sabato 23 settembre 2017

Per una Sinistra di Nuovo Grande

di William Mitchell e Thomas Fazi (da American Affairs)
traduzione di Domenico D'Amico



Attualmente l'Occidente si trova nel bel mezzo di una ribellione contro l'establishment, una ribellione di proporzioni storiche. Il voto sulla Brexit nel Regno Unito, l'elezione di Donald Trump negli Stati Uniti, il rifiuto della riforma costituzionale neoliberista di Matteo enzi in Italia, l'inopinata crisi di legittimità dell'Unione Europea – per quanto questi fenomeni, pur correlati, differiscano quanto a fini e motivazioni ideologiche, rappresentano tutti il rifiuto dell'ordine (neo)liberista che ha dominato il mondo, particolarmente l'Occidente, negli ultimi trent'anni.
Anche se il sistema si è dimostrato capace (per lo più) di assorbire e neutralizzare simili agitazioni elettorali, nell'immediato non ci sono segni che questa rivolta contro l'establishment possa placarsi. (1) Nel mondo industrializzato il consenso per i partiti anti-establishmant è al suo massimo dagli anni 30, e continua a crescere. (2) Contemporaneamente, il sostegno per i partiti maggiori, inclusi quelli di tradizione socialdemocratica, è crollato. Le cause immediate di questa reazione avversa sono piuttosto ovvie. La crisi finanziaria del 2007-2009 ha posto sotto gli occhi di tutti la terra bruciata che il neoliberismo lascia dietro di sé, per nascondere la quale le élite hanno fatto grandi sforzi, sia materialmente (tramite la finanziarizzazione) sia ideologicamente (tramite i richiami alla “fine della Storia”). Mentre il credito si esauriva, diventava evidente che per anni l'economia aveva continuato a crescere perché le banche stavano distribuendo, per mezzo del debito, il potere di acquisto che l'impresa non forniva col salario. Per parafrasare Warren Buffett, l'abbassamento della marea sollevata dal debito ha rivelato che quasi tutti, di fatto, stavano nuotando nudi.
La situazione, ieri come oggi, si è aggravata ulteriormente a causa delle politiche di austerità e di deflazione salariale perseguite dopo la crisi da molti governi occidentali, particolarmente quelli europei. Questi governi hanno visto nella crisi l'opportunità di imporre un regime neoliberista ancora più drastico, e di perseguire politiche delineate per compiacere il settore finanziario e le classi abbienti, a spese di chiunque altro. Per cui il progetto (ancora da portare a termine) a base di privatizzazioni, deregolamentazioni e tagli allo stato sociale, è stato rilanciato con rinnovato rigore.
In un contesto di crescente insoddisfazione popolare, disordini sociali e disoccupazione di massa in molti paesi europei, le élite politiche di entrambe le sponde dell'Atlantico hanno risposto con argomentazioni e politiche in continuità col passato. Come risultato, il contratto sociale che lega i cittadini ai tradizionali partiti di governo è più a rischio oggi di quanto lo sia mai stato dai tempi della II Guerra Mondiale – e in alcuni paesi è probabilmente già saltato.

Il Declino della Sinistra
Anche limitando il raggio della nostra analisi al periodo postbellico, movimenti e partiti anti-sistema non sono una novità in Occidente. Almeno fino agli anni 80, l'anticapitalismo rimaneva una forza rilevante con cui si doveva fare i conti. La novità è che oggi – a differenza di venti, trenta o quaranta anni fa – sono movimenti e partiti di destra ed estrema destra (insieme a nuove formazioni del neoliberista “estremo centro”, come il partito La République en Marche del neo-presidente francese Emmanuel Macron) a guidare la rivolta. Messi insieme, destra ed “estremo centro” sopravanzano di gran lunga movimenti e partiti di sinistra, sia in termini di forza elettorale sia in termini di influenza sull'opinione pubblica. A parte poche eccezioni, nella maggior parte dei paesi i partiti di sinistra – vale a dire quelli a sinistra dei tradizionali partiti socialdemocratici – sono relegati ai margini dello spettro politico. Contemporaneamente, paese europeo dopo paese europeo, le tradizionali forze socialdemocratiche vengono “pasokizzate” - cioè ridotte all'irrilevanza parlamentare, alla pari di molte delle loro controparti di centro-destra, per via della loro adesione al neoliberismo e all'incapacità di offrire credibili alternative allo status quo. (Il termine “pasokizzato” si riferisce al partito socialdemocratico greco PASOK, praticamente spazzato via nel 2014 come conseguenza della sua inetta gestione della crisi debitoria della Grecia, dopo aver dominato la scena politica per più di trent'anni). Un destino analogo si è abbattuto su molti ex giganti dell'establishment socialdemocratico, quali il Partito Socialista francese e il Partito Laburista olandese (PvdA). Il consenso dei partiti socialdemocratici è oggi al livello più basso degli ultimi settant'anni – e la discesa continua. (3)
Come dovremmo spiegarci il declino della Sinistra – non soltanto il declino elettorale di quei partiti che sono comunemente associati all'ala sinistra dello spettro politico, a prescindere dal loro effettivo orientamento politico, ma anche il declino dei valori fondamentali della Sinistra sia nei partiti sia nella società in generale? Come mai la Sinistra anti-establishment si è finora dimostrata incapace di riempire il vuoto provocato dal crollo della Sinistra di potere [establishment Left]? Più in generale, com'è giunta la Sinistra a contare così poco nella politica globale? È possibile per la Sinistra, sia culturalmente sia politicamente, tornare a essere una forza di primo piano nella nostra società? E nel caso, in qual modo?
In questi ultimi anni la Sinistra ha fatto qualche progresso in alcuni paesi. Esempi significativi includono Bernie Sanders negli Stati Uniti, il partito Podemos in Spagna e Jean-Luc Mélenchon in Francia, così come l'ascesa al potere di Syriza in Grecia (prima che venisse rapidamente rimessa in riga dall'establishment europeo). Tuttavia è innegabile che, per lo più, i movimenti e partiti di estrema destra siano stati più efficaci di quelli di sinistra o progressisti nell'attingere al malcontento di masse diseredate, marginalizzate, impoverite ed espropriate dalla quarantennale lotta di classe scatenata dalle classi dominanti. In particolare, queste sono le sole forze capaci di fornire una risposta (più o meno) coerente alla diffusa – e crescente – aspirazione a una maggiore sovranità territoriale o nazionale. Questa esigenza viene vista sempre di più come l'unico modo, in mancanza di un reale meccanismo rappresentativo sovranazionale, per riconquistare un qualche grado di controllo collettivo su politica e società, e in particolare sui flussi di capitale, sugli scambi e sulle persone che formano il nucleo della globalizzazione neoliberista.
Data la guerra che il neoliberismo ha condotto contro la sovranità, non dovrebbe sorprenderci che “la sovranità [sia] diventata lo schema dominante [master frame] [1] della politica contemporanea,” come nota Paolo Gerbaudo. (4) Dopotutto, lo svuotamento della sovranità nazionale e le restrizioni al meccanismo della democrazia popolare – ciò che si è definito come depoliticizzazione – è stato un elemento essenziale del progetto neoliberista, mirante a proteggere le politiche macroeconomiche dalla contestazione popolare, e a rimuovere qualsiasi ostacolo si opponesse agli scambi economici e ai flussi finanziari. Dati gli effetti nefasti della depoliticizzazione, è del tutto naturale che la rivolta contro il neoliberismo debba primariamente e principalmente assumere la forma di una richiesta impellente di ripoliticizzazione dei processi decisionali nazionali.
Il fatto che alcune visioni della sovranità nazionale si configurino per linee etniche, esclusiviste e autoritarie, non dovrebbe essere visto come incriminante per la sovranità nazionale in se stessa. La storia dimostra che la sovranità nazionale e l'autodeterminazione nazionale non sono intrinsecamente concetti reazionari e sciovinisti – di fatto, essi sono stati il grido di battaglia di innumerevoli movimenti di liberazione, socialisti e di sinistra, nel XIX e XX Secolo.
Anche limitando la nostra analisi ai maggiori paesi capitalisti, è evidente che in pratica tutti i maggiori progressi sociali, economici e politici dei secoli passati sono stati ottenuti tramite le istituzioni dello stato-nazione democratico, e non per mezzo di istituzioni multilaterali, internazionali o sovranazionali. Anzi, le istituzioni globali sono state variamente utilizzate per far regredire quelle medesime conquiste, come abbiamo visto nel contesto della crisi dell'Euro, durante la quale istituzioni sovranazionali (che non rispondono a nessuno) come la Commissione Europea, l'Eurogruppo e la Banca Centrale Europea hanno usato il loro potere e la loro autorità per imporre una rovinosa austerità a paesi in difficoltà. Il problema, per farla breve, non è la sovranità in quanto tale, ma il fatto che questo concetto sia stato abbandonato nelle mani di chi cerca di imporre un progetto xenofobico e identitario. Sarebbe perciò un grave errore liquidare la seduzione del “Trumpenproletariat” da parte dell'Estrema Destra come un caso di falsa coscienza, come osserva Marc Saxer. (5) Le classi lavoratrici si stanno semplicemente rivolgendo agli unici (finora) movimenti e partiti che promettono loro un minimo di riparo dai venti brutali della globalizzazione neoliberista. Che intendano davvero mantenere simili promesse, questo è un altro discorso. A ogni modo, ciò fa sorgere un interrogativo ancora più grande: perché la Sinistra non è stata capace di offrire alle classi lavoratrici e alle classi medie sempre più proletarizzate un'alternativa credibile al neoliberismo e alla globalizzazione neoliberista? Più di preciso, perché non è stata capace di sviluppare una visione progressista della sovranità nazionale? Come diciamo nel nostro libro di imminente uscita, Reclaiming the State: A Progressive Vision of Sovereignty for a Post-Neoliberal World (Pluto, Settembre 2017), le ragioni sono tante e intrecciate tra loro. Per cominciare, è importante comprendere che l'attuale crisi esistenziale della Sinistra ha profonde radici storiche, risalenti almeno fino a anni 60. Se vogliamo capire lo sbandamento della Sinistra, è da qui che la nostra analisi deve iniziare.

