domenica 28 febbraio 2016

“Caro Saviano, ti spiego perché Napoli è cambiata”



Una risposta molto eloquente...



Hanno scatenato una scia di polemiche le parole di Roberto Saviano su Napoli. “La città non è cambiata, Napoli è senza futuro e De Magistris ha fallito”, aveva affermato l’autore di Gomorra. E dopo la durissima risposta del sindaco Luigi De Magistris secondo cui Saviano “fiancheggia chi fa male a Napoli” adesso arriva una lettera […]

Hanno scatenato una scia di polemiche le parole di Roberto Saviano su Napoli. “La città non è cambiata, Napoli è senza futuro e De Magistris ha fallito”, aveva affermato l’autore di Gomorra. E dopo la durissima risposta del sindaco Luigi De Magistris secondo cui Saviano “fiancheggia chi fa male a Napoli” adesso arriva una lettera dello scrittore e regista Luca Delgado diventata subito virale. Eccola:
Caro Roberto Saviano, è giunto il momento che tu venga a conoscenza di un po’ di cose e mi dispiace dover constatare ancora una volta che tu non ti accorga di quanto parziale sia la tua visione delle cose. Hai detto che a Napoli non è cambiato nulla, che la situazione è peggiorata. Ebbene, la prima cosa che devi sapere, della quale forse non ti sei accorto, è che il senso di appartenenza alla nostra città e la nostra identità sono così forti oggi, che non siamo più disposti a tollerare che di noi si parli sempre e solo in modo negativo. E che quindi come napoletani siamo migliorati. Ti spiego il perché, e questo mio messaggio molto lungo ti fornirà degli esempi e delle rfilessioni in ordine sparso.

Ad esempio, lo sai caro Saviano che alcune piazze di spaccio sono diventate piazze della legalità? No, non credo tu lo sappia. Lo sai che al posto di decine di luoghi abbandonati sono nati centri sociali (che forse un tempo ti erano pure graditi), che abbiamo aperto luoghi di aggregazione per i giovani come quello di Pianura e che dopo decenni riaprono luoghi della cultura e del divertimento? No, secondo me non lo sai. Però sai che solo offrendo alternative ai giovani li si allontana dalla criminalità organizzata, non di certo facendogli credere che non ci sia futuro e peggio ancora inviando l’esercito.

Lo sai tu Saviano che siamo l’unica grande città italiana ad aver conservato l’acqua pubblica impedendo che venisse gestita da soggetti discutibili? Te ne sei accorto che siamo gli unici ad aver rispettato la sovranità popolare con il rispetto del referendum?
No, tu queste cose non le sai, non le racconti. Eppure non ti sembra una cosa di cui andare fieri?

Tu lo sai Roberto Saviano che Napoli è la città capoluogo dove c’è il maggior tasso di trasparenza e buona gestione degli appalti, il che significa averli sottratti alla criminalità organizzata, unitamente al traffico dei rifiuti? Ma te la ricordi la questione inceneritori ai quali abbiamo detto no? No tu proprio non lo sai, dici che la situazione è peggiorata. Eppure qui dopo l’emergenza del 2010 siamo arrivati ad avere la raccolta differenziata porta a porta. Sì, hai capito bene.

Lo sai tu Saviano che abbiamo aperto nuovi asili nido comunali e assunto centinaia di maestri e maestre in un tempo di grande recessione economica? Perché è soprattutto partendo dalla scuola che si contrasta la malavita, questo dovresti saperlo Roberto Saviano, eppure non lo sai.

Ti sei accorto che qui a Napoli il cambiamento lo hanno notato gli organizzatori di grandi eventi nazionali e internazionali come il Pizza Village, America’s Cup, Coppa Davis, Giro d’Italia, Beach Volley, Lungomare di Libri, insieme a diversi milioni di turisti che affollano la città durante tutto l’anno? Solo tu non te ne sei accorto Roberto Saviano? Come fai a dire che la situazione è peggiorata?

Tu che hai sempre parlato delle minoranze e denunciato le discriminazioni, ti sei accorto che Napoli ha avuto il coraggio di dare la cittadinanza onoraria ad Abu Mazen, Capo dello Stato della Palestina, e ad Abdullah Öcalan? Che in tempi di ruspe e di crisi internazionli qui da noi si dà la cittadinanza ai figli degli immigrati? Che abbiamo un registro sulle unioni civili? Che da noi vengono riconosciuti i matrimoni celebrati all’estero di persone dello stesso sesso, che da noi è stata rilasciata la carta d’identità ad un bambino di due donne sposate a Barcellona? E dai, non te ne sei proprio “addonato”? Eppure ne hai raccontate di storie simili, ma quelle belle della tua città perché ti ostini a non raccontarle?

Lo sai Saviano che da noi tutti i servizi sono rimasti pubblici, cioè di tutti noi, mentre altrove si privatizza? E che sicuramente non saremmo perfetti come Lugano né puliti come Monaco, ma vuoi mettere l’orgoglio di poter finalmente andare in giro per l’Italia e dire a testa alta che siamo napoletani?
Vedi Saviano io non ce l’ho con te, nutro profondo rispetto nei tuoi riguardi, per il lavoro che hai svolto, per la tua storia di coraggio e dedizione.

Credo però che tu non disponga più dei mezzi per poter raccontare Napoli, e noi ce la stiamo mettendo tutta affinché si creino i presupposti perché tu possa tornare e verificare di persona: noi qui ce la stiamo mettendo davvero tutta Robe’. Ma fa male vedere che per te noi non esistiamo. Fa male vedere che non capisci che se continuiamo con la retorica che qui le cose vanno sempre e solo male, non solo non si dice la verità, si fa il gioco di chi vuole che le cose non cambino. E ho paura, ma correggimi se sbaglio, che come tanti nostri concittadini, assuefatti e rassegnati da decenni di cattiva amministrazione, tu non riesca e non riuscirai mai a vederlo il cambiamento e che forse tu non disponga neanche del vocabolario necessario a celebrare e raccontare qualcosa di bello. La straordinaria bellezza dei tuoi concittadini che tutti i giorni lottano per migliorarla questa nostra splendida città si chiama ‪#‎Riscetamento. E ho paura che tu non lo racconterai mai.
Viva Napoli e viva i Napoletani.

