giovedì 28 febbraio 2013

"Cambiare si può". Back to the future


Ho votato Rivoluzione Civile perché, parafrasando una nota canzone, non avevo niente da fare e non sono pentito. Non ho mai nascosto, come altri compagni, il fatto che fosse un’operazione nata male e finita peggio, ma adesso per colmo di paradosso sono ottimista. Sono convinto che un ciclo si sia chiuso e la quiete necessaria sia stata finalmente raggiunta. Una quiete che si sostituisce al rumore assordante delle tante frizioni e “compatibilità” della sinistra, una quiete che poteva essere raggiunta solo dopo aver sperimentato tutti gli stadi dell’evoluzione. Non è infatti realistico pensare che una soggettività così composita e con rendite di posizione consolidate si abbandoni alla mutazione senza che un evento traumatico la costringa a farlo. Per come la vedo io Rivoluzione Civile è stato un passaggio necessario e anche benefico. Adesso si può ricominciare da dove avevamo lasciato, da una sigla che è anche un motto profetico: “Cambiare si può”. Adesso non ci sarà nessuno che potrà rubarci l’idea di una democrazia partecipata e farne la sua ancora di salvezza, adesso possiamo operare scelte, discutere dei metodi e  individuare gli obiettivi, in modo genuinamente democratico. Adesso è il momento di Cambiare si può. Grillo non è l’unica alternativa, e averlo sottovalutato, sottovalutando la rabbia e la determinazione di chi lo ha voltato, non significa che rappresenti l’unica via.
 

mercoledì 27 febbraio 2013

La sconfitta dell’anti-Europa liberista comincia in Italia

 Franco Bifo Berardi da Micromega

L’unione europea nacque come progetto di pace e di solidarietà sociale raccogliendo l’eredità della cultura socialista e internazionalista che si oppose al fascismo.
Negli anni ’90 le grandi centrali del capitalismo finanziario hanno deciso di distruggere il modello europeo, e dalla firma del Trattato di Maastricht in poi hanno scatenato un’aggressione neoliberista. Negli ultimi tre anni l’anti-Europa della BCE e della Deutsche Bank ha preso l’occasione della crisi finanziaria americana del 2008 per trasformare la diversità culturale interna al continente europeo (le culture protestanti gotiche e comunitarie, le culture cattoliche barocche e individualiste, le culture ortodosse spiritualiste e iconoclaste) in un fattore di disgregazione politica dell’unione europea, e soprattutto per piegare la resistenza del lavoro alla definitiva sottomissione al globalismo capitalista.
Riduzione drastica del salario, eliminazione del limite delle otto ore di lavoro quotidiano, precarizzazione del lavoro giovanile e rinvio della pensione per gli anziani, privatizzazione dei servizi. La popolazione europea deve pagare il debito accumulato dal sistema finanziario perché il debito funziona come un’arma puntata alla tempia dei lavoratori.
Cosa accadrà? Due cose possono accadere: o il movimento del lavoro riesce a fermare questa offensiva e riesce a mettere in moto un processo di ricostruzione sociale dell’Unione europea, o il prossimo decennio vedrà in molti luoghi d’Europa esplodere la guerra civile, il fascismo crescerà dovunque, e il lavoro sarà sottomesso a condizioni di sfruttamento ottocentesco.
Ma come fermare l’offensiva?
Le elezioni italiane sono una risposta che può evolversi in maniera positiva o in maniera catastrofica. Dipende dai progressisti, gli intellettuali e gli autonomi del continente, dipende da noi.
Il 75% dell’elettorato italiano ha detto no al progetto anti-europeo di Merkel Draghi Monti.
25% si sono astenuti, 25% hanno votato per il movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, 25% hanno votato per il partito della mafia e del fascismo, e per il più geniale truffatore della storia, Berlusconi, nemico giurato di Angela Merkel perché la mafia non può più accettare il predominio economico di Berlino.
Il movimento di Beppe Grillo è la novità di queste elezioni. Raccoglie soprattutto voti dai movimenti di sinistra e raccoglie anche voti anche dalla destra. Beppe Grillo – che ha una formazione autonoma antiautoritaria – ha detto più volte che il suo movimento intende sottrarre voti alla destra, e ci è riuscito.
Non credo che il movimento 5 stelle potrà governare l’Italia, non è questo il punto. La funzione importante e positiva che il movimento ha svolto è rendere il paese ingovernabile per gli antieuropei del partito Merkel-Draghi-Monti.
L’elettorato italiano ha detto: non pagheremo il debito. Insolvenza.
La governance finanziarista d’Europa è finita, anche se Berlusconi e Bersani si metteranno d’accordo per sopravvivere e continuare a impoverire il paese spostando risorse verso il sistema finanziario. Non durerà. Ma allora può cominciare il peggio.
La classe finanziaria tenterà di strangolare l’Italia come ha strangolato la Grecia. La crisi politica si farà convulsa e violenta. L’esito può essere spaventoso. Mafia e fascismo hanno mostrato di controllare il trenta per cento dell’elettorato italiano, e la sinistra non esiste più. La secessione del Nord si riproporrà anche se la lega è crollata.
Epperò invece può iniziare un processo di liberazione d’Europa dalla violenza del capitale finanziario, una ricostruzione d’Europa su basi sociali. Fuori dagli schemi novecenteschi può diffondersi dovunque un movimento di insolvenza organizzata e di autonomia produttiva. Un movimento di occupazione può trasformare le università in luoghi di ricerca concreta per soluzioni post-capitaliste. Le fabbriche che il capitale finanziario vuole distruggere vanno occupate e autogestite come si è fatto in Argentina dopo il 2001. Le piazze vanno occupate per farne luoghi di discussione permanente.
Il programma lo ha enunciato Beppe Grillo, ed è un programma molto ragionevole:
Salario di cittadinanza

Riduzione dell’orario di lavoro a 30 ore

Pensione a sessanta anni.

Restituzione alla scuola degli otto miliardi che il governo Berlusconi ha sottratto al sistema educativo.

Assunzione di tutti i lavoratori precari della scuola, della sanità e dei trasporti.

Nazionalizzazione delle banche che hanno favorito la speculazione ai danni della comunità.

Abolizione immediata del fiscal compact.
Il movimento cinque stelle ha impedito alla dittatura finanziaria di governare. Ora tocca al movimento della società. Avrà la società l’energia e l’intelligenza per gestire la propria vita con un movimento di occupazione generalizzato?
Se non avrà questa energia avremo meritato il disastro che ne seguirà.
Nota
Leggo su Internazionale che i Wu Ming si lamentano del fatto che il movimento di Beppe Grillo amministra l’assenza di movimento in Italia. Ragionamento bislacco davvero. Dal momento che la società italiana è incapace di muoversi allora debbono stare tutti fermi? Dal momento che gli amichetti di wu ming sono stanchi allora tutto deve restare ad attendere i tempi del loro risveglio? Fate movimento invece di lamentarvi perché qualcun altro lo fa al posto vostro, magari in maniera un po’ più rozza di come piacerebbe ai raffinati intellettuali.

lunedì 25 febbraio 2013

Austerità all'italiana

di Paul Krugman (dal New York Times)
traduzione di Domenico D'Amico


Due mesi fa, quando Mario Monti lasciò il posto di Primo Ministro, l'Economist valutò che “La prossima campagna elettorale sarà, soprattutto, una prova della maturità e del realismo degli elettori italiani”. L'azione matura e realistica, si presuppone, sarebbe dovuta essere quella di far tornare il sig. Monti – essenzialmente imposto all'Italia dai suoi creditori – al posto che occupava, stavolta con un autentico mandato democratico.
Be', le cose non si mettono bene. Il partito del sig. Monti sembra destinato a essere buon quarto; non solo risulta molto indietro rispetto all'essenzialmente ridicolo Silvio Berlusconi, ma è molto indietro rispetto a un comico di professione, Beppe Grillo, la cui mancanza di una piattaforma coerente non gli ha impedito di diventare una potente forza politica.
È una prospettiva fuori dall'ordinario, che ha già scatenato un mare di commenti sulla cultura politica italiana. Tuttavia, senza tentare di difendere la politica del bunga bunga, lasciatemi fare una domanda piuttosto scontata: qual è il bene prodotto in Italia o, se è per questo, nel resto d'Europa, da quello che passa per maturo realismo?
Dato che il sig. Monti era, in effetti, il proconsole insediato dalla Germania per imporre l'austerità fiscale a un'economia già in crisi, la volontà di perseguire un'austerità senza limiti è ciò che definisce la rispettabilità nei circoli politici europei. Non ci sarebbe problema, se le politiche di austerità funzionassero davvero – ma non funzionano. Altro che maturi e realisti, i sostenitori dell'austerità sembrano sempre di più allucinati e petulanti.
Consideriamo come le cose avrebbero dovuto funzionare a questo punto. All'inizio dell'infatuazione europea per l'austerità, i maggiori attori politici respinsero le preoccupazioni che i tagli alla spesa e l'aumento delle tasse potessero, in un'economia già depressa, aggravare la depressione. Al contrario, insistettero, queste politiche avrebbero rilanciato le economie in quanto avrebbero ispirato fiducia.
Ma la fata della fiducia non si è fatta vedere. Le nazioni che applicarono una dura austerità hanno subito gravi rovesci economici, più severa l'austerità, più grave il rovescio. In effetti questo collegamento si è dimostrato talmente forte che il Fondo Monetario Internazionale, con un notevole mea culpa, ha ammesso di aver sottostimato i danni che l'austerità avrebbe provocato.
E nel frattempo l'austerità non ha nemmeno raggiunto l'obbiettivo minimo di ridurre il peso del debito. Al contrario, le nazioni che hanno applicato un'austerità severa hanno visto aumentare il rapporto debito/PIL, perché le loro economie in discesa hanno reso vana ogni riduzione del debito. E dato che le politiche di austerità non sono state compensate in alcun luogo da politiche espansive, l'economia europea – che non aveva mai davvero recuperato dal crack del 2008-2009 – nel suo insieme è ripiombata nella recessione, con tassi di disoccupazione ancora più alti.
Ci sarebbe la buona notizia della bonaccia nel mercato azionario, cosa dovuta principalmente all'esplicita volontà della Banca Centrale Europea di intervenire, se necessario, acquistando il debito dei vari stati. Ne consegue che il collasso finanziario che avrebbe potuto distruggere l'Euro è stato scongiurato. Ma è una magra consolazione per i milioni di cittadini europei che hanno perso il lavoro e hanno poca speranza di riaverlo.
Date queste premesse, ci si sarebbe aspettato un ripensamento e qualche esame di coscienza da parte dei dirigenti europei, magari un accenno di flessibilità. Invece, insistono ancora di più nel sostenere che l'austerità sia l'unica strada possibile.
È così che nel gennaio 2011 Olli Rehn, vicepresidente della Commissione Europea, elogiava il programma di austerità di Grecia, Spagna e Portogallo, e prevedeva che il programma greco, in particolare, avrebbe prodotto “risultati durevoli”. Da allora il tasso di disoccupazione nei tre paesi è decollato – ma nel dicembre 2012 il sig. Rehn, guarda un po', pubblicava un editoriale dal titolo “L'Europa deve restare sulla strada dell'austerità.”
E a proposito, la risposta del sig. Rehn agli studi che mostrano come gli effetti negativi dell'austerità siano peggiori del previsto è stata quella di inviare una lettera ai ministri delle finanze e al FMI, in cui dichiara che simili studi sono pericolosi, perché rischiano di minare la fiducia.
Il che ci riporta all'Italia, una nazione che, con tutti i suoi difetti, ha di fatto praticato una sostanziale politica di austerità – e come risultato ha visto la sua economia deperire rapidamente.
Gli osservatori esterni sono spaventati dalle elezioni italiane, e fanno bene: anche se l'incubo di un ritorno al potere di un Berlusconi non si materializzasse, un suo buon piazzamento, o del sig. Grillo, o di entrambi, destabilizzerebbe non solo l'Italia ma l'intera Europa. Ma ricordiamoci, non si tratta solo dell'Italia: politici di dubbio profilo sono in ascesa in tutta l'Europa meridionale. E la ragione per cui accade tutto questo è che gli europei rispettabili non ammetteranno mai che le politiche che hanno imposto ai paesi debitori sono disastrosamente fallimentari. Se su questo non si cambia, allora le elezioni italiane saranno soltanto un assaggio di future, pericolose, radicalizzazioni.