La Fine dell'Era Keynesiana
Oggi molti a Sinistra magnificano l'era “keynesiana” del secondo dopoguerra come un'età dell'oro in cui i lavoratori organizzati, insieme a pensatori e politici illuminati (come lo stesso Keynes) furono capaci di imporre ai capitalisti recalcitranti un “compromesso di classe” portatore di un progresso sociale mai visto prima – che però è stato in seguito rintuzzato dalla cosiddetta controrivoluzione neoliberista. Se ne è dedotto, quindi, che per sconfiggere il neoliberismo basterebbe che un numero sufficiente di appartenenti all'establishment adottasse un ordine di idee alternativo [al loro]. Tuttavia, l'ascesa e declino del keynesismo non si può spiegare semplicemente considerando il potere della classe lavoratrice o la vittoria di un'ideologia sull'altra, ma dovrebbe essere vista come il risultato della convergenza fortuita, nel secondo dopoguerra, di una serie di condizioni sociali, ideologiche, politiche, economiche, tecniche e istituzionali.
Non facendolo, si commetterebbe lo stesso errore che in molti, a Sinistra, commisero nell'immediato dopoguerra. Non riuscendo a valutare fino a che punto il compromesso di classe alla base del sistema fordista-keynesiano fosse, di fatto, elemento fondamentale di quello specifico (storicamente) regime di accumulazione, molti socialisti di quel periodo si convinsero “di aver fatto più del dovuto nel modificare l'equilibrio del potere di classe e la relazione tra stato e mercato”. (6) In linea con questo ragionamento, ignorarono il fatto che la classe capitalista aveva attivamente sostenuto il compromesso di classe solo nella misura in cui era funzionale al profitto, e che perciò, una volta cessata la sua utilità, l'avrebbe rigettato. Alcuni affermavano perfino che il mondo industrializzato fosse già entrato in una fase postcapitalista, nella quale tutti gli aspetti caratteristici del capitalismo erano scomparsi per sempre, grazie a una fondamentale traslazione di potere a favore del lavoro e a svantaggio del capitale, e dello stato a svantaggio del mercato. Inutile dirlo, le cose non stavano affatto così. In aggiunta, il monetarismo – precursore ideologico del neoliberismo – aveva cominciato a diffondersi nelle concezioni politiche della Sinistra sin dai tardi anni 60.
In tal modo, nella Sinistra furono in molti a trovarsi sprovvisti degli strumenti teorici necessari per comprendere contrastare adeguatamente la crisi capitalistica che negli anni travolse il modello keynesiano. Si convinsero invece che la lotta distributiva sorta a quell'epoca si potesse risolvere all'interno dei limiti angusti del sistema socialdemocratico. La verità era che il conflitto capitale-lavoro riemerso negli anni 70 si sarebbe potuto risolvere solo in due modi: dalla parte del capitale, attraverso una riduzione del potere contrattuale del lavoro, o dalla parte del lavoro, attraverso un estensione del controllo dello stato su produzione e investimenti. Come mostriamo in Reclaiming the State, riguardo l'esperienza dei governi socialdemocratici britannici e francesi degli anni 70 e 80, la Sinistra non ebbe la volontà di percorrere questa strada. L'unica scelta rimasta fu quella di “gestire la crisi del capitale per conto del capitale”, come scriveva Stuart Hall, legittimando ideologicamente e politicamente il neoliberismo come unica soluzione per la sopravvivenza del capitalismo. (7)
Da questo punto di vista, il governo britannico del laburista James Callaghan (1976-1979) reca gravi responsabilità. In un famoso (o famigerato) discorso del 1976 Callaghan giustificava il programma governativo di tagli alla spesa e moderazione salariale dichiarando che il keynesismo era morto, legittimando indirettamente l'emergente dogma monetarista (neoliberista) e creando di fatto le condizioni perché l'“austerity lite” [austerità moderata] del Partito Laburista venisse rimodulata da Margarett Tatcher in un assalto totale alla classe lavoratrice. Forse ancora peggio, Callaghan rese popolare il concetto che l'austerity fosse l'unica soluzione per la crisi degli anni 70, anticipando il mantra “non ci sono alternative” [there is no alternative (TINA)] di Tatcher, sebbene al tempo alternative radicali esistessero, come quelle proposte da Tony Benn e altri. Ma queste, tuttavia, “nella comune percezione non esistevano più” [no longer perceived to exist]. (8)
In questo senso, lo smantellamento del sistema keynesiano postbellico non può essere spiegato semplicemente come la vittoria di un'ideologia (“neoliberismo”) su un'altra (“keynesismo”), ma interpretato come la risultanza di numerosi, e intrecciati, fattori ideologici, economici e politici: la risposta dei capitalisti al calo dei profitti e alle implicazioni politiche delle strategie per la piena occupazione, i difetti strutturali del “keynesismo reale” [actually existing keynesism]; e la significativa incapacità della Sinistra di proporre una risposta coerente alla crisi del sistema keynesiano, men che meno un'alternativa radicale.

