mercoledì 27 maggio 2015

Una Nazione Cristiana? E da Quando? Stati Uniti, lo Storico Patto tra Grande Capitale e Destra Religiosa


di Kevin M. Kruse dal New York Times

L'America sarà pure una nazione di credenti, ma per quel che riguarda la sua identità come “Nazione Cristiana” le credenze dei suoi cittadini sono piuttosto confuse.
Appena qualche settimana fa, l'agenzia Public Policy Polling [1] riferiva che il 57% dei Repubblicani è favorevole a dichiarare ufficialmente gli Stati Uniti una nazione cristiana. Ma nel 2007 un sondaggio effettuato dal First Amendment Center [2] mostrava che il 55% degli americani era convinto che lo fosse già.
Una tale confusione è comprensibile. Con tutti i discorsi che facciamo sulla separazione tra Stato e Chiesa, il linguaggio religioso si è diffuso nella nostra cultura politica in innumerevoli modi. È inscritto nel nostro giuramento di fedeltà patriottica [3], stampato sul nostro denaro, inciso sulle pareti dei nostri tribunali e del Campidoglio [4]. Forse la sua onnipresenza ci fa presumere che tale linguaggio ci accompagni fin dalla nascita della nazione.
Ma non sono stati i padri fondatori a creare gli slogan e le cerimonie che ci vengono in mente quando ci chiediamo se questa sia o meno una nazione cristiana. Sono stati invece i nostri nonni.
Negli anni 30 i grandi uomini d'affari si ritrovarono in difficoltà. Il loro prestigio sociale, a causa del crollo del '29, era crollato anch'esso; le loro imprese si ritrovavano tra il martello del New Deal di Roosevelt e l'incudine dei lavoratori organizzati. Per riconquistare il loro predominio, le grandi società contrattaccarono a tutto campo. Scatenarono una guerra metaforica nelle assemblee legislative, e a volte una letterale nelle strade; le loro campagne spaziarono dalle corti di giustizia ai forum dell'opinione pubblica. Ma nulla si rivelò particolarmente efficace finché non diedero il via a un'offensiva propagandistica che dipingeva il capitalismo come l'ancella del cristianesimo.
In passato i due erano già stati descritti come anime gemelle, ma in quella campagna la loro unione era plasmata da una violenta opposizione al “socialismo strisciante” del New Deal. Il governo federale non aveva mai realmente fatto conto dell'opinione degli americani sui rapporti tra fede e libera impresa, per lo più perché non si era mai intromesso così massicciamente negli interessi dell'impresa privata. Ma adesso la sua ombra sul business si allungava in modo inquietante.
Andando al contrattacco, durante gli anni 30 e 40 le grandi imprese lanciarono una nuova ideologia che combinava elementi del Cristianesimo con un libertarismo antigovernativo. A fare da apripista, potenti lobby affaristiche come la United States Chamber of Commerce e la National Association of Manufacturers, che promuovevano quest'ideologia attraverso conferenze e campagne pubblicitarie. Contributi generosi arrivarono da importanti uomini d'affari, con nomi blasonati quali Harvey Firestone, Conrad Hilton, E. F. Huton, Fred Maytag e Henry R. Luce, o personaggi meno noti, a capo della U.S. Steel, della General Motors o della DuPont.
Con scaltra decisione, questi dirigenti fecero dei sacerdoti i loro portavoce. Come osservò J. Howard Pew (della Sun Oil), i sondaggi provarono che un ministro del culto riusciva a plasmare l'opinione pubblica più di ogni altro professionista. Per questo il mondo degli affari iniziò il reclutamento tra il clero cristiano, per mezzo di pubblici appelli e incontri privati. Furono in molti a rispondere alla chiamata, ma tre di essi meritano un'attenzione particolare.