sabato 23 febbraio 2013

Democrazia e ultimi ricatti

di Tonino D'Orazio
Finalmente questa campagna di guerra immorale, pardon elettorale, è finita. Chiunque di buon senso non ne poteva più. Soprattutto in queste ultime battute, piene di insulti e di demonizzazione dell’avversario, forse del nemico che ti impedirà di comandare. Malgrado una legge elettorale così deleteria da far applaudire o minacciare l’impossibilità che esca un vincitore o che si possa governare il paese. Anzi il sistema è costruito in modo che la necessaria mediazione al ribasso non permetta nessuna alternativa. Grazie Veltroni e D’Alema, con il vostro americaneggiante bipolarismo, oggi realisticamente fasullo vista la proliferazione di fazioni, di partiti e partitini (ai quali andranno in rimborso elettorale 7€/voto ottenuto, per cinque anni, un vero affare) avete permesso i vari disastri elettorali e l’ingovernabilità del nostro paese. Con un concetto anti democratico e forse neofascista di dare il comando a un capo, a una persona sola, a un presidenzialismo che i padri costituzionali avevano aborrito. Avete tolto la possibilità di votare con la propria testa e elettoralmente le proprie idee. Era ovvio che il disastro, se si crede alla democrazia, era alle porte.
Con un Napolitano schizzinoso che fa finta che potrebbe essere rieletto una seconda volta, pensando forse di farsi pregare. Una figura così poco imparziale e infida da far rimpiangere il destroide democristiano Cossiga. Pronto all’ultima zampata, alla Ratzinger con lo Ior, piazzare un suo uomo sul seggio vuoto dei senatori a vita e tentare un intrallazzo per la prossima presidenza in tempi stretti, affinché non si modifichino i suoi “errori” e vi sia “continuità di vedute”. Un politico che, lo vedremo successivamente, è stato incapace di difendere la Costituzione e sarà sicuramente ricordato come un “golpista bianco”. Berlusconi dixit con la sua prossima commissione parlamentare d’inchiesta.
Ma torniamo alle ultime battute elettorali, cioè al platealmente tutti contro tutti, in un crescendo di insulti, che potrebbe essere anche concepibile e divertente tenuto conto di quel che pensa della Kasta, cioè di una classe politica giudicata infausta mendace avida e corrotta, gran parte del popolo italiano. Ma l’inconcepibile è il ricatto del “voto utile”. E tutti a predire che altrimenti bisognerà tornare a votare nuovamente, magari con la stessa legge e allo sfinimento o alla compravendita simoniaca di parlamentari e senatori (Déjà vu). Uno stato, un paese in ostaggio dei partiti e dei poteri forti. E giù minacce catastrofiche e manovre anti democratiche.
Manovre dalla Commissione europea per mantenere stretto il cappio, subito fatte, dette e smentite; indicazioni boomerang a sostegno di Monti sicuramente controproducenti della Merkel, così utili a Berlusconi per parlare al bassoventre degli anti teutonici in questa terza guerra economica europea; dello spread sceso appena Monti si è candidato e risalito minacciosamente man mano si è capito (Wall Street Journal) che rischia di entrare a mala pena in parlamento, anzi meno male che almeno Draghi è riuscito, con la politica BCE di acquisto dei titoli di stato, a tenerlo veramente sotto controllo e sicuramente a darci respiro; non sciupare il proprio voto, meglio darlo al “vincitore”. Nessuno dice esattamente per fare che cosa. Per continuare nel disastro? Per cambiare? Per continuare a circuire democraticamente il “popolo sovrano”?
E poi le minacce: baratri ancora aperti e minacciosi; luce in fondo al lungo tunnel oscuro, ma presto …; ripresa della crescita come fenice araba spostata sempre in avanti, a bocconi, mentre disoccupazione e povertà crescono a dismisura e affondano le speranze di milioni di cittadini; guai a chi non capisce che siamo alle porte del disastro e che stiamo diventando “come la Grecia”, cioè la minaccia del meglio “il meno peggio”, della minestra o della finestra, del ricatto della paura. Della paura del “nuovo”, scombussolante (“Partiti, arrendetevi!”), se così si può parlare del fluttuante ma consistente Movimento 5 Stelle.
Staremo a veder cosa succede dopo il 26 febbraio, cioè se per il 28, anche da noi, come Ratzingher, molti dovranno dimettersi.

Il mercato della libertà. Storia del pareggio di bilancio.

venerdì 22 febbraio 2013

Il voto utile del Leviatano

Tempo di votare, tempo di riflessioni e di grandi dubbi. Sentiamo il peso della responsabilità di una scelta che grava su di noi, nemmeno se da questo dipendesse la tenuta della civiltà occidentale, con il rischio del ritorno al caos, all'anarchia, e a uno stato di natura che abbiamo da tempo abbandonato per rifugiarci fra le ali protettive del grande Leviatano, un mostro si, ma certo più clemente di una natura ferina e infida, purché gli si obbedisca e gli si dia da mangiare.
Molti filosofi e uomini di cultura fanno appello al voto utile, scorgendo ogni volta un pericolo che minaccia democrazia e stabilità, ossessionati da un ruolo che essi stessi si sono dati, quello della salvaguardia della unitarietà dello stato e della sicurezza dei cittadini. Rifiutano il pragmatismo in nome del pragmatismo stesso, altrimenti dovrebbero trarre le giuste conclusioni e ammettere che il loro voto utile è solo sinonimo di uno status quo pieno di miasmi velenosi, e allo stesse tempo ammettere il loro fallimento e la loro inutilità: ma come, dopo secoli di lotte, di riflessioni, di studi matti e disperatissimi, quello che abbiamo ora è uno stato liberal-liberista che promette lacrime e sangue ai poveri cristi, immolati, in quei templi chiamati banche, alla unica e vera divinità, la vera forza trascendente e immateriale dell'universo, il danaro. C'è chi chiama riforme delle vere e proprie crociate sanguinarie contro presunti infedeli, ma questo desta nei nostri filosofi solo un lieve levar di ciglia. C'è chi sputa impunemente sulla miseria, chiamando altra miseria per difendere le loro ricchezze, ma cose del genere sono solo inciampi della dialettica per queste menti fini. Lor signori non si curano del fatto che non si può disgiungere l'unità dello stato dal ruolo che questo assume nel difendere i suoi “sudditi”, non si occupano del fatto che quella unità verrà usata contro i cittadini e non per il loro “bene comune”. Asor Rosa lo posso capire, non è più lucido da tempo, mi sorprende invece Rodotà che invece mi è sempre parso lucidissimo. Capisco la loro preoccupazione, conoscono la storia e temono il suo ripetersi, si sentono forse un po' in colpa per il fascismo e per il nazismo, temono nuove guerre dei trent'anni, ma questo è il punto, fascismo e guerre prolifereranno e la sicurezza verrà minacciata finché si continuerà a sacrificare la carne e a versare il sangue in nome di un'unità astratta. Chiacchiere, se vince Berlusconi sono dolori, corruzione, mediocrità, volgarità e decadenza lasceranno solo macerie. Andiamo non esageriamo, lo ammetto Berlusconi è pericoloso, ma è soltanto un fantoccio, lo sappiamo i nostri governi sono destituiti di sovranità e non sarà certo chi ce l'ha tolta come i Bersani e i Monti che ce la restituiranno. Invece di unire chi davvero vuole fare le riforme, quelle vere, e avviare da tempo una discussione seria sul liberismo e i suoi guasti, questi intellettuali si sono gingillati fra disquisizioni accademiche e masturbazioni post-moderniste. Invece di viaggiare per l'Italia nutrendo le coscienze e sobillando gli animi hanno frequentato i salotti televisivi, e adesso si preoccupano della “stabilità”. Qui di stabile c'è solo l'inamovibilità del vecchio potere che vuole perpetuarsi con l'alibi della necessità. Tutto puzza di vecchio, si proprio tutto, ma meglio un vecchio pazzo che urla alla luna che un vecchio saggio che ti sfila il portafoglio perché lo vuole l'Europa.

