domenica 29 novembre 2015

La melma del Grillo

Si può attribuire alla melma virtù feconde? Può esistere una melma di coltura, incubatrice di nuovi organismi sociali, capaci di ripopolare l’esangue ecosistema politico attuale? “Sasso che rotola non fa muschio”, una frase famosa che gioca sull’ambiguità dell’attribuzione di qualità negative o positive del muschio a seconda della prospettiva e degli schemi mentali di ciascuno. 
Bene, non voglio dare per scontato che l’attributo melma abbia una valenza negativa, sebbene appaia ovvio che melma esprime anche un giudizio morale. Di sicuro la melma è al momento tutto ciò che abbiamo. Abbiamo sognato ampie praterie lambite da acque cristalline e irradiate dal sol dell’avvenire, ma appunto erano sogni. La realtà è un’altra e si manifesta chiaramente sotto forma di sostanza opaca e vischiosa, somma e commistione di umori neri e bianchi. Umori di un’umanità composita, non filtrati adeguatamente da culture universali. 
Ebbene il grillismo è melma. Non suoni come un insulto, ma chi come me frequenta la rete e fruga nei forum e nei social network, si accorge facilmente che il grillismo è un insieme di rivendicazioni sociali e politiche giuste, frammiste a razzismo, xenofobia, fervore securitario, legalitarismo spiccio e una buona spruzzata di irrazionalismo antiscientista. Come ho avuto modo di dire più di un’occasione, è il popolo. Il popolo è tutto ciò, tutto e il contrario di tutto: solidarietà ed egoismo, razzismo e multiculturalismo, clericalismo e anticlericalismo, razionalismo e irrazionalismo. Ragione e oscurantismo, reazione e progresso. Il popolo è melma? Si, ma facciamocene una ragione, in quella melma sguazziamo tutti e noi stessi siamo melma.

Piaccia o non piaccia è con questo che dobbiamo fare i conti, ed è nella melma che dobbiamo immergerci per trovare risposte e compromessi nell’agire.

Per quanto una canaglia spocchiosa e saccente come me possa trovarsi a disagio laddove non c’è purezza di spirito e nobiltà di pensiero, è in nelle pieghe annerite e maleodoranti della società che si trova la gran massa degli individui, persone che al bon ton e alla cultura borghese, raffinata quanto ipocrita, preferiscono l’orrido nazionalpopolare, vero emblema di ribellione delle classi più umili, ed è con quegli individui che devo dialogare per trovare una accordo che migliori la vita di tutti.

giovedì 26 novembre 2015

Sbronza guerriera

di Tonino D’Orazio

Sotto a chi tocca. Ma i ragionamenti non possono essere solo i bombardamenti. Anche se fino all’intervento russo erano solo finta. L’importanza strategica, come sempre in quell’area, è il furto del petrolio, forse non lo diremo mai abbastanza. I giacimenti scoperti in Siria e il passaggio dell’oleodotto russo-iraniano attraverso il Kurdistan, l’Irak curdo e la Siria (eludendo la Turchia-Nato da accerchiamento) per raggiungere le coste del Mediterraneo, ovviamente non va bene al cosiddetto occidente rapinatore, quello americano-inglese-francese. Per questo motivo il recalcitrante presidente siriano Assad, inviso alla “democrazia armata occidentale”, deve andare via. Per questo motivo la coalizione Nato-Occidente (della quale facciamo parte), che bombarda senza mandato ONU, ha finanziato l’Isis e gli oppositori armati di Assad. Che poi in quell’area vi siano due pesi e due misure sulle questioni di “democrazia”, a costo di rasentare il ridicolo, vi sono i buoni e i cattivi (Obama dixit come Bush a suo tempo: il male è il diavolo da estirpare, a proposito di fondamentalismi). Insomma un concetto di “terrorismo” a geometria variabile. Vedi semplice cartina allegata, di una evidenza senza parole.
Ovviamente l’intervento russo ha messo a nudo l’intreccio “occidentale” e dato una svolta, guerriera alla situazione, sostenendo un Assad, “cattivo” e dittatore  quanto gli amici sauditi di Obama, ma lui più cattivo perché recalcitrante. Non molla il petrolio e non è facile rubarglielo, malgrado tutto, cioè resiste da quattro anni in una strana guerra contro tutti e milioni di profughi che valgono miliardi di euro per la Turchia. Ci volevano le truppe di terra, non bastano i 2.000 “istruttori” militari Nato già presenti, ma la storia e il pantano irakeni non permettono. Ancora. E’ l’esca per Putin. E il rilancio della vendita degli armamenti. Ovviamente tutto sopra la testa degli autoctoni che non contano nulla nel gioco del risiko, nemmeno le loro vite, perdute a migliaia. In pratica circa 10.000, ugualmente innocenti, per ogni occidentale morto.
Ma l’accelerazione “guerriera” si rivolge piano piano anche all’interno dei vari paesi, intanto solo europei, come d’abitudine a pagare le stupidaggini storiche dei nord americani.
Dopo il massacro di Parigi e la giusta commozione di tutta l’Europa per le vittime, l’altra reazione è stata quella vendicativa di un massiccio bombardamento in Siria. Addirittura Hollande sconvolge la Nato, (restia all’appello guerriero immediato, aspettando la decisione del capo Obama perché non sanno più chi bombardare), chiamando Putin il quale ben volentieri si dichiara “alleato”. Poi però è arrivato subito l’inglese Cameron a stringere i vincoli storici da guerrafondai e sgridare lo “sgarro” impulsivo del socialista, che deve correre da un Obama minaccioso. Per la prima volta la Merkel è fuori campo, in panchina, per costituzione non può guerreggiare, se non economicamente. Comunque non si fida della Russia e dovrà sostenere la Turchia, ambigua e con un pericoloso provocatore, Erdogan, nuovo Saladino pronto a mostrare i muscoli, nascosto sotto l’ombrello Nato. Siccome nessuno è fesso l’abbattimento del bombardiere russo non può che essere stato pianificato. Lo stavano aspettando visto che ha “sconfinato” (ma non si è sicuri) di qualche secondo e a quella velocità ...
Interessante l’unione di intenti di Hollande con la destra della Le Pen. In grande accordo nel moltiplicare i bombardamenti, i “colpi” vendicativi. L’unico neo tra loro è con quale alleanza, perché la destra padronale francese (Sarkosy) ha già scelto Putin, con la richiesta di soppressione dell’embargo verso la Russia. Rimane l’urgenza di condurre tutti insieme anche una “guerra” implacabile sul fronte interno. L’immigrazione, alla Salvini maniera. Ma in Francia, come in Belgio, e in altri paesi, tantissimi sono ormai cittadini europei. Allora bisogna limitare le libertà personali (ancora!), se del caso modificare le costituzioni per dare potere il più possibile a un uomo solo, oppure addirittura rinnegare la nazionalità concessa. Avviene e avverrà dappertutto. Qualcuno sulle modifiche è già in anticipo. Entrare in “stato di guerra” e blindare interamente per giorni le capitali, come Bruxelles, dove a tutta la popolazione e le strutture pubbliche e private, persino agli impiegati della Comunità, è stato chiesto di rimanere a casa. Non sembra esserci prevenzione, intelligence, ma solo “stato d’assedio”, e prova di forza. Dopo.
Si entra quindi in un tipico “giornalismo mediatico di guerra”. I simboli stessi della società vengono modificati. Le bandiere e i nazionalismi sventolano come non mai. Squillano gli inni. Semplici cittadini, e mi dispiace sinceramente l’assurda morte della ragazza veneta, con addirittura funerale di stato. Con frasi banali se non tragicamente ironiche. Renzi: “Grazie per la tua testimonianza di cittadina e giovane donna”. Boldrini: “Che tu possa diventare esempio per le ragazze che sono in cerca della loro strada». Calma ragazze! Dovrebbero anche sapere che quasi 500.000 giovani italiani, quasi tutti laureati, “girano” in Europa alla ricerca di lavoro e di un futuro di vita possibile, perché impossibile nel loro paese. Poi ci sono i giornalisti che spandono terrore, e stupidamente sembrano indicare ai terroristi i punti deboli delle città da colpire, in un coacervo di chiacchiere, di ipotesi fasulle e cariche di odio. Interviste continue agli “opinionisti” persino (e l’intento nasconde la mano) a un terrorista razzista e piromane come Salvini. Intervista ad un inaffidabile Alfano che un giorno terrorizza e un giorno banalizza e rassicura. All’appello, velato o apertamente alla crociata anti-musulmana, malgrado l’intervento di Bergoglio costretto a mettere a repentaglio anche la sua vita,. Popolo e cittadini musulmani italiani altrettanto impauriti e un po’ troppo messi alla berlina. Ad un loro commento di pace seguono due virulenti commenti padani. Tutto ben orchestrato. Olio sul fuoco. La guerra si prepara soprattutto mediaticamente. La scelta di campo ci è già stata fortemente indicata. Tutto questo a sinceri democratici fa più paura della bomba.

