigato dalla «legge dello sviluppo ineguale» 
e dallo scontro sistemico tra le moderne potenze imperialistiche. 

«In generale [la grande industria] creò dappertutto gli stessi rapporti tra le classi della società e in tal modo distrusse l’individualità particolare delle singole  nazionalità. E, infine, mentre la borghesia di ciascuna nazione conserva ancora interessi particolari, la grande industria creò una classe che ha il medesimo interesse in tutte le nazioni e per la quale la nazionalità è già annullata, una classe che è realmente liberata da tutto il vecchio mondo e in pari tempo si oppone ad esso». Qui è posta per la prima volta la fondamentale «contraddizione dialettica» tra il carattere universale e mondiale del Capitale, e la sua ristretta base storico-sociale d’origine: la Nazione. Questa dialettica di universalità e particolarità sta alla base delle relazioni internazionali e della crisi permanete della Sovranità politica sopra delineata.

La base del «vecchio imperialismo» era costituita dall’incessante ricerca da parte del Capitale di profitti sempre più pingui e rapidi (non di rado attraverso le forme più disparate di speculazione), di materie prime, di forza-lavoro a basso costo e di mercati «di sbocco». Una voracità talmente violenta e insaziabile da trascinare nelle spire imperialistiche lo Stato, la cui potenza d’altra parte riposava interamente sulla capacità industriale, e quindi finanziaria, scientifica, organizzativa, culturale, in una sola parola sistemica, del Paese. Come notò J.A. Hobson nella sua giustamente celebre opera del 1902, l’imperialismo «implica l’uso della macchina di governo da parte degli interessi privati, principalmente capitalistici, per assicurare loro vantaggi economici fuori del proprio paese». Sempre all’acume critico dello studioso inglese dobbiamo la documentata relazione tra investimenti esteri e imperialismo politico (militarismo incluso): «Le statistiche degli investimenti all’estero gettano una chiara luce sulle forze economiche che dominano la nostra politica [...] non è esagerato dire che la politica estera moderna della Gran Bretagna si è concretizzata in una lotta per accaparrarsi profittevoli mercati d’investimento»

C’è una pagina di quell’importante studio, dedicata agli gnomi della finanza del suo tempo, che sembra scritta oggi: «Come speculatori o finanzieri essi costituiscono il più grave fattore specifico dell’economia dell’imperialismo. Creare nuovi debiti pubblici, lanciare nuove società, provocare notevoli fluttuazioni del valore dei titoli sono tre condizioni necessarie per svolgere la loro profittevole attività. Ciascuna di queste condizioni li spinge verso la politica, 
e li getta dalla parte dell’imperialismo».

È forse mutata la base del «nuovo imperialismo», al punto da determinarne il tramonto, o quantomeno la sua trasformazione nell’Impero concettualizzato da Negri? A me non pare proprio, e soprattutto quanto ci capita di osservare negli ultimi anni mi suggerisce l’idea che lungi dall’essersi indebolita, la radice sociale dell’imperialismo si è piuttosto rafforzata enormemente. Concetti quali «post imperialismo» e «post Capitalismo» non hanno alcun senso e testimoniano l’incapacità, di chi li teorizza, di afferrare l’essenza della vigente formazione storico-sociale, la quale vive necessariamente una permanente condizione transeunte: il cambiamento, per essa, non è un’eccezione, ma la regola. Di più: un imperativo categorico. 

La società capitalistica è sempre «post», «oltre», «smisurata»: deve esserlo, con assoluta e “demoniaca” necessità. Si tratta di mettere a nudo il momento di continuità che persiste nel processo e che realizza la continua trasformazione della Società-Mondo dominata dal rapporto sociale capitalistico. Sul piano della politica mondiale Negri compie la stessa operazione “astrattiva”, ideologica più che metafisica, che ormai da quarant’anni caratterizza la sua analisi della politica nazionale in rapporto al processo di valorizzazione del capitale. Egli osserva talmente da vicino le tendenze storiche, da precipitarvi dentro, diventando una cosa sola con il suo oggetto. La sua analisi risulta in questo modo priva di quelle mediazioni concettuali necessarie a cogliere la reale dimensione e la reale natura della tendenza, il suo rapporto con i processi reali che a volte la contraddicono, a volte la confermano, in una incessante dialettica. 