Luca Delgado

sabato 27 febbraio 2016

W Marx, W Lenin, W Revelli. Un passo di lato e due indietro

Della opportunità di uscire dall'euro si è detto scritto e riscritto fino allo sfinimento, adesso chi vuol capire capisca. Delle affabulazioni sull'Europa, mito moderno e ultima spiaggia degli irriducibili dell'ontologia antimetafisica, ma non per questo coi piedi per terra, si è pure detto e scritto tanto, che mi viene la nausea. Il solo pensare che basti immaginare un teatro di conflitto e imbastire storie romantiche sugli ultimi che scalzano la strega Merkel e la serva BCE, per far si che questa diventi una narrazione minimamente realistica, è da deficenti. 
Cosa altro c'è da dire se non che la logica e il buon senso è l'ultima inesplorata frontiera che ci rimane.
Ci fossero un Lenin o un Marx invece di un Revelli o un Frantoianni, avrebbero già capito da un pezzo che occorrono non due, ma tre passi indietro. Avrebbero capito che considerare l'Europa il baricentro politico di una politica progressiva, quando questa appare come un diposistivo impenetrabile e congegnato unicamente per far funzionare il liberismo, favorendo alcuni paesi a scapito di altri, è da pazzi. Olte tutto avrebbero colto la vaghezza e l'incostintenza di una proposta politica che più vaga e fumosa non si può, fatta di proclami, appelli, del "vogliamo un'Europa che..." del "sintonizzare i sentimenti", delle "nuove narrazioni" ecc ecc. Avrebbero capito che riaffermare la sovranità di uno stato per poter riaffermare allo stesso tempo diritti e redditi, non è una sconfita, o far tornare indietro le lancette della storia, ma una tappa obbligata per poter davvero scrivere un nuovo capitolo. Se la sinistra avesse spiegato quello che era già chiaro 40 anni fa e cioè che l'Europa era una trappola congegnata dalle oligarchie per affermare il libero mercato e comprimere i diritti dei lavoratori, studiando sodo la maniera di uscirne, e spiegando la convenienza ai lavoratori ed anche alle piccole imprese e a quella parte del capitalismo più illuminato (ammesso che ne esista uno), a quest'ora avremmo un obiettivo chiaro e un'arma potente da puntare contro queste infami oligarchie europee. 
Cari compagni, se persino Napolitano, l'ex compagno Napolitano aveva capito cosa stava succedendo, e ci metteva in guardia contro la moneta unica in un suo discorso al parlamento, perché voi avete perseverato nell'ignoranza e nell'ideologia? Sapevate cosa comportava Maastricht e nonostante tutto avete continuato ad alimentare l'idea di un Europa che con quella di Ventotene c'entrava ben poco. Possibile che l'ideologia vi abbia, ci abbia appannato la mente così tanto? Ce  la siamo presa con i compagni comunisti greci perché, forse a torto, osteggiavano Tsipras, ma non pensate adesso che magari un po' di ragione ce l'avessero pure loro? 
Parliamo di piani B. Ben vengano, ma dovete convincere prima di tutti  voi stessi e e poi tutti noi che possano costituire materia di un programma chiaro e condivisibile. Per avere l'entusiamo necessario a portarlo avanti dobbiamo crederci. 
Per adesso rimango convinto che occorra far un passo di lato e due indietro.

venerdì 26 febbraio 2016

L'UE dalle origini al TTIP. Le operazioni segrete Usa per dar vita a uno Stato Federale Europeo.

da lastampa

In genere lascio perdere articoli che hanno un sapore complottistico, ma viste le fonti, almeno in apparenza attendibili, e l'autorevolezza del giornale che le ha pubblicate...


L’Unione Europea non è nata soltanto  dal  ‘sogno’ di Altiero Spinelli  e di Jean Monnet (al quale il Spinelli pare non stesse neppure simpatico) di Schuman e di Spaak, come ci viene sempre  raccontato da politici e media che acriticamente  esortano a sostenere   il progetto salvifico di un superstato unitario  come inevitabile e desiderabile sviluppo. 

 

L’Unione Europea non sarebbe mai diventata tale se non fosse stata il progetto, pensato, finanziato e guidato segretamente dagli Stati Uniti, di uno Stato Federale  europeo politicamente  a loro legato, per non dire vassallo degli Usa, come è emerso da documenti  alcuni venuti alla luce nel 1997, altri de-secretati nel 2000 grazie a un ricercatore della Georgetown University di Washington, Joshua Paul. 
 

  
Un piano volutamente portato avanti sotto traccia e gradualmentedal dopoguerra a oggi, fino all’accordo economico transatlantico siglato nel 2007, mai ricordato  ( vedi qui in italiano, da Infowars) concretizzatosi  nel poco discusso e non ancora ratificato TTIP.  
  
A rilanciare questo narrazione – già oggetto nel 2000 di un breve articolo del Telegraph di un giovane Ambrose Evans-Pritchard (qui e qui vocidallestero + qui eunews, recenti) ma soprattutto di un libro inglese divenuto un best seller (Christopher Brooker , Richard North, The Great Deception. A Secret History of the European Union, Continuum 2003, qui e cenni qui) è oggi un post di un sito british in cui ci siamo imbattuti da poco, truepublica.org.uk.  Un blog indipendente e serio, per niente complottista ma critico, la cui missionè “smascherare la cattiva informazione, disinformazione e propaganda”, sul quale scrivono firme già incontrate altrove.  
  
Ci sembra interessante proporlo in questo momento in cui l’UE  è direttamente e indirettamente al centro dell’attualità: dall’economia ai migranti, dalle banche al TTIP,   all’UE in sé, sempre più divisa  e messa in questione  da movimenti di opinione che troppo spesso vengono liquidati come “populismi” . Al Brexit, appunto. 
  
Il post sottintende un punto di vista britannico e anche per questo è interessante: per l’approccio libero dalla mitologia europeista a senso unico di cui sono intrise le narrazioni italiane; e perché fa   capire le ragioni delle diffidenze e delle resistenze di tanti cittadini inglesi, orgogliosi della loro indipendenza e diffidenti nei confronti dell’UE, alla quale aderirono solo nel 1973, ma anche verso i ‘cugini’ americani ai quali troppo spesso tendiamo ad assimilarli.    
Salvo, come diremo alla fine, scoprire il ruolo cruciale e non meno sotterraneo alle origini proprio dei britannici ovvero di alcuni di essi, l'élite conservatrice e filo-élite-Usa oggi preoccupatissima di un eventuale Brexit.
 

  
Premessa (di truepublica)  
“Per chi ha ancora dei dubbi, l’Unione Europea non è stata motivata dai desideri gemelli di por fine alle guerre sul continente Europeo e di promuovere la crescita economica rendendo più facile ai paesi europei commerciare gli uni con gli altri. Questa è la storia che vi raccontano. In realtà l’ UE è stata una creazione dell’America.  Leggete.  
  
“Dopo la seconda Guerra Mondiale, l’America vede l’opportunità di trasformare un continente lacerato dalla guerra. Vuole che l’Europa sia complementare alla politica americana, vede il federalismo americano un ideale modello politico. Desidera integrare l’Europa e avvia varie operazioni coperte per minare la resistenza convinta alle idee federaliste, specie da parte del governo laburista Britannico. 
 


 

“L’opportunità che si presentava era quella di un superstato guidato da burattini e riempito con impiegati compiacenti utile per i commerci e la manipolazione di mercati globali strategici e, non meno importante, una zona cuscinetto contro il nuovo nemico, i Rossi dalla Russia alla Cina.  
  
“Storici della diplomazia hanno scovato già nel 1997 prove delle operazioni coperte degli Stati Uniti destinate a minare le influenze comuniste in Europa. Funzionari Usa lavorarono nel 1950 a un piano che portasse agli Stati Uniti dl’Europa. E’ qui che vediamo emergere il Gruppo Bilderberg e l’Action Committee for a United States of Europe.  Winston Churchill fu uno dei cinque presidenti del Consiglio d’Europa, un’ organizzazione eterogenea che premeva per una rapida unificazione europea.
 

  
“Cosa interessante, questi documenti non sono stati trovati negli archivi americani o britannici, ma a Bruxelles, la capitale di fatto dell’UE. 
  
“Oltre a ciò Washington temeva l’emergere di mercati e di qualsiasi cosa somigliasse anche lontanamente a una alleanza orientale, come Russia e Cina, che da allora ha preso forma nel gruppo economico delle nazioni BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) e nella creazione  della Shangai Cooperation Organisation (SCO) . Alla fine dell’anno scorso il FMI ha aggiunto lo yuan al suo paniere  delle monete di riserva, un riconoscimento internazionale dei progressi della Cina in un sistema economico globale dominato per anni da Usa, Europa e Giappone.  
  
“Il termine BRICS venne originariamente coniato da Goldman Sachs, secondo la quale nel 2050 quelle economie domineranno il mondo. Negli ultimi anni l’America ha visto la prova dell’avanzamento delle nazioni emergenti nel declino della produzione e dell’export dei propri beni e servizi.  Il commercio internazionale è diminuito del 30% in tre decenni e si è dimezzato dalla seconda guerra mondiale. L’America sapeva già nei tardi anni ’40   che il suo dominio economico sarebbe stato minacciato e aveva bisogno che degli Stati Uniti d’Europa fungessero da   ammortizzatore in tale eventualità.  
  