lunedì 23 novembre 2015

Fondamentalismo e psicopatia


Gianni Vattimo dice che forse è la noia che induce molti ragazzi di varia provenienza, che popolano le periferie urbane europee, a diventare jihadisti. Probabilmente è vero, ma la noia non è solo la causa e non è la sola causa delle scelte di questi sconsiderati. La noia è spesso uno dei “sintomi” di una personalità disturbata, di quelle personalità borderline o francamente sociopatiche che si sono formate sotto lo stimolo incalzante di un mix letale messaggi divergenti uniti a una buona dose di violenza, abuso e sopraffazione. Quello che esperisci nella prima infanzia plasma la tua personalità che in seguito si struttura irreversibilmente consolidandosi negli anni dell’adolescenza. La personalità è un mosaico di bisogni, pulsioni, percezioni, emozioni, comportamenti che costituisce l’interfaccia pratico con il mondo e lo schema di risposta agli stimoli, determinandone la variabilità o la rigidità di risposta. Ecco io vedo molti di questo sbandati come psicopatici in cerca di autore. La violenza delle loro risposte è dettata apparentemente dall’oggetto che scelgono a pretesto, ma fondamentalmente deriva dal bisogno vivo di potersi esprimere e di soddisfare la propria istintualità.
Il fatto vero però a prescindere dalla dose d’ingiustizia che molti paesi del mondo subiscono grazie al falso impeto morale delle democrazie occidentali, è che questi disumani personaggi, forgiati dalla rabbia con il concorso di una genetica sfavorevole, sono un’esigua minoranza, quella parte di mondo dove la violenza ha maggiormente battuto e trovato terreno fertile. 
Non ci sono eserciti di giovani pronti a immolarsi per una causa triste, la stragrande maggioranza di persone che sono accostabili per cultura, religione, vicissitudini politiche, vissuti d’ingiustizia o semplice contiguità a tali personaggi è pacifica e la maggior parte delle volte esprime il suo dissenso in maniera “umana” o non lo esprime affatto.  
Questi tizi sono manipoli di sbandati fomentati a dovere da un potere pieno di mezzi e di danaro. E’ un fuoco su cui soffia la società dello spettacolo, obbedendo alle sue logiche di alimentare la notizia, esaltando e deformando i fatti. Un’industria che alimenta un’altra industria che a sua volta è l’officina dove il potere, quello vecchio come il mondo, costruisce le sue trame di dominio. Alla fine è tutto qui, il potere, che si cela dietro la religione, ma è sempre e solo potere.
Tutto ciò ovviamente non ci esime da comportamenti solidali che riducano l’odio e il risentimento, vera fucina della psicopatia, né da considerazioni in merito all’ipocrisia dell’occidente, ma ci permette di vedere il terrorismo in una cornice più ampia dove risolvere il conflitto significa anche risolvere le cause dell’ingiustizia e frapporre alle logiche di un potere sovranazionale antico, il contrasto di una politica fondata sul bene comune e sull’uguaglianza. 
Anche questo è un problema vecchio come il mondo.

Argentina, la restaurazione neoliberale di Mauricio Macri. La fine del mondo?