Il reverendo James W. Fifield – noto come “il tredicesimo apostolo del grande affare” e “il San Paolo degli Abbienti” - fu uno dei primi evangelisti dediti alla causa. Predicando alle congreghe milionarie dell'esclusiva First Cogregational Church di Los Angeles, Fifield diceva che leggere la Bibbia è “come mangiar pesce – scartiamo le ossa per gustare la carne. Non tutte le parti hanno ugual valore.” Accantonava i moniti del Nuovo Testamento riguardo la natura corruttrice della ricchezza. Al contrario, vedeva capitalismo e Cristianesimo uniti contro lo “statalismo pagano” del New Deal.
Per mezzo della sua organizzazione nazionale, la Spiritual Mobilization (fondata nel 1935), Fifield promuoveva la “libertà al cospetto di Dio.” Per la fine degli anni 40 il suo gruppo diffondeva il suo vangelo di fede e libera impresa in una diffusissima rivista mensile e un programma radiofonico settimanale che alla fine sarebbe stato diffuso da 800 stazioni in tutto il paese. Furono anche messi in palio premi in denaro per incoraggiare i ministri a tenere sermoni ad hoc. I liberal protestarono contro quella fusione di Dio e avidità; nel 1948 il giornalista radicale Carey McWilliams la stigmatizzò in una fulminante invettiva. Ma Fifield cavalcò quelle critiche per raccogliere ancora più fondi, moltiplicando il suo attivismo.
Allo stesso tempo, il reverendo Abraham Vereide promuoveva la causa cristiano-libertarian con una rete nazionale di gruppi di preghiera. Dopo aver svolto la funzione di pastore per gli industriali che fronteggiavano grandi scioperi a Seattle e a San Francisco alla metà degli anni 30, Vereide cominciò a organizzare colazioni di preghiera in tutta America, allo scopo di unire le élite politiche ed economiche in una causa comune. “I grandi uomini e i veri leader di New York e Chicago,” scriveva a sua moglie, “guardano a me con un'ammirazione che mi imbarazza.” Nella sola Manhattan gli chiedevano udienza James Cash Penney, Thomas Watson della IBM, Norman Vincent Peale e il sindaco Fiorello La Guardia.
Nel 1942 l'influenza di Vereide giunse fino a Washington. Convinse il Senato a tenere incontri settimanali di preghiera “affinché possiamo essere una nazione diretta e controllata da Dio.” Vereide inaugurò un suo quartier generale a Washington – battezzandolo “L'Ambasciata di Dio” - diventando una presenza potente presso istituzioni in precedenza laiche. Tra le sue iniziative ci furono le “cerimonie di consacrazione” per molti giudici della Corte Suprema. “Nessun paese, nessuna civiltà può perdurare,” proclamo il giudice Ton C. Clark durante la sua consacrazione nel 1949, “a meno che non siano fondate sui valori cristiani.”
La maggiore figura ecclesiastica nel campo del cristianesimo libertarian, comunque, fu quella del reverendo Billy Graham. Dall'inizio del suo ministero, nei primi anni 50, Graham fu un sostenitore talmente acceso degli interessi dell'impresa che un giornale di Londra lo chiamò “l'evangelista del Big Business.” Il Giardino dell'Eden, diceva ai suoi fedeli , era un paradiso “senza quote sindacali, senza leader dei lavoratori, senza serpenti e senza malattie.” Con spirito simile stigmatizzava le “restrizioni governative” in campo economico, che invariabilmente attaccava in quanto “socialismo.”