“Nel 2000 documenti declassificati dal governo americano mostrano che il servizio americano di intelligence cominciò a condurre una campagna su larga scala negli anni ’50 e ’60 per dare impulso a un’Europa unita.  Ha anche fondato e pienamente diretto il Movimento Federalista Europeo, qualcosa  a cui   molti stati membri europei resistevano ma infine capitolavano – “siete con noi o contro di noi”.  
  
“Le pressioni venivano aggressivamente esercitate anche sul Regno Unito.  
I documenti mostrano che l’American Committee for a United Europe (ACUE) creato già nel 1948 finanziò le operazioni del Movimento Europeo, la più importante organizzazione federalista negli anni del dopoguerra. Nel 1958 fornirono più della metà dei fondi (il 53,5%).  
  
Il Telegraph citato aggiunge altri dettagli.  Un memorandum, datato 26 luglio 1950 fornisce istruzioni per una campagna finalizzata a promuovere un parlamento Europeo a pieno titolo. E’ firmato dal generale William Donovan, capo del servizio segreto americano in epoca bellica, l’Office of Strategic Studies (OSS), precursore della CIA.  
Vicepresidente dell’ACUE era Allen Dulles, direttore della CIA negli anni ‘50. Il comitato comprendeva Walter Bedell Simith, il primo direttore della CIA e un elenco di figure ex-OSS che entravano e uscivano dalla CIA.  
  
L’European Youth Campaign, un braccio del Movimento Federalista Europeo, è stata interamente finanziata e controllata da Washington – racconta il Telegraph. “Il direttore belga, il barone Boel, riceveva pagamenti mensili in un conto speciale. Quando il direttore del Movimento Europeo Joseph Retinger, di origini polacche, si risentì di questo livello di controllo americano e cercò di raccogliere fondi in Europa venne subito rimproverato”.  
  
Truepublica  parla di operazioni  gestite dalla CIA ma aggiunge che i documenti mostrano come gli ordini arrivassero dal Dipartimento di Stato. Le operazioni comprendevano finanziamenti a gruppi politici alleati seguaci dei valori e/o della politica dell'America, sabotare i sindacati e influenzare le tendenze culturali e intellettuali in Europa. Si andò ancora oltre, con operazioni volte a provocare deliberatamente disaccordi in stati non compiacenti e la creazione di  reti ‘stay behind’ o GLADIO disegnate per addestrare forze speciali,  reti di spie e squadre di boicottaggio per contenere ogni potenziale incursione Sovietica e finanche ogni business  in Europa.  
  
“I leader del Movimento Europeo – Joseph Retinger, Robert Schuman e l’ex primo ministro belga Paul-Henri Spaak – venivano tutti trattati come dipendenti dai loro sponsor americani. Il ruolo degli Stati Uniti veniva gestito come un’operazione segreta. Il finanziamento dell’ACUE arrivava dalle Fondazioni Ford e Rockefeller, nonché da gruppi d’affari con stretti legami con il governo degli Stati Uniti e con la CIA.  
Il direttore della Fondazione Ford, l’ex ufficiale dell’OSS Paul Hoffman ottenne un doppio incarico come capo dell’ACUE alla fine degli anni ’50. 

 

  E’ stato un processo ‘passo dopo passo’ e tuttavia molto pianificato.  
Truepublica  ne elenca le varie tappe: Trattato di Bruxelles  del 1948 ; Trattato di Parigi, 1952; Trattato di Bruxelles Modificato, 1955; Trattato di Roma, 1958. Il tutto portò nel 1967 alla fusione di trattati che fu chiamata Mercato Comune, ma finì per essere la Comunità Economica Europea (EEC).  
  
“Molti cittadini britannici e Primi Ministri erano incerti e profondamente sospettosi sulle intenzioni del nuovo club. I conservatori spinsero per l’adesione nel 1973 senza tener conto dell’elettorato.  I Laburisti, contrari, in occasione delle elezioni del 1975 tirarono fuori un manifesto che chiedeva di rinegoziare le condizioni del Regno Unito e un referendum, che tuttavia vide prevalere i favorevoli (65%.  
  
“Seguono altri trattati: Maastricht 1992, che pone le fondamenta reali dell’Unione Europea, rafforzate dal Trattato di Amsterdam, 1997, quindi dal Trattato di Nizza e infine da quello di Lisbona firmato il 13 dicembre 2007, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. E tuttavia, viene osservato, l’UE non ha una sua costituzione. Qualcuno dice che non ne ha bisogno in quanto l’insieme dei trattati ne disegnerebbero una. 
 

In ogni caso l’UE non è ancora uno stato federale.  
  
“Originariamente caratterizzata da solidarietà e fiducia reciproca fra cittadini Europei, l’UE ha visto le sue pietre fondanti erose drammaticamente.   
  
Ironicamente è l’America che sta causando tanti danni a un’unione che vuole serva meramente ai suoi scopi geopolitici e monetari  .  Il coinvolgimento in guerre impopolari, lo psicotico sistema bancario americano, hedge funds parassitari che depredano paesi sensibili come Grecia Spagna e Portogallo,  il sovvertimento di relazioni internazionali, in particolare con la Russia e alcune delle sue nazioni; e ancora, l’attività spionistica, la sorveglianza di massa, le svalutazioni monetarie e molto altro spingono tanti europei  a disprezzare l’UE in sé e il coinvolgimento degli USA.  
  
“L’UE e gli USA sono le maggiori potenze economiche e militari nel mondo, a dispetto della mancanza di una politica europea di difesa comune .  Dominando il commercio globale, giocano ruoli guida nelle relazioni politiche internazionali, e quel che uno di loro dice ha un peso rilevante per molta parte del resto del mondo.  
Hanno popolazioni simili, una composizione religiosa quasi identica, ed entrambe hanno economie da $18 trilioni - eppure l’America vuole dominare.  
  
Un memo del Dipartimento di Stato datato giugno 1965 consigliava il vicepresidente della Comunità Economica Europea, Robert Marjolin, di perseguire l’unione monetaria in segreto. Raccomandava di ‘ sopprimere il dibattito fino al punto in cui ‘l’adozione di tali proposte sarebbero state virtualmente ineludibili’.  
  
“La concezione del dominio economico americano la si vede bene oggi con l’accordo commerciale segreto che verrà presto approvato noto come TTIP.  
  
“Questo accordo rappresenta un attacco massiccio alla sovranità di governi eletti democraticamente e mostra chiaramente quali fossero le intenzioni americane fin dall’inizio, negli anni ’50. (Come detto sopra, dell'accordo del 2007 che ne gettava le premesse non non si è saputo quasi nulla, vedi qui il blog comedonchisciotte.it)
 

  
“Gli USA vogliono armonizzare gli standard fra EU e USA, visti dagli oppositori come un grave colpo alle sudate protezioni su cibo e sicurezza chimica (per es cosmetici , insetticidi e pesticidi), l’ambiente e i diritti dei lavoratori.  Il settore agricolo americano sta premendo fortemente l’Europa perché importi prodotti OGM attualmente illegali (ma di cui l’UE ha autorizzato l’ importazione nell’aprile 2015) e carne non conforme agli standard europei,  vale a dire bestiame  cresciuto con ormoni della crescita (questo divieto continua ma con un accordo per comprare ulteriori 48.000 tonnellate annue di carne americana senza ormoni della crescita).  
  
“Il fracking e la privatizzazione del Servizio Sanitario Nazionale sono nel programma delle corporations Americane,  obiettivi aggressivamente promossi da un governo Conservatore neocon di  estrema destra la cui ideologia volta al mero profitto renderà la Gran Bretagna un avamposto stato vassallo degli Usa, se gli si dà modo di continuare.  
  