dal Blog di Gennaro Carotenuto


C’è un elemento nel voto presidenziale argentino, che porta alla Casa Rosada il neoliberale duro e puro Mauricio Macri, sul quale non bisogna smettere di porre l’accento. Dodici anni di governo di centro-sinistra, a 32 anni dalla caduta dell’ultima dittatura, si sono conclusi con un voto di ballottaggio tirato (51/49) e con una transizione come nelle regole di una democrazia solida. Dopo un lungo ciclo progressista, ora è il turno della destra. Sta a quest’ultima, non certo alla sinistra, dimostrarsi matura per a) non vivere il ritorno al potere come mera rappresaglia, riprivatizzazione, smantellamento del welfare, retrocedendo anche in quelli che dovrebbero essere terreni condivisi come i diritti civili, quelli umani, l’integrazione latinoamericana. b) mantenere le condizioni di agibilità democratica per riconsegnare il potere all’opposizione quando sarà il popolo a decidere, come sta facendo, in pace e democrazia, la sinistra.
Sul punto a) Macri guarda a Washington più che a Brasilia, e ai capitali finanziari invece che al Mercosur, e afferma che con lui “finisce il clientelismo dei diritti umani” e il quotidiano La Nación che già oggi chiede la fine dei processi per violazioni dei diritti umani. Sul punto b) i suoi migliori amici e riferimenti culturali sono la destra pinochetista cilena non rinnovata di Joaquín Lavín, l’ex inquilino della Moncloa José María Aznar, sponsor del golpe del 2002 a Caracas, e Álvaro Uribe, che minaccia di tornare di concerto con un inquilino repubblicano alla Casa Bianca per far fallire il processo di pace in Colombia. Sarà quindi bene vigilare che questa destra, che ha dimostrato nelle sindacature Macri a Buenos Aires di usare sfacciatamente la repressione violenta della protesta sociale, sia capace di non smantellare anche il sistema democratico come farà con lo stato sociale. Torneranno infatti le politiche monetariste, dettate dall’FMI, analoghe a quelle imposte dalla dittatura e indurite dal menemismo, che resero quella sterminata pianura fertile che è l’Argentina, dove ancora nel 1972 vigeva la piena occupazione, una terra desolata di indigenza e denutrizione per i più e un paradiso per pochi, la cosiddetta farandula, che non ha mai smesso di controllare i media e ora pronta a tornare al potere.
Il kirchnerismo ha molti meriti storici. Ha tirato fuori il paese da una crisi esiziale, recuperato il ruolo dello Stato, stabilito una politica dei diritti umani modello, e avanzato nei diritti civili come in Italia possiamo solo sognare, rilanciato un welfare indispensabile e ridisegnato il futuro del paese (Qui su Néstor, qui a dieci anni dal default, qui il bilancio dopo il primo turno, col facile vaticinio sulla debolezza di Scioli, molto altro sul sito). Ancora tre giorni fa il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz ricordava che: “L’Argentina ha molto da insegnare al mondo ed è uno dei pochi casi di successo nella riduzione di povertà e disuguaglianza dopo la crisi”. Sono proprio quelle perfettibili politiche di integrazione che Macri vuole smantellare da domani, rappresentandole -è la visione del gorillismo tradizionale della classe media- come intollerabili sussidi clientelari, che alimentano il parassitismo popolare, ma che hanno permesso per esempio all’Argentina di essere uno dei pochi casi di successo di lotta all’abbandono scolastico del sottoproletariato urbano. Tutto passa, todo cambia, sono stati anche anni di errori, debolezze, inefficienze, corruttele, ipocrisie, sconfitte chiare, come quella ambientale e quella sulla riforma fiscale, ciclicità economiche (l’Argentina è stata una tigre, ora non lo è più), il bombardamento d’odio e menzogne durato 12 anni da parte del mainstream come e peggio che per gli altri governi di centro-sinistra, che non ha scalfito il rispetto che merita Cristina Fernández, che esce dalla casa Rosada con un consenso e un indice di approvazione maggiore di quello dei due rivali di ieri.
Non va sottovalutata la questione leader in un Continente caratterizzato dal sistema presidenziale. Quando devi gestire l’esistente, in genere da destra, cambiare un presidente è poca cosa. Se il presidente finisce per incarnare un processo storico popolare (penso a Evo Morales) allora la caducità biologica e politica è uno scacco e un vantaggio enorme per la controparte. La precoce uscita di scena di Néstor e Hugo Chávez, ma anche di Lula e Cristina, sono colpi che, anche un movimento popolare forte, non può parare con uno Scioli e forse neanche con dirigenti consolidati, forti di un’investitura come Rousseff o Maduro. Altri leader popolari verranno, tra le migliaia di quadri che si stanno formando non tutti accecati dal carrierismo, forse sono un male necessario.
Quella argentina è dunque una prima breccia che si apre (faccia eccezione l’effimero Fernando Lugo in Paraguay e Mel Zelaya in Honduras, entrambi rovesciati da golpe più o meno tradizionali) nello straordinario processo vissuto in particolare dall’America latina atlantica nel corso degli ultimi tre lustri, e che faceva seguito al fallimento, etico prima ancora che economico, del neoliberismo realizzato e che ha riportato al dibattito pubblico le ragioni dell’uguaglianza e della giustizia sociale oltre al rafforzamento di un progetto d’integrazione regionale difficilmente cancellabile qual che sia la volontà dei nuovi governanti. Almeno sul lungo periodo, è necessario non sopravvalutare il valore della sconfitta elettorale come era necessario essere prudenti sull’esistenza di un’egemonia progressista. Di cambi di campo ne verranno altri, è difficile dubitarne, ma sarebbe un errore di valutazione parlare di mero ritorno al passato.
Il neoliberismo fu imposto al continente negli anni Ottanta in assenza di un campo popolare sbaragliato dalle dittature, nella fine del socialismo reale e nel dogmatismo di un “pensiero unico” allora senza alternativa. Quel 49% che ha votato obtorto collo per Daniel Scioli, spesso solo per paura di Macri, e quelle enormi minoranze che domani potrebbero esserci in altri paesi, sono una sinistra nuovamente strutturata intorno a una visione di futuro spesso più avanzata di quella degli stessi governi integrazionisti. Questi, nel corso degli anni, hanno spesso dovuto venire a patti con un modello di sviluppo che resta malato, in particolare rispetto all’agroindustria, al settore minerario, alle schiavitù da monocultura, retaggio coloniale e dell’aver perso il treno dello sviluppo industriale e a tutto quello che, creando profitti, ha permesso di sostenere gli enormi investimenti in welfare di questi anni.
I movimenti sociali, quelli che all’inizio del secolo hanno scritto la storia del Continente, partendo dai bisogni reali delle masse popolari (contadine, indigene, il sottoproletariato urbano) e sono stati protagonisti insieme ai governi del rifiuto dell’ALCA che Bush voleva imporre, hanno spesso vissuto con difficoltà la sindrome del governo amico, apprezzato, criticato, capace di cooptare non sempre in maniera limpida, ma col quale stabilire un dialogo tale da espungere la violenza politica e di piazza da una parte e dall’altra. Adesso inizia una nuova storia, si può tornare a riflettere sulle insipienze dei governi progressisti (per esempio sulla sinonimia consumatori/cittadini e sulla necessità di ripensare il rapporto sviluppo/ambiente) ma quell’energia creativa può tornare a liberarsi scevra da tatticismi. L’Argentina, l’America latina, deve preoccuparsi e mobilitarsi contro il ritorno di politiche neoliberali già provatamente fallimentari, contro l’erosione di diritti e contro l’estensione del triste destino di narcostati che tocca a parti fondamentali del corpo della Patria grande, come il Messico. Con Mauricio Macri il “pensiero unico” torna al potere, ma in quanto tale è morto e sepolto.

