martedì 27 dicembre 2016

L'Economia Politica dell'Apartheid di Israele e lo Spettro del Genocidio

di William I. Robinson (da Truthout, 19 settembre 2014)
traduzione per Doppiocieco di Domenico D'Amico



Pochi giorni prima delle sette settimane di assedio di Gaza degli scorsi luglio e agosto, che ha prodotto 2.000 palestinesi morti, 11.000 feriti e 100.000 senza casa, il deputato israeliano Ayelet Shaked, membro di alto livello del Jewish Home Party [HaBayit HaYehudi, La Casa Ebraica], parte della coalizione al governo, ha scritto su Facebook che “il nemico è l'intera popolazione palestinese (…) inclusi vecchi e donne, città e villaggi, edifici e infrastrutture.” Il post prosegue affermando che “dietro ogni terrorista ci sono dozzine di uomini e donne, senza i quali non potrebbe compiere atti di terrorismo. Sono tutti combattenti nemici, e il loro sangue ricadrà su di essi [1]. E questo include anche le madri dei martiri, che li spediscono all'inferno con fiori e baci. Dovrebbero seguire i loro figli, niente sarebbe più giusto. Dovrebbero sparire, insieme al luogo fisico in cui hanno cresciuto quei serpenti. Altrimenti, quella casa farà da nido ad altri piccoli rettili.”
Il post di Shaked è stato condiviso più di mille volte, e ha ricevuto quasi cinquemila like. Qualche settimana dopo, il primo di agosto, The Times of Israel ha pubblicato un editoriale di Yochanan Gordan intitolato “Quando il Genocidio È Ammissibile.” Gordan afferma che “dovrà pur giungere il momento in cui Israele si senta abbastanza minacciato da non aver altra scelta che sfidare i moniti internazionali.” E prosegue così: “In quale altro modo è possibile trattare con un nemico di tale natura, se non eliminandolo totalmente [obliterate them completely]? All'inizio di questa incursione, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha detto chiaramente che il suo obbiettivo è quello di ristabilire un'accettabile tranquillità per i cittadini di Israele. (…) Se politici ed esperti militari giungono alla conclusione che il raggiungimento di questa tranquillità si possa ottenere con un genocidio [is through genocide], non diventa forse ammissibile raggiungere quegli obbiettivi ragionevoli?”

Gli appelli alla pulizia etnica e al genocidio sono sempre più frequenti

Facendo eco a sentimenti analoghi, il vicepresidente del parlamento israeliano Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu, ha incitato l'esercito israeliano all'uccisione indiscriminata dei palestinesi di Gaza, e all'impiego di ogni mezzo possibile per cacciarli via. “Se ne possono andare, il Sinai non è molto lontano da Gaza. Sarà questo il massimo sforzo umanitario di Israele,” ha affermato Feiglin. “L'IDF [esercito israeliano] conquisterà tutta Gaza, utilizzando ogni mezzo necessario a minimizzare il danno per i nostri soldati, ogni altra considerazione esclusa, (…) La popolazione nemica che non avrà compiuto atti di aggressione [innocent of wrong-doing] e che si sarà separata dai terroristi armati verrà trattata in accordo con il diritto internazionale, e gli sarà permesso di andare via.” [2]
Questi appelli alla pulizia etnica e al genocidio stanno aumentando di frequenza. In questi anni in Israele il clima politico ha continuato a svoltare talmente a destra, che ormai un'atmosfera fascista è percepibile nella vita di tutti i giorni. A tel Aviv, in agosto, alcuni dei dimostranti di destra che hanno picchiato i manifestanti di sinistra contrari all'assedio di Gaza indossavano magliette con simboli e foto neonaziste, incluse alcune con la scritta “Good Night Left Side” [Buonanotte Sinistra], uno slogan neonazista popolare nei concerti europei di band di estrema destra, replica all'originale slogan antifascista “Good Night White Pride” [Buonanotte Orgoglio Bianco]. Quasi metà della popolazione ebraica di Israele approva la politica di pulizia etnica per i palestinesi, e secondo un sondaggio del 2012, ampie parti del pubblico approverebbero l'annessione completa dei territori occupati e l'instaurazione di uno stato di apartheid.
Il timore per un fascismo in ascesa in Israele ha spinto 327 sopravvissuti e discendenti di sopravvissuti al genocidio nazista a pubblicare una lettera aperta sul New York Times del 25 agosto, manifestando allarme per “l'estrema, razzista disumanizzazione dei palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto il parossismo.” Così continua la lettera: “Dobbiamo levare la nostra voce collettiva e usare le nostre forze per porre fine a ogni forma di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese [the ongoing genocide of Palestinian people].”

Quali sono le radici economiche sottese alla politica economica israeliana che portano a simili tendenze genocide?

Il progetto sionista è probabilmente fondato [may have been founded] – come sappiamo da studi storici emersi di recente – sulla sistematica pulizia etnica e sul terrorismo inferti ai palestinesi. L'articolo II della Convenzione delle Nazioni Unite del 1948 [3] definisce il genocidio come “ciascuno degli atti (...) commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale.” Non c'è dubbio che stiamo assistendo, in Israele-Palestina, a un'attività che prelude al genocidio [pre-genocidal activity]. Quali sono le radici economiche sottese alla politica economica israeliana che portano a simili tendenze genocide?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un passo indietro di qualche anno, per concentrarci sui mutamenti di più larga scala associati alla globalizzazione capitalista e sull'integrazione di Israele e del Medio Oriente nel nuovo ordine globale. La globalizzazione del Medio Oriente, a partire dalla fine del XX Secolo, ha portato cambiamenti fondamentali nella struttura sociale di Israele e nell'economia politica del suo progetto coloniale. La ristrutturazione causata dalla globalizzazione capitalistica è stata portatrice di un importante cambiamento delle relazioni tra quel progetto e i palestinesi, e ha generato condizioni che rendono più agevole per la destra israeliana evocare lo spettro del genocidio.

Oslo e la Globalizzazione di Israele
La rapida globalizzazione di Israele, iniziata alla fine degli anni 80, coincise con due intifada palestinesi e con gli Accordi di Oslo, dibattuti dal 1991 al 1993 e demoliti negli anni successivi. Mentre la Guerra Fredda esalava l'ultimo respiro, le élite transnazionali ritenevano che l'emergente economia capitalistica globale non si sarebbe potuta stabilizzare, e rendersi sicura per l'accumulazione transnazionale di capitale, in un contesto di violenti conflitti regionali, e iniziarono quindi a fare pressione per una politica di “risoluzione dei conflitti,” o di una composizione negoziale dei conflitti regionali in corso, dall'America Centrale all'Africa meridionale. Sostenuti e persuasi dagli Stati Uniti e dalle élite transnazionali, nonché da potenti gruppi capitalistici israeliani, negli anni 90 i governanti di Israele intrapresero negoziati con le controparti palestinesi soprattutto come reazione alla crescente resistenza palestinese, manifestatasi con la prima intifada (1987-1991). Si possono vedere i negoziati di Oslo come un'importante tessera del puzzle politico dovuto all'integrazione del Medio Oriente nel sistema capitalistico globale emergente (un'integrazione che fa anche da sfondo strutturale alla Primavera Araba, ma è tutta un'altra storia).
Gli Accordi di Oslo, sottoscritti nel 1993, attribuirono all'Autorità Palestinese (PA) un'autonomia in stile bantustan [4] nei territori occupati, per un periodo che sarebbe dovuto essere un interim di cinque anni, durante il quale i negoziati avrebbero continuato a trattare questioni chiave per arrivare a una “situazione definitiva” [final status], questioni come lo stato dei rifugiati (e il loro diritto al ritorno), quello di Gerusalemme, dell'acqua, dei confini e del completo ritiro di Israele dai territori occupati. Eppure, durante gli anni di Oslo (dal 1991 al 1993, quando il processo fallì definitivamente) l'occupazione israeliana della West Bank e di Gaza conobbe una grande intensificazione. Perché il “processo di pace” fallì?