La Globalizzazione e lo Stato
Oltretutto, lungo gli anni 70 e 80, un nuovo (ed errato) concetto condiviso a sinistra cominciò a concretizzarsi nel contesto dell'internazionalizzazione economica e finanziaria – quella che oggi chiamiamo “globalizzazione” - e rese lo stato sempre più impotente rispetto alle “forze del mercato”. Ne conseguiva, questo il ragionamento, che le nazioni non avevano quasi altra scelta che abbandonare le strategie economiche nazionali e qualsiasi strumento tradizionale di intervento nell'economia – imposte e altre barriere commerciali, controllo del capitale, manipolazione di valute e tassi di scambio, politiche fiscali e politiche legate alle banche centrali. Al massimo, avrebbero potuto solo sperare in forme di gestione economica transnazionali o sovranazionali. In altre parole, l'intervento dei governi nell'economia veniva visto non solo come inefficace ma, sempre di più, come del tutto impossibile. Tale processo – generalmente (ed erroneamente) descritto come passaggio dallo stato al mercato – era accompagnato da un attacco feroce contro la stessa idea di sovranità nazionale, sempre più denigrata come reliquia del passato. Come scriviamo in Reclaiming the State, la Sinistra – in particolare la Sinistra europea – in queste vicende ha giocato anch'essa un ruolo essenziale, rafforzando la migrazione ideologica verso una visione del mondo post-nazionale e post-sovranità, spesso in anticipo sulla Destra. Al riguardo, uno dei punti di svolta più consequenziali fu, nel 1983, la svolta verso l'austerità di François Mitterrand – il cosiddetto tournant de la rigueur – appena due anni dopo la storica vitoria elettorale socialista del 1981. L'elezione di Mitterand fece credere a molti che una rottura radicale col capitalismo – almeno con la sua forma estrema affermatasi nei paesi anglosassoni – fosse ancora possibile. Giunti al 1983, comunque, i socialisti francesi erano riusciti a “dimostrare” l'esatto contrario: che la globalizzazione neoliberista era una realtà inevitabile e ineluttabile. Secondo le parole di Mitterand: “Ormai la sovranità nazionale non significa più granché, né possiede un ruolo apprezzabile nella moderna economia globale. (…) È indispensabile un alto grado di sovranazionalità”. (9)
Le ripercussioni del voltafaccia di Mitterand sono percepibili tutt'oggi. Intellettuali progressisti e di sinistra insistono spesso che quella svolta fosse prova del fatto che la globalizzazione e l'internazionalizzazione della finanza avesse posto fine all'era dello stato-nazione e alla sua capacità di perseguire politiche che non siano in consonanza coi diktat del capitale globale. Il concetto è questo: se un governo cerca autonomamente di perseguire la piena occupazione e un piano progressista e redistributivo, inevitabilmente verrà punito dalle forze anonime del capitale globale. Si pretende che Mitterand non avesse altra scelta che abbandonare i suoi progetti di riforme radicali. Per molti sinistrorsi di oggi, Mitterand rappresenta quindi un politico pragmatico consapevole delle forze capitalistiche globali cui doveva far fronte, e abbastanza responsabile da fare quel che era giusto per la Francia.
In realtà, uno stato sovrano che emetta moneta – come la Francia degli anni 80 – lungi dall'essere inerme dinanzi al capitale globale, possiede ancora la capacità di fornire ai propri cittadini piena occupazione e giustizia sociale. Quindi, com'è riuscita l'idea della “morte dello stato” a mettere radici così profonde nella coscienza collettiva? A questa visione postnazionale del mondo era (è) sottesa l'incapacità da parte del personale intellettuale e politico della Sinistra di comprendere – e in qualche caso il tentativo di nascondere – che la “globalizzazione” non era (non è) il risultato di cambiamenti economici e tecnologici inesorabili, ma in gran parte il prodotto di processi gestiti dallo stato. Tutti gli elementi che associamo alla globalizzazione neoliberista – delocalizzazione, deindustrializzazione, libero flusso di merci e capitali eccetera – sono stati (e sono), nella maggior parte dei casi, il risultato di scelte fatte dai governi. Più in generale, gli stati continuano a svolgere un ruolo cruciale nel promuovere, garantire e sostenere la struttura neoliberista internazionale (per quanto le cose sembrino in via di cambiamento) e insieme creare le condizioni interne che permettono all'accumulazione globale di prosperare.
La medesima cosa si può affermare per il neoliberismo tout court. È convinzione diffusa – particolarmente a sinistra – che il neoliberismo abbia implicato (anche oggi) una “marcia indietro”, uno “svuotamento” o “esaurimento” dello stato, il che a sua volta ha rafforzato il concetto che attualmente lo stato sia stato “sopraffatto” dal mercato. Tuttavia, uno sguardo più attento noterà che il neoliberismo non ha comportato un'uscita di scena dello stato quanto piuttosto una sua riconfigurazione, mirata a porre il timone della politica economica “nelle mani del capitale, e principalmente degli interessi finanziari”, come scrive Stephen Gill. (10)
È lapalissiano, dopotutto, che il processo neoliberista non sarebbe stato possibile se i governi – e in particolare quelli socialdemocratici – non fossero ricorsi a tutta una panoplia di strumenti per promuoverlo: la liberalizzazione di merci e flussi di capitale; la privatizzazione di risorse e servizi sociali; la deregolamentazione delle attività d'impresa, e dei mercati finanziari in particolare; la riduzione dei diritti dei lavoratori (primo e più importante, il diritto alla contrattazione collettiva) e, più in generale, la repressione dell'attivismo sindacale; la riduzione delle tasse sulla ricchezza e sul capitale, a spese dei lavoratori e della classe media; la decimazione dei programmi sociali, e via e via. Queste politiche sono state sistematicamente perseguite in tutto l'Occidente (e imposte ai paesi in via di sviluppo) con inedita determinazione, e col sostegno di tutte le maggiori istituzioni internazionali e dei principali partiti politici.
Perfino la perdita di sovranità nazionale invocata nel passato, come lo è tuttora, per giustificare le politiche neoliberiste, è in gran parte il risultato di una volontaria e cosciente limitazione dei diritti sovrani degli stati da parte delle varie élite nazionali. A questo scopo, le svariate politiche adottate dai paesi occidentali includono: (1) ridurre il potere dei parlamenti, a fronte di quella delle burocrazie di governo; (2) rendere le banche centrali indipendenti dai governi, col fine dichiarato di sottomettere questi ultimi a una “disciplina basata sul mercato”; adottare una politica focalizzata sull'inflazione come strategia principale delle banche centrali – un approccio che mette in primo piano una bassa inflazione come principale obbiettivo della politica monetaria, escludendo altri obbiettivi quali, ad esempio, la piena occupazione; adottare regole limitatrici dell'azione politica – sulla spesa pubblica, sulla proporzione debito-PIL, sulla concorrenza eccetera – in modo da limitare quello che i politici possono fare su mandato dei loro elettori; (5) subordinare i settori di spesa al controllo delle tesorerie; (6) riadottare tassi di scambio fissi, che limitano gravemente la capacità dei governi di esercitare il controllo sulla politica economica; e infine, cosa forse più importante, (7) cedere prerogative nazionali nelle mani di istituzioni sovranazionali e burocrazie interstatali quali l'Unione Europea.
La ragione per cui i governi sceglievano volontariamente di “legarsi le mani” è fin troppo chiara: come esemplifica il caso europeo, la creazione di “vincoli esterni” autoimposti ha permesso alle classi politiche nazionali di ridurre il costo politico della transizione neoliberista – che implicava ovviamente politiche impopolari – dando la colpa a regole prestabilite e a istituzioni internazionali “indipendenti”, che a loro volta venivano presentate come il risultato inevitabile delle nuove, crude realtà della globalizzazione.

Lo Statalismo del Neoliberismo
Inoltre, il neoliberismo è stato (ed è) associato a varie forme di autoritarismo di stato – quindi il contrario dello stato minimo invocato dai neoliberisti – dato che gli stati hanno rinforzato il settore securitario e poliziesco, componente di una generale militarizzazione della gestione delle manifestazioni di protesta. In altre parole, non solo la politica economica neoliberista richiede la presenza di uno stato forte, ma addirittura di uno stato autoritario sia a livello nazionale sia internazionale, in particolar modo quando si tratta di forme estreme di neoliberismo, come quelle sperimentate dai paesi periferici. In questo senso, l'ideologia neoliberista, almeno nelle sue vesti antistataliste, dovrebbe essere considerata come un mero, conveniente alibi per quello che è stato, ed è, un progetto essenzialmente politico e statale. Il capitale rimane dipendente dallo stato tanto oggi quanto al tempo del keynesismo – per tenere sotto controllo le classi lavoratrici, salvare grandi imprese che altrimenti finirebbero in bancarotta, aprire mercati in altri paesi (utilizzando a volte l'intervento militare) eccetera. L'ironia suprema, o chiamiamola indecenza, è che i partiti della Sinistra tradizionale, sia al governo sia all'opposizione, sono diventati i portabandiera del neoliberismo.
Nei mesi e anni seguenti al crollo finanziario del 2007-2009, la perenne dipendenza del capitale – e del capitalismo – la dipendenza dallo stato in un'era neoliberista è diventata vistosamente evidente, visto che i governi degli Stati Uniti, Europa e altrove hanno tratto in salvo le rispettive istituzioni finanziarie a colpi di bilioni di dollari. Eppure a quel tempo nessun importante opinionista ha strillato “E i soldi da dove si prendono?” Ben presto, comunque, quegli stessi soggetti, alcuni dei quali diretti beneficiari dei provvedimenti di salvataggio, sono tornati al solito ritornello, ammonendoci che i governi sono in bancarotta, che i nostri nipoti saranno stritolati dal crescente peso del debito pubblico, e che l'iperinflazione è in agguato. Successivamente alla cosiddetta crisi dell'euro del 2010, in Europa tutto questo è stato accompagnato da un assalto su tutti i fronti contro il modello socioeconomico europeo del dopoguerra, con l'obbiettivo di ristrutturare e riprogettare le società e le politiche europee secondo linee maggiormente favorevoli al capitale. Una tale riconfigurazione radicale delle società europee – che, lo ripetiamo, ha visto in prima linea i governi socialdemocratici – non si basa su un arretramento dello stato rispetto al mercato, ma piuttosto da una ri-intensificazione dell'intervento statale a favore del capitale. (11)
Nondimeno, l'idea erronea del declino dello stato-nazione è diventata ormai elemento integrante [entrenched fixture] della Sinistra. Visto quanto sopra, non sorprende affatto che le maggiori formazioni di sinistra siano oggi del tutto incapaci di offrire una concezione positiva della sovranità nazionale che si contrapponga alla globalizzazione neoliberista. A peggiorare ulteriormente la situazione, molti a sinistra si sono bevuti le favole macroeconomiche che l'establishmant utilizza per scoraggiare qualsiasi uso alternativo delle misure fiscali dello stato. Ad esempio, hanno accettato senza fare domande la cosiddetta analogia del “bilancio familiare”, che sostiene che i governi emittenti valuta, come un nucleo familiare, hanno limiti finanziari ineludibili [are financially constrained], e che un deficit fiscale diventa un carico rovinoso per le future generazioni.