domenica 22 novembre 2015

Il ritorno degli Stati nazione e la fine dell'UE


I terribili avvenimenti di Parigi hanno gettato la Francia nel caos, e il Presidente Hollande ha fatto quanto ci si aspettava da lui, proclamando lo stato di emergenza. Secondo Sapir la massima autorità francese probabilmente non si è resa conto dell’importanza della sua decisione: proclamando lo stato di emergenza e avocando a sé speciali poteri, il Presidente ha – probabilmente senza volerlo – riaffermato che la sovranità francese è nazionale e non può appartenere a nessuna entità europea sovranazionale. Questa svolta – analizzata da Sapir in termini giuridici – avviene proprio mentre l’Unione Europea si sta sgretolando, e potrebbe essere il primo passo nella riaffermazione degli Stati-Nazione.

Di Jacques Sapir (traduzione VocidallEstero) dal Blog di Beppe Grillo
"Gli attacchi che hanno sprofondato Parigi nel lutto venerdì 13 novembre suscitano in noi orrore e ribellione. No, non è la prima volta che viene versato sangue a Parigi. Sono ancora freschi nella nostra mente i ricordi degli eventi della tragedia che si svolse presso la redazione editoriale di Charlie-Hebdo e presso il negozio Hyper-Casher lo scorso gennaio. Continuiamo a piangere i morti. Ma le carneficine multiple di questo 13 novembre hanno portato un salto qualitativo nell’orrore e nella meschinità. Ora è il tempo del lutto e del cordoglio per le vittime e i loro cari. Il tempo di agire verrà dopo. Ma è importante che esso venga illuminato da un periodo di riflessione. E, riguardo a questa riflessione, emerge la questione della proclamazione dello stato di emergenza di François Hollande.
Questo annuncio ha conseguenze che vanno ben oltre le sue implicazioni pratiche. Nel decidere di proclamare lo stato di emergenza, come è definito dalla legge dal 1955, François Hollande sta facendo una mossa di cui probabilmente non ha compreso tutta la dimensione e la portata. Perché ha dato ragione a tutti coloro che difendono il principio di sovranità.

Il ritorno della sovranità
Dobbiamo allora sottolineare il fatto che nel decidere di decretare lo stato di emergenza, il Presidente della Repubblica ha compiuto un atto sovrano. Lo ha fatto in nome di tutti noi, in nome del popolo francese. Ma, così facendo, nel decidere lo stato di eccezione e che cosa deve essere fatto all’interno dello stato di eccezione, ha riportato sulla ribalta politica la questione della sovranità, contraddicendo quanto sostengono i leader dell’Unione Europea e i loro teorici. Inoltre, lo ha fatto in un momento in cui l’Unione Europea si trova in una situazione critica. Gli accordi di Schengen sono, a tutti gli effetti, decaduti, e possiamo vedere una convergenza delle crisi: in Grecia, in Portogallo e anche in Gran Bretagna (con il referendum su una possibile uscita dall’UE) così come in Spagna, dove il problema della Catalogna è noto a tutti. Questo è il contesto molto particolare della sua decisione.
Non possiamo sapere se egli fosse cosciente del significato profondo delle sue azioni ed è probabile che egli creda di stare solo rispondendo a una semplice emergenza. Ma la sua decisione ha implicazioni che vanno ben al di là di essa. Essa segna il forte ritorno della nozione di sovranità.
Sappiamo, infatti, che per Carl Schmitt (giurista e filosofo politico tedesco NdVdE) «il sovrano è colui che decide in una situazione eccezionale». Questa definizione è importante. Quindi è importante esaminare attentamente queste parole. Emmanuel Tuchscherer giustamente osserva che esse «designano infatti il legame tra il monopolio della decisione, che diventa il marchio essenziale della sovranità politica e una serie di situazioni riepilogate con il termine Ausnahmezustand, che, di là della genericità della «situazione di eccezione,» qualifica quei casi limite che C. Schmitt enumera nella stessa sezione senza realmente distinguerli: «in caso di necessità» (Notfall), «lo stato di urgenza» (Notstand), le «circostanze eccezionali» (Ausnahmefall), in breve, la situazione tipica dell’ extremus necessitatis casus che di norma impone la sospensione temporanea dell’ordinamento giuridico ordinario». È importante capire che questa sospensione dell’ «ordinamento giuridico ordinario» non implica la sospensione di tutto l’ordinamento giuridico. Al contrario. La legge non si ferma con la situazione d’eccezione, ma si trasforma. L’azione della legittima autorità diventa, nel contesto di una situazione d’eccezione, un atto giuridico. E si capisce quindi l’importanza di una chiara definizione della sovranità.
Schmitt spiega la questione in diversi modi, ritornando più volte alla sua formula iniziale: è quindi sovrano «colui che decide, in caso di conflitto, qual è l’interesse pubblico e qual è l’interesse dello Stato, la sicurezza, l’ordine pubblico e la salute pubblica». In realtà, questo è più di un semplice chiarimento. Notiamo che questa nuova definizione infatti trasforma l’identificazione della sovranità dall’essere un criterium organico (la domanda quindi è «chi decide?» o, nel vocabolario giuridico, quis judicabit?) a qualcosa di molto più concreto, specificando le circostanze in cui (in una situazione di conflitto) e le materie per le quali (l’interesse pubblico e l’interesse dello stato) diventa necessario governare per decreti. Si noterà anche che l’interesse dello stato viene distinto dall’interesse pubblico. Ma mentre l’interesse dello stato viene definito (la sicurezza e la salute pubblica, l’ordine pubblico), l’interesse pubblico rimane indefinito. Dobbiamo cercare di capirne il perché.
 