giovedì 21 febbraio 2013

Bellezza e città. Osservazioni sul rapporto tra estetica ed etica negli spazi urbani

di Giacomo Fronzi da Micromega

L’estetica, intesa come disciplina filosofica, è sempre più frequentemente sollecitata a rinnovare e aggiornare i propri strumenti d’analisi e il proprio campo d’azione. Tanto come teoria della sensibilità (contemporanea) quanto come riflessione sulle arti non può quindi rinunciare a riflettere sulle condizioni di vita dell’uomo d’oggi, quando su queste ultime sembrano influire anche questioni (etiche ed estetiche) connesse all’abitare.
In apertura di una conferenza intitolata La pratica della bellezza, James Hillman lamenta il fatto che generalmente parlare di “bello” e di “bellezza” in filosofia ha significato per troppo tempo, e in maniera piuttosto retorica, riferirsi a una dimensione ideale, elevata, così elevata da rendere la discussione su questi temi «noiosa, ottundente, narcotizzante». Molto più interessante potrebbe essere, quindi, parlare di bellezza come «pratica», soprattutto in un momento storico (eravamo all’inizio degli anni Novanta) in cui – sostiene Hillman – il represso non è ciò che abitualmente si immagina (la violenza, la misoginia, la sessualità, l’infanzia, le emozioni, i sentimenti, lo spirito), ma la bellezza[1]. Questa idea di repressione della bellezza sollecita l’esercizio della ricerca dei luoghi in cui tale repressione sembra essere più vistosa, più profonda, più radicale. Lo spettro è decisamente ampio, ma credo che uno dei contesti in cui la repressione della bellezza ha provocato conseguenze radicali sul piano pratico, della qualità della vita e, in definitiva, etico sia la città. Procedere in questo senso, tuttavia, comporta un ripensamento critico del profilo della città, delle sue modalità di sviluppo, delle sue profondità, della sua anima, partendo dall’idea che essa sia il prodotto visibile (la «parvenza sensibile», si direbbe hegelianamente) di un’idea architettonica e urbanistica. Ciò significa collocare tali due dimensioni tecnico-pratiche lungo la linea di confine tra l’estetica e l’etica, tra pratiche della bellezza e modalità d’esistenza, tra stili espressivi e stili di vita. In questo quadro, componenti estetiche, etiche, politiche, sociali e funzionali si intrecciano, acquistando un senso complessivo del tutto nuovo.
Rispetto alla connessione tra bellezza e moralità, tra estetica e comunità, è inevitabile ripartire da un testo chiave, autentico spartiacque nella storia dell’estetica, la Critica del Giudizio (1790) di Immanuel Kant[2]. Secondo una linea interpretativa che, tra gli altri, ha visto impegnata Hannah Arendt (mi riferisco naturalmente alla serie di lezioni che ella tenne, nel 1970, presso la New York School of Social Research, nelle quali si interrogò sui legami tra estetica e politica), la Critica del Giudizio rappresenterebbe il tentativo di Kant di intraprendere un nuovo e originale percorso rispetto a quanto aveva caratterizzato le due precedenti Critiche. Essa inaugurerebbe una dimensione etica e intersoggettiva non più normativa, ma politica, nella quale si renderebbe manifesto un «ripensamento complessivo della filosofia trascendentale, più precisamente […] un ripensamento che ne [riqualificherebbe] in modo più esplicito e radicale il punto di vista, presentandolo come uno sguardo indissociabile dal movimento di un’esperienza in atto, con un correlativo passaggio da un pensiero che tematizza l’Uomo a un pensiero che tematizza la pluralità degli uomini»[3].
Tale ripensamento (e il corrispondente passaggio dalla singolarità alla pluralità) è da ricondurre alla natura del giudizio estetico (disinteressato, contemplativo, necessario e universale), il quale vale universalmente e necessariamente senza poter essere dimostrabile logicamente, senza potersi richiamare a un concetto dell’intelletto che dimostri questa sua universalità e necessità. Il giudizio di gusto gode però di una particolare universalità, che non è né concettuale né oggettiva bensì soggettiva, fondata «sulla comunicabilità del sentimento, su un “senso comune” che non deriva da considerazioni d’ordine empirico-psicologico bensì dalla trama trascendentale dell’accordo intersoggettivo che fonda la soggettività universale e necessaria del giudizio estetico»[4].
Nelle pagine kantiane della terza Critica emerge quindi un soggetto aperto e orientato verso la comunicazione con gli altri soggetti; in esse si fa strada «una nuova teoria della soggettività comunicabile attraverso il sentimento e non i concetti»[5]. Visto sotto questo angolo visuale, il soggetto, senza ledere la propria e altrui individualità, è teso verso l’istituzione della comunità.
Ma oggi, i temi legati alla comunità e alla vita metropolitana, nelle loro relazioni con la dimensione etica ed estetica, acquisiscono nuovi e inediti caratteri. Basti pensare alla positiva relazione (perduta) tra spazi urbani ed equilibri sociali, architettonici e comunitari. Tale relazione è andata dissolvendosi anche in connessione con l’ambigua dialettica tra apertura e chiusura, che nella contemporaneità ha assunto caratteri quasi tragici. È nello spazio aperto o nello spazio chiuso che meglio può generarsi la comunità? Lo spazio chiuso e delimitato favorisce la creazione di comunità, però, al tempo stesso, segnala un bisogno di isolamento e di privacy. D’altronde, l’apertura richiama l’idea del flusso, della mobilitazione, della comunicazione, del confronto, del transito, ma anche l’idea dell’indistinzione e dell’indifferenza. Sebbene la megalopoli contemporanea si sia costituita come “erede” del modello della civitas[6], l’uomo contemporaneo è posto davanti al seguente dilemma: coltivare l’idea della pólis, della città-dimora, dello spazio ben delimitato che possa consentire «scambi sociali, relazioni ricche e partecipate», oppure «la grande idea romana, gente che viene da tutte la parti, che parla tutte le lingue, che ha tutte le religioni, un’unica legge però, un senato, un imperatore e una missione?»[7]. L’attuale condizione, per la quale l’uomo non abita più la città (della quale non esistono più i confini) ma territori, rappresenta il trionfo del cosmopolitismo e la realizzazione del sogno di unire gli uomini in un’unica sterminata città oppure la fine di «ogni ‘forma’ comunitaria»[8]?
Nella città tradizionale vigeva la «corrispondenza tra i tempi delle funzioni dei lavori, delle relazioni, e la qualità dell’architettura, dove l’architettura arricchiva, potenziava la qualità dell’insieme»[9]. Lo sviluppo post-metropolitano, invece, ha distrutto questo equilibrio tra spazi, temi, luoghi e funzioni, realizzando una falsa democrazia, abbattendo la positiva e identificativa discontinuità degli spazi e dei volumi, favorendo una continuità che è, in realtà, appiattimento e omologazione. Tale continuità è anche alla base dell’assenza di spazi ed oggetti architettonici riconoscibili. Alla forma della città tradizionale si è sostituita la megalopoli informe, dove l’elemento della misurabilità viene meno e il continuum urbanizzato favorisce la privatizzazione dello spazio pubblico, la parcellizzazione del vuoto in spazi senza forma, negando le strutture architettoniche urbane di tipo gerarchico, nelle quale vigano differenti relazioni di importanza all’interno del sistema.
Sembra, dunque, che le parole chiave della nuova architettura urbana non possano che essere discontinuità, relazionalità, polivalenza, multifunzionalità. Ma non solo. C’è anche la bellezza. Ed esattamente al problema, esteticamente ed eticamente rilevante, della bellezza delle città si dedica, da oltre un ventennio, Marco Romano, il quale ha elaborato un’originale teoria della bellezza urbana[10]. Le premesse di tale teoria, secondo Romano, sono di natura osservativa e sono incontrovertibili: tutte le città europee hanno avuto le stesse strade e piazze tematizzate, sempre lo stesso criterio di costruzione. I temi collettivi si sono presentati, nella storia, in successione, e in relazione ad essi ci si è posto costantemente il problema di come e in che modo disporli per poter avere il risultato più bello, esprimendo un profondo ed evidente desiderio di bellezza. «La bellezza, intesa come “nobile semplicità” e creativa genialità, non è un elemento supererogatorio, ma sostanziale. Il componimento architettonico palesa i contenuti cultuali, cagiona un’esperienza estetica, dirige gli animi verso il divino e muove i sentimenti verso la comunione fraterna»[11].
Ha ragione Romano nel sostenere che sullo sfondo dei ragionamenti sull’ecologia c’è forse da mettere in primo piano il fatto che prima della dimensione tecnica, nella nostra vita, c’è una dimensione simbolica. In un discorso sull’architettura e sull’urbanistica, questo significa che le società costruiscono degli ambienti che sono appropriati alla loro organizzazione. La società europea, sostiene Romano, ha costruito città contraddistinte da temi collettivi che ritornano in tutte le città e che consentono ad ognuna di esse di collocarsi nella geografia europea: il palazzo municipale, la strada monumentale, la chiesa principale, il teatro, il museo, la biblioteca, ecc. Da ciò discende che la mobilità del cittadino europeo (e la possibilità di integrarsi con facilità in qualsiasi città) è garantita dal fatto che egli nella nuova città riconoscerà quegli stessi temi collettivi che aveva nella città di provenienza. Si è potuto costruire delle città belle perché si è puntato sulla realizzazione di sequenze che articolavano in maniera coerente il tessuto urbanistico e che, grazie alla presenza di temi collettivi analoghi a quelli presenti al centro della città, consentivano la qualificazione delle aree più lontane dal centro, favorendo nei propri abitanti un senso di riconoscimento e appartenenza. Esattamente al polo opposto vi è, invece, la periferia contemporanea, intesa come zona degradata, come deserto di senso che si caratterizza proprio per l’assenza di temi collettivi e di segni simbolici che possano definire un sentimento di appartenenza. Sentire di appartenere a una città significa poter portare “dentro di sé” quella città, quel contesto urbano nel quale i tracciati e gli spazi sono ben identificabili, nel quale si rende possibile ciò che la megalopoli contemporanea nega: l’interiorizzazione, da parte dell’abitante, della mappa strutturale della città, per poi poterla identificare con la propria mappa psichica[12].
La sfida dell’architettura contemporanea è, in fondo, quella di creare una reale condivisione, è quella di favorire l’emergere di un sensus communis, facendo perno sulla forza di quegli elementi simbolici che la megalopoli contemporanea non presenta, nella quale, invece, «la perdita di ‘valore simbolico’ […] cresce proporzionalmente; assistiamo, o ci sembra di assistere, a uno sviluppo senza meta, cioè, letteralmente, insensato, ad un processo che non presenta alcuna dimensione ‘organica’»[13]. Migliorare l’abitare, però, non significa semplicemente realizzarlo sicuro, stabile e sostenibile, ma anche bello, sostenendo un’architettura che promuova un generale e profondo processo tanto di rigenerazione etica quanto di «rigenerazione estetica»[14]. Bellezza e funzione possono convergere.
Il nuovo assetto urbano e architettonico delle megalopoli contemporanee ha avuto numerose ricadute negative, tanto a livello di efficacia puramente architettonica quanto a livello di relazioni sociali. I timori manifestati a inizio Novecento, legati ad un irrefrenabile accrescimento del livello di inumanità e alienazione dei rapporti umani nelle neonate metropoli, emergono chiaramente, intrecciati in una sintesi esemplare, dalle pagine del saggio di Georg Simmel Le metropoli e la vita dello spirito (1903). La metropoli di cui parla Simmel presenta caratteri, pericoli e patologie che, al di là di ovvie e storiche differenze, sono riscontrabili nelle metropoli o nelle megalopoli contemporanee. Esse, come la metropoli simmeliana, sono i luoghi all’interno dei quali le tendenze dell’epoca presente si concentrano e si potenziano. La metropoli, sottoponendo l’uomo a inattese esperienze, a bruschi contrasti, all’alternarsi rapido di immagini e stimoli, creando, in definitiva, delle nuove e diverse condizioni psichiche in «profondo contrasto con la città di provincia e con la vita di campagna»[15]. Queste differenze rivelano un carattere duplice, segnale, allo stesso tempo, di libertà e di solitudine. L’uomo metropolitano si è liberato dalle «piccinerie» e dai «pregiudizi» tipici dell’uomo di provincia, ma, al contempo, questa stessa libertà fa emergere una profonda diffidenza e indifferenza tra gli individui, tra i membri di una stessa (seppure elefantiaca) comunità. Smarrito in un oceano di indistinzione e di conformismo, l’uomo metropolitano è spinto a mettere in risalto la propria personalità, attraverso le «eccentricità più arbitrarie», le «stravaganze tipicamente metropolitane della ricercatezza, dei capricci, della preziosità, il cui senso non sta più nei contenuti di tali condotte, bensì solo nell’apparire diversi, nel distinguersi e nel farsi notare»[16].
Lo spazio urbano contemporaneo è uno spazio de-relazionale, difficile da penetrare e comprendere, che può essere spiegato solo facendo riferimento a categorie tra loro anche opposte. Non è più lo spazio dai confini certi, delle gerarchie, delle transizioni “soft”, contraddistinto da una generale monofonia. È, invece, «uno spazio polifonico fatto di situazioni differenti, in cui pezzi di territorio si muovono, con andature e velocità diverse, intrecciandosi tra loro a diverse scale e diversi livelli, mediante sistemi di relazioni molteplici, variabili e discontinue»[17]. Tutto è cambiato. Gli spazi non sono più vissuti, abitati e percorsi allo stesso modo, perché non c’è più un unico modo di viverli, abitarli e percorrerli. L’eterogeneità dei territori, la multiformità dei volumi, l’impossibilità di concepire il «tutto unico» indicano che si è compiuto un passaggio. Non si è più attori bensì semplici comparse, eterodirette in una dimensione incerta, fluttuante e puntiforme. In perfetta sintonia con questi cambiamenti “strutturali” – sostiene Lidia Decandia – è entrata in crisi anche la modalità di decodifica percettiva degli spazi che a partire dal Quattrocento ha rappresentato il modo di leggere, interpretare e comprendere la realtà: lo sguardo prospettico: «La nostra cultura, permeata dal pensiero visivo prospettico e abituata a leggere la città come un testo sottoponibile a un unico sguardo, non riesce più a cogliere il senso di questa nuova geografia assurda e inafferrabile»[18]. A questo corrisponde, poi, la differente modalità di rappresentazione e simbolizzazione di questa nuova dimensione, nella quale «saltano evidentemente le valenze simboliche attribuite alla stessa idea di centralità e di marginalità. Spesso sono i luoghi periferici e marginali, i territori “scartati dalla modernità”, le aree a più denso contenuto di naturalità ad accogliere nuove funzioni urbane»[19].
La struttura urbana, allora, non è innocente. Vi è un nesso diretto tra tipologie e modalità dell’abitare e comportamenti sociali, un nesso tale da produrre sviluppi sociali diversi e opposti a seconda che esso si presenti nella sua versione positiva o negativa («c’è una connessione – sostiene Franco La Cecla – tra il modo in cui le periferie sono fatte e la bruttezza della vita sociale che provocano»[20]). È alla relazione, intesa come orizzonte teorico e obiettivo pratico, che è doveroso richiamarsi, allo scopo di interrompere e riconvertire dinamiche nelle quali tagli, separazioni, chiusure, assenza di forma vengano spacciate per elogio delle differenze, e, al contrario, l’omologazione e la mancanza di gerarchie e differenziazioni degli spazi e dei moduli vengano spacciate per esempi di democrazia sociale ed urbana. Tanto i confini quanto le aperture non possono e non devono venire meno, dal momento che non si dà apertura se non dei confini e non si danno confini se non in uno spazio inutilmente illimitato. I territori vanno rivisti e rivissuti nella loro mobilità, «elastici, deformabili, capaci di accogliersi l’un l’altro, di penetrare gli uni negli altri, spugnosi, molluscolari. Non si tratta di un’operazione di soppressione del confine: qualsiasi corpo presenta confini, pena l’annullarsi. Né si tratta di confondere anarchicamente le relazioni fra i diversi tempi dei diversi luoghi. Si tratta piuttosto di accordare senza confondere, facendo vivere l’intero nella qualità di ogni parte»[21].
Ecco perché per l’estetica, tanto come teoria della sensibilità quanto come riflessione sulle arti, non può rinunciare a trattare le questioni connesse all’abitare, inteso come elemento fondamentale e discriminante per il miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo.
Giacomo Fronzi (1981), dottore di ricerca in filosofia, diplomato in pianoforte. Svolge attività di ricerca presso la cattedra di Estetica dell’Università del Salento. Tra le sue ultime pubblicazioni: Theodor W. Adorno. Pensiero critico e musica (Mimesis 2011), John Cage. Una rivoluzione lunga cent’anni (Mimesis 2012), Electrosound. Storia ed estetica ella musica elettroacustica (EDT 2013).
[1] J. Hillman, La pratica della bellezza, in Id., Politica della bellezza, a cura di F. Donfrancesco, trad. it. di P. Donfrancesco, Moretti&Vitali, Bergamo 20053, pp. 85-101. [2] Bisogna comunque tenere presente che per Kant «la bellezza è solo un simbolo della moralità, e tra i giudizi morali ed estetici c’è solo un rapporto di analogia. Kant trattò in modo interessante le differenze morali ed estetiche in modi sistematicamente paralleli» (P. Pellegrino, La bellezza tra arte e tradizione. Storia e modernità, Congedo Editore, Galatina 2008, p. 113).
[3] P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, Carocci, Roma 2007, p. 21.
[4] E. Franzini, L’estetica del Settecento, il Mulino, Bologna 1995, p. 160.
[5] V. Fazio-Allmayer, «Vico e Kant e l’universale estetico», in Id., Moralità dell’arte e altri saggi, Sansoni, Firenze 1972, p. 83.
[6] Mentre la pólis era «fondamentalmente l’unità di persone dello stesso génos» (M. Cacciari, La città, Pazzini Editore, Villa Verucchio 20083, p. 9), rinviando, pertanto, ad un «tutto organico» che precede l’idea di polítes, la civitas era il risultato dell’aggregazione di persone diverse per religione, etnia, costumi, e rappresentava un’idea che segue quella di cives. La pólis guardava al passato (incarnato dal génos) mentre la civitas era proiettata verso il futuro: ciò che reggeva la civitas non era «un fondamento originario quanto un obiettivo» (ivi, p. 15), un fine, quello dell’imperium sine fine, della civitas mobilis augescens.
[7] Ivi, p. 24.
[8] Ivi, p. 55.
[9] Ivi, p. 64.
[10] Cfr. M. Romano, L’estetica della città europea. Forme e immagini, Einaudi, Torino 1993; Costruire le città, Skira, Milano 2004; La città come opera d’arte, Einaudi, Torino 2008; Ascesa e declino della città europea, Raffaello Cortina, Milano 2010.
[11] C. Chenis, L’architetto poeta dello spazio, in «L’Architetto», a. xvii, n. 151, novembre 2000, p. 21.
[12] Cfr. K. Lewin, Principi di psicologia topologica, trad. it. di A. Ossicini, Organizzazioni speciali, Firenze 1980 (2a rist.).
[13] M. Cacciari, La città, cit., p. 58.
[14] M. Romano, Costruire le città, cit., p. 19.
[15] G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, trad. it. di P. Jedlowski e R. Siebert, Armando Armando, Roma 1995, p. 36.
[16] Ivi, pp. 52-53.
[17] L. Decandia, Polifonie urbane. Oltre i confini della visione prospettica, Meltemi, Roma 2008, p. 11.
[18] Ivi, p. 144.
[19] Ivi, p. 126.
[20] F. La Cecla, Contro l’architettura, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 60.
[21] M. Cacciari, Nomadi in prigione, in A. Bonomi, A. Abruzzese (a cura di), La città infinita, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 51-59: 58.