Dall'Emancipazione alla Ratificazione dello Status Quo
Tutto ciò procede di pari passo con un altro, parimenti tragico, sviluppo. Dopo la sua storica sconfitta, la tradizionale attenzione anticapitalista della Sinistra verso il concetto di classe ha lasciato il campo a una versione liberal-individualista dell'emancipazione. Soggiogati dalle teorie postmoderniste e poststrutturaliste, gli intellettuali della Sinistra hanno abbandonato le categorie marxiane di classe per concentrarsi invece su elementi del potere politico sull'uso di linguaggio e narrazioni come mezzo per consolidare i significati. Questo cambio di rotta ha anche delineato nuove aree di lotta politica che sono diametralmente opposte a quelle descritte da Marx. Negli ultimi trent'anni l'attenzione della Sinistra si è spostata dal “capitalismo” a questioni come il razzismo, la politica di genere, l'omofobia, il multiculturalismo eccetera. La marginalità non viene più descritta in termini di classe ma in termini di identità. La lotta contro l'illegittima egemonia della classe capitalista ha lasciato il campo alle lotte di una varietà di gruppi e minoranze (più o meno) oppresse e marginalizzate: donne, neri, LGBTQ eccetera. Il risultato è che la lotta di classe ormai non viene più vista come la via per la liberazione.
In questo mondo postmodernista, solo le categorie che trascendono i confini tra le classi vengono considerate rilevanti. In aggiunta, le istituzioni sviluppatesi per difendere i lavoratori contro il capitale – come sindacati e partiti socialdemocratici – sono ormai succubi di questi obbiettivi estranei alla lotta di classe [non-class struggle foci]. Come osserva Nancy Fraser, il risultato che è emerso, praticamente in tutti i paesi occidentali, è una perversa consonanza politica tra “le correnti principali dei nuovi movimenti sociali (femminismo, antirazzismo, multiculturalismo e diritti LGBTQ) da una parte, e dall'altra i settori imprenditoriali di servizi 'simbolici' e di fascia alta (Wall Street, Silicon Valley e Hollywood)”. (12) Il risultato è un progressismo neoliberista “che mette insieme ideali ridimensionati di emancipazione e forme letali di finanziarizzazione,” con i primi che prestano il loro carisma a queste ultime.
Man mano che la società si è andata dividendo sempre di più tra una classe urbanizzata, socialmente progressista, cosmopolita, ben educata, altamente mobile e specializzata, e una classe periferica, a bassa specializzazione, di bassa cultura, che lavora di rado all'estero e che affronta la concorrenza degli immigrati, la Sinistra di governo ha costantemente preso le parti della prima. In effetti, il divorzio tra le classi lavoratrici e la Sinistra intellettuale e culturale può essere considerato uno dei principali motivi dietro la ribellione di destra che investe attualmente l'Occidente. Come ha affermato Jonathan Haidt, il modo in cui le élite urbane globaliste parlano e agiscono innesca involontariamente le tendenze autoritarie di una frangia di nazionalisti. (13) In quest'orribile circolo vizioso, tuttavia, più le classi lavoratrici si volgono verso populismi e nazionalismo di destra, più la Sinistra intellettual-culturale moltiplica le sue fantasie liberali e cosmopolite, esacerbando ancora di più l'etnonazionalismo del proletariato.
Ciò è particolarmente evidente nel dibattito politico europeo in cui, nonostante gli effetti disastrosi di Unione Europea e unione monetaria, la Sinistra di governo – appellandosi spesso ai medesimi argomenti utilizzati più di una generazione addietro da Callaghan e Mitterand – resta aggrappata a simili istituzioni. A dispetto di ogni prova del contrario, la Sinistra di governo afferma che queste istituzioni possono essere riformate in chiave progressista, e rifiuta ogni argomentazione a favore di una nuova agenda progressista basata su una ritrovata sovranità nazionale, bollandola come un “arretramento su posizioni nazionaliste”, destinate inevitabilmente a far precipitare il continente in un fascismo stile anni 30. (14) Una tale posizione, per irrazionale che sia, non desta sorpresa, considerando che, dopotutto, l'unione monetaria europea è un'idea partorita dalla Sinistra europea. Tuttavia, questa posizione presenta numerosi problemi, che in definitiva hanno la loro radice nell'incapacità di comprendere l'autentica natura dell'Unione Europea e dell'unione monetaria. Per prima cosa, si ignora il fatto che la costituzione politica e l'economia dell'UE sono strutturate proprio per ottenere i risultati che abbiamo sotto gli occhi: l'erosione della sovranità popolare, il massiccio trasferimento della ricchezza dalle classi medie e basse a quelle dominanti, l'indebolimento della classe lavoratrice, e più in generale l'arretramento delle conquiste democratiche e socioeconomiche ottenute nel passato dalle classi subordinate. L'UE è progettata appositamente per impedire quel tipo di riforme radicali a cui aspirano i progressisti integrazionisti e federalisti.
Ancora più importante è il fatto che queste posizioni riducono la Sinistra al ruolo di difensore dello status quo, permettendo in tal modo alla Destra politica di monopolizzare le legittime rimostranze anti-sistema (e specificamente anti-UE) dei cittadini. Questo significa cedere alla Destra e all'estrema Destra la lotta discorsiva e politica per l'egemonia post-neoliberismo. Non è arduo accorgersi che se un cambiamento in chiave progressista si può attivare solo al livello globale o europeo – in altri termini, se l'alternativa offerta all'elettorato è tra un nazionalismo reazionario e un progressismo globalista – allora per la Sinistra la battaglia è persa in partenza.

Rivendicare lo Stato
Non dev'essere così per forza, tuttavia. Come spieghiamo in Reclaiming the State, una visione progressista, emancipazionista della sovranità nazionale radicalmente alternativa a quelle della Destra e dei neoliberisti – una visione basata sulla sovranità popolare, sul controllo democratico dell'economia, sul pieno impiego, la giustizia sociale, una redistribuzione dai ricchi verso i poveri, una politica di inclusione, e più in generale la trasformazione socio-ecologica della società e della produzione – una tale visione è possibile. È anzi indispensabile. Come scrive J. W. Mason:
“Qualsiasi ordinamento [sovranazionale] si possa immaginare in linea di principio, l'applicazione concreta degli apparati di sicurezza sociale, delle leggi sul lavoro, della protezione dell'ambiente e della redistribuzione della ricchezza avviene a livello nazionale, ed è perseguita da governi nazionali. Per definizione, ogni lotta mirante alla conservazione la democrazia sociale di oggi è una lotta per difendere le istituzioni nazionali.” (15)
In modo analogo, la lotta per difendere la sovranità democratica contro l'offensiva della globalizzazione neoliberista è l'unica base su cui si possa rifondare la Sinistra, sfidare la Destra nazionalista e ricucire lo strappo tra la Sinistra e la sua “naturale” base sociale – i diseredati. A questo fine, la Sinistra deve anche abbandonare la sua ossessione per le politiche identitarie e recuperare un “concetto di emancipazione più allargato, antigerarchico, egualitario, di classe e anticapitalistico” che un tempo era il suo marchio di fabbrica. Simili priorità, ovviamente, non sono in contraddizione con le lotte contro il razzismo, il patriarcato, la xenofobia e altre forme di oppressione e discriminazione. (16) Abbracciare una concezione progressista della sovranità significa anche lasciarsi alle spalle i tanti falsi miti macroeconomici che affliggono i pensatori progressisti e di sinistra. Come abbiamo già affermato, uno dei miti più diffusi e persistenti è il presupposto che i governi siano schiavi delle loro entrate. Dando credito a simili miti, la Sinistra è diventata incapace di concepire alternative radicali. E tuttavia, è proprio di alternative radicali che c'è bisogno. Come ha osservato di recente Perry Anderson: “Per i movimenti anti-sistema della Sinistra in Europa” - come altrove, del resto - “la lezione di questi ultimi anni è chiara. Se non vogliono farsi sorpassare dai movimenti di destra, non possono permettersi di essere meno radicali nell'attaccare il sistema, e in questa opposizione devono essere coerenti.” (17) In altre parole, la Sinistra deve tornare a essere radicale. In Reclaiming the State illustriamo quelli che riteniamo i requisiti necessari – in termini teorici, politici e istituzionali – per la creazione di una concezione all'interno della quale il perseguimento di un progetto socialmente ed economicamente progressista sia tecnicamente possibile. Questo è ciò che è necessario:

  1. Una concezione corretta delle capacità dei governi monetariamente sovrani (o comunque emittenti valuta), e più specificamente la consapevolezza che simili governi non sono mai vincolati alle entrate e alla solvibilità, dato che emettono la loro moneta con un atto legislativo e di conseguenza non possono “finire i soldi” o diventare insolventi. Questi governi hanno sempre una capacità illimitata di spendere la loro stessa valuta: cioè possono acquistare tutto ciò che vogliono, finché esistono beni e servizi acquistabili con la valuta da loro emessa, e possono utilizzare il loro potere di emettere moneta per finanziare massicci investimenti in infrastrutture sociali e materiali. Come minimo, possono reclutare i disoccupati e riutilizzarli produttivamente (ad esempio, con un Programma di Lavoro Garantito [job guarantee] [2] Questo, naturalmente, non si può applicare a paesi che facciano parte dell'Unione Monetaria Europea. La comprensione della realtà operativa delle moderne economie di emissione valutaria diviene quindi una conditio sine qua non per prefigurare una visione progressista ed emancipatoria della sovranità nazionale.
  2. Una drastica espansione del ruolo dello Stato – e un pari ridimensionamento del ruolo del settore privato – nel sistema di investimenti, produzione e distribuzione. Un progetto progressista per il XXI Secolo deve quindi di necessità comportare una larga ri-nazionalizzazione dei settori chiave dell'economia – incluso, cosa più importante, il settore finanziario – e un nuovo e aggiornato concetto di pianificazione, mirato a porre le leve della politica economica sotto controllo democratico.