Ed è proprio questa mediazione reale e concettuale il punto nodale da cui muovere, la realtà concreta in un’accezione non volgarmente empirica. Per dirla in breve e più chiaramente, Negri non coglie in tutta la sua portata e radicalità lo scontro sistemico tra le potenze imperialistiche e tra le macro aree capitalistiche (Europa, America, Asia). Proprio oggi gli avvinazzati del «sogno europeo» scoprono con sgomento che, come ha scritto poche settimane fa il Wall Street Journal, «dietro la solidarietà europea si nascondevano gli interessi delle nazioni europee»

Tutti parlano e scrivono di «ritorno dei particolarismi nazionali», di «ritorno della politica di potenza» anche in Europa, soprattutto in riferimento al nuovo ruolo egemonico della Germania e all’operazione franco-inglese in Libia. Per non parlare delle scosse telluriche che si registrano con sempre più frequenza e maggiore intensità nella «faglia del Pacifico», dove orbitano le più grandi potenze capitalistiche del pianeta. Nessun «ritorno»: è la storia del Capitalismo che continua, una storia sempre «vecchia» eppure sempre «nuova», perché i rapporti di forza interimperialistici mutano sempre di nuovo, in intima relazione con i processi di ascesa e di declino economico delle Nazioni e delle macro aree geoeconomiche.


L’ideologia antiamericana di matrice stalinista e maoista, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale e fino a qualche anno fa, impedì a gran parte dei “marxisti” occidentali di vedere, dietro l’esibita compattezza dell’Alleanza imperialistica centrata sugli Stati Uniti, i conflitti di natura economica, politica e strategica tra i diversi Paesi “fratelli”, con tutto ciò che ne seguì sul piano della loro – cattiva – prassi politica «antimperialista». Il rapporto tra Stati Uniti e alleati veniva da essi ricondotto nel risibile schemino di Padrone e «servi sciocchi», con ciò misconoscendo la reale dialettica che ha plasmato quel rapporto, peraltro oggi sempre più sfilacciato, debole e contraddittorio.

Pur non essendo un volgare antiamericano, Negri è concettualmente assai vicino a quel tipo di impostazione dei problemi internazionali: la figura dell’Impero, infatti, gli preclude di cogliere la ricca e complessa dialettica che struttura la politica internazionale degli Stati, peraltro da egli concepiti come entità in via di estinzione. «Oggi noi viviamo certo un interregno, fra la fine della modernità e l’apertura della postmodernità, fra l’estinzione dello Stato-nazione e la fondazione dell’Impero. Mille contraddizioni attraversano questo periodo e nessuno può opporre Stato-nazione e Impero come se si trattasse di figure opposte per natura. Nell’interregno, il capitale gioca piuttosto la compenetrazione di queste due figure e talora si illude sull’evoluzione dell’una nell’altra: la dialettica per il capitale funziona sempre, e così all’affermazione dello Stato-nazione segue la negazione dell’interregno, poi la sua necessaria sublimazione nell’Impero»

A mio avviso la realtà mostra una dialettica assai diversa, e il concetto di Impero è, a mio avviso, destinato a fare la stessa fine del Superimperialismo teorizzato negli anni Venti da intellettuali di diverse tendenze politiche e culturali. Da buon «materialista dialettico», Negri fonda la sua teoria dell’estinzione dello Stato-Nazione, «sublimato nell’Impero», sulla prassi economica del Capitalismo del XXI secolo, ossia de «postCapitalismo», di un Capitalismo che, a quanto pare, è andato «oltre Marx». «La legge del valore (e dunque del plusvalore), considerata secondo la definizione elementare che ne dà Marx, è divenuta inefficace salvo, forse, in settori marginali dello sviluppo. Lo sfruttamento si configura come espropriazione dei valori della cooperazione e della circolazione produttiva, come appropriazione capitalista dell’eccedenza innovatrice del lavoro immateriale nell’organizzazione sociale del lavoro, come captazione del comune».