Come si definisce l’interesse pubblico?
L’interesse pubblico non può essere definito a priori, perché tale approccio, infatti, significa limitare il potere della comunità politica. Tuttavia, questo è precisamente il punto dove Schmitt afferma il primato della sovranità. Solo la comunità politica, che noi chiamiamo la gente, è in grado di definire l’interesse comune e nessuno può pretendere di orientare o limitare la sua capacità di farlo. Da questo punto di vista, Schmitt è a favore della sovranità popolare. Ma la gente decide in un dato momento, ed è importante qui capire il significato di questi termini.
La definizione dell’interesse comune ,infatti, può essere fatta solo all’interno di un contesto, a meno di far finta che la gente, o i suoi rappresentanti, possano essere dotati di onniscienza ed essere in grado di definire in anticipo la totalità degli scenari in cui si dovesse definire l’interesse comune. Eppure, è proprio l’emergere brutale di un contesto nuovo e minaccioso che induce la «situazione di eccezione». Questo è assolutamente essenziale. L’esistenza di una situazione di eccezione, quella che i giuristi chiamano il caso di «extremus necessitatis», è comunque citata da Bodin (filosofo e giurista francese NdVdE) perché esenta il sovrano dalla normale osservanza della legge. Bodin cita il caso emblematico dell’eccezione legale, con un’interruzione della legge normale, ma senza che il principio della legge stessa venga interrotto. La natura della sovranità stessa è profondamente legata allo stato di eccezione attraverso il quale rivela sé stessa.
Per Schmitt, è il contesto del conflitto – o della situazione di emergenza se si vuole estendere il ragionamento – che serve a definire questo interesse comune. Schmitt indica quindi i limiti inerenti l’argomento giuridico e, più precisamente, i limiti di un argomento essenzialmente fondato sulla nozione di legalità.
Questo argomento, che lui avversa, può essere considerato come un esempio di positivismo giuridico. Questo è perché pretende di definire per legge, o in altre parole, legalmente, ciò che può essere definito solo per rilevanza, vale a dire per legittimità, che l’argomento strettamente legale si rivela incapace di comprendere il senso profondo dello stato d’eccezione e, oggi, dello stato di emergenza. Questo argomento legale non può logicamente qualificare tale situazione puramente fattuale che, per definizione, tracima dagli argini delle consuete categorie legali.
Ma è altrettanto evidente che questo interesse comune, che funge da base e giustificazione per lo stato d’eccezione e per lo stato d’emergenza, può essere provocato e anche degenerato dalle azioni del governo. E questo solleva la questione del rispetto della legge, quando la legge stessa può essere temporaneamente sospesa.

La nozione di “legale” nel contesto dello stato di emergenza
Nasce quindi l’esigenza di scoprire con che mezzi lo Stato costituzionale può imbrigliare le autorità pubbliche in situazioni critiche dove queste tendono proprio a sciogliersi dalle solite limitazioni, pur rispondendo ai vincoli specifici di una situazione d’eccezione. Anche se la decisione di ricorrere a qualche forma di stato di eccezione, ad esempio lo stato di emergenza, si sviluppa ai margini dell’ordinamento giuridico normalmente prevalente, essa non sfugge completamente alla legge, dal momento che non esiste alcuna situazione d’eccezione a meno che essa non sia espressamente qualificata come tale. La situazione di eccezione sospende in tutto o in parte l’ordine giuridico ordinario, per come funziona in circostanze normali. Ma la situazione di eccezione non esonera del tutto l’ordine legale. In nessun caso c’è un vuoto o una totale assenza di legge. La situazione d’eccezione mostra al contrario la vitalità di un’altra variante di questo ordine. Possiamo considerare che sia l’ordine politico o sovrano normalmente nascosto dietro il quadro puramente formale e procedurale dell’ordine normativo del diritto comune: «In questa situazione, una cosa è chiara: lo stato resiste, laddove la legge recede. La situazione d’eccezione è sempre qualcosa di diverso dall’anarchia e dal caos, e questa è la ragione per cui, in senso giuridico, un ordine esiste ancora, pur essendo un ordine che non è quello della legge. L’esistenza dello stato ha qui un’incontestabile superiorità sulla validità della norma legale.».
Schmitt ha rivisitato la nozione di sovranità in un lavoro seguente sul Concetto della Politica. Egli porta alla ribalta l’opposizione centrale “amico-nemico”, come giustamente osservato da Tuchscherer. Ma pone anche al centro del dibattito: «l’unità sociale […] a cui appartiene la decisione nel caso di un conflitto e che determina il raggruppamento decisivo tra amici e nemici». Una possibile interpretazione è che questa «unità sociale» non è nient’altro, o non dovrebbe essere nient’altro, se non le persone che agiscono, la «gente stessa.» In realtà, è l’opposizione “amico-nemico”, che definisce la politica, ma questa opposizione può essere sollevata solo dall’«unità sociale». E a quest’ultima spetta l’onere di definire quelli che sono gli antagonismi concreti, i conflitti concreti e, infine, le situazioni di crisi. Oggi capiamo molto meglio il significato di questi concetti. Ed è in questo senso che François Hollande si è appena schierato a favore dei sovranisti, prendendo debitamente atto del significato della sovranità.
È probabilmente ironico che sia un Presidente così indeciso, sottoposto ad i vari diktat europei, che sta prendendo su di sé la decisione di imporre lo stato di emergenza, facendo così il ricorso proprio a quegli stessi meccanismi che professa di detestare. Ha dovuto farlo, perché gli eventi glielo hanno imposto. L’interesse comune solleva la testa nelle crisi, in un contesto particolare. Ma la sua decisione è una tappa, e non di poco conto, verso la ricostruzione della sovranità nazionale in un momento in cui l’Unione Europea sta collassando. È probabile che, seguendo la sua abitudine di voler conciliare gli estremi, il nostro Presidente, osservando con stupore la sua stessa audacia, farà un tentativo di invocare l’Europa. Non importano le parole che potrebbe utilizzare. Quel che è fatto è fatto e non può essere facilmente annullato. François Hollande, suo malgrado, ha appena dato nuova vita e il posto che merita alla sovranità e al sovranismo".


Lezioni tedesche per la sinistra italiana


di Vladimiro Giacché da Micromega

Il nuovo libro di Alessandro Somma - “L’altra faccia della Germania. Sinistra e democrazia economica nelle maglie del neoliberalismo”, DeriveApprodi, Roma, 2015, pp. 192, 13 euro - appartiene al genere decisamente raro dei libri che mantengono più di quanto promettano.