Fino alla metà degli anni 80, quando la globalizzazione prese il volo, la relazione tra Israele e i palestinesi rifletteva i caratteri del colonialismo classico, nel quale la potenza coloniale sottrae ai colonizzati territorio e risorse, per poi utilizzarli, i colonizzati, come forza lavoro.

Per prima cosa, il processo non era inteso a rimediare al dramma della maggioranza diseredata dei palestinesi, ma all'integrazione nel nuovo ordine globale di un'élite emergente palestinese, offrendo a questa élite una motivazione per mantenere l'ordine e per assumersi l'onere di gestire le masse palestinesi all'interno dei territori occupati. È stato rilevato, infatti, che la formazione delle classi palestinesi in questo periodo coinvolgeva capitalisti palestinesi di orientamento transnazionale, già in sintonia con le capitali del Golfo, speranzosi di fare del nuovo stato palestinese la piattaforma per il proprio consolidamento. La PA avrebbe dovuto gestire l'accumulazione del capitale transnazionale nei territori occupati, e al contempo mantenere il controllo sociale su una popolazione recalcitrante.
Seconda cosa, l'economia israeliana si stava globalizzando tramite un complesso militare-securitario ad alto contenuto tecnologico, la cui importanza chiariremo subito.
La compenetrazione tra il capitale israeliano e il capitale aziendale di America del Nord, Europa, Asia eccetera, è diventata sempre più profonda. Difatti, il capitale israeliano si è inestricabilmente integrato nel circuito del capitale globale. Oslo ha accompagnato il processo, agevolando l'attività dei capitalisti transnazionali israeliani in tutto il Medio Oriente e oltre, in parte permettendo la revoca dei boicottaggi verso Israele da parte dei regimi arabi conservatori, in parte favorendo l'apertura di un negoziato per la creazione di una Middle East Free Trade Area (MEFTA) che ha inserito Israele nella rete economica regionale (inclusi, ad esempio, Egitto, Turchia e Giordania) e ha integrato l'area ancora più profondamente nel capitalismo globale.
Terza cosa, intimamente connessa con le precedenti, negli anni 90 Israele ha conosciuto un grande aumento di immigrazione transnazionale, contando anche un milione circa di immigrati ebrei, che ha diminuito il bisogno di manodopera palestinese, anche se le cose, nel XXI Secolo, sarebbero cambiate. Fino alla metà degli anni 80, quando la globalizzazione prese il volo, la relazione tra Israele e i palestinesi rifletteva i caratteri del colonialismo classico, nel quale la potenza coloniale sottrae ai colonizzati territorio e risorse, per poi utilizzarli, i colonizzati, come forza lavoro. Ma l'integrazione del Medio Oriente nell'economia e società globale, sulle basi di una ristrutturazione economica neoliberista, che includeva la stranota litania di misure (privatizzazioni, liberalizzazione del commercio, austerità gestita dal Fondo Monetario Internazionale e prestiti dalla Banca Mondiale), quest'integrazione contribuì alla diffusione delle istanze di democratizzazione da parte di lavoratori, movimenti sociali e organizzazioni di base, il che portò alle intifada palestinesi, ai movimenti dei lavoratori nel Nord Africa e a crescenti agitazioni sociali – fino alle eclatanti sollevazioni arabe del 2011. Simili ondate di resistenza costrinsero i governanti israeliani e i loro sponsor statunitensi a reagire.

La Globalizzazione Trasforma i Palestinesi in “Umanità in Esubero”
L'economia israeliana, dalla sua integrazione nel capitalismo globale, ha attraversato due fasi di ristrutturazione, come viene mostrato nello studio Nitzan e Bichler, The Global Political Economy of Israel.
La prima, tra gli anni 80 e 90, ha visto la transizione da un'economia tradizionale di tipo agricolo-manifatturiero a una basata su computer e informatica (CIT), telecomunicazioni high-tech, tecnologia della Rete, eccetera. Tel Aviv e Haifa sono diventate gli “avamposti mediorientali” di Silicon Valley. A tutto il 2000, un buon 15% del PIL israeliano e metà delle esportazioni derivavano dal settore dell'alta tecnologia.

Israele si è globalizzata proprio attraverso la militarizzazione tecnologica della sua economia.

In seguito, dal 2001 in poi, e specialmente in seguito allo scoppio della bolla delle società dot-com e a una recessione globale, seguita dagli eventi dell'11 settembre 2001 e dalla rapida militarizzazione della politica mondiale, Israele ha conosciuto un ulteriore spinta verso un “complesso globale di tecnologie militari, securitarie, di intelligence, sorveglianza, antiterrorismo.” Le aziende tecnologiche israeliane sono state all'avanguardia nella cosiddetta industria della sicurezza interna. In effetti, Israele si è globalizzata proprio attraverso la militarizzazione tecnologica della sua economia. Le agenzie di export israeliane stimano che nel 2007 ci fossero 350 aziende transnazionali dedite alla sicurezza, all'intelligence e ai sistemi di controllo sociale, aziende al centro della nuova politica economica israeliana.
Le esportazioni di Israele in prodotti e servizi associati all'antiterrorismo sono aumentate del 15% nel solo 2006, con in prospettiva per il 2007 di un ulteriore aumento del 20%, per un ammontare di 1,2 miliardi di dollari all'anno,” osserva Naomi Klein nel suo studio Shock Doctrine. “Le esportazioni nel settore difesa hanno raggiunto nel 2006 un record di 3,4 miliardi di dollari (in confronto agli 1,6 del 1992), facendo di Israele il quarto commerciante d'armi del mondo, superando anche il Regno Unito. Israele ha molti più titoli tecnologici nel listino Nasdaq di qualsiasi altro paese non statunitense, titoli in larga parte legati alla sicurezza, e ha registrato negli USA più brevetti tecnologici di Cina e India messe insieme. Il suo settore tecnologico, per lo più nel campo della sicurezza, copre oggi il 60% di tutte le esportazioni.”

L'accumulazione militarizzata volta al controllo e contenimento degli oppressi e degli esclusi, volta al mantenimento dell'accumulazione in tempi di crisi, porta con sé tendenze politiche di tipo fascista, o, con termini usati da alcuni di noi, a un “fascismo del XXI Secolo.”