domenica 17 febbraio 2013

Perché siamo entrati nell'euro. Intervista a Loretta Napoleoni

da byoblu

Nel giugno scorso, su questo blog Nino Galloni ci informava di un accordo tra Mitterrand, Kohl e la politica italiana di fine anni '80 circa un processo di deindustrializzazione del nostro tessuto produttivo, usato come merce di scambio per l'ingresso nell'Euro. Oggi Loretta Napoleoni, che io e voi, nsieme, abbiamo intervistato in crowd funding, dà la sua risposta alla domanda fondamentale che tutti si sono posti: "perchè?".

Nino Galloni, il "funzionario oscuro che faceva paura a Kohl", sarà nostro ospite la settimana prossima.

MESSORA: Loretta Napoleoni, economista internazionale, esperta in tante cose, anche di terrorismo. Oggi sei qua perché hai scritto un libro che si chiama “Democrazia Vendesi”, ma sei qua anche perché sei largamente nota al nostro pubblico. Siccome Byoblu.com è un posto particolare, è un luogo di persone molto ispirate e soprattutto informate, intuiamo perché tu hai scritto “Democrazia vendesi”, non devi convincerci. Ma sicuramente oggi sei qui perché manderemo in galera un po' di persone, farai qualche affermazione forte. Come cominciamo?

NAPOLEONI: Cominciamo con il motivo per il quale ho scritto un libro di questo tipo che è uscito poco prima dell'inizio della campagna elettorale: perché bisogna smettere di votare questi individui, perché se ne devono andare. Il problema economico è un sintomo del problema politico ed è per questo che il titolo del libro è “Democrazia vendesi”.