Suona bene, non c’è che dire. Ma si tratta, appunto, di suoni, che alludono bensì a una realtà concreta, come del resto i sogni e qualsivoglia costruzione intellettuale per quanto fantasiosa; senza però riuscire mai a toccarla. Voglio prenderla, per così dire, alla larga, con ciò testimoniando la coerenza di pensiero di Negri, il quale batte il chiodo, invero storto e spuntato, del superamento della marxiana legge del valore da molti lustri.

In un suo breve saggio del 1974, Crisi dello Stato-piano, Negri cita un importante passo di Marx: «Nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta – questa loro powerful effectiveness – non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa alla produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia o dall’applicazione di questa scienza 
alla  produzione».


Qui Marx delinea il fondamentale concetto di lavoro sociale astratto, mediante il quale spiega il passaggio del Capitalismo dalla precedente fase manifatturiera («sussunzione formale del lavoro sotto il Capitale») alla sua piena maturità, con l’introduzione di criteri e di mezzi altamente razionali (scientifici) e tecnologicamente avanzati nel processo di creazione del valore – perché le merci, bisogna sempre ricordarlo, sono meri contenitori di valore che attende di essere realizzato sul mercato. A questa altezza dello sviluppo capitalistico il prezzo della merce non dipende dal lavoro peculiare che l’ha immediatamente prodotta, ma dalla media sociale dei singoli e particolari lavori che in altre fabbriche e in altre parti del mondo producono quel tipo di «crisalide di valore», quel valore di scambio che agogna il «salto mortale» della compra-vendita 
per manifestarsi come denaro. 

È appunto il lavoro sociale astratto la base oggettiva che rende possibile l’esistenza del denaro in quanto «equivalente universale», la cui enigmatica natura è fonte di continue aberrazioni feticistiche. Ed è a questa altezza che prende corpo il fenomeno per cui il Capitale più produttivo, quello a più alta «composizione organica», ossia incardinato su una base tecnologico-scientifica assai sviluppata, drena una parte del plusvalore smunto alla capacità lavorativa sfruttata da un Capitale relativamente meno produttivo, a più bassa «composizione organica». Il Capitale a più alta «composizione organica» sfrutta dunque anche il concorrente relativamente più arretrato sul piano della strumentazione tecnica e dell’organizzazione del lavoro. Detto di passata, storicamente la formazione del moderno Sistema Finanziario è radicata nel processo qui appena abbozzato: infatti, l’alta produttività del lavoro 

1) ha liberato risorse finanziarie in precedenza vincolate direttamente alla sfera produttiva; 

2) ha costretto le imprese a ricorrere sempre più spesso ai capitali messi a disposizione dalla Finanza – la tecnologia e la scienza, come sappiamo, hanno un elevato costo –, rafforzandone la potenza di fuoco (l’allusione all’imperialismo è voluta) e la tendenza all’autonomizzazione (base materiale di ogni feticismo passato, presente e futuro); 

3) la sfera finanziaria si è presto dimostrata una sorta di attrazione fatale per i capitali desiderosi di grassi e facili profitti. 

Come Marx ha dimostrato nel Terzo libro del Capitale, l’alta composizione tecnologica dell’impresa industriale ha sul saggio del profitto, ossia sul rendimento del capitale investito nella produzione, effetti assai contraddittori sul processo di accumulazione, e non di rado tali da spingere il Capitale a battere le vie dell’imperialismo (investimenti diretti e indiretti all’estero) e della speculazione finanziaria. Ma non spingiamoci oltre.