“La ragione per cui i negoziati del TTIP sono così segreti  è che gli americani hanno raccomandato, come abbiamo detto più sopra,  di ‘ sopprimere il dibattito fino al punto che l’adozione è diventata ineludibile’.  
  
“Motivo per cui gli americani hanno dato vita al non meno segreto Gruppo Bilderberg, definito come un gruppo di lobbisti di élite, vertici di multinazionali Usa, funzionari UE, capitani di industria, capi di agenzie di intelligence e reali Europei : come dire che tutti i principali lobbisti degli affari e della finanza  a favore del TTIP   sono sotto lo stesso tetto. Non è difficile capire quale sia la vera agenda.  
  
“Quello a cui siete testimoni è un ‘ colpo di stato corporate’ dell’Europa da parte dell’America  delle multinazionali.    
Così conclude il post – senza alcun dubbio apparente sulle origini ‘americane’  dell’Unione Europea. Un ‘colpo di stato al rallentatore’ come scrissero gli autori di The Great Deception.  
  
 UNA STORIA UN POCO DIVERSA. 
Eppure, ad ideare l’unione europea e a premere inizialmente sull’America perché appoggiasse il progetto sarebbero stati   paradossalmente proprio gli inglesi. Alcuni inglesi, quanto meno, le élites britanniche da sempre conservatrici e legate alle élites Usa.
 

(Del resto Jean Monnet, uno dei 'sognatori'  del superstato europeo era stato convinto da un funzionario british suo amico e nel ’40 venne inviato negli Usa come rappresentante del governo inglese, divenendo poi un ascoltato consigliere del presidente Roosevelt, vedi libro di cui sopra). 

 

Il ruolo inglese si capisce anche  dalla storia di Joseph Retinger che di quel progetto  fu uno degli ideatori e soprattutto uno dei promotori più attivi, così come  fu poi i nventore e promotore del  Gruppo Bilderberg.  
  
E’ stato proprio il sito ufficiale del Bilderberg  a ricordarlo, in occasione della sessione 2013 dell’annuale conferenza svoltasi nel Regno Unito, ospite David Cameron, riproponendo la figura di quel personaggio misterioso e sfuggente pressoché ignorato dai media,  forse perché - polacco di nascita e cosmopolita nella vita, vicino ai Gesuiti e al Vaticano come alla socialista Fabian Society, amico di papi e primi ministri,  reali e grandi banchieri mitteleuropei - fu anche un agente segreto britannico  (degno di un romanzo di Le Carré  ha scritto Underblog, citando il post originale del Bilderberg ).
 


 

Almeno, ne era convinto l’esperto in guerra psicologica nonché consigliere del presidente americano Eisenhower, C.D Jackson. “Sapeva come lavorare tra le ombre e stare tra le ombre e una di queste ombre era l’ala oscura dell’intelligence britannica”, scrisse Pietro Quaroni, ambasciatore italiano a Parigi, Londra e Bonn, in un lungo ricordo di Retinger - col quale aveva collaborato per anni. Quaroni fu con Alcide De Gasperi, al quale era molto vicino, il primo membro italiano del Bilderberg alla sua nascita, nel 1954.   
Sorta di “monaco soldato”, “incarnando il motto dei Templari ‘non nobis’ partecipò ai maggiori intrighi politici internazionali del XX secolo per idealismo e per ammirazione verso gli  uomini a cui decise di volta in volta di legarsi” .
 


 

Per dire, il Congresso dell’Aja, la megaconferenza che nel maggio del 1948“ fu il punto di partenza del processo politico che portò al Trattato di Roma del 1957”, venne organizzato da Retinger e da lui promosso insieme a Duncan Sandys, genero di Churchill. Vi parteciparono 800 figure chiave dell’Europa e del Nord America. Retinger “conosceva tutti e aveva accesso ovunque, in quegli anni era uno degli uomini meglio informati”, ricorda Spaak. 
 


 

Due anni prima Mr R - o Dr. R o semplicemente R, come lo chiamavo i suoi nemici - aveva tenuto al Royal Institute of International Affairs di Londra un discorso sul futuro dell’Europa che fu uno dei primi appelli all’unificazione del “vecchio Continente”. E dopo la conferenza dell’Aja fu tra i motori dietro la creazione del Movimento Europeo, del Congresso d’Europa, del College of Europe di Liegi e dell’European Center of Culture di Ginevra, tutti volti a promuovere l’idea di un’Europa unita. 

 

Ponte fra i popoli europei, R fu anche un ponte fra l’Europa e gli Stati Uniti ”. “ Fu uno dei soli tre europei (con W. Churchill e R. Coudenhove-Calergi) a far parte dell’American Committee on United Europe (ACUE), definita come struttura di facciata creata nel 1948 dalla CIA, dal Dipartimento di Stato e dal Council of Foreign Relations per coordinare gli aiuti all’unificazione Europea, progetto che all’inizio della guerra fredda era una priorità politica assoluta per gli Usa. R era responsabile della distribuzione dei milioni di dollari senza i quali l’unificazione europea non sarebbe stata possibile.”
 

Peccato che il link originale del post Bilderberg non funzioni più, come accadde sempre più spesso. 

Perché proporre l’uscita dall’euro?

di Riccardo Achilli da sinistrainrete

 

Un articolo di 2 anni fa che vale la pena di rileggere. Giudicate voi

 

merkel-euro-breakupHo finora sempre sostenuto la strategia della permanenza nell’euro, e della lotta "da dentro", contro le politiche economiche imposte dai trattati europei. Oggi ho cambiato posizione, sostenendo l’esigenza di mettere sul tavolo un piano di fuoriuscita, il più possibile ordinato, dall’euro stesso. Cerco di dare conto delle ragioni di questo mio cambiamento di opinione.

I non- problemi: per sgombrare il campo
Il problema non è quello di pensare, come fanno i sovranisti monetari, che recuperando sovranità monetaria possiamo stampare moneta a go-go, uscendo magicamente dalla crisi. La fragilità della ripresa giapponese, che nonostante politiche gigantesche di quantitative easing e di acquisto di titoli del debito pubblico (cfr. grafico) è caduta in recessione, ma anche la fragilità intrinseca dell’economia statunitense dopo i grandi Q.E. fatti dalla FED (con una crescita trimestrale del PIL reale caduta per ben due trimestri in recessione, ed uno in stagnazione, da metà 2009 ad oggi, e con segnali di rallentamento anche per il terzo trimestre 2014) dovrebbe far riflettere molto sull’efficacia degli strumenti monetari.
Soprattutto per chi conosce un po’ di teoria keynesiana. Infatti, i meccanismi di trasmissione di un impulso monetario verso l’economia reale si arrestano in condizioni particolari, dette di trappola della liquidità, nelle quali le aspettative degli operatori bancari che ricevono la liquidità primaria dalla Banca Centrale sono improntate alla certezza che i tassi di interesse non possano scendere, per cui assorbono qualsiasi quantità di moneta venga loro offerta, senza rimetterla in circuito nell’economia. Soprattutto se poi questi operatori bancari sono in difficoltà patrimoniale, come mostra l‘asset quality review fatto recentemente dalla Bce, in cui quattro banche italiane, di cui due di rilevanza nazionale (Mps e Carige) risultano in condizioni di carenza patrimoniale anche dopo le operazioni di rafforzamento fatte quest’ anno, e, in base allo stress test, il Cet 1 ratio delle banche italiane sarebbe inferiore a quello medio europeo (10,2%, a fronte dell’11,8%). In tali condizioni, quindi, le banche assorbirebbero una grande quantità di liquidità emessa da una neonata Banca d’Italia che tornasse a stampare lire, neutralizzando qualsiasi effetto reale del Q.E., soprattutto se una uscita disordinata dall’euro comportasse fenomeni di corsa allo sportello da parte dei risparmiatori. 