Nel 1952 Graham andò a Washington, per fare del Congresso la sua congregazione. Reclutò parlamentari che facessero da cerimonieri [6] per i suoi affollati raduni, e organizzò il primo ufficiale servizio religioso mai tenuto sui gradini del Campidoglio. Quello stesso anno, assecondando le sue richieste pressanti, il Congresso istituì un'annuale Giornata Nazionale della Preghiera. “Se mi candidassi oggi come presidente degli Stati Uniti, con un programma che chiamasse il popolo a ritornare a Dio, a ritornare a Cristo, a ritornare alla Bibbia,” pronosticò, “Vincerei.”
Ci pensò Dwight D. Eisenhower a realizzare quella predizione. Con le citazioni bibliche fornite da Graham, il candidato Repubblicano lanciò una campagna che denominò “una grande crociata per la libertà.” Il suo curriculum militare faceva del generale un candidato formidabile, ma durante il confronto elettorale Eisenhower accentuò le tematiche spirituali a discapito di altre più mondane. Come ebbe modo di osservare il giornalista John Temple: “Nella concezione di Eisenhower l'America non è semplicemente la terra dei liberi. È una terra di libertà al cospetto di Dio.” Eletto in un vero plebiscito, Eisenhower disse a Graham che gli era stato affidato un mandato per compere un “rinnovamento spirituale.”
Malgrado si fosse appoggiato ai gruppi di cristiani libertarian durante la campagna elettorale, una volta eletto Eisenhower si discostò dalla loro agenda. Gli sponsor industriali avevano visto la retorica religiosa come strumento per smantellare la struttura del New Deal. Ma il nuovo presidente riteneva che quella sarebbe stata un'impressa persa in partenza. “Qualunque partito politico che tentasse di abolire la Social Security, gli ammortizzatori per la disoccupazione, e di eliminare le leggi sul lavoro o i programmi statali per l'agricoltura,” osservò in privato, “quel partito scomparirebbe per sempre dalla nostra storia.” Adifferenza di chi vedeva la tematica spirituale come mezzo per un fine, Eisenhower l'adottò come un fine in sé.
Separando il messaggio della “libertà al cospetto di Dio” dalle sue radici cristiane libertarian, Eisenhower creò una comunità di rinnovamento spirituale più ampia, che accoglieva ebrei, cattolici e protestanti, Democratici e Repubblicani. Percorrendo il paese, mise in campo tutta una serie rivoluzionaria di riti e slogan religiosi.
Già la prima settimana del febbraio 1953 [il mese successivo alla sua elezione - ndt] impostò il ritmo vertiginoso della sua presidenza: la domenica mattina si fece battezzare; quella stessa sera diffuse un messaggio presidenziale per la campagna “Ritorno s Dio” dell'American Legion; quel giovedì presenziò, insieme al reverendo Vereide, alla prima Colazione di Preghiera Nazionale; il venerdì inaugurò la preghiera di apertura nelle riunioni di gabinetto.
Anche il resto di Washington si consacrava a Dio. Il Pentagono, il Dipartimento di Stato e altri organismi governativi si affrettarono a istituire i loro incontri di preghiera. Nel 1954 il Congresso aggiunse “al cospetto di Dio” al Giuramento di Fedeltà, fino ad allora laico. Quello stesso anno fu impresso uno slogan simile, “Confidiamo in Dio”, sui francobolli, e l'anno successivo si votò per aggiungerlo anche sulla carta moneta; nel 1956 “In God We Trust” divenne il motto ufficiale della nazione.
Nel corso di quegli anni gli americani si sentirono dire, ancora e ancora, non tanto che il loro paese sarebbe dovuto essere una nazione cristiana, quanto che lo era sempre stato. Cominciarono ben presto a concepire gli Stati Uniti come “una nazione al cospetto di Dio.” E hanno continuato a crederci fino ad oggi.