MESSORA: Ma questa democrazia l'abbiamo già venduta o possiamo ancora fare qualcosa?

NAPOLEONI: No, non l'abbiamo venduta tutta. Per prima cosa non l'abbiamo venduta noi ma l'hanno venduta loro. Il concetto fondamentale è che in tre anni di emergenza economica, che poi è diventata la normalità, diciamo, quello che è successo è che noi abbiamo perso pezzi sempre più grandi della nostra democrazia proprio attraverso questa emergenza. Decisioni importanti sono state prese da individui e organizzazioni che non sono elette da noi, quindi noi dobbiamo difendere questa nostra democrazia, perché molto presto non rimarrà nulla, rimarranno solamente le macerie. Tra l'altro è interessantissimo, e io ne parlo nel libro, il parallelo con il 1992. In realtà anche il '92, il famoso annus horribilis dell'Italia, fu un anno in cui venne svenduto il patrimonio nazionale attraverso delle politiche di emergenza che scavalcarono completamente i principi democratici e, guarda caso, questa politica è stata portata avanti dagli stessi uomini che la portano avanti oggi; Mario Draghi era capo del Tesoro e ha guidato le grandi privatizzazioni, che poi furono delle svendite, dei saldi del patrimonio nazionale italiano, a un gruppo di famiglie, a un gruppo di poli industriali e finanziari e non al popolo, come invece avvenne in Inghilterra. L'idea della privatizzazione è sempre quella lì di allargare l'azionariato e quindi di dare la possibilità a tutti di partecipare al bene comune attraverso una struttura che è una struttura privata, per esempio la privatizzazione delle Ferrovie dello Stato Britanniche. Ecco, qui non è avvenuto questo, qui il processo di privatizzazione ha creato degli oligopoli. La stessa cosa sta succedendo oggi in Europa e, guarda caso, chi guida questo processo, secondo me altamente antidemocratico, è di nuovo Mario Draghi che si trova ad essere il governatore della Banca Centrale Europea.

MESSORA: Sono sempre gli stessi. Mario Draghi, se non mi sbaglio, era vicepresidente di Goldman Sachs quando Goldman Sachs truccò i conti, operazione che permise alla Grecia di entrare nell'euro.

NAPOLEONI: Sì, in effetti nel libro c'è un capitolo che si dedica ai soliti noti, perché sono sempre loro, e io ricordo al lettore il loro curriculum vitae, perché è fondamentale. Gran parte di questi signori che hanno svenduto il nostro patrimonio nazionale nel 1992, poi vennero assorbiti come consulenti dalle grandi banche d'affari, tra le quali appunto Goldman Sachs, che guidarono questo processo di privatizzazione, intascando lauti guadagni semplicemente per una operazione di supervisione del processo, e Mario Draghi andò appunto alla Goldman Sachs. Ma anche Mario Monti andò alla Goldman Sachs.

MESSORA: Romano Prodi.

NAPOLEONI: E Romano Prodi. Questo è l'orizzonte.

MESSORA: Cioè c'è un oligopolio economico-finanziario che tira un po' le fila e decide un po' le sorti. Questo ormai lo abbiamo tristemente capito.

NAPOLEONI: Sì, ma una cosa interessante, secondo me, che non succede all'estero, è questa, perché i nostri, una volta fatta l'operazione, una volta fatto il salvataggio del paese, appunto nel '92, non rimangono in carica e quindi non ricostruiscono il paese, non danno al paese un contributo per potersi rialzare. No, se ne vanno all'estero e vanno a lavorare per i grossi finanzieri mondiali. Questo non succede in Spagna, non succede in Francia, sicuramente non succede in Germania.

MESSORA: Cioè una volta che tu compi il tuo mandato, sei chiamato a risponderne politicamente di fronte all'elettorato e quindi continuare a guidare il paese, se no così sembra che hai fatto un lavoro sporco e poi te ne sei andato.

NAPOLEONI: Sì. Insomma, uno arriva a questo tipo di conclusioni, nel senso che si entra e si esce dal sistema pubblico e dal sistema privato a seconda della convenienza personale, della propria carriera, ma anche e soprattutto degli interessi dei grandi gruppi finanziari con i quali si fanno affari nel momento in cui uno si trova nella situazione di avere una carica pubblica e subito dopo passa dall'altra parte della barricata e diventa invece un iniziatore di attività di questo tipo, vedi il caso di Draghi e la Grecia.

MESSORA: Quindi c'è una sorta di conflitto che andrebbe regolamentato, che è quasi superiore a quello di interessi di Silvio Berlusconi, è un conflitto proprio tra la guida delle moderne democrazie e la guida degli istituti finanziari privati che detengono grandi quantità di capitali. Questo conflitto secondo te come si potrebbe risolvere?

NAPOLEONI: Sì, io penso che sia proprio così. Abbiamo quasi un rapporto incestuoso tra il settore pubblico e l'alta finanza. Penso che Berlusconi, il fenomeno Berlusconi che non è così vicino tanto alla finanza quanto invece all'informazione e quindi ai media, sia un po' la punta dell'iceberg. Come si risolve? Si risolve, secondo me, attraverso un processo culturale, non si può risolvere in nessun altro modo. Nel senso che la popolazione deve raggiungere la consapevolezza di quello che sta succedendo e per raggiungere questa consapevolezza deve sapere quello che succede. È chiaro che se i media queste cose non ce le dicono, noi dobbiamo andare a cercare questo tipo di informazione da qualche altra parte. Una volta ottenuto questo tipo di informazione ci sarà la consapevolezza. Raggiunta la consapevolezza, a quel punto si farà qualcosa per sbarazzarsi di questi individui. Però se noi rimaniamo nell'ignoranza, che poi è quello che è successo in questo paese negli ultimi trent'anni... Perché nessuno si ricorda quello che ha fatto Mario Draghi, nessuno si ricorda cosa faceva Prodi prima della fine della prima Repubblica, né tantomeno Mario Monti. Questi sono tutti democristiani.

MESSORA: Cosa faceva Mario Monti?

NAPOLEONI: Mario Monti era vicinissimo a De Mita, quindi era uno dei personaggi, giovane, chiaramente ai tempi, giovanissimo, che si muoveva nell'area di De Mita. Adesso io non è che dico che assolutamente noi dobbiamo non credere a questi individui per questo tipo di passato, però che questo tipo di passato esca fuori e se ne parli. Invece no, tutti quanti cercano continuamente di indossare abiti che sono abiti puliti e tutti quanti cercano di ricrearsi la verginità.

MESSORA: E poi se li vanno a lavare in questi grandi gruppi internazionali, dove si prendono decisioni sovranazionali nell'interesse di tutti, decisioni estremamente importanti che non vengono però discusse nei parlamenti nazionali. Anticipo una delle domande che ti sta per porre la rete, perché questa intervista è stata ampiamente promozionata in rete e una delle domande ricorrenti era proprio quella relativa al Gruppo Bilderberg, perché tu sai che ci sono delle dichiarazioni da parte di Imposimato che dice che dalle sue carte, che risalgono a 20-30 anni fa, addirittura emergerebbe un suo coinvolgimento dietro gli anni delle stragi, gli anni di piombo, il terrorismo italiano. Poi tu sei esperta di terrorismo, magari ci puoi dire qualche cosa. C'è chi dice che dentro al gruppo Bilderberg ci sono queste riunioni – lo dico a beneficio di chi non lo sapesse ancora – dove si incontrano a porte chiuse le stesse persone che poi vengono nei parlamenti nazionali a prendere delle decisioni, quindi non si tratta di essere complottisti, si tratta di domandarsi: come mai, se io ti eleggo e ti pago lo stipendio, io non posso capire che tipo di decisione prendi? Dietro queste persone sembrerebbe che ci fosse la CIA oppure addirittura che fossero dietro l'abbattimento del muro di Berlino. Qual è la tua opinione e quali sono le tue conoscenze circa questi consessi privati?

NAPOLEONI: Noi non abbiamo le prove. Sicuramente il Bilderberg esiste, si riuniscono regolarmente ogni anno e quindi non è un segreto. Che poi il Bilderberg manovri il mondo nel modo in cui molti pensano, questo noi non lo possiamo provare, anche perché le riunioni sono tutte a porte chiuse. Però è significativo, secondo me, che alcuni individui ruotano sempre intorno a determinati poli di potere. È anche significativo che alcune decisioni vengono prese da questi individui. Quindi un tentativo di manovrare il mondo che conta sicuramente c'è. Che poi questo tentativo funzioni ho dei dubbi. Perché poi questi individui non sono diversi da noi, cioè non è che hanno un'intelligenza superiore, quindi il potere li consuma nello stesso modo in cui il potere consuma chiunque e quindi ogni tanto incappano in grossi problemi. Esempio: il crollo della Lehman Brothers. Se uno rianalizza il crollo della Lehman Brothers, è molto interessante come il rapporto personale che esisteva tra quei banchieri che si sono riuniti per tutto quanto il fine settimana prima dell'annuncio della bancarotta della Lehman, ha avuto un'importanza maggiore della razionalità finanziaria. La Lehman doveva essere salvata dal punto di vista razionale e lo potevano fare, perché hanno salvato organizzazione ben più grandi della Lehman.

MESSORA: La FED ha emesso 7.500 miliardi di dollari.

NAPOLEONI: Esatto. Però c'era un elemento personale all'interno di questo gruppo nei confronti dei vertici della Lehman. La Lehman stava antipatica. Alla fine, secondo me, quello che è molto interessante nel comportamento di questi individui che noi consideriamo un po' i sacerdoti di questo nostro mondo, è che alla fine le passioni umane sono sempre quelle che governano, è la famosa buccia di banana su cui cadono tutti. Certo, poi le conseguenze le paghiamo anche noi. Quindi io penso che sicuramente il Bilderberg esiste, sicuramente il suo scopo è quello di poter riuscire a controllare, però non ci riescono e quindi ogni tanto scoppia una bella crisi, ogni tanto c'è un grande crollo, perché il mercato è la forza più indipendente e più democratica che c'è, nessuno lo controlla.

MESSORA: Il debito pubblico è brutto, sporto e cattivo ed è il motivo per cui ci troviamo in queste condizioni oppure no?