Asset totali delle principali banche centrali
 
 wsfr
 Fonte: Financial Times, IMF, Haver Analytics, Fulcrum Asset Management LLP








Il motivo non è neanche quello riferito ai vantaggi esportativi da svalutazioni competitive. Tutti gli studi, ivi compreso uno recente di Tockarick (2010) pubblicato peraltro fra i working papers del FMI[1] , e che già tiene conto dell’effetto della partecipazione all’euro, mostrano che la condizione di Marshall-Lerner è verificata. Ma evidentemente l’argomento per uscire dall’euro non può essere quello che l’uscita ci migliora le esportazioni! Per questo, basterebbe una politica valutaria che guidi l’euro verso una svalutazione, ed il gioco sarebbe fatto, atteso che l’Italia sta destinando quote crescenti del suo export verso i mercati no-euro già da diversi anni a questa parte[2].

La vera ragione
No. La ragione vera, a mio avviso, è più profonda, ed è a cavallo fra politica ed economia. Per motivi in parte di convenienza economica, ma anche di cattura del consenso elettorale interno, e più in generale per un interesse specifico di ristrutturazione classista in senso regressivo dell’intera Europa, la Germania e la corona dei Paesi nordici, supportati dagli organismi tecnici del capitalismo finanziario globale, impongono, contro ogni razionalità economica una strategia di politica economica disastrosa. La deflazione non è un tragico effetto inatteso delle politiche economiche neoliberiste in atto, ma è voluto, anticipato, nel 2013, da una intervista chiarissima di Hans-Werner Sinn, capo del centro studi economici IFO e consigliere economico della Merkel, che prefigurava esattamente una deflazione interna come strada maestra per i Paesi più indebitati dell’area-euro, stimando anche l’entità di tale deflazione (10% per l’Italia, 30% per la Grecia)[3] . Tra l’altro, la deflazione conviene a milioni di piccoli e medi risparmiatori tedeschi, stante il valore particolarmente basso del rendimento nominale dei Bund, che ovviamente richiede una inflazione prossima allo zero. E costoro rappresentano la spina dorsale dell’elettorato del partito della Merkel, che ha costruito quella Germania di ceti medi tutelati dalle politiche di austerità imposte agli altri, che siede sulla polveriera dell’immiserimento del resto del continente. 
E più in generale, la deflazione dei costi è voluta dal capitalismo transnazionale, finanziario e delle multinazionali, ed appoggiato anche dai piccoli capitalismi nazionali, pure nei Paesi in crisi, perché comporta un ovvio spostamento della ricchezza dal lavoro al capitale. Il grafico seguente mostra il calo del rapporto fra retribuzioni lorde dei lavoratori e Pil, in Italia, fra 2009 e 2013: in questi 4 anni, detto indicatore perde 0,7 punti. Evidentemente, la ricchezza prodotta che non è più destinata a retribuzioni, viene destinata a profitti e rendite. 
Questo scenario, però, prefigura la riduzione di ampie parti dell’Europa verso la fascia medio-bassa della ricchezza, condannandole a sopravvivere di esportazioni di prodotti di fascia medio-bassa, che giustifichino costi competitivi, o di turismo dall’area “ricca” dell’Europa, mentre l’industria ad alto valore aggiunto, che garantisce quindi gli spazi per la crescita dei salari, sarà concentrata in Europa del Nord. Un vero e proprio progetto egemonico, nel quale borghesie nazionali sempre più compradore si ritaglieranno spazi di sopravvivenza sulla compressione dei salari e dei diritti, magari operando come fornitori dei sistemi produttivi più avanzati del Centro-Nord Europa. Non è infatti un caso se le politiche di austerità e deflazione sono accompagnate in modo stretto dalle “riforme strutturali”, miranti ad indebolire i sistemi di difesa del lavoro, ed a flessibilizzarlo sempre più. 

Andamento del rapporto percentuale fra retribuzioni lorde e Pil in Italia
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Elaborazione su dati Istat
Questo sistema avrà i punti di tenuta, da un lato, in una riduzione progressiva degli spazi democratici e di espressione a livello nazionale (e nelle riforme istituzionali che convergono verso un presidenzialismo associato a leggi elettorali dove è forte il controllo delle direzioni dei partiti sugli eletti si vedono già alcuni sintomi, accanto a provvedimenti mirati esplicitamente a ridurre lo spazio di espressione politica sul web, o a dibattiti sempre più frequenti su regolamentazioni restrittive del diritto di sciopero) e dall’altro proprio nella sopravvivenza dell’euro. Infatti, l’appartenenza ad una medesima area valutaria, dove i movimenti di capitale sono perfettamente liberalizzati, crea un differenziale di credibilità, sui mercati finanziari, fra i Paesi caratterizzati da alto debito e bassa crescita, ed i Paesi a più basso debito ed a più alta crescita. 
Detto differenziale di credibilità costringe i Paesi meno virtuosi ad una strategia del tipo “follow the leader”, fatta di politiche di austerità e di deflazione interna tali da portarli sullo stesso livello del leader, in termini di saldi di finanza pubblica, CLUP e inflazione potenziale. Il prezzo da pagare nel non seguire tale strategia è ovviamente costituito dalla crescita dello spread sul servizio del debito, fino a livelli da default. D’altra parte, però, la strategia “follow the leader” comporta una continua rincorsa al ribasso (se il leader continua a fare politiche di contenimento della spesa pubblica, della domanda e dei suoi costi interni) che avvita chi insegue in una spirale mortale di austerità-deflazione-decrescita-ulteriore aumento degli squilibri di finanza pubblica (endogeni sia alla decrescita che alla riduzione dell’inflazione, che fa lievitare gli interessi reali sul debito, e riduce la svalutazione della sua quota capitale) ed ulteriore spinta verso la decrescita e la deflazione. Una situazione sintetizzabile da una antica fiaba contadina: un uomo sogna di prendere la Luna che si specchia, di notte, nell’acqua del suo pozzo. Butta nel pozzo il suo bugliolo, ma quando lo ritira è pieno d’acqua, e il riflesso della luna rimane dentro il pozzo. A forza di buttare il bugliolo per catturare il riflesso della Luna, il pozzo rimane senz’acqua. L’uomo muore di sete. Il riflesso della Luna è scomparso, e l’astro splende, irraggiungibile ed indifferente a noi mortali, nel cielo. 
Per uscire da questa tragedia annunciata, ci sono solo tre possibilità:
a) Il leader cambia direzione alle sue politiche, in senso espansivo, consentendo a chi insegue di rifiatare. Non ci sono oggi le condizioni politiche per questo. La Germania non ha alcuna intenzione di veder ridurre il suo straordinario avanzo commerciale, facendo politiche di sostegno alla domanda interna che vadano oltre il compromesso fatto, in sede di accordo di Governo, con la Spd (e che in un mio precedente articolo, http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2013/11/un-accordo-dignitoso-di-riccardo-achilli.html#more , stimo avere un impatto di riduzione, nel medio periodo, di circa 2 punti, del saldo commerciale tedesco, evidentemente troppo poco per rilanciare la crescita del resto dell’area-euro) ed anche l’annunciato programma di investimenti infrastrutturali sembra essere piuttosto modesto in termini di impatto sulla domanda interna tedesca, poiché i 10 miliardi di investimenti annunciati da Schaeuble saranno coperti dai 300 miliardi di investimenti annunciati da Juncker (ed è quindi una partita di giro: la Germania si riprende una parte dei soldi che eroga al bilancio Ue) e comunque gli effetti sul debito interno tedesco saranno sterilizzati, con tagli alla spesa pubblica in altre voci;
b) A livello europeo, si accentrano le politiche fiscali nazionali, lanciando un programma di crescita della domanda e di rilassamento fiscale, assieme ad una mutualizzazione dei debiti pubblici nazionali, oppure ad una significativa ristrutturazione di quelli dei Paesi più indebitati. Manco a parlarne: queste cose non le vogliono nemmeno i socialisti europei, e tutto ciò che è stato ottenuto per il prossimo quinquennio è un miserrimo programma di investimenti da 300 miliardi (pari al 3% del totale degli investimenti fissi lordi fatti in un solo anno a livello di area-euro, una goccia nel mare, una presa in giro);
c) Si esce dall’euro (ma non dal mercato unico europeo, né dalle istituzioni della Ue), nel modo più ordinato e concordato possibile. Più nello specifico, ad esempio, si potrebbe costituire una parità centrale fra lira ed euro, con margini di oscillazione ampi (ad esempio, + o – il 20%) e stabilendo un committment politico di lungo periodo, in termini di mantenimento di una disciplina di bilancio pubblico coerente (che non significa austerità, ma solo gestione ordinata e prudenziale dei conti sul versante del solo saldo fra entrate ed uscite correnti, tecnicamente il cosiddetto risparmio pubblico, che dovrebbe rimanere tendenzialmente positivo, senza però stabilire parametri quantitativi, ed abolendo tutti quelli oggi imposti dai Trattati Europei) e di target inflazionistico positivo, ma non eccessivo (dell’ordine del 4-5%) nelle politiche monetarie, ristrutturando al contempo il debito, in modo concordato con le Autorità internazionali, e destinando a riduzione del debito, e non del disavanzo, le imposte patrimoniali già esistenti (come l’imposizione sulla casa, ad esempio). Evidentemente, sarebbero i mercati stessi a punire una deviazione da tale committment.
E’ evidente che, se le prime due strade sono precluse, l’unica strada per evitare di fare la fine del proprietario del pozzo è la terza, cioè l’uscita dall’euro, al di là dei dettagli tecnici che poi fornisco sul “come uscire”, sui quali si può essere o meno d’accordo. Anche perché, continuando su questa strada, la fine dell’euro avverrà per autocombustione, perché è diventato socialmente, prima ancora che economicamente, insostenibile. Ma usciremo in condizioni di degrado degli assetti economici, politici e sociali, molto più gravi di quelle che otterremmo uscendo subito. Siamo come i protagonisti di un film americano, L’Inferno di Cristallo. Se rimaniamo nel palazzo in fiamme, abbiamo la certezza di morire incendiati. Se ci buttiamo fuori, forse moriamo, forse no.