Kevin M. Kruse è professore di Storia a Princeton; la sua opera più recente è One Nation Under God: How Corporate America Invented Christian America.


Note del traduttore
[1] Public Policy Polling: un'agenzia di sondaggi che opera per committenti liberal.
[2] Ricordiamo che il Primo Emendamento (alla Costituzione degli Stati Uniti) non riguarda solo la libertà d'espressione, ma anche, tra l'altro, la separazione tra Stato e Chiesa.
[3] Nel Pledge of Allegiance (giuramento di fedeltà) che viene recitato (non obbligatoriamente) nelle scuole, il riferimento a Dio è stato inserito nel 1954 (v. più sotto).
[4] Si tratta di questioni controverse, pesantemente manipolate da opinionisti di tendenza teocratica (cfr, Snopes).
[5] Qui e altrove ometto, o sostituisco con parafrasi (incontro religioso , raduno ecc.) il termine “revival (meeting)”, una manifestazione di proselitismo e predicazione tipici degli Stati Uniti.
[6] Traduco così il termine “usher”, che indica i fedeli incaricati di accogliere i convenuti a un evento religioso, ed eventualmente dirigerli verso i posti loro assegnati (cfr. Wikipedia)

traduzione di Domenico D'Amico

Dobbiamo Fermare gli Stati Canaglia. Tipo l'Iran (Satira)


di Paul Bibeau da Goblinbooks

L'Iran mi preoccupa. No, davvero. E mi fa piacere che almeno qualche nostro governante lo veda per quello che è – una nazione fuorilegge. Una minaccia per la pace. Basta rifletterci un po' per capirlo.
L'Iran, non dimentichiamolo, è stata l'unica nazione che abbia mai utilizzato armi nucleari contro la popolazione civile.
D'accordo, è successo molto tempo fa. Ma loro hanno continuato ogni anno a spendere miliardi per sostenere l'unico paese nella regione in possesso di un arsenale nucleare segreto, un paese colpevole di crimini di guerra, e che ha cercato di condividere le sue armi atomiche con regimi iniqui come il Sud Africa dell'apartheid. È una fedina che parla da sé.
Qui non ci possiamo permettere false equivalenze – fingendo che l'Iran sia come qualsiasi altra nazione che persegua l'autodifesa. L'Iran è una potenza aggressiva di scala globale. Possiede una rete di istallazioni militari in tutto il mondo. Sostiene nazioni autoritarie e sanguinarie per poi usarle per la tortura di prigionieri a scopo di informazione, in un odioso programma di “extraordinary renditions”. Distrugge i governi che non gli piacciono, camuffando le proprie azioni con menzogne e pretesti farlocchi propinati ai suoi stessi cittadini, Questo andazzo di destabilizzare altri paesi per farli crollare e mettere su governi fantoccio va avanti ormai da un secolo. È questo lo schema di comportamento che continua a compromettere i nostri rapporti con l'Iran. Come puoi, in quanto paese, stringere accordi con un governo che dimostra costantemente di volerti rovesciare? Com'è possibile essere in pace con una nazione del genere?
Una nazione che non ha mai svolto un ruolo di responsabilità nella regione. Chi potrà mai dimenticare che gli iraniani hanno sostenuto Saddam Hussein mentre lui commetteva atrocità utilizzando armi chimiche, per poi, molti anni dopo, rovesciare il suo regime col pretesto ridicolo di dare la caccia alle armi di distruzione di massa? Chi potrà mai dimenticare la guerra civile e il terrorismo che seguirono all'occupazione del paese da parte loro? E le torture che avvenivano nelle carceri gestite dagli iraniani? E le continue uccisioni di civili da parte degli iraniani?
Non ci si può fidare dell'Iran, Ha messo in opera una massiccia campagna di sequestri di persona e di uccisioni mirate. Viola i diritti civili dei suoi stessi cittadini; cittadini ormai abituati a una costante sorveglianza da parte dello stato e a un'élite politica che metodicamente tiene loro nascosto quello che combina nel resto del mondo. Sopprime il dissenso e mette in galera le “gole profonde” [whistleblowers]. È un paese violento, autocratico fino all'osso, e nessuna persona responsabile si augurerebbe che il suo potere rimanga incontestato.
Ma quello che in questa nazione fa davvero paura è la sua ideologia religiosa. Avrete sentito sicuramente parlare di quei fautori della linea dura in Medio Oriente, che sperano ardentemente che ci sia una guerra sanguinaria, apocalittica, combattuta in nome della loro fede. Sono fanatici, e detengono posizioni di grande potere all'interno del governo. Ma la cosa ancora più inquietante è che la gran maggioranza dei comuni cittadini di quel paese credono in una sorta di nazionale “eccezionalismo”. È un concetto che li accompagna sin dalla fondazione della loro nazione – li ha portati alla conquista della maggior parte del loro continente, combattendo guerre spietate sia contro i nativi sia contro i loro confinanti. Fa credere loro che i loro valori siano universali, il che gli fornisce un pretesto sempre pronto per una guerra incessante e senza confini. E a tutto questo si unisce la curiosa capacità di razionalizzare i loro molti tradimenti di quegli stessi valori. Abbiamo a che fare con una nazione che finge di avere la missione di liberare a forza l'intero mondo, tralasciando il fatto che siffatta liberazione non è altro che la copertura del pianeta con una rete di basi militari e prigioni segrete. È quel genere di nazione che si ritrova sempre un inesauribile numero di nemici, e non si domanda mai il perché. È quel genere di nazione che idolatra un uomo la cui sola impresa è stata l'uccisione di 200 persone, una nazione che tratta la faccenda girando un film che è interamente basato su come ammazzare tutta quella gente lo ha fatto sentire.
Capite quanta ignoranza e arroganza tutto questo comporta? Capite quanta febbrile certezza di essere il faro che illumina il mondo, unita a un totale disprezzo per le vite di qualunque cittadino di altri paesi? Come si fa a trattare con una nazione del genere?
La cosa migliore da fare è attendere che questo manicomio si crei un tale numero di nemici, insieme a tante guerre, interventi militari, colpi e contro-colpi di stato, da rollare sotto il peso dello sforzo politico ed economico. Ovviamente, è la decisione che hanno preso tutti gli altri.
Non si può ragionare con questa gente. Sono irrecuperabili.