NAPOLEONI: Una buona parte del debito pubblico direi che è un debito odioso. Che cos'è il debito odioso? Il debito odioso è un debito di usura ed è un debito che viene contratto con false pretese, con false informazioni. Nel caso dell'Italia io penso che un buon 45% del debito che è nelle mani del settore estero ancora potrebbe essere rinegoziato sulla base proprio di questo concetto del debito odioso, che poi è il concetto che è stato portato avanti anche dall'Ecuador. Qual è la strategia da seguire? La strategia da seguire è che indebitarsi per pagare gli interessi sul debito è illegale, è anatocismo per quanto riguarda l'individuo privato, quindi la persona fisica. Perché non lo deve essere per uno Stato? Noi in realtà ci stiamo indebitando per pagare degli interessi e questo secondo me non dovrebbe essere accettato. Ma c'è anche un altro aspetto che è ancora più importante e che è l'origine della ricchezza finanziaria, proprio perché il sistema bancario è un sistema che poggia sul concetto di impresa privata, quindi le banche centrali sono tutte di proprietà della banche private, per esempio la Banca d'Italia, una parte della Banca d'Italia è della Deutsche Bank, un'altra parte è della BNP Paribas. Quindi qual è l'origine della ricchezza finanziaria? È il debito. Noi ci indebitiamo, gli Stati si indebitano, le banche producono liquidità, quindi le banche centrali producono liquidità, quindi stampano la moneta dal nulla e noi ripaghiamo non solo quella moneta prodotta dal nulla ma anche il tasso di interesse. Se noi ci troviamo in una situazione, tipo l'Italia, con 2.000 miliardi di debito, con un tasso di crescita a -2,6, con un decennale di crescita intorno allo 0,5%, quel debito non potrà mai essere ripagato. Quel debito può essere ripagato solamente con un tasso di crescita al 10%. La Cina cresce tra il 7 e l'8, quindi è impossibile. Allora se io sono il sistema finanziario e io vivo sulla produzione del debito e mi trovo di fronte a una situazione in cui un debito non potrà mai essere ripagato, è nel mio interesse azzerare quel debito al più presto possibile, per poi ricominciare a crearne un altro. Ed ecco quello che noi dovremmo fare, noi dovremmo rinegoziare quel debito. Chiaramente il debito che noi abbiamo con gli italiani, coi risparmiatori italiani, quello deve essere onorato.

MESSORA: Secondo un conto che avevo fatto, il debito detenuto dalle famiglie italiane ammonta a circa il 12%.

NAPOLEONI: Il debito delle famiglie italiane ammonta al 12%. Poi c'è tutto il debito che è stato ricomprato negli ultimi tre anni dalle banche italiane, e siamo circa al 50-55%. Chiaramente le banche italiane quel debito lo hanno ricomprato coi nostri risparmi. Quindi se io non lo ripago... Sicuramente io posso fare un'operazione in cui negozio quel 45%, lo riduco del 50%, mi accordo e poi esco dall'euro, creo un euro a due velocità e quel debito automaticamente mi scende, perché io avrò una svalutazione del 30-40%, ma non importa, perché tanto la moneta che viene utilizzata dal risparmiatore italiano, dalle banche italiane, è la stessa, perché non ho quel rischio di cambio che invece avrei se io mantenessi il debito in euro. Il debito con l'estero l'ho rinegoziato, ho anche rinegoziato il rapporto di svalutazione, perché è chiaro che nella rinegoziazione si parlerà anche di questo, a questo punto io mi trovo in una situazione migliore di quella in cui mi trovo adesso.

MESSORA: Mi domandano sempre dalla rete, siccome tu hai menzionato l'Ecuador prima, se soluzioni alla Ecuador e alla Argentina anche, che si è trovata a rinegoziare il debito - e adesso c'è sempre un dibattito acceso tra la Kirchner e Cristine Lagarde – sono o non sono applicabili per l'Italia, anche in vista del fatto che noi abbiamo delle risorse naturali diverse o anche più scarse, se vuoi?

NAPOLEONI: Io penso che la rinegoziazione del debito possa avvenire in Italia come è avvenuta in Ecuado e come è avvenuta in Grecia. Perché la Grecia questo ha fatto. Alla Grecia è stato abbuonato il 75% del debito, che è una rinegoziazione, è un default tecnico.

MESSORA: Controllato.

NAPOLEONI: Esatto. Però è stato fatto. Non mi sembra che il mercato sia impazzito. Anzi, alla fine del 2012 hanno ricominciato a comprarsi il debito greco.

MESSORA: La Grecia ha meno risorse di noi.

NAPOLEONI: Esatto. Adesso si sono ricomprati anche il debito portoghese. Quindi il mercato non ha nessun problema riguardo a questo. In più alla Grecia è stato abbuonato, nel 2012 – ecco perché io dico se c'è una volontà di azzerare questo debito, perché se no qui non riparte il volano della creazione di ricchezza attraverso il debito – anche quella parte di debito che aveva con organizzazioni sovranazionali e quindi la BCE, l'Unione Europea e il Fondo Monetario. Loro non hanno partecipato a quella riduzione del 75%, però hanno fatto un'altra riduzione. Questo è stato fatto in sordina, non se n'è accorto nessuno, perché era sotto Natale, e lo hanno fatto apposta, perché non vogliono che la Germania in un anno elettorale debba confrontarsi con un elettorato che le domanderà: ma allora a questi qui gli abbiamo abbuonato tutto? Esistono tutti questi meccanismi che chiaramente chi conosce la finanza, chi è operativo sul mercato finanziario tutti i giorni, queste cose le sa e quindi presumo che anche la nostra classe politica le sappia; se non le sanno allora veramente sono degli incompetenti.

MESSORA: Mario Monti è arrivato e c'era lo spread a 587, “fate presto! Fate presto!” e c'erano certi parametri nella nostra economia. Adesso se n'è andato con i parametri tutti peggiorati, in più l'incertezza delle elezioni, e lo spread è a 287, adesso 280, fintamente, per la dichiarazione di Berlusconi sull'IMU. Lui si rivende questa discesa dello spread come un suo risultato. Secondo te dipende da lui o non c'è questa stretta correlazione tra la politica di un governo e lo spread?

NAPOLEONI: Lo spread non è un indicatore economico, quindi non importa se lo spread sta a 500 o a 200. Quello che dobbiamo vedere è l'economia. Se noi avessimo lo spread a 500 con un'economia che cresce al 10%, sarebbe fantastico. Noi invece abbiamo uno spread che è sceso al 2,6-2,8 e abbiamo tutti gli indicatori economici, tutti altamente negativi e in più siamo in contrazione al 2,6%. Quindi che cosa ha fatto Mario Monti? Ha fatto quello che doveva fare per riattivare il volano del debito. Ecco che con un debito vicino al 7% l'investitore straniero non vuole toccare l'Italia, è troppo pericoloso, perché chiaramente l'Italia potrebbe saltare. Saltando l'Italia, quindi bancarotta non volontaria o controllata ma vera e propria bancarotta, perderebbe tutto il suo investimento. Quindi bisogna portare giù, bisogna abbattere lo spread, il tasso di interesse. Il tasso di interesse, lo spread, è l'indicatore del sentimento di mercato nei confronti di un determinato paese.

MESSORA: Ma lo ha abbattuto Monti questo spread o lo ha abbattuto Mario Draghi con le famose LTRO e poi con la dichiarazione secondo la quale avrebbe fatto tutto il possibile per salvare l'euro?

NAPOLEONI: Lo hai detto. Lo ha abbattuto Mario Draghi. Allora, Mario Monti è stato il fiancheggiatore, quindi ha creato le condizioni in Italia per poter offrire all'elettorato del nord Europa un'immagine di un'Italia completamente diversa da quella di Berlusconi. Che vuol dire? Un'Italia non spendacciona, un'Italia più simile alla Germania, in cui si fanno grandi sacrifici e anche un'Italia che accetta la punizione, come è avvenuto in Grecia, quindi che a testa bassa dice: sì, va bene, noi faremo questi sacrifici perché abbiamo sperperato. Ma chi ha rassicurato il mercato finanziario è stato Mario Draghi che ha immesso sul mercato, nel giro di 11 mesi, 2.000 miliardi di euro. 2.000 miliardi di euro! E dove sono finiti 2.000 miliardi di euro? Sono finiti nelle banche. E che cosa hanno fatto queste banche con questi 2.000 miliardi di euro?

MESSORA: Hanno ricomprato il debito.

NAPOLEONI: Hanno ricomprato il debito. Però – interessantissimo quello che è successo – le banche italiane hanno ricomprato il debito italiano, le banche greche chiaramente hanno cercato di arginare il debito greco, ma improvvisamente, alla fine del 2012, ci si è resi conto che il ritorno dell'investimento, il guadagno dell'investimento di chi aveva comprato il debito greco, sul mercato secondario chiaramente, era stato del 74% perché la crescita non è saltata. Perché con tutte queste politiche che poi hanno fatto, questi rendimenti sono saliti, perché è inversamente proporzionale il rendimento sui titoli. Invece chi aveva investito nei titoli di Stato tedeschi aveva guadagnato il 4%. Quindi a dicembre del 2012 questa liquidità che girava ancora nel sistema si è spostata tutta verso il debito della periferia. È questa la grande rotazione di cui chiaramente in Italia non parla nessuno, nessun giornale lo ha scritto. Però diciamo che i giornali stranieri hanno fatto i titoloni su questo. Quindi si è riiniziato a comprare il debito della periferia. Parliamo del Portogallo, Grecia, Italia e via dicendo. Perché il tasso di interesse era più elevato di quello che uno poteva ottenere investendo invece nei titoli non a rischio. Perché? Perché si vuole sempre avere un guadagno rapido. Invece di investire questi soldi nel settore dell'economia reale, le banche hanno ignorato il settore dell'economia reale e hanno ricominciato a fare soldi al grande casinò della finanza. Questa è la situazione attuale.

MESSORA: Tra l'altro dei 30 miliardi che sono stati dati alla Grecia attraverso le operazioni di aiuti dell'Europa, BCE e Unione Europea, al governo greco è impressionante vedere come non sia stata devoluta che una piccolissima percentuale, tutto il resto è finito alle banche che si sono ricomprate il debito e conseguentemente hanno ritrasferito indietro i soldi alle stesse economie che avevano poi generato e prodotto i soldi che si sono presi. Quindi è un giro del fumo senza fine. Secondo te l'euro si romperà, usciremo dall'euro? E aggancio a questa domanda anche la considerazione se secondo te con una moneta sovrana ripartiremmo o sarebbe la catastrofe.