In altri termini, l'economia israeliana è giunta a trarre sostentamento dalla violenza locale, regionale e globale, dai conflitti e le disuguaglianze. Le sue aziende più importanti sono diventate dipendenti dalla guerra e dal conflitto, in Palestina, in Medio Oriente e nel mondo, e favoriscono questi conflitti utilizzando la loro influenza sul sistema politico e sullo stato d'Israele. Si tratta di un'accumulazione militarizzata che riguarda in egual modo gli Stati Uniti e l'intera economia globale.
Viviamo sempre di più in un'economia di guerra globale, e alcuni paesi, come Stati Uniti e Israele, sono componenti fondamentali di questo meccanismo. L'accumulazione militarizzata volta al controllo e al contenimento degli oppressi e degli esclusi, volta al mantenimento dell'accumulazione in tempi di crisi, porta con sé tendenze politiche di tipo fascista, o, con termini usati da alcuni di noi, a un “fascismo del XXI Secolo.”
Fino agli anni 90 la popolazione palestinese dei territori occupati forniva a Israele forza lavoro a basso prezzo. Ma negli ultimi anni, con gli incentivi per l'immigrazione ebraica da ogni parte del mondo e il collasso dell'Unione Sovietica, si è verificato un notevole aumento degli insediamenti ebraici, riguardante anche un milione di ebrei ex-sovietici, spesso essi stessi messi in fuga dalla ristrutturazione neoliberista post-sovietica. Inoltre, l'economia israeliana ha cominciato ad attirare un'immigrazione transnazionale dall'Africa, dall'Asia e altrove, dato che neoliberismo e crisi hanno spinto milioni di persone fuori dai paesi del Terzo Mondo.

I nuovi sistemi di mobilità e reclutamento del lavoro hanno permesso ai gruppi dominanti di tutto il mondo di riorganizzare il mercato del lavoro e ingaggiare lavoratori migranti privi di diritti e facili da controllare.

È un fenomeno globale, ma particolarmente appetibile per Israele, perché gli permette di fare a meno della forza lavoro palestinese, politicamente problematica. Oggi sono i più di 300.000 lavoratori immigrati da Tailandia, Cina, Nepal e Sri Lanka a costituire la maggior parte della forza lavoro impiegata nell'agricoltura israeliana, allo stesso modo con cui vengono utilizzati gli immigrati messicani o centro-americani nel settore agricolo statunitense, e nelle medesime condizioni di precariato, sfruttamento intensivo e discriminazione. Il razzismo che molti israeliani manifestavano nei confronti dei palestinesi – prodotto specifico della condizione coloniale – si è adesso mutata in una crescente ostilità verso gli immigrati in generale, favorendo l'evoluzione verso una società diffusamente razzista.
Dato che l'immigrazione ha eliminato il bisogno da parte di Israele di forza lavoro palestinese a basso prezzo, i palestinesi sono diventati una popolazione marginalizzata, in eccedenza. “Prima dell'arrivo dei rifugiati sovietici, Israele non avrebbe mai potuto recidere a lungo i rapporti con la popolazione palestinese di Gaza o della West Bank, perché la sua economia non sarebbe sopravvissuta senza di loro, non più di quanto quella californiana reggerebbe senza messicani,” come scrive Klein. “Circa 130.000 palestinesi lasciavano le loro case di Gaza o della West Bank e si recavano in Israele per costruire strade o fare gli spazzini, mentre altri palestinesi, contadini e commercianti, riempivano i camion di merci da vendere in Israele o in altre parti dei territori occupati.”

Dal punto di vista dei settori dominanti del capitale militarizzato, radicati nell'economia israeliana e internazionale, una simile situazione non costituisce la tragica perdita di opportunità per la risoluzione dei conflitti, ma piuttosto un'occasione d'oro per espandere l'accumulazione capitalistica – di sviluppare un mercato mondiale per armi e sistemi di sicurezza, tramite l'utilizzo dell'occupazione e della popolazione palestinese soggetta come terreno di prova e bersagli.

Non c'è da meravigliarsi, perciò, che esattamente nel 1993 – l'anno in cui gli accordi di Oslo sono stati firmati e attuati – Israele abbia imposto la sua nuova politica, nota con il nome di “closure” [chiusura], cioè il confinamento dei palestinesi dentro i territori occupati, la pulizia etnica e un forte incremento degli insediamenti coloniali. Nel 1993, l'anno d'inizio della politica di “closure”, la percentuale pro capite di Prodotto Nazionale Lordo dei territori occupati è diminuita del 30%. Arrivati al 2007, i tassi di povertà e disoccupazione arrivavano al 70%. Dal 1993 al 2000 – gli anni in cui veniva implementato un accordo “di pace” che avrebbe dovuto porre fine all'occupazione israeliana e vedere la nascita di uno stato palestinese – i coloni israeliani nella West Bank sono raddoppiati, arrivando a quota 400.000, a quota mezzo milione nel 2009, e il numero continua a crescere. Il tasso di grave malnutrizione a Gaza è simile a quello di alcune delle nazioni più povere del mondo, con più di metà delle famiglie che consuma solo un pasto al giorno. Mentre da una parte i palestinesi venivano espulsi dall'economia israeliana, dall'altra parte la politica di chiusura e di espansione dell'occupazione distruggeva la loro economia.
Il fallimento degli accordi di Oslo e la farsa di trattative “di pace” che vanno avanti mentre l'occupazione israeliana non conosce soste, potrebbe costituire un dilemma politico per le élite transnazionali (e alcune loro controparti israeliane) desiderose di coltivare e cooptare le élite palestinesi e altre entità capitalistiche. Tuttavia, dal punto di vista dei settori dominanti del capitale militarizzato, radicati nell'economia israeliana e internazionale, una simile situazione non costituisce la tragica perdita di opportunità per la risoluzione dei conflitti, ma piuttosto un'occasione d'oro per espandere l'accumulazione capitalistica – di sviluppare un mercato mondiale per armi e sistemi di sicurezza, tramite l'utilizzo dell'occupazione e della popolazione palestinese soggetta come terreno di prova e poligono di tiro.
Una volta dissipata la cortina fumogena di ideologia e retorica, sono questi i potenti interessi economici che sono giunti ad avere un'influenza decisiva sulla politica statale di Israele. “La rapida espansione di un'economia basata sull'alta tecnologia securitaria ha generato tra gli israeliani più ricchi e potenti un forte desiderio di accantonare la pace e intraprendere invece una 'guerra al terrore' in continua espansione,” osservava Klein vari anni fa, “insieme a una netta strategia volta a ridefinire il proprio conflitto con i palestinesi, non come una battaglia contro un movimento nazionalista con obbiettivi territoriali e sociali, ma come parte di una guerra globale contro il terrorismo – cioè contro forze fanatiche e irrazionali dedite solo alla distruzione.”
In un editoriale del 2009 intitolato “Israel Knows that Peace Just Doesn't Pay” [Israele Sa che la Pace Proprio Non Paga], pubblicato su Haaretz, autorevole quotidiano israeliano, Amira Hass – una delle poche, coraggiose voci critiche nei media israeliani, osservava che “l'industria della sicurezza costituisce un settore importante per le esportazioni – armi, munizioni e migliorie che vengono testate quotidianamente a Gaza e nella West Bank. (…) La protezione degli insediamenti necessita di un continuo sviluppo di tecnologie di sicurezza, sorveglianza e strutture di deterrenza quali recinzioni, posti di blocco, video sorveglianza e droni.” Inoltre, “Nel mondo industrializzato, si tratta delle tecnologie di massima eccellenza, offerte a banche, industrie e quartieri di lusso che sorgono accanto a baraccopoli ed enclave etniche dove la ribellione dev'essere soppressa,”