Questi due elementi, a nostro avviso, forniscono la base su cui costruire un'alternativa progressista e radicale al neoliberismo, i cui dettagli dovrebbero risultare da un ampio dibattito tra pensatori progressisti, movimenti sociali e pariti politici, a livello nazionale e internazionali.
Per finire, è chiaro che il possesso di un programma socioeconomico convincente non basta per conquistare il cuore e la testa della gente. A parte la centralità dello Stato dal punto di vista politico-economico, la Sinistra deve farsi una ragione del fatto che la gran maggioranza della gente che non appartiene – e mai apparterrà – all'élite internazionale e giramondo, la loro idea di cittadinanza, di identità collettiva e di bene comune sono inestricabilmente legati al concetto di nazionalità. Alla fine dei conti, essere un cittadino vuol dire dibattere con altri cittadini all'interno di una comunità politica condivisa, e far sì che la classe dirigente risponda delle proprie decisioni [hold decision-makers accountable]. Oggi la Destra è vittoriosa perché è in grado di intessere un'efficace narrazione dell'identità collettiva in cui la sovranità nazionale viene sviluppata in chiave nativista o addirittura razzista. I progressisti quindi devono essere in grado di produrre narrazioni e miti altrettanto potenti, che riconoscano il bisogno di appartenenza e interconnessione degli esseri umani. In questo senso, una visione progressista della sovranità nazionale dovrebbe mirare alla ricostruzione e ridefinizione dello stato-nazione come luogo in cui i cittadini possano trovare rifugio nella “sicurezza nella democrazia [democratic protection], la legalità popolare, l'autonomia locale, i beni collettivi e le tradizioni egualitariste” piuttosto che in una società culturalmente ed etnicamente omogeneizzata, come dice Wolfgang Streeck. (18) Questo è anche il requisito indispensabile per la costruzione di un nuovo ordine internazionale, basato sull'interdipendenza, e tuttavia indipendenza degli stati nazionali.

Articolo apparso in origine su American Affairs, Volume I, Numero 3 (Autunno 2017), pagg. 75-91

Note
1 See Perry Anderson, “Why the System Will Still Win,” Le Monde diplomatique, Marzo 2017.
2 Ray Dalio et al., Populism: The Phenomenon, Bridgewater, 22 marzo 2017.
3 “Rose Thou Art Sick,” Economist, 2 aprile 2016.
4 Paolo Gerbaudo, “Post-Neoliberalism and the Politics of Sovereignty,” openDemocracy, 4 novembre 2016.
5 Marc Saxer, “In Search of a Progressive Patriotism,” Medium, 15 aprile 2017.
6 Adaner Usmani, “The Left in Europe: From Social Democracy to the Crisis in the Euro Zone: An Interview with Leo Panitch,” New Politics 14, no. 54 (Inverno 2013), http://newpol.org/content/left-europe-social-democracy-crisis-euro-zone-interview-leo-panitch.
7 Stuart Hall, “The Great Moving Right Show,” Marxism Today (Gennaio 1979): 18.
8 Colin Hay, “Globalisation, Welfare Retrenchment and ‘the Logic of No Alternative’: Why Second-Best Won’t Do,” Journal of Social Policy 27, no. 4 (Ottobre 1998): 529.
9 John Ardagh, France in the New Century: Portrait of a Changing Society (London: Penguin, 2000), 687–88.
10 Stephen Gill, “The Geopolitics of Global Organic Crisis,” Analyze Greece!, 5 giugno 2015, http://www.analyzegreece.gr/topics/greece-europe/item/231-stephen-gill-the-geopolitics-of-global-organic-crisis.
11 Richard Peet, “Contradictions of Finance Capitalism,” Monthly Review 63, no. 7 (Dicembre 2011), https://monthlyreview.org/2011/12/01/contradictions-of-finance-capitalism/.
12 Nancy Fraser, “The End of Progressive Neoliberalism,” Dissent, January 2, 2017, https://www.dissentmagazine.org/online_articles/progressive-neoliberalism-reactionary-populism-nancy-fraser.
13 Jonathan Haidt, “When and Why Nationalism Beats Globalism,” American Interest 12, no. 1 (Luglio 2016), https://www.the-american-interest.com/2016/07/10/when-and-why-nationalism-beats-globalism/.
14 Yanis Varoufakis e Lorenzo Marsili, “Varoufakis: ‘A un anno dall’Oxi, non rifugiamoci nei nazionalismi. Un’Europa democratica è possibile,’” La Repubblica, July 8, 2016, http://www.repubblica.it/esteri/2016/07/08/news/varoufakis_a_un_anno_dall_oxi_non_rifugiamoci_nei_nazionalismi_un_ europa_democratica_e_possibile_-143703316/.
15 J. W. Mason, “A Cautious Case for Economic Nationalism,” Dissent (Primavera 2017), https://www.dissentmagazine.org/article/cautious-case-economic-nationalism-global-capitalism.
16 Fraser, “The End of Progressive Neoliberalism.”
17 Anderson, “Why the System Will Still Win.”
18 Wolfgang Streeck et al., “Where Are We Now? Responses to the Referendum,” London Review of Books 38, no. 14 (14 luglio 2016), https://www.lrb.co.uk/v38/n14/on-brexit/where-are-we-now.


note del traduttore
[1] Master frame: cfr. (a cura di) Nicola Montagna, I movimenti Sociali e le Mobilitazioni Globali, Franco Angeli 2007, pagg. 28 e sgg.
[2] Crf. qui.

venerdì 1 settembre 2017

Due cose sul Franco CFA (e sull’euro e l’Africa)

di Giuseppe Masala da contropiano


L’arresto in Senegal del militante panafricano Kemi Seba (nella foto), di nazionalità francese, reo di aver bruciato, durante una manifestazione, alcune banconote di franchi CFA, ha riaperto il dibattito su questa moneta considerata da molti lo strumento principale con il quale la Francia (ma ora tutti i paesi della zona euro) esercitano il neo colonialismo nell’Africa francofona.
Il Franco CFA nasce nel 1945 con gli accordi di Bretton Wood; infatti all’epoca si chiamava Franco delle Colonie Francesi Africane. Successivamente nel 1958 cambia nome e diventa Franco della Comunità Francese dell’Africa.
Fino a qui tutto normale se non per due piccoli particolari. 1) il Franco CFA è una moneta ancorata ad un cambio fisso, prima con il Franco Francese e ora con l’Euro. 2) La piena convertibilitá del Franco CFA è garantita dal Ministero del Tesoro francese, che però chiede il deposito, preso un conto del ministero, del 65% delle riserve estere dei paesi aderenti all’unione monetaria.
Dietro queste due tecnicalità si nasconde il diavolo del colonialismo. Infatti il cambio fisso azzera il rischio di cambio per gli investimenti delle multinazionali occidentali nel paesi dell’Unione monetaria. Non basta, il cambio fisso (per giunta garantito dal Ministero del Tesoro francese) favorisce l’accumulo nei forzieri delle banche occidentali di immensi tesori frutto della corruzione dei governanti locali (spesso dittatorelli amici dei nostri governi).
Come se non bastasse, tutto questo avviene a scapito dell’economia reale locale, soffocata dalla rigidità del cambio con una moneta fortissima come l’Euro.
Il secondo punto probabilmente è anche peggio del primo. Quale nazione sovrana depositerebbe, a garanzia della convertibilitá della propria moneta, ben il 65% delle proprie riserve estere presso il ministero del Tesoro di uno stato estero per giunta quello del paese ex coloniale? Nessun paese sovrano farebbe mai una cosa del genere, che consegna le chiavi dello sviluppo (o del sottosviluppo) ad una nazione straniera.
Pensiamo basti questo per chiarire come il colonialismo sia ancora un fenomeno reale e pervasivo che tarpa le ali di una qualsiasi opportunità di sviluppo dei paesi africani. Con buona pace di tanti soloni che parlano senza sapere di cambi e monete, e che credono che agli africani sia data una grande opportunità nel venire in Europa (spesso a vendere asciugamani e accendini nelle nostre piazze) grazie alla possibilità di inviare nei loro paesi, a tasso di cambio fisso, rimesse che consentono alle loro famiglie in Africa di campare con pochi euro.
Grazie a questo sistema le nostre multinazionali hanno invece l’opportunità, a rischio di cambio pari a zero, di depredare le immense riserve di materie prime dell’Africa Occidentale: uranio, metalli rari, oro, petrolio, gas ma anche legname pregiato e derrate alimentari.
Bell’affare per noi, non certamente per gli africani che ci vendono il “coccobello” sulle nostre spiagge.
Non basta di certo la carità di alcune ONG per sanare questa forma di neocolonialismo monetario, che azzera le possibilità di sviluppo dei paesi dell’Africa francofona.