NAPOLEONI: No, io penso che noi dobbiamo uscire. L'ho sempre detto, io sono sempre stata euroscettica, anche quando non c'era nessun euroscettico in questo paese. Noi dobbiamo uscire dall'euro. L'euro è una costruzione monetaria sbagliata. L'euro doveva essere un punto di arrivo e non un punto di partenza, lo dice la teoria economica. Quindi che cosa ha fatto l'euro? L'euro in realtà ha dato ai paesi del nord Europa, in particolare alla Germania, una competitività che non aveva. Quindi ha aumentato la competitività del prodotto tedesco ed ha abbattuto la competitività del nostro prodotto. Perché non dimentichiamoci che l'euro ha bloccato non solo il meccanismo di svalutazione della lira ma anche il meccanismo di rivalutazione del marco. Un tempo tutti volevano comprarsi la BMW, però non lo potevano fare perché c'era un tasso di cambio, quindi con il tempo il marco saliva e la lira scendeva. Oggi che differenza c'è tra una BMW e una Panda? Nel senso, in termini monetari i prezzi sono fissi, quindi è chiaro che la concorrenza, specialmente in alcuni settori del prodotto tedesco, è stata schiacciata e ha portato chiaramente alla chiusura di imprese ma anche alla dissoluzione di alcune industrie. L'industria manifatturiera greca, che contribuiva al 35% del PIL nel 1981, quando la Grecia è entrata nell'Europa Unita è scomparsa, nel 2010 non c'era più nella bilancia dei pagamenti. Il 75% del PIL greco proveniva dai consumi, dove c'è sicuramente anche il turismo, e dagli aiuti economici e finanziari che arrivavano dall'Europa Unita. Quindi ecco il fenomeno della cosiddetta colonizzazione prodotta dall'euro all'interno dell'eurozona o cannibalizzazione, perché poi stiamo tutti insieme, siamo un'area economica, noi distruggiamo parti della nostra stessa economia. Quindi uscire dall'euro è l'unico modo per riprendersi una parte di questa competitività, ma anche per ricostruire quell'industria che è andata distrutta e per farlo abbiamo bisogno di una sovranità monetaria e per avere la sovranità monetaria, quindi per stampare moneta, noi dobbiamo uscire dall'euro, perché altrimenti è la BCE che decide quanto si stampa e dove finiscono questi soldi. Perché ha stampato 2.000 miliardi, che è tantissimo, però noi di questi 2.000 miliardi... Io arrivo dal Veneto, il Veneto è in ginocchio, quello era il volano dell'economia italiana. Il medio-piccolo, ma anche il grande imprenditore del Veneto di quei 2.000 miliardi non ha visto nulla.

MESSORA: Mi chiedono, sempre dalla rete, se conosci la Modern Money Theory, o MMT, e se hai una critica positiva o negativa.

NAPOLEONI: La MMT è, diciamo, una teoria che si interessa principalmente della creazione della moneta e del modo in cui poi questa moneta circola, e va benissimo, nel senso che è molto interessante come teoria. Però noi qui non abbiamo bisogno di una teoria tecnica, di teorie tecniche ce ne abbiamo tantissime. Qui noi abbiamo bisogno di una politica economica. Allora la decisione di uscire dall'euro, la decisione di rinegoziare la nostra posizione all'interno dell'Europa Unita e la decisione di come poi indirizzare la nostra economia, è una decisione politica. La MMT non mi risolve questo problema, assolutamente no. Quindi direi che è una parte tecnica di un processo molto molto più ampio, che però è un processo politico. Non dimentichiamoci che l'economia è sempre subordinata alla politica e questo è l'errore che fanno in molti. Qual è l'errore fondamentale del neoliberismo? Che l'economia funziona meglio. Ricordiamoci Reagan. Reagan è quello che ha lanciato: qual è il vostro problema? Il problema è lo Stato, è il Governo, quindi riduciamolo e sostituiamo il mercato. I risultati sono disastrosi. La teoria marxista, per esempio, anche la teoria di Ricardo, la teoria di Adam Smith, erano teorie sociologiche, politiche ed economiche. Di questo abbiamo bisogno, di tornare a quel tipo di politica che vede l'economia come una sua branca importantissima, ma che prende delle decisioni. Oggi come oggi c'è un tentativo di controllo da parte dell'élite del mercato. Il mercato è libero e quindi il mercato si regola da solo e praticamente dà a questa élite una serie di risultati negativi proprio perché il mercato è libero, quindi non crede alle élite; le élite cercano di condizionarlo. Quindi il mercato è una grandissima forza democratica, ma il mercato non è la politica. Nel senso, il mercato crea anche dei grandi squilibri nella ricerca del profitto. Quindi le due cose sono assolutamente relazionate. Cioè l'élite non può controllare il mercato. Solamente lo Stato può regolarizzare il mercato, non controllare. Ma se io do al mercato il potere dello Stato, allora è la fine. È quello che sta succedendo oggi, che alcune élite, che sono élite del denaro, cercano di manipolare il mercato. Ecco quello che sta succedendo.

MESSORA: Democrazia vendesi.

NAPOLEONI: Infatti! Democrazia vendesi.

MESSORA: L'Europa Unita è un processo elitario ottenuto senza il consenso dei popoli, tutte le volte che sono stati consultati hanno spesso risposto di no. Tu sei europeista oppure credi che l'Europa debba in qualche maniera disgregarsi o come debba trasformarsi?

NAPOLEONI: No, io sono a favore dell'Europa. Secondo me l'idea dell'Europa è fantastica. Nel senso che noi ci siamo trucidati a vicenda per 2000 anni e adesso invece siamo in pace. In passato una crisi tipo questa sarebbe sfociata in un conflitto, ce lo dice la storia. Quindi sicuramente questo l'Europa ce l'ha dato, ci ha dato un'area di pace. Però l'Europa va fatta nel modo giusto, come avevano pensato i famosi padri fondatori dell'Europa. È un processo lunghissimo. Immaginiamo che noi nel giro di 50 anni riusciamo a risolvere i problemi culturali, le tensioni politiche, i risentimenti e via dicendo, di 2000 anni di sangue in Europa. È impossibile. Allora bisogna avere pazienza e non manipolare questa Europa. Perché, insomma, l'euro esiste oggi perché c'è stata una manipolazione da parte della signora Thatcher e di Francois Mitterand con la caduta del muro di Berlino. Nessuno aveva pensato che l'euro sarebbe arrivato nel 2000. Anzi l'euro era, diciamo, l'ultimo obiettivo da raggiungere dopo un processo di integrazione, che iniziava con un'integrazione commerciale, passava per un'integrazione economica, arrivava a un'integrazione fiscale, politica, e poi, alla fine, c'era questa monetina, il premio di questo lungo processo. Invece no. Crolla il muro di Berlino, Helmut Kohl riunifica la Germania. Guardate che io che l'ho vissuto molto da vicino, perché io ho lavorato oltrecortina, dall'80 all'82 io ho lavorato con la Banca Nazionale d'Ungheria e quindi ho vissuto oltrecortina e conosco quelle zone, poi ho lavorato per tre anni per una banca russa, nel 1984-85 l'idea che quel muro crollasse era assurda. Il muro è crollato improvvisamente, ha preso tutti in contropiede. Noi non ce lo ricordiamo perché noi abbiamo una memoria cortissima, infatti non ci ricordavamo che Mario Draghi aveva guidato le privatizzazioni del '92, quindi figuriamoci se ci ricordiamo con quale velocità è crollato il muro. Allora, Mitterand e la signora Thatcher, siamo in piena guerra fredda ancora, cioè la mentalità del politico occidentale era stata forgiata con l'idea che la guerra fredda sarebbe durata per sempre, questi due vengono presi dal panico, infatti io racconto nel libro che quando fu detto a Mitterand che Kohl aveva iniziato le negoziazioni per la riunificazione, ebbe una crisi isterica che è durata mezza giornata. Nel senso, lì era il panico più totale perché la Germania riunificata è chiaro che sarebbe diventata la più grande potenza, perché la Germania è sempre stata la più grande potenza, i numeri ce lo dicono, per cui la decisione fu: acceleriamo l'euro e imponiamo l'euro alla Germania, di modo che la Germania sarà legata a noi a doppio filo e quindi noi la terremo sotto controllo. L'euro ha dato alla Germania la possibilità di essere la super potenza che è oggi. La Germania nel 1989, con la riunificazione, si trovava in condizioni economiche molto molto peggiori delle nostre, perché non dimentichiamo che la Germania dell'Ovest ha riunificato ed ha eguagliato il marco della Germania dell'Est al marco della Germania dell'Ovest. Lo sforzo economico è stato assolutamente enorme. Infatti hanno alzato i tassi di interesse perché non ce la facevano e lì c'è stato un movimento di capitali massiccio, perché chiaramente i capitali si spostano secondo il tasso di interesse, ed hanno pagato questa riunificazione attraverso questa manovra finanziaria che chiaramente gli è costata tantissimo, perché la Germania poi ha dovuto ripagare. Però adesso con i tassi praticamente allo 0,75%, all'1%, sta guadagnando su questo processo. Quindi ci ha guadagnato all'inizio e ci ha guadagnato anche alla fine. Ma tutto questo perché c'è l'euro. Se non avessimo avuto l'euro tutto questo non sarebbe successo, perché il marco tedesco oggi come oggi sarebbe alle stelle, quindi questo avrebbe frenato l'esportazione. La Germania è il secondo esportatore al mondo. Dopo la Cina c'è la Germania e poi ci sono gli Stati Uniti. Quindi quella politica isterica della signora Thatcher e di Mitterand è alla base di quello che è successo. Gli inglesi infatti nel '92 hanno cacciato la signora Thatcher e anche in malo modo, perché la signora Thatcher insisteva sul Trattato di Maastricht, voleva appunto entrare nell'euro e l'hanno cacciata. Quindi il suo stesso partito l'ha cacciata. Hanno eletto John Major che è andato a Maastricht e ha detto “noi non c'entriamo, perché questa è una camicia di forza e potrebbe diventare un cappio al collo”.

MESSORA: E noi ci siamo entrati.

NAPOLEONI: Noi ci siamo entrati, abbiamo svenduto il patrimonio nazionale, ci hanno fatti entrare i signori appunto che poi sono andati a lavorare per Goldman Sachs. Perché ci siamo entrati? La risposta è semplice: perché l'entrata nell'euro ha sancito la transizione tra la prima e la seconda Repubblica. Non dimentichiamoci che il '92 è stato anche l'anno delle stragi. Quindi c'è una transizione politica in cui la vecchia Democrazia Cristiana, il Partito Comunista, cioè quelle entità che erano tipiche della guerra fredda, si dissolvono e ne nascono delle altre e queste altre ottengono la loro legittimazione attraverso il progetto europeista. È l'Europa che legittima queste forze. Quindi noi dobbiamo entrare nell'euro.