La Sociologia di Razzismo e Genocidio: da Ferguson ai Territori Occupati
La sociologia delle relazioni etnico-razziali identifica tre generi distinti di strutture razziste, vale a dire, di relazioni strutturali tra gruppi dominanti e gruppi minoritari. Una è quella che prende nome dalle “minoranze intermediarie” [middle men minorities]. In questo tipo di struttura, il gruppo minoritario riveste un ruolo di mediazione tra il gruppo dominante e gli altri gruppi subordinati. Questa è l'esperienza storica dei commercianti cinesi d'oltremare nel Sud Est Asiatico, dei libanesi e siriani nell'Africa Occidentale, degli indiani in Africa Orientale, dei meticci in Sud Africa, e degli ebrei in Europa. Quando le “minoranze intermediarie” perdono il loro ruolo col mutamento della struttura, esse possono essere assorbite nel nuovo ordine, oppure ritrovarsi nel ruolo di capri espiatori, se non addirittura essere vittime di genocidio.

Il sistema dominante ha bisogno della manodopera dei gruppi subordinati – in pratica i loro corpi, la loro esistenza – anche se questi gruppi subiscono una marginalizzazione sociale e culturale, e la privazione dei diritti civili.

Storicamente, a svolgere questo ruolo di “minoranza intermediaria” nell'Europa feudale e protocapitalista erano gli ebrei. La struttura dell'Europa feudale affidava agli ebrei determinati ruoli vitali per la riproduzione della società feudale europea. Ciò includeva il commercio a lunga distanza e il prestito di denaro. Simili attività erano proibite dalla Chiesa Cattolica e non avevano un ruolo prestabilito all'interno del rapporto servo-signore, cardine del feudalesimo, eppure erano indispensabili al mantenimento del sistema. Con lo sviluppo capitalistico di XIX e XX Secolo, le nuove classi capitaliste si appropriarono delle funzioni commerciali e bancarie, rendendo così il ruolo degli ebrei irrilevante per gli interessi della nuova classe dominante. Come conseguenza, mentre il capitalismo si sviluppava la pressione sugli ebrei d'Europa aumentava, finché si giunse al genocidio, per via di una serie nefasta di condizioni: gli ebrei che fanno da capro espiatorio per le privazioni causate dal capitalismo, la perdita del loro indispensabile ruolo economico, la crisi degli anni 30 e l'ideologia e i programmi dei nazisti.
Un secondo genere di struttura razzista è quella che chiamiamo “supersfruttamento/divisione [super-exploitation/disorganization] della classe lavoratrice.” Ciò si verifica quando, all'interno di un'economia o società che ha una classe di lavoratori stratificata razzialmente o etnicamente, un gruppo oppresso che fa parte della classe lavoratrice sfruttata si ritrova a occuparne il gradino più basso. L'essenziale qui è che la manodopera di questo gruppo subordinato – cioè corpi ed esistenze – è indispensabile al sistema dominante perfino se esso subisce la marginalizzazione sociale e la privazione dei diritti civili. Questa è stata l'esperienza degli degli africani-americani negli Stati Uniti dopo lo schiavismo, come quella degli irlandesi in Gran Bretagna, quella attuale dei latinos negli Stati Uniti, degli indios maya in Guatemala, degli africani durante l'apartheid in Sud Africa, eccetera. Questi gruppi sono spesso subordinati socialmente, culturalmente e politicamente, o de facto o de iure. Essi rappresentano il settore supersfruttato e discriminato delle classi popolari e lavoratrici divise etnicamente e razzialmente. Questa è stata l'esperienza dei palestinesi nell'economia politica israeliana fino ad anni recenti, e nel contesto unico di Israele e Palestina nel XX Secolo.

È la situazione in cui il sistema dominante ha bisogno delle risorse del gruppo subordinato, ma non della sua forza lavoro – non ha bisogno dei corpi dei suoi membri, della loro esistenza fisica. Questa è la struttura razzista che ha maggior probabilità di arrivare al genocidio.

L'ultima struttura razzista comporta l'esclusione e l'appropriazione delle risorse naturali. È la situazione in cui il sistema dominante ha bisogno delle risorse del gruppo subordinato, ma non della sua forza lavoro – non ha bisogno dei corpi dei suoi membri, della loro esistenza fisica. Questa è la struttura razzista che ha maggior probabilità di arrivare al genocidio. È quello che hanno subito i Nativi Americani nell'America del Nord. I gruppi dominanti avevano bisogno della terra dei nativi, ma non della loro forza lavoro o dei loro corpi – dato che gli schiavi africani e gli immigrati europei fornivano la manodopera necessaria al nuovo sistema – di conseguenza i nativi subirono un genocidio. È stata anche l'esperienza dei gruppi indigeni dell'Amazzonia – vaste riserve minerali ed energetiche sono state scoperte nelle loro terre, ma i loro corpi ostacolano letteralmente l'accesso a queste risorse da parte del capitale transnazionale, e di questi corpi non c'è bisogno, di conseguenza oggi in Amazzonia sono in atto spinte verso il genocidio [there are today genocidal pressures in Amazonia].
Si tratta della condizione recente degli africani-americani negli Stati Uniti. Molti africani-americani sono caduti dalla condizione di settore supersfruttato della classe lavoratrice a quella di marginali, dato che i datori di lavoro sono passati dalla manodopera dei neri a quella degli immigrati latinos, a loro volta divenuti manodopera supersfruttata. Diventati strutturalmente marginali in grande quantità, gli africani-americani subiscono un aggravamento del processo di perdita dei diritti civili, la criminalizzazione, una spuria “guerra alla droga,” l'incarcerazione di massa e un terrorismo statale e poliziesco, visti dal sistema come mezzi necessari per controllare una popolazione superflua e potenzialmente ribelle.

I sionisti e i difensori dello stato di Israele si mostrano mortalmente offesi da ogni accostamento tra il nazismo e le azioni dello stato israeliano, inclusa l'accusa di genocidio, in parte perché l'Olocausto ebraico viene utilizzato dallo stato d'Israele e dal progetto politico sionista come un meccanismo di legittimazione, di modo che evocare simili analogie significa mettere in discussione il discorso di legittimazione di Israele.