Se diamo a questa complessa dialettica capitalistica una dimensione
mondiale, come ci obbliga a fare la realtà, illuminiamo da un’essenziale – radicale – prospettiva la prassi e il concetto di imperialismo. Ecco perché l’odierna bagarre intorno al debito sovrano, al Welfare, al mercato del lavoro, alla spesa pubblica improduttiva e via discorrendo è connessa intimamente a quella prassi e a quel concetto. Infatti, si tratta di rendere più produttivo il Sistema-Paese nel suo complesso, con tutte le conseguenze sociali e politiche che necessariamente ne derivano. 

Che l’accumulazione capitalistica che io chiamo – con scarsa originalità, lo riconosco – primaria o originaria, ossia quella afferente al settore industriale (agricoltura compresa, ovviamente), stia alla base della cornucopia finanziaria che tante teste metafisiche ha fatto girare; come del cosiddetto Welfare allargato, è  stato dimostrato sul piano empirico dalla crisi economica, la quale da sempre ha avuto la funzione di accendere un potente fascio di luce sulla notte dove tutte le vacche sembrano nere. La svalutazione universale di tutti i valori, che la crisi realizza, oltre a costituire il processo di risanamento che rimette in carreggiata il treno dell’accumulazione, rappresenta un’eccezionale occasione di crescita teorica e politica, per chi riesce a coglierla.

Ma vediamo adesso il commento di Negri alla precedente citazione
marxiana: «Se dunque lo scambio di forza lavoro non è più qualcosa che avvenga – con determinazioni quantitative e con specifiche qualità – all’interno del processo di capitale, se invece un interscambio di attività, determinate da bisogni e scopi sociali, è il presupposto stesso della produzione sociale e la socialità è la base della produzione, se infine il lavoro del singolo è posto fin dal principio come lavoro sociale, il prodotto stesso del lavoro complessivo non può essere rappresentato come valore di scambio. [...] Lavorare è già una partecipazione immediata al mondo della ricchezza. [...] Il contenuto di massa del progetto dell’organizzazione operaia, nella misura stessa in cui si estende all’intera figura del lavoro astratto, si determina attorno al programma dell’appropriazione sociale diretta della ricchezza sociale prodotta».

Negri ha sempre amato vedere realizzate le tendenze che alludono alla possibilità del Comunismo hic et nunc, nell’ambito dello stesso  Capitalismo, e questo peraltro comprensibile desiderio, che spiega il successo della sua infondata posizione in non ristrette cerchie di giovani politicizzati, gli impedisce di comprendere che quelle stesse tendenze oggettive si risolvono, hic et nunc, in un continuo processo di radicamento e di espansione del dominio sociale capitalistico.

 La mia tesi è che, invece, non esiste alcun «Comune», perché tutto quello che esiste sotto il vasto cielo della società capitalistica mondiale (o «globale») appartiene con Diritto – ossia con forza, con violenza – al Capitale, privato o pubblico che sia. 

Il Capitale non si appropria arbitrariamente «il Comune», non lo «privatizza», ma estende piuttosto continuamente la sua capacità di trasformare uomini e cose in altrettante occasioni di profitto, e può farlo perché l’intero spazio sociale gli appartiene, è una sua creatura, una sua naturale riserva di caccia. Il lavoro (quello «materiale» e quello «immateriale», quello produttivo di plusvalore originario e quello produttivo di solo profitto, nelle sue diverse figure), la scienza, la tecnologia, l’arte, la cultura e la stessa natura hanno, nel nostro tempo, un’essenza necessariamente capitalistica, cioè a dire al contempo essi esprimono  e riproducono sempre di nuovo 
il rapporto sociale dominante in questa epoca storica.

La crisi economica ha dimostrato come alla base del Sistema Finanziario Internazionale (speculazione compresa) e della Finanza  Sovrana (quella che rende possibile il Welfare e tutte le prassi finanziate dallo Stato attraverso il drenaggio fiscale), ci sia la
produzione del plusvalore estorto ai lavoratori sfruttati nella cosiddetta «economia reale». Proprio «l’analisi marxiana della rendita fondiaria e le pagine sull’estrazione di plusvalore nell’industria dei trasporti» cui rimanda Negri, spiegano perché solo nel processo di produzione industriale si ha la generazione del plusvalore originario, o primario, il quale sta alla base di ogni forma di plusvalore derivato o secondario, chiamato da Marx profitto, rendita, interesse, e così via. 