Stando al titolo, si potrebbe pensare a un testo dedicato esclusivamente alla sinistra tedesca. E questo tema nel libro, come vedremo, è approfondito a dovere. Ma, al tempo stesso, c’è un’analisi molto precisa dell’evoluzione della Germania neoliberale dai tempi di Schröder in poi. E ci sono, infine, gli insegnamenti che l’autore ritiene la sinistra italiana farebbe bene a trarre dalle vicende di quella tedesca.
Cercherò di dar conto di tutti e tre questi aspetti del libro di Somma. Partendo dal secondo, che rappresenta in verità lo sfondo da cui si stacca l’evoluzione della sinistra tedesca, politica e sindacale, negli ultimi 15 anni. Il punto di partenza di questa storia è rappresentato dalla decisione del cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder – teorizzata nel manifesto per la “terza via” da lui firmato nel 1999 assieme a Tony Blair – di abbracciare le politiche neoliberali, mandando in soffitta come superata e viziata da "presupposti ideologici" l'idea, tipica della tradizione socialdemocratica, che lo Stato debba correggere i “fallimenti del mercato". Anche la priorità tradizionalmente attribuita alla "giustizia sociale" deve cedere il passo alla necessità di "creare le condizioni per la prosperità delle imprese". I lavoratori, per parte loro, sono chiamati ad abbandonare la tradizionale conflittualità (a dire il vero mai troppo accentuata nella Germania Ovest del dopoguerra), accettando la "cooperazione con il datore di lavoro", e soprattutto mettendo da parte il mito del posto fisso. La traduzione pratica di queste posizioni fu evidente in particolare con le cosiddette riforme Hartz I-IV promosse dal secondo esecutivo guidato da Schröder.

Le pagine dedicate da Somma a queste riforme e alle loro conseguenze sono tra le migliori pubblicate in Italia su questo argomento, del quale dalle nostre parti troppo spesso si parla a vanvera. L'autore ci mostra con grande precisione come estensione del lavoro interinale, minijob (lavori a tempo parziale pagati 400 euro al mese), riforma dell'agenzia federale del lavoro e riduzione sostanziale del sussidio di disoccupazione rappresentassero un insieme organico di misure. E come esse abbiano contribuito in modo decisivo alla diminuzione della quota-lavoro all'interno del pil tedesco e, per converso, al rilancio dei profitti d'impresa (rilancio che Schröder favori anche riducendo in misura sostanziale le tasse alle imprese e alla parte più ricca della popolazione).

È nelle “riforme” Hartz che va in gran parte rintracciata l’origine non soltanto della crescita delle disuguaglianze e della precarizzazione del lavoro in Germania, ma della vera e propria deflazione salariale che si è avuta in quel Paese. Una situazione che emerge con chiarezza dal confronto tra andamento della produttività e andamento dei salari: confronto da cui risulta che degli aumenti di produttività realizzati dalle imprese tedesche tra il 1999 e il 2012 (+14%) nulla è stato trasferito ai salari (che infatti nello stesso arco di tempo sono addirittura scesi in termini reali: -1%). È una storia che riguarda da vicino anche noi, perché questo processo – avvenuto in un contesto in cui la moneta unica impedisce recuperi di competitività legati a riaggiustamenti del cambio - rappresenta uno dei motivi fondamentali per cui la divergenza economica tra centro e periferia in Europa si è accresciuta sino a condurre a una vera e propria deindustrializzazione di quest'ultima.

Essa ha però riguardato in primo luogo i lavoratori tedeschi, una parte dei quali ha cominciato a voltare le spalle alla SPD e a cercare di costruire forme di rappresentanza al di fuori di essa. Somma segue passo passo il conseguente processo di aggregazione: un processo in cui movimenti sociali e quadri sindacali prima si uniscono ad Ovest nel raggruppamento "Alternativa elettorale lavoro e giustizia sociale" (WASG, 2004), poi, nel 2007, si fondono con il Partito del socialismo democratico (PDS), nato dalle ceneri della SED (l'ex "partito-guida" della Germania Est) e radicato nell'Est della Germania. Il risultato è la Linke: il partito che - anche grazie alla capacità dei suoi due esponenti di maggior spicco (Oskar Lafontaine e Gregor Gysi) - ha dato rappresentanza parlamentare, per la prima volta dall'illegalizzazione del partito comunista tedesco nel 1956 (una delle pagine buie della Germania Ovest postbellica), a quella parte dell’opinione pubblica a sinistra della SPD più sensibile ai problemi del lavoro.

Oggi il partito della Linke gode del consenso di circa un decimo dei votanti (e in un Land dell'est, la Turingia, sfiora il 30 per cento dei voti ed esprime il presidente di regione), anche se periodicamente è attraversato da conflitti interni che oppongono una destra interna, che considera una priorità strategica il conseguimento di accordi con SPD e Verdi per governare, a una sinistra che ritiene pregiudiziale a ogni accordo il veto a interventi militari all’estero e lo smantellamento dell’impianto economico neoliberale costruito negli ultimi anni, a cominciare proprio dalle “riforme” Hartz. 

Nel raccontare le vicende di questo raggruppamento politico, Somma entra nel merito anche delle sue molteplici componenti, offrendo in tal modo al lettore italiano lo sguardo più completo oggi disponibile sull’argomento (l'unico contributo in qualche modo paragonabile risale al 2010 ed è un lungo saggio di Costantino Avanzi uscito sulla rivista "Marxismo oggi"). Lo sguardo di Somma sulle vicende della Linke non è mai apologetico. Al contrario, l’autore ritiene che lo stesso costituirsi in partito della Linke abbia in parte deviato dal percorso ipotizzato inizialmente, quando si pensava più a dar voce ai movimenti sociali e forza alle componenti più avanzate del sindacato che a creare un vero e proprio partito politico.

L’autore ritiene che una “coalizione sociale” aperta ai movimenti, ma al tempo in grado di giovarsi della continuità di azione e della forza organizzativa dei sindacati, sia una forma politica più avanzata dei partiti tradizionali. La rappresentanza, questa la tesi di fondo, va costruita nei territori e nei luoghi di lavoro, e non inseguita a partire dalle assemblee elettive (Bundestag, Länder e Comuni). Da questo punto di vista anche l’esperienza della Linke tedesca ha manifestato limiti evidenti, a cominciare da un’attività politica troppo incentrata sulle scadenze elettorali.

Detto questo, va aggiunto che si tratta pur sempre di una situazione molto più avanzata di quella in cui si trova oggi la sinistra italiana. E non si può negare che le parole d’ordine della Linke siano state in qualche caso in grado di condizionare la stessa agenda politica dell’attuale governo di Grande Coalizione. Valga per tutti il caso del salario minimo: una proposta originariamente formulata dalla Linke, e successivamente entrata nel programma del governo per iniziativa della SPD (anche se fissandone la cifra a un livello inferiore rispetto a quello originariamente proposto). 