Oggi, come con i nativi americani prima di loro – e a differenza dei Sudafricani neri – i corpi dei palestinesi non servono più, sono solo ostacoli sul percorso dello stato sionista, delle classi dominanti, dei coloni e aspiranti tali, che hanno bisogno delle risorse palestinesi, in particolare della terra, ma non dei palestinesi. A onor del vero, anche se i lavoratori palestinesi vengono gradualmente espulsi dall'economia israeliana, migliaia di palestinesi della West Bank lavorano ancora in Israele. I russi e gli altri immigrati ebrei che hanno rimpiazzato i lavoratori palestinesi negli anni 90, negli anni successivi hanno continuato a contare sul loro privilegio razziale per essere cooptati nella classe media israeliana, dato che non volevano lavorare insieme agli arabi. Ma mentre accadeva tutto questo, immigrati asiatici, africani (e in genere del sud del mondo) hanno continuato ad arrivare in Israele. Questo passaggio verso la condizione di “umanità in esubero” è in uno stadio più avanzato per gli abitanti di Gaza, che rimangono imprigionati e relegati in quel campo di concentramento che è ormai diventata Gaza. I palestinesi di Gaza sembrano essere il primo gruppo ad affrontare azioni genocide. I sionisti e i difensori dello stato di Israele si mostrano mortalmente offesi da ogni accostamento tra il nazismo e le azioni dello stato israeliano, inclusa l'accusa di genocidio, in parte perché l'Olocausto ebraico viene utilizzato dallo stato d'Israele e dal progetto politico sionista come un meccanismo di legittimazione, di modo che evocare simili analogie significa mettere in discussione il discorso di legittimazione di Israele. Sottolinearlo è cruciale, perché quel discorso è giunto a legittimare politiche di Israele, già in atto o allo stato di proposta, che manifestano una sempre maggiore somiglianza con altri storici esempi di genocidio.
Il noto storico israeliano Benny Morris, professore all'Università Ben Gurion del Negev, il quale si identifica fortemente con Israele, nel 2004 ha rilasciato una lunga intervista ad Haaretz, nella quale ha fatto riferimento al genocidio dei nativi americani allo scopo di suggerire la possibilità che il genocidio sia accettabile. Nell'intervista afferma che “perfino la grande democrazia americana non si sarebbe potuta creare senza la distruzione degli Indiani. Ci sono casi in cui il bene generale ottenuto alla fine giustifica gli atti duri e crudeli che vengono commessi nel corso della storia.” [ There are cases in which the overall, final good justifies harsh and cruel acts that are committed in the course of history] Egli poi prosegue reclamando la pulizia etnica per i palestinesi, affermando che “bisogna pur costruire per loro un qualche tipo di gabbia. So che suona orribile. È davvero crudele. Ma non c'è altra scelta. Lì c'è un animale selvaggio che bisogna rinchiudere, in un modo o nell'altro.”
Le opinioni di Morris non sono generalmente accettate in Israele, men che meno a livello internazionale, e ci sono molte divergenze, contraddizioni e motivi di tensione tra Israele e le élite transnazionali. Esiste anche un crescente movimento globale che chiede il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni [boycott, divestiment and sanctions] (BDS), per esercitare una pressione che spinga le classi dominanti a raggiungere un compromesso in difesa dei loro stessi interessi economici. I futuri sviluppi sono imprevedibili. Che la pressione strutturale a favore di un genocidio si materializzi davvero in un progetto del genere, questo dipenderà dalla congiuntura storica dei momenti di crisi, da condizioni politiche e ideologiche che rendano il genocidio una possibilità, e da un soggetto statale con i mezzi e la volontà di metterlo in atto. Un genocidio al rallentatore sembra già in corso a Gaza, dove, a intervalli di qualche anno, ci sono già stati assedi israeliani della durata di mesi, che hanno causato molte migliaia di morti, decine di migliaia di feriti, centinaia di migliaia di sfollati e un'intera popolazione privata del minimo necessario per vivere, con uno stupefacente consenso del pubblico israeliano per queste campagne. Le condizioni generali per l'avvio di un progetto di genocidio sono lontane dall'essersi manifestate, ma di certo al presente stanno lentamente emergendo [they are certainly percolating at this time]. Sta alla comunità internazionale intraprendere una lotta al fianco dei palestinesi e degli israeliani per bene [5] per prevenire una simile eventualità.

Vorrei ringraziare Yousef Baker e Maryam Griffin per i suggerimenti e i commenti a una precedente stesura di quest'articolo.

William I. Robinson è professore di Sociology, Global Studies and Latin American Studies presso la University of California, Santa Barbara. La sua opera più recente è Global Capitalism and the Crisis of Humanity.


note del traduttore
[1] È una frase ricorrente in Levitico 20, come formula che conchiude il decreto di messa a morte di chi maltratta i genitori, commette adulterio, va a letto con la matrigna, con la nuora, con la zia, fa sesso con animali, fa sesso con un uomo (se uomo), eccetera eccetera. Le lesbiche non erano contemplate, perché vennero inventate molti secoli dopo dalle femministe.
[2] Trovo ammirevole il coup de maître logico-legale che permette di operare una pulizia etnica “in accordance with international law”.
[3] Più precisamente, si tratta della “Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Delitto di Genocidio” (New York, 9 dicembre 1948).
[4] “Il termine bantustan si riferisce ai territori del Sudafrica e della Namibia assegnati alle etnie nere dal governo sudafricano nell'epoca dell'apartheid. (...) Negli anni del regime dell'apartheid voluto dal National Party allora al governo, le diverse etnie nere furono costrette a trasferirsi nei bantustan loro assegnati, e le loro possibilità di spostarsi sul territorio sudafricano furono fortemente limitate. I bantustan erano ufficialmente regioni autogovernate, ma di fatto erano dipendenti dall'autorità del governo sudafricano bianco.” [Wikipedia]
[5] Traduco così “decent”, che indica (più che il corrispettivo italiano “decente”) ciò che è corretto, accettabile, in breve ciò che raggiunge un minimo di rispettabilità.

lunedì 26 dicembre 2016

A Mente Fredda

di Carlo Formenti (da Sollevazione, 26 dicembre 2016)

Ho resistito all’impulso di commentare a botta calda l’esito del referendum, manifestando la mia gioia per la disfatta di un progetto di “riforma” la cui valenza reazionaria ha pochi precedenti nella storia italiana del secondo dopoguerra (mi vengono in mente la legge truffa e il governo Tambroni). Mi sono trattenuto perché ritengo che l’evento meriti ragionamenti più ampi e approfonditi del cicaleccio mediatico con cui è stato celebrato. 

Provo ora ad abbozzare una riflessione a mente fredda. 