Ciò spiega perché, tra l’altro, tutti gli strati sociali che a diverso titolo campano di plusvalore hanno interesse a che il salario dei lavoratori industriali sia e rimanga basso e la loro produttività cresca continuamente. Sta qui, per un verso il vero limite storico insuperabile del Capitale, la cui smisurata e insaziabile fame di profitti deve misurarsi con quella miserabile base di valore, occultata in tempi di vacche grasse dalla Chimera speculativa e che la crisi, mandando per aria il gigantesco castello fatto di valori fittizi, mette a nudo; e per altro verso la maledizione del lavoro salariato.


Ancora nel XXI secolo la marxiana legge del valore, lungi dall’essere stata superata o messa ai margini dal processo di creazione della ricchezza sociale nella sua forma capitalistica, costituisce, a mio avviso, il solido punto di partenza – non necessariamente di arrivo – di chi voglia elaborare un punto di vista critico sulla vigente società.

Cambiando il moltissimo che c’è da cambiare, il tentativo negriano di vedere limiti oggettivi insuperabili nel processo di sviluppo del Capitalismo mi ricorda Rosa Luxemburg, la quale, nel tentativo di dimostrare l’infondatezza della politica riformista dei vari Bernsteins’inventò la teoria secondo la quale il Capitalismo, per sopravvivere, ha bisogno di aree non capitalistiche nelle quali realizzare il plusvalore prodotto nelle metropoli dell’Impero. Appena il pianeta fosse caduto interamente nelle spire del Capitalismo, il catastrofico crollo di quest’ultimo si sarebbe realizzato con assoluta necessità, per l’impossibilità di realizzare il plusvalore. L’ottimismo riformista, dunque, non aveva alcun fondamento. Cosa assai significativa, la Luxemburg attribuì a Marx l’errore capitale di ritenere sempre possibile la realizzazione del plusvalore nell’ambito dei paesi capitalisticamente avanzati (vedi L’accumulazione del capitale), più diverse e fondamentali magagne nella spiegazione dell’accumulazione capitalistica. 

Anche per Rosa i marxisti sarebbero dovuti andare «oltre Marx». E non ci vedo nulla di male, in questa perorazione, anzi! A patto che mi si offra una teoria superiore! Per una puntuale critica dell’Accumulazione luxemburghiana rimando a Il crollo del
Capitalismo di Henrik GrossmannGran parte degli errori teorici di Negri si spiegano con il suo tentativo di colpire quello che negli anni Settanta egli definiva «il movimento operaio ufficiale» (il PCI di Togliatti-Longo-Berlinguerla CGIL di Lama), concepito, erroneamente, come espressione della vecchia composizione di classe, fordista e keynesiana, superata dal Capitalismo «postmoderno», e non come movimento politico-sociale borghese tout court. La teorizzazione della «Moltitudine» di oggi ha molto a che fare con la teorizzazione dell’«operaio sociale» di ieri. 

Che cosa resta di Negri dopo l’avvento della crisi capitalistica mondiale? Le sue suggestioni teoretiche e, soprattutto, i suoi fondamentali errori teorici e politici. Solo se si afferra la dialettica del processo capitalistico nel suo reale movimento, senza proiettarvi sopra i nostri desideri, è possibile fare il punto politico e sociale della situazione, per elaborare una teoria-prassi all’altezza dei tempi, i quali, occorre riconoscerlo, attestano la tragica impotenza delle classi subalterne in ogni latitudine del pianeta. 

Non è coltivando l’«ottimismo della rivoluzione», che crea l’illusione di «Moltitudini» sempre all’attacco, sempre sul punto di afferrare il potere (o quantomeno di «appropriarsi direttamente della ricchezza sociale prodotta»), che il pensiero critico può sperare di intercettare la dialettica del reale, ossia la tensione sempre crescente tra attualità e possibilità, presente e futuro.




Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...