Possibili obiezioni e mia opinione in merito
Qualcuno potrebbe dire: va beh, ma non ci sono le condizioni politiche per uscire dall’euro. La mia risposta è: ci sono allora le condizioni politiche per imporre una delle due summenzionate strategie, la a) o la b)? Direi di no. E’ inutile che continuiamo ad aspettare un Godot, che non arriverà mai, e che cambierà le carte in tavola nella politica europea. Basta guardare a ciò che è successo sinora. Il socialismo europeo non è stato assolutamente in grado di esercitare alcun ruolo significativo in questi anni, di fatto ratificando l’austerità, e respingendo qualsiasi ipotesi, non dico di mutualizzazione dei debiti, ma quantomeno di calmieramento degli interessi sugli stessi (attraverso ipotesi, come il redemption fund, che lo stesso Martin Schulz ha respinto nella sua campagna elettorale). Tale ruolo ancillare del socialismo europeo è arrivato fino al punto di votare la fiducia alla Commissione Juncker senza alcuna traccia di un negoziato programmatico, talché la dialettica politica europea è tutta interna alla destra popolare, fra sostenitori dell’economia sociale di mercato e più ortodossi monetaristi. Una dialettica ovviamente inadeguata a rappresentare la gravità della situazione. E francamente il dibattito in Germania sulla questione è limitato ad ambienti intellettuali o sindacali, che non ricevono attenzione nemmeno dalle componenti più filogovernative dell’Spd. Mentre il suicidio politico dei socialisti francesi, guidati, nonostante mal di pancia inoffensivi e dichiarazioni roboanti e poi smentite dai fatti, dal rigorismo di Hollande e Valls, rende semplicemente impossibile immaginare un asse euromediterraneo anti-austerità. Anche perché l’altra estremità dell’asse dovrebbe essere Renzi. Figuriamoci… In sostanza, se la destra europea non è in grado di offrire altro che miserrimi programmini di investimento, nel quadro della prosecuzione dell’austerità, il socialismo europeo sembra aver esaurito tutte le, pur numerose, opportunità che ha avuto in questi anni per imporre un cambiamento di direzione alle politiche europee.
Altra obiezione: ci rischi enormi di buttarsi fuori dalla finestra. Rischi che peraltro pagherebbero le classi più deboli della società, quelle che la sinistra ha il dovere di tutelare. I rischi tradizionalmente menzionati (inflazione importata) sono stupidaggini. Anzi, ben venisse un po’ di inflazione. La fuga dei capitali può essere contenuta con misure amministrative, e comunque già oggi dal nostro Paese i capitali fuggono in misura molto massiccia.
Il rischio è un altro. I recenti lavori di Brancaccio e Garbellini (2014)[4] mostrano che un’uscita dall’euro avrebbe effetti negativi sulla dinamica dei salari reali e sulla quota dei salari rispetto al PIL, quantificabili, per un Paese come l’Italia, in 4 punti di caduta del salario medio nell’anno della fuoriuscita (però in cinque anni il salario recupera e cresce di 1,7 punti) e in una riduzione di 5 punti della quota salari/reddito nazionale in 5 anni. Ma, ripeto, le stesse classi sociali deboli sono schiacciate, già oggi, anche dalla prosecuzione sine die di un’austerità, più o meno moderata, che promette altri decenni di lenta deriva sociale e stagnazione economica ed occupazionale. Gli stessi Brancaccio e Garbellini, infatti, ci dicono che negli ultimi cinque anni i salari medi lordi reali italiani sono diminuiti di 2,2 punti, per effetto della crisi, e, come ho evidenziato io prima, la quota retribuzioni lorde/PIL è diminuita di 0,7 punti in quattro anni. Quindi, qui si tratta di scegliere fra una morte lenta, ma sicura, ed uno shock che, forse, potrebbe nel medio periodo invertirsi e riportare verso la crescita i salari (come per l ‘appunto nelle stime di Brancaccio). Fra la certezza di un declino lento e la possibilità di invertirlo, seppur dopo uno shock nel breve, io ho pochi dubbi su quale strada scegliere.
E poi si possono immaginare anche i doverosi paracadute, utili a far passare la nottata nella fase di shock da fuoriuscita: sistemi di indicizzazione dei salari, meccanismi di reddito minimo garantito, programmi di edilizia popolare e di lavori di pubblica utilità, interventi di calmieramento dell’aumento del prezzo delle materie prime energetiche importante, panieri alimentari sovvenzionati, ecc. Tutti interventi mirati a sostenere i salari ed il tenore di vita nella fase di fuoriuscita, e quindi a ridurre gli effetti negativi di cui sopra.