Il primo aspetto di cui va preso atto è il clamoroso fallimento della casta dei comunicatori (giornalisti, sondaggisti, spin doctor) chiamati ad alimentare e sostenere la campagna elettorale renziana: come già avevano dimostrato Brexit ed elezioni presidenziali Usa, la loro capacità di manipolare l’opinione pubblica si è ridotta praticamente a zero, malgrado il ricorso all’arma di dissuasione di massa del terrorismo economico, puntualmente ridicolizzato dalla (mancata) reazione dei mercati. Eppure, mentre i cittadini si sono dimostrati impermeabili a lusinghe e minacce, lo stesso non si può dire per buona parte dei militanti impegnati nella campagna per il No, molti dei quali hanno fino all’ultimo momento temuto di poter perdere, a testimonianza del fatto che anche le componenti politiche più sane di questo Paese hanno smarrito – almeno in parte – la capacità di interpretare gli umori della propria base sociale, sottovalutandone il livello di consapevolezza e la capacità di mobilitazione. 
Un secondo aspetto che balza agli occhi è, assieme alla partecipazione di massa al voto, la sua composizione sociale, generazionale e regionale. Hanno votato sì i vecchi e i ricchi che vivono nei centri storici (soprattutto al Nord), hanno votato no i giovani (oltre l’80%!), le periferie, le regioni meridionali (in blocco), proletari, precari, classi medie impoverite. In barba alle elemosine e alle promesse renziane, in barba alla retorica sulle startup e sui giovani delle professioni emergenti, in barba ai tentativi di scatenare la guerra fra giovani e vecchi, fra garantiti e precari, fra uomini e donne, in barba al tentativo di valorizzare le riforme sui diritti civili per far dimenticare l’attacco a diritti sociali, welfare, salari e occupazione, in barba alla retorica nuovista e al tentativo di bollare come conservatori coloro che si battevano per difendere la costituzione dall’attacco del capitale globale (JP Morgan, Bce, Ue, Fmi, ecc.). 
Perché stupirsi? Non c’erano anche qui condizioni analoghe a quelle che negli Stati Uniti hanno indotto le masse dei perdenti al gioco della globalizzazione a votare per Sanders alle primarie democratiche e poi (emarginato Sanders dal “golpe” clintoniano) per Trump alle presidenziali, o che in Inghilterra hanno indotto le periferie delle metropoli de industrializzate a votare Brexit? Insomma: avremmo dovuto saperlo che si sarebbe vinto. 

Tuttavia ora è il momento di capire meglio perché non poteva che andare così, e di ragionare sui compiti che questa vittoria ci affida. Proverò a farlo prendendo spunto dal dibattito che il mio ultimo libro (“La variante populista”, DeriveApprodi) ha provocato a sinistra, concentrandomi su tre temi di fondo: 
1) crisi del processo di globalizzazione; 2) populismo e sovranità popolare come terreno strategico dello scontro di classe; 3) ridefinizione del soggetto della lotta anticapitalista. 
Una delle mie tesi che più ha suscitato scandalo è quella secondo cui la sovranità popolare e nazionale tornano a essere terreno strategico dello scontro fra capitale e classi subordinate. A parte le accuse di “rossobrunismo” rivoltemi da alcuni imbecilli, l’obiezione più ricorrente è stata quella secondo cui la sovranità, intesa come autonoma capacità di un popolo di decidere del proprio destino, è oggi resa impossibile dagli irresistibili automatismi del mercato globale. Si tratta di un argomento condiviso da un’ampia schiera di intellettuali che va dalla destra ordoliberista alle sinistre radicali (le quali vi hanno fatto ricorso per giustificare la resa di Tsipras ai diktat della Ue), uno schieramento che, per quanto attraversato da profonde fratture ideologiche, appare unito nella difesa dell’Europa contro le insorgenze populiste, liquidate in blocco come nazionalismi di destra. 
Si tratta di una visione “economicista” che, pur richiamandosi al marxismo, svilisce la concezione di Marx del capitalismo come rapporto di forza fra classi sociali (e non come prodotto di presunte “leggi” dell’economia). Una visione che vede la globalizzazione come un processo oggettivo e lineare, del quale non riesce a cogliere le controtendenze. Controtendenze che, viceversa, appaiono evidenti (e preoccupanti) agli occhi delle élite dominanti: vedi l’intervista al “Corriere della Sera” rilasciata in data 30 novembre da Francis Fukuyama, il quale associa il declino dell’egemonia americana a una vera e propria disintegrazione dell’ordine postbellico che minaccia la stessa sopravvivenza della democrazia liberale; vedi pure l’articolo dell’Economist, significativamente intitolato “Economists cannot stop Trump, but perhaps they can understand it”, nel quale, da un lato, si ammette che il processo di globalizzazione è la causa fondamentale degli intollerabili livelli di disuguaglianza che hanno favorito la Brexit, il trionfo di Trump (e quello del NO in Italia), dall’altro si afferma che la risposta al “trumpismo” dev’essere cercata sul piano politico e non su quello economico. 