 traduzione di Domenico D'Amico

Amnesty International Criminalizza i Palestinesi per la Scarsità delle Loro Armi

Quali Sono i Veri Attacchi Indiscriminati

di Nicola Perugini e Neve Gordon da Counterpunch 

Unlawful and Deadly, il recente rapporto di Amnesty International riguardante gli “attacchi con razzi e mortai da parte di formazioni armate palestinesi durante il conflitto Gaza/Israele del 2014”, accusa Hamas e altri di aver condotto “attacchi indiscriminati” contro Israele: “Quando attacchi indiscriminati uccidono o feriscono civili, essi costituiscono un crimine di guerra.”
Il rapporto riafferma una simmetria formale tra israeliani e palestinesi (precedenti rapporti hanno accusato Israele di crimini di guerra durante l'operazione Protective Edge), chiede a entrambe le parti di prendere tutte le precauzioni per salvaguardare le vite dei civili, e raccomanda loro di “selezionare metodi e strumenti di attacco appropriati”.
“L'uso di armi che sono intrinsecamente indiscriminate, quali i missili privi di guida, è proibito. L'uso, in aree densamente popolate, di armi imprecise che non possano essere dirette contro obbiettivi militari con sufficiente precisione, ad esempio i mortai, si configura con probabilità come un attacco indiscriminato, ed è ugualmente proibito.”
Implicitamente qui si evocano per contrasto le superiori capacità tecnologiche di Israele, che secondo l'IDF permettono di effettuare incursioni aeree con “precisione chirurgica”. Ma le cifre raccontano tutt'altra storia. Durante la campagna militare israeliana a Gaza della scorsa estate sono stati uccisi almeno 2100 palestinesi; circa 1500 di essi si ritiene siano vittime civili (secondo Amnesty alcuni sarebbero stati uccisi da razzi palestinesi vaganti). Sul lato israeliano sono state uccise 72 persone, 66 militari e 6 civili. Sono numeri che indicano una evidente discrepanza. Non si tratta solo del fatto che Israele ha ucciso 300 volte più civili dei palestinesi, ma che la percentuale di civili uccisi tra i palestinesi è stata molto più elevata. Queste cifre indicano chiaramente che non c'è correlazione tra bombardamenti di precisione e distinzione tra militari e civili. Anche i sistemi d'arma ad alta tecnologia riescono a uccidere indiscriminatamente.
Il rapporto di Amnesty non solo dimostra quanto ambigua possa essere la normativa internazionale sui diritti umani, ma anche che le organizzazioni che se ne occupano tendono a ignorare le asimmetrie dei rapporti di potere, anzi a perpetuarli. Quello che in sostanza dice il rapporto è che l'uso di missili artigianali – chi vive sotto assedio permanente non ha altro a disposizione – è un crimine di guerra. In altri termini, le formazioni armate palestinesi vengono criminalizzate per via della loro inferiorità tecnologica.