[1] S. Tockarick, “A Method for Calculating Export Supply and Import Demand Elasticities”, IMF, WP 10/180, luglio 2010
[2] Nel 2002, l’Italia esportava il 45,1% dei suoi beni nell’area-euro 12; nel 2013, tale quota è scesa al 34,2%.
[3]http://www.linkiesta.it/debito-pubblico-sinn
[4] E. Brancaccio, N. Garbellini, “Uscire o no dall’euro: gli effetti sui salari”, in Economia e Politica, 19 Maggio 2014, rinvenibile su http://www.economiaepolitica.it/distribuzione-e-poverta/uscire-o-non-uscire-dalleuro-gli-effetti-sui-salari-e-sulla-distribuzione-dei-redditi/#.VG2xqK7i3Wi
 

giovedì 25 febbraio 2016

La montagna che partorisce il topo: Renzi e l’Europa

di Riccardo Achilli da l'interferenza

Il Governo italiano, dopo settimane di polemica in solitudine contro la Commissione europea, ha finalmente prodotto un documento di posizione reso pubblico sul suo sito. Un documento che è di sostanziale resa alle filosofie mainstream della Trojka, e che costituisce un debole tentativo di mantenere un protagonismo italiano di facciata, ma sostanzialmente di resa. Detto documento, in estrema sostanza, chiede le cose seguenti:
Una maggiore severità delle procedure di correzione degli squilibri macroeconomici, con riferimento al riassorbimento dell’ingente avanzo di bilancia commerciale della Germania;
Una imprecisata e timida richiesta di rivedere, non si sa come ed in quale misura e da parte di chi, i parametri del patto di stabilità;
Un maggior coordinamento delle politiche fiscali nazionali, tramite il Ministro delle Finanze europeo e lo European Fiscal Board;
Una sorta di scambio di buone pratiche fra gli Stati membri (ovviamente senza fare cenno ad alcuna previa valutazione delle stesse) in materia di riforme strutturali (precarizzazione del mercato del lavoro, liberalizzazioni, smantellamento del ruolo del soggetto pubblico e gli altri ammennicoli neoliberisti);
Un rilancio degli investimenti pubblici tramite non ben precisati strumenti finanziari (si accenna vagamente alla possibilità di emettere bond congiunti, fra Ue e Stati membri) e l’assunto fideistico che i maggiori profitti generati dalle riforme strutturali vadano a finanziare maggiori investimenti privati;
Il completamento dell’unione bancaria, essenzialmente tramite l’anticipazione dell’entrata in funzione del fondo di backstop e l’istituzione della garanzia comune sui depositi bancari, che la Germania non concederà mai, nemmeno se Renzi occupasse Berlino con l’Armata Rossa;
L’ulteriore allargamento del mercato comune, con riferimento al settore energetico ed a quello delle gare pubbliche, nonché al contrasto al dumping fiscale;
Una strategia europea per l’innovazione, che però esiste già, forse a Palazzo Chigi non lo sanno, si chiama Horizon 2020;
Una assicurazione europea contro la disoccupazione ciclica, che per evitare azzardi morali si attiverebbe solo in presenza di rilevanti e duraturi shock ciclici asimmetrici (ovviamente senza nemmeno dare una idea della soglia entro la quale si attiverebbe);
Una preghierina diretta ad aumentare la solidarietà europea nell’affrontare le politiche migratorie, ivi compresa la richiesta di fonti finanziarie specifiche;
L’idea di trasformare l’Esm in una sorta di Fondo Monetario Europeo, ovvero (si presume da come funziona il FMI) che concede prestiti ai Paesi membri indebitati o in squilibrio di bilancia dei pagamenti. Fondamentalmente, nella sostanza già oggi l’Esm è così. A meno che non si pensi che tale istituzione debba emettere una valuta-unità di conto come i DSP del FMI, al fine di finanziare disavanzi di partite correnti intra-euro in caso di carenze di liquidità denominata in euro, ma il documento non lo dice ed è legittimo sospettare che nessuno ci abbia pensato su.

Trascurando quindi le proposte politicamente irrealizzabili oppure del tutto astratte o imprecisate, che hanno il sapore del vago auspicio (come la b, la e o la j) o quelle che riscrivono in termini alati cose che esistono già (come la h e la k) il succo di questa proposta politica non è nient’altro che la riproposizione della direzione delle politiche già in atto dentro la Ue, che tendono ad allargare lo spazio del mercato unico e della concorrenza, a portare avanti le riforme strutturali neoliberiste con un modello sostanzialmente unico, ad imporre un maggior coordinamento delle politiche economiche (ma in questo caso, si noti l’italica furbata: si dice sì ad un Ministro delle Finanze europeo, proposto originariamente dalla Germania, ma sotto la forma dell’alto rappresentante presso la Commissione, cioè un Mr. Pesc dell’economia, che come il mr. Pesc già esistente non conta assolutamente niente, mentre i singoli Ministri economici nazionali mantengono la loro autonomia).

Poiché scrivere qualcosa che chiede sostanzialmente di fare ciò che già si fa potrebbe sembrare, per così dire, leggermente futile, le proposte per così dire più sostanziali sono costituite dalla richiesta di maggiore severità nei confronti del surplus commerciale tedesco, dalle integrazioni sui bail in bancari, e dall’assicurazione europea contro la disoccupazione. Esaminiamo queste tre proposte.

La prima proposta chiede il riassorbimento del surplus commerciale tedesco, e parte dall’assunto per cui un surplus delle partite correnti segnala un eccesso di risparmio. E si tratta di una nota identità contabile. Se Y è il Pil, allora Y = C + I + X, dove C sono i consumi, I gli investimenti e X il saldo delle partite correnti. Pertanto, Y – C – I = X, dove il primo membro dell’equazione non è nient’altro che il risparmio nazionale. Per cui, se gli squilibri di bilancia delle partite correnti vengono riequilibrati, ovvero X=0, si ha la famosa identità contabile (Y – C) = I, ovvero l’eguaglianza fra risparmi ed investimenti, sulla quale la teoria economica neoclassica ha costruito un intero mondo artificiale.

Questo mondo artificiale pretende, in estrema sostanza, che l’unica leva degli investimenti sia data dalla quantità di risparmio nazionale accumulato, per cui per aumentare gli investimenti occorre tagliare la spesa pubblica corrente (che incanala parte del risparmio nazionale nel mantenimento dell’apparato pubblico) e fare una politica fiscale di favore, soprattutto per i redditi più alti, che hanno la maggiore propensione al risparmio (donde la curva di Laffer, la reaganomics che taglia le tasse ai ricchi, ed altre amenità). Di conseguenza, pensano i montiani (e Renzi puntualmente copia) basta eliminare il surplus di risparmio nazionale inutilizzato, segnalato contabilmente dal surplus della bilancia commerciale tedesca, per far ripartire gli investimenti, rimettendolo in circolo e redistribuendolo ai Paesi in disavanzo di bilancia commerciale. Purtroppo, però, il mondo non funziona con le identità contabili. Pierangelo Garegnani, in un paper ripreso nel 2015 dalla Review of Political Economy, spiega con grande chiarezza il perché dell’assenza di relazione fra risparmio ed investimento, amplificando la critica keynesiana originaria. Intanto, indagare su tale relazione ha senso solo nel lungo periodo, perché nel breve, per definizione, gli impianti, e quindi i relativi investimenti, sono fissi, quale che sia lo stock di risparmio; se la domanda di investimento è inferiore allo stock di risparmio di piena utilizzazione degli impianti, avremo I
Di conseguenza, il livello di investimenti è influenzato da una serie di altre variabili, in primis la domanda effettiva di beni anticipata dall’imprenditore (il che incorpora una sua valutazione in termini di aspettative, di animal spirits), poi l’innovazione tecnologica, infine il calcolo atteso di redditività dell’investimento rispetto al suo costo.