Il migliore insegnamento che in Italia si può trarre dalle recenti vicende della sinistra tedesca consiste secondo Alessandro Somma nel concetto di “mosaico della sinistra”, espressione coniata nel 2008 da Hans-Jürgen Urban, dirigente della IG-Metall (la Fiom tedesca). Essa sta a indicare un “attore collettivo eterogeneo”, ossia la coalizione di un insieme di forze di orientamento antiliberistico tra loro diverse: parte dei sindacati, movimenti no global, organizzazioni non governative, parte delle chiese, organizzazioni mutualistiche, militanti e intellettuali. Perché il termine “mosaico”? Perché, spiega Somma, “le forze chiamate a comporlo avrebbero conservato la loro identità, come le tessere di un mosaico appunto, ma avrebbero nel contempo concorso a definire un disegno comune e a determinarne la possibilità di successo”. Nell’ipotesi di Urban, la stessa Linke avrebbe dovuto porsi al servizio di questa coalizione di forze, evitando così di farsi assorbire dalla logica autoreferenziale dei parlamenti.

Il giudizio di Somma al riguardo appare ambivalente: da un lato la Linke ha saputo effettivamente giovarsi di un rapporto sia con i movimenti, sia col sindacato, dall’altro la sua stessa struttura di partito l’ha fatta cadere in logiche parlamentaristiche e le ha impedito di cogliere appieno le sue stesse potenzialità di espansione. Si tratta di un giudizio forse un po’ troppo severo: chiunque abbia partecipato ai congressi della Linke (a chi scrive è capitato in due occasioni: a Erfurt nel 2011 e a Dresda nel 2013) ha potuto osservare un apporto reale di associazioni di base e delle varie componenti del partito alla stessa costruzione del programma; il dibattito interno è autentico, spesso aspro, ci si confronta apertamente e si vota sui vari punti del programma e sui relativi emendamenti.

Il tema del “mosaico della sinistra” è stato recentemente ripreso da Somma in un contributo di grande interesse uscito in relazione a Sinistra Italiana e ai lavori in corso per costruire la cosiddetta “cosa rossa”. In questo testo, di cui consiglio la lettura, Somma insiste in particolare sulla “pari dignità” che deve essere attribuita alla diverse tessere del mosaico, e il carattere di “coordinamento delle forze di opposizione al neoliberalismo” che la “cosa rossa” dovrebbe assumere, ma con il vincolo che essa non dovrebbe essere un partito.

Qui il mio punto di vista differisce da quello dell’autore. Sono convinto che il concetto del “mosaico” sia molto utile a chi voglia oggi creare una coalizione di forze di sinistra (a sinistra del PD, per intendersi), e che in particolare la tutela delle identità specifiche, sia pure all’interno di una coalizione il più possibile ampia di realtà, sia assolutamente indispensabile in una fase come l’attuale, in cui le macerie stesse che ingombrano il campo della sinistra impediscono una ricomposizione semplice e rapida delle forze.

Credo però che il tema essenziale qui sia non tanto la forma (coalizione di movimenti contro partito organizzato), quanto il contenuto: ossia gli obiettivi che ci si prefigge. Da questo punto di vista preoccupa la compresenza, all’interno della “cosa rossa” in formazione, di opinioni seriamente critiche nei confronti degli assetti attuali dell’Unione Europea, e della stessa unione monetaria, come quelle ormai proprie di Fassina e D’Attorre, e di posizioni di europeismo sostanzialmente acritico, presenti soprattutto in Sel (si pensi alla presidente della Camera, Laura Boldrini, che ritiene addirittura desiderabili gli Stati Uniti d’Europa).

Tra questi due orientamenti si dovrà scegliere, e in fretta, pena la perdita di credibilità dello stesso progetto. Del resto, dopo le vicende greche, la riflessione sulla riformabilità o meno dell’Unione Europea e sulla concreta praticabilità di politiche di sinistra entro l’angusto perimetro tracciato dai trattati europei, sta attraversando l’intera sinistra europea, non esclusa la Linke. Sciogliere, e nel modo giusto, questo nodo è di vitale importanza per non lasciare fuori dal mosaico tasselli essenziali e per restituire un futuro alla sinistra in Italia. Come si vede, la lettura del libro di Somma ci riporta dalla Germania all’Italia. Non è il suo pregio minore. 

sabato 21 novembre 2015

Toni Negri su Francia, Isis e guerra alla jihad

Parigi ha dimenticato le banlieu. E ha sottovalutato le loro proteste. Ora dichiara guerra «ai suoi stessi cittadini». Toni Negri a L43: «Qui la laicità è un mito».


di Francesca Buonfiglioli da webache.googleusercontent.com



Già ma difenderci da chi? Chi è il nemico? UNA GUERRA CONTRO SE STESSI. «La guerra proclamata contro l'Isis», spiega a Lettera43.it Toni Negri, filosofo e professore universitario che vive da anni a Parigi, «è stata dichiarata contro cittadini francesi, belgi, europei. Questa era la nazionalità dei terroristi che hanno compiuto atti orribili e ingiustificabili.».
E dire che, poco prima degli attentati, in Francia infiammava il dibattito se fosse lecito o meno ammazzare con droni cittadini francesi in territorio straniero. Polemica scatenata dall'uccisione in Siria di due britannici che si erano uniti alla jihad.
ADDIO CONCETTO DI CITTADINANZA. «Tutto questo è paradossale, surreale», sottolinea Negri, «si trattava di un dibattito sulla natura stessa della Repubblica. Il concetto di cittadinanza è sacro, non può essere calpestato da pratiche di eccezione., soprattutto se sporporzionate e non riferibili a una giustiazia nazionale».
Poi però sono arrivati l'orrore del Bataclan, le sparatorie fuori dai ristoranti e dai caffè, i kamikaze allo Stadio, l'assedio tragico a Saint-Denis.
E la prospettiva, per molti, è cambiata.

 


  • Toni Negri.