Nicola Perugini è ricercatore e Direttore del Programma di Legge Internazionale e Diritti Umani presso il Al Quds Bard Honors College (Gerusalemme). Per seguirlo: @PeruginiNic

Neve Gordon è autore di Israel's Occupation e co-autore (insieme a Nicola Perugini) di The Human Right to Dominate, in uscita per il giugno del 2015.

Questo articolo è apparso originariamente sulla London Review of Books.

traduzione di Domenico D'Amico

How Austerity Kills

di David Stuckler e Sanjay Basu dal  NY Times

EARLY last month, a triple suicide was reported in the seaside town of Civitanova Marche, Italy. A married couple, Anna Maria Sopranzi, 68, and Romeo Dionisi, 62, had been struggling to live on her monthly pension of around 500 euros (about $650), and had fallen behind on rent.
Because the Italian government’s austerity budget had raised the retirement age, Mr. Dionisi, a former construction worker, became one of Italy’s esodati (exiled ones) — older workers plunged into poverty without a safety net. On April 5, he and his wife left a note on a neighbor’s car asking for forgiveness, then hanged themselves in a storage closet at home. When Ms. Sopranzi’s brother, Giuseppe Sopranzi, 73, heard the news, he drowned himself in the Adriatic.
The correlation between unemployment and suicide has been observed since the 19th century. People looking for work are about twice as likely to end their lives as those who have jobs.
In the United States, the suicide rate, which had slowly risen since 2000, jumped during and after the 2007-9 recession. In a new book, we estimate that 4,750 “excess” suicides — that is, deaths above what pre-existing trends would predict — occurred from 2007 to 2010. Rates of such suicides were significantly greater in the states that experienced the greatest job losses. Deaths from suicide overtook deaths from car crashes in 2009.
If suicides were an unavoidable consequence of economic downturns, this would just be another story about the human toll of the Great Recession. But it isn’t so. Countries that slashed health and social protection budgets, like Greece, Italy and Spain, have seen starkly worse health outcomes than nations like Germany, Iceland and Sweden, which maintained their social safety nets and opted for stimulus over austerity. (Germany preaches the virtues of austerity — for others.)
As scholars of public health and political economy, we have watched aghast as politicians endlessly debate debts and deficits with little regard for the human costs of their decisions. Over the past decade, we mined huge data sets from across the globe to understand how economic shocks — from the Great Depression to the end of the Soviet Union to the Asian financial crisis to the Great Recession — affect our health. What we’ve found is that people do not inevitably get sick or die because the economy has faltered. Fiscal policy, it turns out, can be a matter of life or death.
At one extreme is Greece, which is in the middle of a public health disaster. The national health budget has been cut by 40 percent since 2008, partly to meet deficit-reduction targets set by the so-called troika —  the International Monetary Fund, the European Commission and the European Central Bank — as part of a 2010 austerity package. Some 35,000 doctors, nurses and other health workers have lost their jobs. Hospital admissions have soared after Greeks avoided getting routine and preventive treatment because of long wait times and rising drug costs. Infant mortality rose by 40 percent. New H.I.V. infections more than doubled, a result of rising intravenous drug use — as the budget for needle-exchange programs was cut. After mosquito-spraying programs were slashed in southern Greece, malaria cases were reported in significant numbers for the first time since the early 1970s.