Rivoluzione d’Ottobre e democrazia


di Domenico Losurdo da marx21

Il testo è la rielaborazione nella forma della Conferenza pronunciata a Napoli, presso la libreria Feltrinelli, il 6 luglio 2007, nell’ambito del ciclo «I venerdì della politica» promosso dalla Società di studi politici. 
Ho sviluppato i temi qui accennati in tre libri ai quali rinvio per gli approfondimenti e i riferimenti bibliografici: Controstoria del liberalismo (Laterza, 2005); Il linguaggio dell’Impero (Laterza, 2007), Stalin. Storia e critica di una leggenda nera (Carocci, 2008) (D.L)

L’ideologia e la storiografia oggi dominanti sembrano voler compendiare il bilancio di un secolo drammatico in una storiella edificante, che può essere così sintetizzata: agli inizi del Novecento, una ragazza fascinosa e virtuosa (la signorina Democrazia) viene aggredita prima da un bruto (il signor Comunismo) e poi da un altro (il signor Nazi-fascismo); approfittando anche dei contrasti tra i due e attraverso complesse vicende, la ragazza riesce alfine a liberarsi dalla terribile minaccia; divenuta nel frattempo più matura, ma senza nulla perdere del suo fascino, la signorina Democrazia può alfine coronare il suo sogno d’amore mediante il matrimonio col signor Capitalismo; circondata dal rispetto e dall’ammirazione generali, la coppia felice e inseparabile ama condurre la sua vita in primo luogo tra Washington e New York, tra la Casa Bianca e Wall Street. Stando così le cose, non è più lecito alcun dubbio: il comunismo è il nemico implacabile della democrazia, la quale ha potuto consolidarsi e svilupparsi solo dopo averlo sconfitto.

1. La democrazia quale superamento delle tre grandi discriminazioni

Sennonché, questa storiella edificante nulla ha a che fare con la storia reale. La democrazia, così come oggi la intendiamo, presuppone il suffragio universale: indipendentemente dal sesso (o genere), dal censo e dalla «razza», ogni individuo dev’essere riconosciuto quale titolare dei diritti politici, del diritto elettorale attivo e passivo, del diritto di votare per i propri rappresentanti e di essere eventualmente eletto negli organismi rappresentativi. E cioè, ai giorni nostri la democrazia, persino nel suo significato più elementare e immediato, implica il superamento delle tre grandi discriminazioni (sessuale o di genere, censitaria e razziale) che erano ancora vive e vitali alla vigilia dell’ottobre 1917 e che sono state superate solo col contributo, talvolta decisivo, del movimento politico scaturito dalla rivoluzione bolscevica.

Cominciamo con la clausola d’esclusione, macroscopica, che negava il godimento dei diritti politici alla metà del genere umano e cioè alle donne. In Inghilterra, le signore Pankhurst (madre e figlia), che promuovevano la lotta contro tale discriminazione e dirigevano il movimento femminista delle suffragette, erano costrette a visitare periodicamente le patrie prigioni. La situazione non era molto diversa negli altri grandi paesi dell’Occidente. Era Lenin invece, in Stato e rivoluzione, a denunciare l'«esclusione delle donne» dai diritti politici come una conferma clamorosa del carattere mistificatorio della «democrazia capitalistica». Tale discriminazione veniva cancellata in Russia già dopo la rivoluzione di febbraio, da Gramsci salutata come «rivoluzione proletaria» per il ruolo di protagonista svolto dalle masse popolari, com’era confermato dal fatto che la rivoluzione aveva introdotto «il suffragio universale, estendendolo anche alle donne». La medesima strada era poi imboccata dalla repubblica di Weimar, scaturita dalla «rivoluzione di novembre», scoppiata in Germania a un anno di distanza dalla rivoluzione d’ottobre e sull’onda e a imitazione di quest’ultima. Successivamente, in questa direzione si muovevano anche gli USA. In Italia e in Francia, invece, le donne conquistavano i diritti politici solo dopo la seconda guerra mondiale, sull’onda della Resistenza antifascista, alla quale i comunisti avevano contribuito in modo essenziale o decisivo.

Considerazioni analoghe si possono fare a proposito della seconda grande discriminazione, che ha anch’essa caratterizzato a lungo la tradizione liberale: mi riferisco alla discriminazione censitaria, che escludeva dai diritti politici attivi e passivi i non proprietari, i non abbienti, le masse popolari. Già efficacemente combattuta dal movimento socialista e operaio, pur fortemente indebolita, essa continuava a resistere pervicacemente alla vigilia della rivoluzione d’ottobre. Nel saggio sull’imperialismo e in Stato e rivoluzione Lenin richiamava l’attenzione sulle persistenti discriminazioni censitarie, camuffate mediante i requisiti di residenza o altri «"piccoli" (i pretesi piccoli) particolari della legislazione elettorale», che in paesi come la Gran Bretagna comportavano l'esclusione dai diritti politici dello «strato inferiore propriamente proletario». Si può aggiungere che proprio nel paese classico della tradizione liberale ha tardato in modo particolare ad affermarsi pienamente il principio «una testa, un voto». Solo nel 1948 sono dileguate le ultime tracce del «voto plurale», a suo tempo teorizzato e celebrato da John Stuart Mill: i membri delle classi superiori considerati più intelligenti e più meritevoli godevano del diritto di esprimere più di un voto, ciò che faceva rientrare dalla finestra la discriminazione censitaria cacciata dalla porta.

Per quanto riguarda l’Italia, sui manuali scolastici si può leggere che la discriminazione censitaria è stata cancellata nel 1912. In realtà continuavano a sussistere le «piccole» clausole di esclusione denunciate da Lenin. Ma non è questo il punto più importante. La legge varata in quell’anno concedeva graziosamente i diritti politici solo a quei cittadini di sesso maschile che, pur di modeste condizioni sociali, si fossero distinti o per «titoli di cultura e di onore» o per il valore militare mostrato nel corso della guerra contro la Libia terminata poco prima. In altre parole, non si trattava del riconoscimento di un diritto universale, bensì di una ricompensa in primo luogo per quanti avevano dato prova di coraggio e di ardore bellico nel corso di una conquista coloniale dai tratti brutali e talvolta genocidi.

In ogni caso, anche là dove il suffragio (maschile) era divenuto universale o pressoché universale, esso non valeva per la Camera Alta, che continuava a essere appannaggio della nobiltà e delle classi superiori. Nel Senato italiano vi sedevano, in qualità di membri di diritto, i principi di Casa Savoia: tutti gli altri erano nominati a vita dal re, su segnalazione del presidente del Consiglio. Non dissimile era la composizione delle altre Camere Alte europee che, a eccezione di quella francese, non erano elettive bensì caratterizzate da un intreccio di ereditarietà e nomina regia. Persino per quanto riguarda il Senato della Terza Repubblica francese, che pure aveva alle spalle una serie ininterrotta di sconvolgimenti rivoluzionari culminati nella Comune, è da notare che esso risultava da un'elezione indiretta ed era costituito in modo tale da garantire una marcata sovra-rappresentanza alla campagna (e alla conservazione politico-sociale), a danno ovviamente di Parigi e delle maggiori città, a danno cioè dei centri urbani considerati il focolaio della rivoluzione. Anche in Gran Bretagna, nonostante la secolare tradizione liberale alle spalle, la Camera Alta (interamente ereditaria, eccettuati pochi vescovi e giudici), non aveva nulla di democratico, e netto era il controllo esercitato dall’aristocrazia sulla sfera pubblica: era una situazione non molto diversa da quella che caratterizzava Germania e Austria. È per questo che un illustre storico (Arno J. Mayer) ha parlato di persistenza dell’antico regime in Europa sino al primo conflitto mondiale (e alla rivoluzione d’ottobre e alle rivoluzioni e agli sconvolgimenti che hanno fatto seguito a essa)

In quegli anni neppure negli USA erano assenti i residui di discriminazione censitaria. Rispetto all’Europa, però, l’antico regime si presentava in una versione diversa: l’aristocrazia di classe si configurava come aristocrazia di razza. Nel Sud del paese il potere era nelle mani degli ex-proprietari di schiavi, che nulla avevano perso della loro arroganza razziale o razzista e che non a caso erano bollati dai loro avversari quali Borboni; non era certo dileguato il regime talvolta celebrato dai suoi sostenitori e talaltra criticamente analizzato dagli studiosi contemporanei come una sorta di ordinamento castale, in quanto fondato su raggruppamenti etnico-sociali resi impermeabili dal divieto di miscegenation, e cioè dal divieto di rapporti sessuali e matrimoniali inter-razziali, severamente condannati e puniti in quanto suscettibili di mettere in discussione la white supremacy.