Allora, se anche la Germania desse retta a Renzi (per assurdo) e facesse una politica di stimolo alla sua domanda interna per consumi per azzerare il suo avanzo commerciale, via maggiori importazioni e riduzione della competitività-costo delle esportazioni, non necessariamente ciò indurrebbe un aumento degli investimenti nei Paesi membri in deficit. Gli imprenditori di questi Paesi potrebbero decidere di non voler servire il mercato tedesco, potrebbero essere spiazzati da maggiori importazioni della Germania da Stati extra-area euro che coprano la maggiore domanda interna tedesca, l’industria tedesca potrebbe usare la capacità produttiva inutilizzata per coprire la maggiore domanda dei suoi cittadini. Il problema, quindi, non è quello di fare politiche di stimolo della domanda interna per consumi della Germania, ma di stimolare la domanda interna di tutti i Paesi dell’eurozona, ivi compresi quelli in deficit di bilancia dei pagamenti. Anche perché determinate parti del sistema produttivo (quasi tutti i servizi, ad eccezione di alcuni settori, come turismo, trasporti o Ict, gran parte dell’edilizia, le public utilities, il piccolo artigianato, ecc.) hanno mercati di riferimento prettamente localistici, per cui un aumento della domanda interna di consumi tedesca per riequilibrare il suo surplus commerciale non avrebbe effetti su tali segmenti produttivi ed occupazionali negli altri Stati membri. Certo, è plausibile che un aumento degli investimenti interno alla Germania prodotto da una politica fiscale espansiva sui consumi abbia effetti benefici per i produttori italiani di beni intermedi e strumentali che esportano verso la Germania. Ma non sarebbero certo effetti tali da indurre una ripresa economica dell’intera eurozona.

La seconda proposta è ancora più banale. Intanto, una assicurazione europea contro la disoccupazione ciclica, di per sé e senza specificazioni ulteriori, dovrebbe, a rigor di logica, andare a sostituire le assicurazioni nazionali che incidono sulla stessa componente (in Italia, la Cassa Integrazione Straordinaria, che, anche se formalmente i beneficiari sono ancora occupati, funziona spesso da primo ammortizzatore in caso di crisi aziendale, e poi la Naspi). Ma allora, da un punto di vista macroeconomico e sociale, l’impatto netto di un simile provvedimento potrebbe essere nullo o negativo, se va a sostituire sistemi nazionali di pari o maggiore livello di generosità e copertura. Avrebbe solo un effetto sui bilanci pubblici nazionali, peraltro discutibile, perché poi gli stessi Stati membri dovrebbero contribuire a finanziare il sistema europeo.

Viceversa (ma andrebbe specificato, cosa che il documento del Governo si guarda bene dal fare) tale assicurazione potrebbe essere aggiuntiva rispetto ai sistemi nazionali, attivandosi solo in caso di grave crisi economica asimmetrica (che colpisce cioè solo alcuni Stati membri e non altri). Ma qui sorge un problema concettuale. Con la precarizzazione selvaggia dei mercati del lavoro nazionali, l’elasticità dell’occupazione al ciclo è divenuta meno prevedibile che nel passato. Se la legge di Okun, formulata in una epoca in cui il mercato del lavoro era stabile, diceva che occorrono circa tre punti di caduta del Pil per produrre un aumento di un punto della disoccupazione, tale relazione è, numericamente, più intensa, ma anche diversa da Paese a Paese. Perché dipende dal maggiore o minore livello di protezione del lavoro offerto da ogni singola legislazione nazionale: con più rigidità delle regole giuslavoristiche, avremo meno sensibilità dell’occupazione al ciclo, viceversa, dove c’è più precarietà, ci sarà più elasticità. Ne consegue che gli Stati membri con una legislazione del lavoro relativamente più garantista, che in caso di crisi economica subirebbero un incremento della disoccupazione ciclica meno ingente rispetto a quello subito, a parità di caduta del Pil, da Paesi con mercato del lavoro più precario, rivendicherebbero una minore compartecipazione finanziaria al meccanismo europeo di assicurazione contro la disoccupazione ciclica. Perché un principio attuariale fondamentale dice che il premio pagato per una assicurazione deve avere una proporzionalità rispetto all’entità del danno eventuale. I Paesi macroeconomicamente più fragili, quindi più esposti al rischio di uno shock ciclico asimmetrico, e/o con i mercati del lavoro nazionali maggiormente destrutturati e precarizzati, tipo l’Italia e gli altri Piigs mediterranei, tanto per dire, rischierebbero di autofinanziarsi da soli, in larga misura, tale meccanismo, con una partecipazione poco più che simbolica da parte degli Stati membri economicamente più robusti e lavoristicamente più garantisti. Allora tanto varrebbe tenersi meccanismi nazionali.

Ma anche nel caso impossibile in cui ci fosse un principio solidaristico per cui tutti versano quote uguali a tale fondo di assicurazione, l’accresciuta flessibilità della disoccupazione al ciclo economico negativo, mentre essa rimane rigida rispetto ad un ciclo di ripresa, rende meno chiara la distinzione fra disoccupazione ciclica e strutturale. Chi perde il lavoro oggi, nel giro di meno di un anno diventa un disoccupato strutturale, perché la velocità dei cambiamenti delle competenze richieste sui mercati del lavoro determina una rapidissima degradazione degli skill personali, rendendo molto difficile i reinserimento, anche nelle fasi di ripresa. Il senso di una assicurazione contro la disoccupazione ciclica, che ovviamente finisce nel momento in cui il ciclo economico torna ad essere positivo, ne risulta così inficiato. Nella maggior parte dei casi, infatti, i disoccupati creatisi nella fase di declino del ciclo non vengono riassorbiti in tempi ragionevoli in quella ascendente, e quindi continuerebbero ad aver bisogno di un sostegno che, però, è cessato. Il problema vero è che tale meccanismo, come immaginato dal documento del governo italiano, non prevede strumenti di riqualificazione e riorientamento al lavoro necessari per reinserire i disoccupati nelle fasi di ripresa dell’economia. E non lo può prevedere perché manca una agenzia del lavoro europea che faccia questo mestiere, che va dal profiling ed orientamento, alla formazione, fino al collocamento.

Per finire, le timide richieste (peraltro riprese dagli stessi impegni normativi comunitari) di completamento della normativa sull’unione bancaria (anticipazione dell’attuazione del back stop, realizzazione della garanzia europea sui depositi) accettano implicitamente, come tutto il documento, la logica neoliberista delle politiche comunitarie, che nel caso dei salvataggi bancari tratta le banche come qualsiasi altra impresa, prevedendo che in caso di liquidazione le perdite siano coperte da obbligazionisti, azionisti e grandi depositanti. Ed il problema centrale, che il documento non affronta, è proprio che le banche non sono imprese qualsiasi. Se fallisce una impresa molto grande che produce bulloni, ci saranno effetti sociali, ma non crolla l’intera economia. Se fallisce una grande banca, tramite l’interbancario produce una crisi di liquidità sull’intero sistema, facendo crollare il circuito dei pagamenti, e creando una crisi trasversale a carico di tutti quelli che hanno bisogno di denaro, cioè dell’intero sistema economico. Inoltre, per i lfatto di custodire i depositi del pubblico, le banche esercitano anche una funzione di pubblico interesse. Ciò implica che le banche in crisi vadano nazionalizzate (come ha fatto con le due banche ipotecarie Freddie Mac e Fanny Mae, seppure per il breve periodo necessario per risanarle, persino l’Amministrazione statunitense, il Paese del libero mercato). Per preservare il sistema e tutelare la loro funzione pubblica. Il bail in non fa che creare una crisi di fiducia degli investitori nelle banche, e quindi si riflette negativamente sull’intero sistema creditizio.

Nella sostanza, il documento del Governo italiano, soprattutto dopo i fuochi d’artificio delle polemiche delle settimane scorse, appare debole e subordinato. Non prefigura alcuna innovazione significativa, non fornisce alcuna risposta che sia minimamente all’altezza della crisi enorme dell’Unione Europea, limitandosi a riaffermare una sostanziale subordinazione alle filosofie di politica economica europea, formulando auspici generici di cambiamento, o chiedendo piccole e poco incisive riforme senza mettere in discussione il quadro generale. Che è quello che ha creato la recessione e la deflazione, che è quello che ci tiene intrappolati nella disperazione. Al di là dei singoli punti del documento, una iniziativa politica in sede europea non può chiedere qualche marchingegno o qualche tecnicismo. Deve rimettere in discussione il paradigma generale, di tipo liberista, e chiedere un cambiamento di direzione radicale, e generalizzato.

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...