DOMANDA. Professore, esiste una 'guerra giusta'? RISPOSTA. Nell'Alto Medioevo questo concetto ha funzionato per giustificare l'espansione del cattolicesimo imperiale.
 D. E ora?  
R. Era giusta la guerra del 1914? E quella del 1939? Ho forti dubbi. Erano guerre, è vero. Ma i motivi che le hanno scatenate non si possono certo definire giusti. 
 D. Non vale nemmeno per il diritto di difesa?  
R. Il solo fatto che una guerra sia considerata giusta da alcuni e ingiusta da altri è la negazione stessa del concetto di giustizia.  
D. Hollande ha dichiarato guerra all'Isis. Cosa ne pensa?  
R. In realtà si tratta di una guerra contro cittadini francesi, belgi, europei: questi sono i terroristi. Il sospetto è che dietro a tutto questo ci siano altri interessi.  
D. Quali?  
R. Il petrolio, per esempio. Il controllo prima economico e poi politico di una regione che dal 2001 è stata fatta sprofondare nel caos più totale da altre guerre asimmetriche, preventive.  
D. Cosa intende per asimmetriche?  
R. Dichiarate unilateralmente, combattute da una parte con strumenti tecnologici maturi e dall'altra da formazioni partigiane, di resistenza dopo il disfacimento di eserciti, come quello iracheno, di origine coloniale o subalterni alle potenze occidentali.  
D. Stiamo pagando le conseguenze delle campagne dei Bush?  
R. Gli Stati Uniti con la loro insipienza hanno ricercato il caos necessario alla loro politica nel momento in cui è terminata la loro supremazia. Ai 'bordi dell'Impero' era funzionale mantenere guerre e scontri per ritardare un riequilibrio o, forse, l'instaurazione di un equilibrio alternativo.  
D. Poi però la situazione è scappata di mano...  
R. La lotta al socialismo e al comunismo non solo dell'Iraq ma dei Paesi della fascia sciita ha comportato lo svuotamento della società. A quel punto i religiosi, invece di soffrire in terra per guadagnare un posto in cielo, hanno comunciato a combattere.  
D. Un contesto ideale per la proliferazione e lo sviluppo del radicalismo islamico.  
R. L'Isis di fatto in quest'area ha sostituito il welfare dopo 10 anni di distruzione.

«Parlano di Grandeur e di Montaigne, ma nelle banlieu...»

D. Questo discorso vale anche per le banlieu francesi?  
R. Sì, lo stesso è accaduto nelle periferie nel 2005. Solo che in quel caso a bruciare erano solo le automobili.  
D. I protagonisti in quel caso erano i ragazzi di terza e quarta generazione di immigrati.  
R. È così. Agivano o protetti dagli adulti o contro di essi, fregandosene dei loro richiami all'ordine.  
D. Frustrazione, rabbia, desiderio di rivalsa. Ma quale è la causa vera di quegli scontri?  
R. La fine del lavoro fordista ha causato una riorganizzazione da cui questa fetta di popolazione è stata di fatto tagliata fuori.  
D. Si spieghi meglio.  
R. Mentre il proletariato della banlieu era inserito socialmente, via via è stato escluso dalle nuove formazioni dell'economia cognitiva. D. Per fermare gli scontri il governo si limitò a reprimere.  
R. I governi se ne sono fregati. E ora è orribile vedere un ragazzo che si fa esplodere uccidendo altre persone spinto non solo da una organizzazione che lo ha indottrinato e reclutato, ma anche da condizioni seconde.  
D. Rabbia e frustrazione sono un humus perfetto per il radicalismo islamico.  
R. Basta vedere la condizione delle scuole frequentate da questi ragazzi.
D. Quale è la situazione?  
R. Sono istituti invivibili, e non solo dal punto di vista strutturale, con 40 persone per classe...  
D. Per cosa ancora?  
R. Per l'estraneità a cui sono relegati. Qui in Francia si parla ancora di Grandeur, di Montaigne, di Philosophes. E invece siamo di fronte a un'incapacità pedagogica.  
D. La famosa laicità francese sta presentando il conto?  
R. Ma quale laicità... è una balla, un mito. Il Dio supremo di Robespierre non lo ricorda nessuno (la Ragione, ndr)?  
D. In che senso è una balla?  
R. Nel senso che è presente nella cultura francese una corrente di pensiero estremamente laica. Ma moltissime persone vanno in chiesa, ci sono movimenti cattolici forti e una destra che richiama alle radici cristiane.  
D. E la battaglia contro il velo?  
R. Campagne che in realtà sono sostenute da sottilissime minoranze. Eppure hanno portato a pressioni ideologiche dagli effetti disastrosi, sono come piccole punture di spillo continuamente riprodotte.  
D. Insomma, mi sta dicendo che sono state un boomerang.  
R. In Francia sono stati distrutti movimenti di immigrati politicamente attivi e si è fatta passare l'equazione religione uguale fanatismo. Basta vedere le reazioni sugli autobus e in metro davanti a una donna velata: il disprezzo e il sospetto sono palpabili...

«Il concetto di guerra come lo conoscevamo non esiste più»

D. Tornando agli attacchi di Parigi, parlare di guerra, nella lotta al terrorismo, ha senso?  
R. Mi chiedo solo: «Ora dove stanno i nemici? E gli amici?». La guerra è sempre sbagliata. Ma in passato il nome guerra aveva un fronte, un Piave. Ora siamo in una palude.  
D. Tra l'altro il primo ministro Manuel Valls ha lanciato l'allarme di nuovi attacchi chimici e biologici.
 R. Vorrei sapere chi li scatena e chi possiamo punire.
 D. Si è detto che questa è una guerra non convenzionale. Cosa ne pensa?  
R. La stessa definizione del diritto di guerra così come è uscito dalla pace di Westfalia,che nel 1684 pose fine alla guerra dei Trent'anni, non ha più alcun senso. E non parlo solo delle regole della guerra, ma anche del trattamento dei prigionieri per esempio. D. Quando è saltato?
R. Nel 2001 gli Usa hanno deciso di scatenare una guerra asimmetrica. Adesso stiamo assistendo alla conseguenza della distruzione delle frontiere su cui si basava il diritto internazionale. Lo dimostra l'esodo dei migranti: è impossibile stabilire i confini. D. È da allora che non si può più parlare di guerra 'tradizionale'?  
R. Da quel momento la guerra è stata di polizia, non di eserciti. Persino James Bond farebbe ridere. Si tratta di una guerra che legittima l'uso dei droni.  
D. Cioè?  
R. Il drone è un esempio, un simbolo. Dietro c'è un conflitto che è fuori da ogni categoria che finora abbiamo utilizzato. 
 D. Crede che assisteremo a una nuova definizione di guerra?  
R. Francamente non so se arriveremo a questo. Del resto Westafalia mise fine a guerre scatenate in nome della religione che insanguinarono l'Europa.  
D. Quando dichiara guerra Hollande cosa sta facendo?  
R. Solo retorica. In realtà stiamo assistendo ad azioni di vendetta e repressione che ci riportano indietro a prima del diritto europeo. È più simile a un regolamento di conti tra tribù, quelle che noi definivamo Barbari.  
D. Cosa possiamo fare a questo punto?  
R. La situazione è drammatica e angosciante. Ogni riferimento a categorie passate non coglie la realtà dei fatti. Possiamo solo cercare di difenderci come possiamo, evitando che le cause che hanno portato a tutto questo si ripetano.

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...