MESSORA: Ci hai dato una grandissima spiegazione, perché questo dubbio mi attanagliava fin da una precedente intervista con Nino Galloni che raccontava questo processo che aveva vissuto dall'interno con Andreotti e però non riuscivamo a capire come mai i nostri politici avessero accettato questa proposta di deindustrializzazione italiana che si porta dietro l'ingresso nell'euro insieme a tutto il resto. Adesso invece abbiamo capito che è stato un gioco politico per una transizione tra un vecchio ceto politico e il nuovo ceto politico.

NAPOLEONI: Assolutamente. Infatti io ne parlo nel libro, ci sono due capitoli dedicati a questo, perché il '92 è un anno fondamentale. Fondamentale per l'euro, è un anno fondamentale per noi, ma anche un anno fondamentale per l'Europa in genere, perché l'Inghilterra, che si trova in una situazione del tutto simile alla situazione italiana, perché l'Inghilterra non regge allo SME; il motivo per il quale noi abbiamo svalutato è perché c'è stata questa massiccia speculazione nei confronti della lira, partita da Soros, perché la lira non reggeva all'interno dello SME, quindi questo serpente monetario dentro il quale le monete potevano oscillare solamente del 2,5% in positivo o in negativo, e nel caso dell'Italia e della Gran Bretagna del 6%. Quindi non reggono queste economie. Allora che succede? Si spacca questo sistema e l'Inghilterra si trova nella stessa situazione dell'Italia. L'Inghilterra non fa una svalutazione come quella italiana perché non ha Soros che la sta minacciando, però il tasso di interesse dell'Inghilterra – io abitavo in Inghilterra in quel periodo – sale al 18%. Io avevo un mutuo e ho dovuto praticamente prendere un secondo lavoro perché non ce la facevo. Noi avevamo contratto un mutuo al 5%, nel giro di due anni è andato al 18. Quindi l'Inghilterra stava in ginocchio, assolutamente in ginocchio, esattamente come stavamo noi. Però gli inglesi non svendono il patrimonio nazionale per risanare le finanze ed entrare nei parametri di Maastricht, ammettono che non possono entrarci, ammettono che non ce la fanno perché non hanno un'economia che sia in grado di poter reggere le economie invece degli altri paesi. Noi non lo facciamo. È chiaro che noi non lo facciamo per motivi politici, non per motivi economici. L'Inghilterra non doveva legittimare nulla. Cacciata la signora Thatcher il Partito Conservatore ha continuato a gestire il paese, ma qui la Democrazia Cristiana non c'era più, qui il Partito Comunista non c'era più. Ecco qual è la spiegazione.

MESSORA: Se usciamo dall'euro dobbiamo uscire anche dall'Europa? Della sovranità nazionale cosa ne pensi?

NAPOLEONI: No, noi non dobbiamo uscire dall'Europa. La Gran Bretagna, la Svezia, la Danimarca non fanno parte dell'euro però stanno in Europa esattamente come ci stiamo noi, quindi si può benissimo uscire. Non esiste un protocollo per farlo, però lo creiamo, lo facciamo, lo negoziamo, nel senso che nulla dura per sempre, sicuramente non gli imperi né tantomeno le unioni tra nazioni. Ma soprattutto noi siamo un paese sovrano, quindi possiamo fare quello che vogliamo, possiamo negoziare quello che vogliamo fintanto che rimaniamo un paese sovrano. Certo, se poi non siamo più un paese sovrano e diventiamo una colonia, la situazione cambia.

MESSORA: Anche perché stiamo firmando un memorandum di intesa su memorandum e ci stiamo impiccando con i Fondi salva-Stati come il MES, poi sarà sempre più difficile dire “no, scusate, vorremmo fare un'altra strada”.

NAPOLEONI: Certo. Apposta “Democrazia vendesi”, perché più andiamo avanti meno democrazia abbiamo, ma anche meno sovranità nazionale abbiamo, fino al momento in cui non ne avremo più nessuna. Già il debito è un cappio.

MESSORA: Ma tu la vedi una soluzione possibile, nella pratica?

NAPOLEONI: Ma certo.

MESSORA: uno potrebbe davvero farlo in Italia o è quasi impossibile? Adesso forse si attrezzeranno per un Monti bis...

NAPOLEONI: Due anni fa a chi avesse detto che la Grecia avrebbe negoziato il 95% di sconto del proprio debito e che non sarebbe implosa, la gente avrebbe detto “ma scherzi? È impossibile”. Su tutti i mercati la Grecia la davano per spacciata, invece è arrivato Mario Draghi, ha fatto queste manovre, che poi ha fatto esattamente quello che gli economisti dicevano che avrebbe dovuto fare: stampare cartamoneta. Però l'ha fatto in un modo in cui nessuno lo sa che lo ha fatto. Cioè in Germania, in Olanda, in Finlandia, c'è il sospetto però non è sicuro.

MESSORA: Sì, però non sono uscite dall'euro. Quello che vorremmo fare noi è uscire dall'euro.

NAPOLEONI: No, ma uscire dall'euro è la stessa cosa, cioè nel senso che tutto si può fare, purché si faccia bene. Noi non siamo in emergenza ancora, ma lo saremo molto presto perché questo è un debito ingestibile. 2.000 miliardi! Quindi noi alla fine del 2013 staremo peggio di come stiamo oggi. Arriveremo a un punto, magari non nel 2013 ma nel 2014, nel 2015, in cui i mercati diranno “ma questi? Gli vogliamo ancora dare dei soldi? Ma non vedete che praticamene la situazione non si risolve?”. Il Giappone è una nazione che ha un debito molto elevato rispetto al PIL, 200%.

MESSORA: Però è interno.

NAPOLEONI: Però è interno, quindi quello non è un problema. Ma nel momento in cui noi abbiamo bisogno di soldi che vengono da fuori... Il Giappone ha la sovranità nazionale, il che vuol dire che il Giappone può stampare tutti i soldi che vuole, li può mettere in circolazione nelle banche e le banche possono acquistare il debito. Ma noi questo non lo possiamo fare, quindi noi siamo dipendenti dall'estero, dalle banche estere e dal denaro all'estero. Arriverà un punto in cui non ce li daranno più o se ce li danno, ce li danno a tassi molto elevati. Quindi prima di arrivare alla crisi totale e di ritrovarci in emergenza, negoziamo prima, negoziamo in tempi di pace, diciamo. Però ci vuole una classe politica che sappia fare questo. Siccome noi abbiamo una classe politica che opera solamente in emergenza perché è una classe non democratica, perché solo chi non è democratico approfitta delle situazioni eccezionali per poter prendere delle decisioni che non sarebbero mai approvate. Noi abbiamo approvato il Fiscal Compact, che è il pareggio di bilancio, senza sapere quello che facevamo. Noi ogni anno dobbiamo tagliare 50 miliardi. Mettiamo caso che nel 2012 si verifica una grandissima alluvione e che noi dobbiamo ricostruire una parte dell'Italia, una grossa regione, noi però abbiamo il Fiscal Compact e quindi non lo possiamo fare. Perché dove li troviamo quei 50 miliardi in più dei 50 miliardi? Perché noi dobbiamo tagliare 50 miliardi! Allora tagliamo la scuola. Ma se io ho una spesa eccezionale, la scuola la taglio non del 10%, la dovrò tagliare del 70%, perché come faccio poi a trovare i soldi per risolvere questo problema di un disastro naturale? Allora io dico, ma questi che l'hanno firmata, ma a che cosa pensavano in quel momento, in Parlamento? Oppure stavano tutti sull'Ipad e stavano su Twitter e Facebook?

MESSORA: Questo è incomprensibile. Io so perché Monti l'ha firmato, perché Monti vuole costruire gli Stati Uniti d'Europa e gli servono dei paesi deboli perché così riesce a fare l'Europa politicamente unita. Quelli che, giustamente tu dici, stavano con l'Ipad in mano, non si capisce che pensavano, che cosa hanno avuto un cambio. Anche lì è un mistero incomprensibile.

NAPOLEONI: Ma io non ho capito. Ma Monti chi è? Un nuovo dittatore? Monti vuole fare l'Europa? Ma è un giocattolo? Ma stiamo giocando a Monopoli? Non ho ben capito. Questo è un paese sovrano. Siamo tutti sovrani. Se vogliamo fare l'Europa la devono fare i cittadini, la devono fare gli italiani, i francesi, gli spagnoli, no Mario Monti. Però questa è la mentalità di chi non vive nella realtà, perché questi sono individui che non vivono a contatto con la realtà, si muovono con la scorta di sei persone, hanno l'autista che li porta da A a B. Io dubito che Mario Monti sia mai salito su un autobus. Forse magari quando andava a scuola dai Gesuiti, non lo so. Però io che prendo l'autobus, prendo il treno e non ho la scorta, non ho l'autista, vivo in un'altra dimensione. Mario Monti ha scritto questo libro che è uscito quasi in contemporanea al mio, lui l'ha presentato e c'era un articolo mi sembra su La Repubblica, chiaramente, dove c'è questa foto... Mario Monti ha presentato il suo libro sull'Europa a Bruxelles, di fronte a una folla di euroburocrati. Io sono praticamente tre settimane che giro l'Italia sui treni, i traghetti e via dicendo e lo presento alla gente comune. Ecco, questa è la differenza. Noi avremmo più bisogno di gente tipo me che invece di andare a Bruxelles a parlare agli eurocrati, parla alla gente. Le campagne elettorali ormai non le fanno più così, le fanno a Bruxelles. È significativo. Bersani va a Bruxelles, Bersani va a Berlino, incontra la Merkel in campagna elettorale. Ma quando mai un politico britannico durante una campagna elettorale, a due settimane dalle elezioni, va a Berlino? Ma sarebbe uno scandalo pazzesco! Perderebbe una quantità incredibile di voti! Invece no, qui viene presentato come un bel gesto: bravo! È quello che noi vogliamo che tu faccia! Non lo so, saranno trent'anni che vivo all'estero ma certe volte non capisco.

MESSORA: Noi avevamo bisogno di qualcuno che rappresentasse gli interessi degli italiani all'estero e ci siamo trovati qualcuno che rappresenta gli interessi esteri in Italia.

NAPOLEONI: Esatto. Ecco perché vanno a Berlino. Ma guarda che questa cosa che vanno a Berlino a due settimane dal voto è molto significativa e tutti i giornali la presentano come una cosa positiva.

Grazie a Maria Laura Borruso per la trascrizione

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...