2. La duplice dimensione della discriminazione razziale

E veniamo così alla terza grande discriminazione, quella razziale. Prima della Rivoluzione d’Ottobre essa era più viva che mai e manifestava la sua vitalità in due modi. A livello globale il mondo era caratterizzato dal dominio incontrastato, per dirla con Lenin, di «poche nazioni elette» ovvero di un pugno di «nazioni modello» che attribuivano a se stesse «il privilegio esclusivo di formazione dello Stato», negandolo alla stragrande maggioranza dell’umanità, ai popoli estranei al mondo occidentale e bianco e pertanto indegni di costituirsi quali Stati nazionali indipendenti. E dunque, le «razze inferiori» erano escluse in blocco dal godimento dei diritti politici già per il fatto di essere considerate incapaci di autogoverno, incapaci di intendere e di volere sul piano politico. Tale esclusione era ribadita a un secondo livello, a livello nazionale: nell’Unione sudafricana e negli USA (il paese sul quale soprattutto ci soffermeremo), i popoli di origine coloniale erano ferocemente oppressi: essi non godevano né dei diritti politici né di quelli civili.

Si pensi ad esempio ai linciaggi che, tra Otto e Novecento, negli Stati Uniti erano riservati in particolare ai neri. Un illustre storico statunitense (Vann Woodward) ne ha dato una descrizione secca ma tanto più efficace e raccapricciante:

«Notizie dei linciaggi erano pubblicate sui fogli locali e carrozze supplementari erano aggiunte ai treni per spettatori, talvolta migliaia, provenienti da località a chilometri di distanza. Per assistere al linciaggio, i bambini delle scuole potevano avere un giorno libero.

Lo spettacolo poteva includere la castrazione, lo scoiamento, l'arrostimento, l'impiccagione, i colpi d'arma da fuoco. I souvenir per acquirenti potevano includere le dita delle mani e dei piedi, i denti, le ossa e persino i genitali della vittima, così come cartoline illustrate dell'evento».

Vediamo qui all’opera non la democrazia propriamente detta di cui favoleggia la storiella edificante di cui ho parlato agli inizi, bensì quella che eminenti studiosi statunitensi hanno definito la Herrenvolk democracy, una democrazia riservata esclusivamente al popolo dei signori, il quale esercitava una terroristica white supremacy non solo sui popoli di origine coloniale (afroamericani, asiatici ecc.) ma talvolta anche sugli immigrati provenienti da paesi (quali l’Italia) considerati di dubbia purezza razziale.

Ancora negli anni ’30 i neri, che pure nel corso della prima guerra mondiale erano stati chiamati a combattere e a morire per la «difesa» del paese, continuavano a subire un regime di terrore che al tempo stesso funzionava come una ripugnante società dello spettacolo. Eloquenti sono di per sé i titoli e le cronache dei giornali locali del tempo. Li riprendiamo dall’antologia (100 Years of Lynchings) curata da uno studioso afroamericano (Ralph Ginzburg): «Grandi preparativi per il linciaggio di questa sera». Nessun particolare doveva essere trascurato: «Si teme che colpi d’arma da fuoco diretti al negro possano andare fuori bersaglio e colpire spettatori innocenti, che includono donne con i loro bambini in braccio»; ma se tutti si atterranno alle regole, «nessuno sarà deluso». L’inedita società dello spettacolo procedeva in modo implacabile. Vediamo altri titoli: «il linciaggio eseguito pressoché come previsto nell’annuncio pubblicitario»; «la folla applaude e ride per l’orribile morte di un negro»; «cuore e genitali recisi dal cadavere di un negro».

A subire il linciaggio non erano solo i neri colpevoli di «stupro» ovvero, il più delle volte, di rapporti sessuali consensuali con una donna bianca. Bastava molto meno per essere condannati a morte: l’«Atlanta Constitution» dell’11 luglio 1934 informava dell’avvenuta esecuzione di un nero di 25 anni «accusato di aver scritto una lettera “indecente e insultante” a una giovane ragazza bianca della contea di Hinds»; in questo caso la «folla di cittadini armati» si era accontentata di riempire di pallottole il corpo dello sciagurato. Per di più, oltre che sui «colpevoli», la morte, inflitta in modo più o meno sadico, incombeva anche sui sospetti. Continuiamo a sfogliare i giornali dell’epoca e a leggere i titoli: «Assolto dalla giuria, poi linciato»; «Sospetto impiccato a una quercia sulla pubblica piazza di Bastrop»; «Linciato l’uomo sbagliato». Infine la violenza non si limitava a prendere di mira il responsabile o il sospetto responsabile del misfatto a lui attribuito: accadeva che, prima di procedere al suo linciaggio, venisse data alle fiamme e bruciata completamente la capanna in cui abitava la sua famiglia.

È da aggiungere che la terza grande discriminazione finiva col colpire anche certi membri e certi settori della stessa casta o razza privilegiata. Sfogliando sempre l’antologia relativa ai cento anni di linciaggi negli USA, ci imbattiamo nel titolo di un articolo del «Galveston (Texas) Tribune» del 21 giugno 1934: «Una ragazza bianca è rinchiusa in carcere, il suo amico negro è linciato». Su quella ragazza bianca il regime di terroristica white supremacy si abbatteva in modo duplice: sia privandola della sua libertà personale, sia colpendola pesantemente nei suoi affetti.

3. Movimento comunista e lotta contro la discriminazione razziale

In che direzione, a quale movimento e a quale paese guardavano le vittime di tale orrore, per cercare solidarietà e ispirazione nella lotta di resistenza e di emancipazione? Non è difficile indovinarlo. Subito dopo la rivoluzione d’ottobre, gli afroamericani che aspiravano a scuotersi di dosso il giogo della white supremacy erano spesso accusati di bolscevismo, ma pronta era la replica di un militante nero che non si lasciava intimidire: «Se lottare per i nostri diritti significa essere bolscevichi, ebbene io sono bolscevico e che gli altri si rassegnino una volta per sempre».

Sono gli anni in cui i neri che diventavano militanti del Partito comunista degli USA o che visitavano la Russia sovietica facevano un’esperienza inedita e esaltante: si vedevano finalmente riconosciuti nella loro dignità umana; su un piano di parità con i loro compagni potevano partecipare alla progettazione di un mondo nuovo. Si comprende allora che essi guardassero a Stalin come al «nuovo Lincoln», al Lincoln che avrebbe messo fine questa volta in modo concreto e definitivo alla schiavitù dei neri, all’oppressione, alla degradazione, all’umiliazione, alla violenza e ai linciaggi che essi continuavano a subire. Non c’è da stupirsi per questa visione. Si tenga presente che per lungo tempo, nel periodo in cui la discriminazione razziale e il regime di supremazia bianca infuriavano pressoché indisturbati all’interno degli USA e a livello mondiale nel rapporto tra metropoli capitalistica e colonie, il termine «razzismo» ha avuto una connotazione positiva, quale sinonimo di comprensione sobria e scientifica della storia e della politica, una comprensione scientifica che solo gli ingenui (per lo più socialisti o comunisti) si ostinavano a ignorare o a mettere in discussione.

Quando interveniva il momento di svolta nella storia degli afroamericani? Nel dicembre 1952 il ministro statunitense della giustizia inviava alla Corte Suprema, che era stata chiamata a discutere la questione dell’integrazione nelle scuole pubbliche, una lettera eloquente: «La discriminazione razziale porta acqua alla propaganda comunista e suscita dubbi anche tra le nazioni amiche sull’intensità della nostra devozione alla fede democratica». Già per ragioni di politica estera occorreva sancire l’incostituzionalità della segregazione e della discriminazione anti-nera. Washington – osserva lo storico statunitense (Vann Woodward) che ricostruisce tale vicenda – correva il pericolo di alienarsi le «razze di colore» non solo in Oriente e nel Terzo Mondo ma nel cuore stesso degli Stati Uniti: anche qui la propaganda comunista riscuoteva un considerevole successo nel suo tentativo di guadagnare i neri alla «causa rivoluzionaria», facendo crollare in loro la «fede nelle istituzioni americane». In altre parole, non si poteva arginare la sovversione comunista senza mettere fine al regime di white supremacy. E dunque: la lotta ingaggiata dal movimento comunista e la paura del comunismo finivano con lo svolgere un ruolo essenziale nella cancellazione negli USA (e poi nel Sudafrica) della discriminazione razziale e nella promozione della democrazia.

A questo punto s’impone una riflessione. Le opzioni politiche di ciascuno di noi possono essere le più diverse. E, tuttavia, chi voglia fondare le sue affermazioni su una sia pur elementare ricostruzione storica, deve riconoscere un punto essenziale: la storiella edificante dalla quale abbiamo preso le mosse, e che continua a essere strombazzata dall’ideologia dominante, è per l’appunto una storiella. Se per democrazia intendiamo quantomeno l’esercizio del suffragio universale e il superamento delle tre grandi discriminazioni, è chiaro che essa non può essere considerata anteriore alla Rivoluzione d’Ottobre e non può essere pensata senza l’influenza che quest’ultima ha esercitato a livello mondiale.