Si va insomma diffondendo la consapevolezza che il mondo sta attraversando una crisi analoga a quella che segnò la fine della prima grande globalizzazione un secolo fa. Una crisi tutta politica, nel senso che, dopo quarant’anni di “guerra di classe dall’alto” la disuguaglianza ha raggiunto livelli tali da mettere in crisi la capacità del sistema liberal democratico (ormai compiutamente postdemocratico) di ottenere consenso sociale. In altre parole, il capitale incontra crescenti difficoltà a fronteggiare la caduta del saggio di profitto che lo perseguita dagli anni Settanta del secolo scorso come ha fatto finora, cioè attraverso la distruzione sistematica di welfare, salari, diritti sociali, sindacati, ecc. E ciò avviene nel momento in cui il sistema imperiale fondato sull’egemonia americana vacilla, mentre altre potenze (Cina e Germania su tutte) le contendono il primato, acuendo i conflitti interimperialistici. Come un secolo fa si aprono tre strade: 
1) protezionismo, lotta per la spartizione delle aree neocoloniali, fascistizzazione, guerra; 2) tentativo di “incivilire” la globalizzazione attraverso una serie di accordi fra potenze e qualche concessione alle classi subordinate (la via auspicata dall’Economist); 3) intensificazione della lotta di classe e apertura di scenari di transizione a società postcapitaliste. 
Il punto è: lottare per riconquistare sovranità popolare e nazionale (nel nostro caso: lottare per l’uscita dell’Italia dalla Ue) significa arrendersi al primo scenario, oppure è un passaggio obbligato per accelerare l’avvento del terzo scenario? Le sinistre hanno accantonato ogni riflessione sulla questione nazionale a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, quando sembrava che le lotte di liberazione dei popoli del Terzo Mondo dal dominio coloniale fossero giunte a compimento, né sono tornate a occuparsene quando nuove forme di dominio coloniale e semicoloniale sono venute affermandosi (e non solo nel Terzo Mondo: vedi il caso greco!). Dai “classici” —sia Marx che Lenin— la questione è sempre stata affrontata in modo pragmatico, mettendola in relazione ai concreti contesti storici, culturali e sociali. Né Marx né Lenin sono stati assertori di una concezione astratta dell’internazionalismo, avendo piuttosto costantemente cura di distinguere fra cosmopolitismo borghese e internazionalismo proletario: il primo teso all’abbattimento dei confini per promuovere l’internazionalizzazione della produzione e degli scambi commerciali e finanziari, il secondo concepito come costruzione di solidarietà fra lotte nazionali, perché la lotta di classe può svilupparsi solo a tale livello. Chi oggi contesta quest’ultimo punto ignora il fatto che la lotta di classe è anche e soprattutto conflitto fra luoghi (territori) e flussi (di capitale, merci, informazioni, élite) che colonizzano e sfruttano i luoghi e, al tempo stesso, tende di fatto a presumere un’inesistente convergenza di interessi fra mobilità dei capitali e mobilità della forza lavoro. 
Posto che solo gli imbecilli parlano ormai del neoliberismo come fine dello stato, visto che a tutti è evidente come lo stato abbia svolto e svolga un ruolo determinante nella costruzione – anche qui tutta politica – del sistema ordoliberista, la questione riguarda piuttosto il divorzio fra i due termini del binomio stato-nazione: ad andare in pensione non è lo stato, che deve anzi promuovere e garantire il funzionamento del mercato e indottrinare la popolazione con la narrazione dell’individuo imprenditore di sé stesso, oltre a smantellare tutti gli strumenti di autodifesa delle classi subordinate, bensì la nazione in quanto ambito giuridico, economico e politico in cui far valere i diritti collettivi del popolo, per cui il superamento dello stato-nazione si presenta come un regresso storico e non come un salto in avanti progressivo, come erroneamente sostenuto da (quasi) tutte le sinistre che, non a caso, hanno stupidamente regalato alle destre il monopolio della lotta contro la perdita di sovranità. È vero, come scrive Paolo Gerbaudo, che i populismi di destra e di sinistra sono accomunati dall’idea “che per costruire un nuovo ordine sociale sulle macerie della globalizzazione neoliberista sia necessario rivendicare il diritto di comunità politiche definite su base territoriale di gestire la loro vita collettiva in modo relativamente autonomo dalle differenze esterne (…) un certo grado di indipendenza rispetto alle forze e ai flussi globali che sembrano frustrare qualsiasi tentativo di controllo reale da parte delle comunità sul proprio destino” e tuttavia le concezioni di sovranità cui si fa qui riferimento sono radicalmente diverse: da un lato, un immaginario etnico improntato alla coppia sangue e suolo, dall’altro una visione della sovranità popolare come mezzo di inclusione, di reintegrazione nello stato di una cittadinanza che se ne sente sempre più esclusa a mano a mano che (come si è tentato di fare con la “riforma” Renzi) vengono indebolite o spazzate via le istituzioni di partecipazione e rappresentanza politiche. Una sovranità concepita come arma di lotta del popolo contro le oligarchie, dei molti contro i pochi, dei poveri contro i ricchi. Il che ci conduce al tema del soggetto della lotta e della forma politica di tale lotta. 
Gli attacchi più duri al mio discorso sul soggetto politico e sul populismo come forma attuale della lotta di classe sono arrivati dagli intellettuali postoperaisti (com’era scontato, visto l’ampio spazio che il mio libro dedica alla critica delle loro tesi). Costoro rifiutano di essere accomunati sotto un unico paradigma, e tuttavia, ancorché divisi in piccole sette concorrenti, conservano una sostanziale omogeneità di impostazione. A Franco Bifo Berardi —che pure nell’articolo che sto per citare non mi chiama direttamente in causa— occorre riconoscere il merito di avere sintetizzato (forse un po’ schematicamente, ma in modo efficace) le loro posizioni in un recente intervento su Alfabeta2. Anche lui coglie analogie con la situazione di un secolo fa, ma dà per scontato (salvo miracoli, vedremo a quali condizioni) l’esito che poco sopra ho descritto come primo scenario (cioè la fascistizzazione). Questo perché, scrive: «ogni tentativo democratico di sottrarsi alla governance neoliberale è fallito: la volontà cosciente del corpo sociale non è in grado di agire sull’astrazione finanziaria, quindi reagisce secondo le linee dell’identità antiglobale». 
A saltare agli occhi è qui l’ipostatizzazione della invincibile potenza dell’astrazione finanziaria: una visione ultraeconomicista che, sommata all’esaltazione della presunta potenza emancipatrice della rivoluzione digitale e della transizione al capitalismo “immateriale” (?!), fa sì che Bifo veda nella “Silicon Valley globale” il solo terreno possibile di un’inversione di tendenza. Chi il protagonista di tale miracolo? Naturalmente la classe cognitiva, perché 
«Solo quando la soggettività politica corrisponde alle forze sociali che muovono la macchina sociale diviene possibile un cambiamento cosciente. Solo la ricomposizione della minoranza sociale costituita dai lavoratori cognitivi, cioè coloro che programmano la macchina globale e le permettono di evolversi e di funzionare, potrà mettere in moto un processo di trasformazione reale. Non è questione di sovranità, ma di smantellamento e riprogrammazione dell’algoritmo tecno-linguistico che sta al cuore della macchina sociale” per cui oggi “dobbiamo ragionare sul programma come alternativa algoritmica all’algoritmo dominante». 
I postoperaisti hanno mandato in soffitta molti dogmi marxisti, in compenso qui vediamo come abbiano viceversa conservato quelli più vetusti e meno difendibili: l’idea secondo cui la rivoluzione è possibile solo se e quando le forze produttive siano sufficientemente sviluppate (nemmeno il fatto che tre rivoluzioni industriali abbiano sempre rinforzato il dominio del capitale sul lavoro basta a far loro cambiare idea); l’idea che la coscienza antagonista si concentri negli strati sociali vicini al punto più alto dello sviluppo capitalistico (e poco importa se questi strati sono oggi i più integrati nel sistema di dominio); l’idea che la scienza e la tecnica siano sostanzialmente “neutrali”, che incorporino cioè una potenza di emancipazione di cui è possibile appropriarsi con relativa facilità. Si tratta di una visione “immanentista” – le energie della trasformazione sono tutte interne al rapporto di capitale – che induce chi la condivide a perdersi in estatica contemplazione del culo del capitale scambiandolo per il radioso sol dell’avvenire. 
Si tratta, anche, di una visione aristocratica che indica in una tecnoélite l’unico soggetto in grado di evitare il disastro della fascistizzazione e, al tempo stesso, nutre quello che non saprei definire altrimenti che disprezzo, se non vero e proprio odio, nei confronti degli strati inferiori di classe e degli esclusi: gli operai impoveriti che vanno dietro a Trump come i topi dietro al pifferaio magico (a dire il vero avevano sostenuto Sanders, ma non hanno avuto lo stomaco di sostenere la Clinton, più che andar dietro a Trump), vengono descritti come pronti a iscriversi a un “nazional operaismo” emulo del nazionalsocialismoIl nostro arriva a parlare del “trumpismo alimentato dalla rabbia impotente del popolo demente”. Non so se si tratti di un lapsus calami, se così non fosse Bifo dovrebbe rendersi conto che si è appena iscritto a un pessimo club, assieme a Sarkozy (ricordate la sua battuta sulla racaille delle banlieux?), a Hollande e al suo disprezzo per gli “sdentati” e a Hillary Clinton e Renzi (a loro volta prodighi di paroline dolci per la “feccia” dei poveri). 

Evidentemente per certi intellettuali il popolo è demente quando non aderisce a modelli di comportamento che confermerebbero le loro “analisi” e i loro desideri. Non so cosa pensi Bifo del trionfo del NO ma, nel caso volesse applicare lo stesso metro di misura con cui ha valutato la Brexit e le elezioni Usa, gli suggerisco di leggere quanto ha scritto il nostro comune amico Gigi Roggero in un post su Facebook: 
«Non eravate voi quelli che non si fa politica con i NO ma solo con i desideri, che la rabbia è una passione triste, che il quinto stato trionferà (…) che tutta la composizione di classe al di fuori dai vostri salotti è plebaglia reazionaria?» 
Resta da stabilire se sia vero che —sempre secondo Bifo, ma anche secondo gli altri postoperaisti— il populismo —ancorché di sinistra— sia incapace di ricomporre le forze oggettive del lavoro. Veniamo così al nodo del soggetto e delle forme politiche della lotta di classe oggi. Per evitare di annoiare me stesso, oltre che i lettori, ripetendo quanto ho scritto in proposito nel libro, riprenderò alcuni passaggi da un lungo intervento di Mimmo Porcaro che considero il commento più approfondito e articolato che mi sia finora capitato di leggere sul mio libro. 
«A parere di Formenti», scrive Porcaro cogliendo appieno il nocciolo della questione, «(il soggetto) non può essere dedotto da categorie sociologiche, non può essere desunto dalle dinamiche generali del capitale, può essere individuato solo in seguito a ‘un’analisi concreta della situazione concreta’, condotta in ciascuna specifica congiuntura della lotta di classe. Non si può quindi prevedere quale sia il soggetto (o, meglio, la convergenza di diversi soggetti) che di volta in volta diviene protagonista dei conflitti: la rivolta e le sue forme sono per definizione imprevedibili proprio perché fuoriescono dalla routine della riproduzione del capitalismo». 
È proprio in base a tale impostazione metodologica —qui ben sintetizzata— che ho ritenuto di dover associare le esperienze più efficaci della lotta di classe alla forma populista (soprattutto alle sue varianti bolivariane in America Latina, al fenomeno Sanders negli Stati Uniti e alle esperienze europee di Podemos, e di Syriza prima della capitolazione). 
Porcaro mette poi in luce come la mia attenzione si rivolga soprattutto verso gli strati bassi della società, verso le resistenze alla modernizzazione piuttosto che verso il vertice della modernizzazione stessa; verso la periferia, il “fuori” dal capitalismo, una periferia che —anche qui Porcaro coglie un nodo fondamentale— non si identifica necessariamente con i rapporti sociali precapitalistici, ma “può essere il prodotto del movimento incessante della modernizzazione che sempre distrugge o rende periferiche le forme di vita precedenti (anche quelle già capitalistiche ma non più confacenti alle aumentate esigenze dell’accumulazione)”. Tema che richiederebbe ulteriori approfondimenti (auspicabilmente oggetto di lavori futuri, miei o altrui) nel senso di cogliere la logica profondamente neocoloniale delle nuove forme di sfruttamento capitalistico, anche all’interno dei cosiddetti paesi avanzati. Aggiungo che questa attenzione verso il “basso” non nasce dal fatto che io lo ritenga la sede “naturale” dell’antagonismo, bensì perché è oggi concretamente al centro delle sole forme visibili di rivolta. 
Il populismo è di per sé in grado di far fronte a questa sfida e di indirizzarla verso esiti progressivi?Assolutamente no, e i lettori onesti sanno che non ho mai affermato qualcosa del genere. Cito ancora Porcaro: 
«(per Formenti) il populismo non è un nemico da esorcizzare ma è piuttosto la forma storicamente determinata della lotta di classe, è un campo nel quale bisogna situarsi senza timore, per meglio condurre una battaglia per l’egemonia finalizzata a trasformare il populismo stesso in una direzione coerentemente anticapitalista e socialista, sconfiggendone le inevitabili e ben radicate tendenze di destra”; e questo perché: “se la compattezza sociologica della classe è stata programmaticamente dissolta, se l’efficacia politica della sua lotta è stata consapevolmente ostacolata, se i grandi partiti di massa sono stati visti come la ragione di ogni male e se gli spazi di espressione democratica si sono drasticamente chiusi a svantaggio dei lavoratori, è assolutamente inevitabile che la stessa lotta di classe si presenti come populista». 

Dopodiché Porcaro mi rimprovera di non aver sufficientemente distinto fra il populismo come forma di mobilitazione dal populismo come forma di stato, inevitabilmente esposto a ambiguità e tendenze di destra. Accetto l’appunto, anche se, con la mia critica alle tesi di Laclau e la torsione gramsciana che ne ho suggerito attraverso le categorie di blocco sociale ed egemonia, credevo di avere sciolto il nodo (ma evidentemente non sono stato abbastanza chiaro). 
Per giungere alle conclusioni, come rapportare tutto ciò alla situazione del dopo referendum? Diciamo subito che la sconfitta segna una battuta di arresto per le élite neoliberiste, ma non le induce in alcun modo a rinunciare ai progetti di de- democratizzazione del Paese. Il fatto è che, se vogliono sopravvivere, impedendo che si realizzino il primo o il terzo scenario (fascistizzazione o ripresentarsi dello spettro del socialismo), devono insistere in tale progetto. Il discorso di Renzi sul “suo” quaranta per cento di consensi è chiarissimo: l’obiettivo resta quello della governabilità, vale a dire del dominio di una minoranza sulla maggioranza dei cittadini da realizzare attraverso alchimie elettorali (premi di maggioranza, grandi coalizioni o quant’altro). Lo conferma il governo “fotocopia” di Gentiloni (con la Boschi simbolicamente promossa a sottosegretario alla presidenza del consiglio), e lo conferma l’immediato rilancio della campagna mediatica a sostegno del Pd renziano, che alimenta la speranza di portare la legislatura alla sua scadenza naturale, creando le condizioni per una rivincita. È possibile che la paura di ulteriori perdite di consenso induca a più miti consigli in materia di austerità, attacco al welfare, smantellamento dei diritti sociali, ecc. (vedi sopra lo scenario due, ovvero la globalizzazione “dal volto umano”), ma ciò non intacca la necessità di esorcizzare lo spettro populista (di destra o di sinistra). 
Come dovrebbero muoversi in questa situazione le forze che si sono impegnate nella campagna per il NO da una prospettiva coerentemente anticapitalista? 
Si tratta di far compiere un salto di qualità alla costruzione di un fronte politico e sociale che saldi le lotte contro le controriforme sociali degli ultimi trent’anni alla battaglia per l’uscita dell’Italia dalla Ue (un obiettivo che si caratterizza sempre più come discriminante decisiva); occorre incrociare il conflitto di classe con quelli che emergono dalle nuove forme di esclusione che colpiscono larghi strati dei classe media (lavorando alla costruzione di un sindacalismo sociale che restituisca rappresentanza alle classi subordinate, abbandonate da un sindacalismo confederale sempre più complice delle élite dominanti). Si tratta, insomma, di saldare in un unico fronte di lotta l’opposizione ai tre volti (regime politico, controriforma sociale, vincolo europeo) di quello che appare un unico avversario saldamente integrato nelle istituzioni del capitale globale. 

Infine, sul breve-medio periodo —in assenza di movimenti paragonabili alle esperienze di Podemos o di Syriza prima maniera—, si tratta di contrastare con energia ogni ipotesi di legge elettorale maggioritaria (soglie di sbarramento, premi di maggioranza, ecc.) e di appoggiare, alla prima scadenza elettorale, il
Movimento5Stelle che, pur non presentando caratteristiche antisistema, ha almeno il merito di canalizzare la rabbia popolare, impedendole di confluire nelle schiere del populismo di destra, e offre alcuni elementi programmatici condivisibili (reddito di cittadinanza, stop alle grandi opere inutili, difesa del welfare, una sia pur titubante linea anti euro). Anche perché una sua vittoria elettorale potrebbe rappresentare un momento di destabilizzazione sistemica da cui partire per lanciare obiettivi più avanzati.

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