4. La discriminazione razziale tra USA e Terzo Reich

Se da un lato spingeva le sue vittime a riporre le loro speranze nel movimento comunista e nell’Unione Sovietica, dall’altro il regime di white supremacy vigente negli USA e a livello mondiale suscitava l’ammirazione del movimento nazista. Nel 1930, Alfred Rosenberg, che poi sarebbe diventato il teorico più o meno ufficiale del Terzo Reich, celebrava gli Stati Uniti, con lo sguardo rivolto soprattutto al Sud, come uno «splendido paese del futuro» che aveva avuto il merito di formulare la felice «nuova idea di uno Stato razziale», idea che si trattava allora di mettere in pratica, «con forza giovanile», senza fermarsi a mezza strada. La repubblica nord-americana aveva coraggiosamente richiamato l’attenzione sulla «questione negra» e anzi l’aveva collocata «al vertice di tutte le questioni decisive». Ebbene, una volta cancellato per i neri, l’assurdo principio dell’uguaglianza doveva essere liquidato sino in fondo: occorreva trarre «le necessarie conseguenze anche per i gialli e gli ebrei».

Non c’è dubbio, il regime di white supremacy ha profondamente ispirato il nazismo e il Terzo Reich. È un’influenza che ha lasciato tracce profonde anche sul piano categoriale e linguistico. Proviamo a interrogarci sul termine-chiave suscettibile di esprimere in modo chiaro e concentrato la carica di de-umanizzazione e di violenza genocida insita nell’ideologia nazista. In questo caso non c’è bisogno di ricerche particolarmente tormentose: è Untermensch il termine-chiave, che in anticipo priva di qualsiasi dignità umana quanti sono destinati a essere schiavizzati al servizio della razza dei signori o a essere annientati quali agenti patogeni, colpevoli di fomentare la rivolta contro la razza dei signori e contro la civiltà in quanto tale. Ebbene, il termine Untermensch, che un ruolo così centrale e così nefasto svolge nella teoria e nella pratica del Terzo Reich, non è altro che la traduzione dall’americano Under Man! Lo riconosce Rosenberg, il quale esprime la sua ammirazione per l’autore statunitense Lothrop Stoddard: a lui spetta il merito di aver per primo coniato il termine in questione, che campeggia come sottotitolo (The Menace of the Under Man) di un libro pubblicato a New York nel 1922 e della sua versione tedesca (Die Drohung des Untermenschen) apparsa tre anni dopo. Per quanto riguarda il suo significato, Stoddard chiarisce che esso sta a indicare la massa di «selvaggi e barbari», «essenzialmente incapaci di civiltà e suoi nemici incorreggibili», con i quali bisogna procedere a una radicale resa dei conti, se si vuole sventare il pericolo che incombe di crollo della civiltà. Elogiato, prima ancora che da Rosenberg, già da due presidenti statunitensi (Harding e Hoover), Stoddard è successivamente ricevuto con tutti gli onori a Berlino, dove incontra non solo gli esponenti più illustri dell’eugenetica nazista, ma anche i più alti gerarchi del regime, compreso Adolf Hitler, ormai lanciato nella sua campagna di decimazione e schiavizzazione degli «indigeni» ovvero degli Untermenschen dell’Europa orientale, e impegnato nei preparativi per l’annientamento degli Untermenschen ebraici, considerati i folli ispiratori della rivoluzione bolscevica e della rivolta degli schiavi e dei popoli delle colonie.

Ben lungi dal poter essere assimilate l’una all’altra quali nemiche mortali della democrazia, Unione Sovietica e Germania hitleriana si sono storicamente collocate su posizioni contrapposte: la prima ha svolto un ruolo d’avanguardia nella lotta contro la terza grande discriminazione (quella razziale), mentre la seconda si è distinta nella lotta per radicalizzare ed eternizzare la terza grande discriminazione e, nel far ciò, si è richiamata all’esempio costituito dagli USA. Nel complesso, l’analisi storica costringe a riconoscere il contributo essenziale o decisivo fornito dal movimento scaturito dalla rivoluzione d’ottobre al superamento delle tre grandi discriminazioni e dunque alla realizzazione di un presupposto ineludibile della democrazia.

5. Un incompiuto processo di democratizzazione

Conviene ora porsi un’ultima domanda: le tre grandi discriminazioni sono oggi del tutto dileguate? Già diversi anni fa, un eminente storico statunitense, Arthur Schlesinger Jr, che è stato anche consigliere del presidente John Kennedy, tracciava un quadro ben poco lusinghiero della democrazia nel suo paese: «L'azione politica, una volta imperniata sull'attivismo, s’impernia ora sulla disponibilità finanziaria». Dati i «costi spaventosamente alti delle recenti campagne elettorali», si delineava nettamente la tendenza a «limitare l’accesso alla politica a quei candidati che hanno fortune personali o che ricevono denaro da comitati d’azione politica», ovvero da «gruppi di interessi» e lobbies varie. In altre parole, era come se la discriminazione censitaria, cacciata dalla porta, fosse rientrata dalla finestra. Conviene prenderne atto: la campagna neoliberista contro i «diritti sociali ed economici», solennemente proclamati e sanciti dall'ONU nel 1948 ma denunciati da Friedrich August von Hayek quali espressione dell'influenza (da lui considerata rovinosa) della «rivoluzione marxista russa», ha finito con l‘investire anche i diritti politici.

Nell’atto di accusa contro la Rivoluzione d’Ottobre formulato dal patriarca del neoliberismo (e premio Nobel per l’Economia nel 1974) si può e si deve leggere un grande riconoscimento. Quella rivoluzione ha contribuito alla realizzazione dei diritti economici e sociali e all’edificazione anche in Occidente; non a caso, ai giorni nostri, al venire meno della sfida del movimento comunista corrisponde lo smantellamento dello Stato sociale nella stessa Europa, con il risultato che la discriminazione censitaria finisce col ripresentarsi in forme nuove.

E per quanto riguarda le altre due grandi discriminazioni? Non c’è tempo per un’analisi approfondita, ma non posso fare a meno di una breve osservazione a proposito della terza grande discriminazione. Certo, la storia non è l’eterno ritorno dell’identico, come pretendeva Nietzsche. Sarebbe errato e fuorviante ignorare i mutamenti intervenuti e i risultati conseguiti dalla lotta di emancipazione. Ai giorni nostri nessuno oserebbe fare professione di razzismo e proclamare ad alta voce la necessità di difendere o ristabilire la white supremacy. Non bisogna però dimenticare che, storicamente, un aspetto essenziale della terza grande discriminazione è stato la gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni. L’ha ben compreso Lenin che abbiamo visto definire l’imperialismo come la pretesa di «poche nazioni elette» ovvero di poche «nazioni modello» di riservare esclusivamente a se stesse il diritto di costituirsi in Stato nazionale indipendente. È stata abbandonata una volta per sempre tale pretesa? In occasione di gravi conflitti politici e diplomatici, l’Occidente e in particolare il suo paese-guida si rivolgono al Consiglio di Sicurezza dell’ONU perché autorizzi l’intervento militare da loro auspicato o programmato, ma al tempo stesso dichiarano che, anche in assenza di autorizzazione, essi si riservano il diritto di scatenare sovranamente la guerra contro questo o quel paese. E’ evidente che, arrogandosi il diritto di dichiarare superata la sovranità di altri Stati, i paesi occidentali si attribuiscono una sovranità dilatata e imperiale, da esercitare ben al di là del proprio territorio nazionale, mentre per i paesi da loro presi di mira il principio della sovranità statale è dichiarato superato e privo di valore. In forme nuove si riproduce la dicotomia (nazioni elette e realmente fornite di sovranità/popoli indegni di costituirsi in Stato nazionale autonomo) che è propria dell’imperialismo e del colonialismo. Con la forza delle armi continua a esser fatto valere il principio della gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni.

Nel caso degli USA questa sedicente gerarchia è proclamata ad alta voce e viene persino religiosamente trasfigurata. Nel settembre del 2000, nel condurre la campagna elettorale che l’avrebbe portato alla presidenza, George W. Bush enunciava un vero e proprio dogma: «La nostra nazione è eletta da Dio e ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo». È un dogma ben radicato nella tradizione politica statunitense. Bill Clinton aveva inaugurato il suo primo mandato presidenziale, con una proclamazione ancora più enfatica del primato degli USA e del diritto-dovere a dirigere il mondo: «La nostra missione è senza tempo»!

Si direbbe che alla white supremacy sia subentrata la western supremacy ovvero l’American supremacy. Resta fermo il principio della gerarchizzazione dei popoli e delle nazioni, una gerarchizzazione naturale, eterna e persino consacrata dalla volontà divina, come nella monarchia assoluta dell’Antico regime! Almeno per quanto riguarda la sua dimensione internazionale, la terza grande discriminazione non è dileguata. Detto altrimenti: almeno per quanto riguarda i rapporti internazionali, siamo ben lontani dalla democrazia. Il processo di democratizzazione iniziato con la rivoluzione d’ottobre è ancora ben lungi dalla sua conclusione.

Testo pubblicato dalla Casa editrice «La Scuola di Pitagora», Napoli. Ringraziamo Domenico Losurdo, Presidente dell'Associazione Marx XXI, per la richiesta di pubblicazione nel nostro sito.



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