In contrast, Iceland avoided a public health disaster even though it experienced, in 2008, the largest banking crisis in history, relative to the size of its economy. After three main commercial banks failed, total debt soared, unemployment increased ninefold, and the value of its currency, the krona, collapsed. Iceland became the first European country to seek an I.M.F. bailout since 1976. But instead of bailing out the banks and slashing budgets, as the I.M.F. demanded, Iceland’s politicians took a radical step: they put austerity to a vote. In two referendums, in 2010 and 2011, Icelanders voted overwhelmingly to pay off foreign creditors gradually, rather than all at once through austerity. Iceland’s economy has largely recovered, while Greece’s teeters on collapse. No one lost health care coverage or access to medication, even as the price of imported drugs rose. There was no significant increase in suicide. Last year, the first U.N. World Happiness Report ranked Iceland as one of the world’s happiest nations.
Skeptics will point to structural differences between Greece and Iceland. Greece’s membership in the euro zone made currency devaluation impossible, and it had less political room to reject I.M.F. calls for austerity. But the contrast supports our thesis that an economic crisis does not necessarily have to involve a public health crisis.
Somewhere between these extremes is the United States. Initially, the 2009 stimulus package shored up the safety net. But there are warning signs — beyond the higher suicide rate — that health trends are worsening. Prescriptions for antidepressants have soared. Three-quarters of a million people (particularly out-of-work young men) have turned to binge drinking. Over five million Americans lost access to health care in the recession because they lost their jobs (and either could not afford to extend their insurance under the Cobra law or exhausted their eligibility). Preventive medical visits dropped as people delayed medical care and ended up in emergency rooms. (President Obama’s health care law expands coverage, but only gradually.)
The $85 billion “sequester” that began on March 1 will cut nutrition subsidies for approximately 600,000 pregnant women, newborns and infants by year’s end. Public housing budgets will be cut by nearly $2 billion this year, even while 1.4 million homes are in foreclosure. Even the budget of the Centers for Disease Control and Prevention, the nation’s main defense against epidemics like last year’s fungal meningitis outbreak, is being cut, by $293 million this year.
To test our hypothesis that austerity is deadly, we’ve analyzed data from other regions and eras. After the Soviet Union dissolved, in 1991, Russia’s economy collapsed. Poverty soared and life expectancy dropped, particularly among young, working-age men. But this did not occur everywhere in the former Soviet sphere. Russia, Kazakhstan and the Baltic States (Estonia, Latvia and Lithuania) — which adopted economic “shock therapy” programs advocated by economists like Jeffrey D. Sachs and Lawrence H. Summers — experienced the worst rises in suicides, heart attacks and alcohol-related deaths.
Countries like Belarus, Poland and Slovenia took a different, gradualist approach, advocated by economists like Joseph E. Stiglitz and the former Soviet leader Mikhail S. Gorbachev. These countries privatized their state-controlled economies in stages and saw much better health outcomes than nearby countries that opted for mass privatizations and layoffs, which caused severe economic and social disruptions.
Like the fall of the Soviet Union, the 1997 Asian financial crisis offers case studies — in effect, a natural experiment — worth examining. Thailand and Indonesia, which submitted to harsh austerity plans imposed by the I.M.F., experienced mass hunger and sharp increases in deaths from infectious disease, while Malaysia, which resisted the I.M.F.’s advice, maintained the health of its citizens. In 2012, the I.M.F. formally apologized for its handling of the crisis, estimating that the damage from its recommendations may have been three times greater than previously assumed.
America’s experience of the Depression is also instructive. During the Depression, mortality rates in the United States fell by about 10 percent. The suicide rate actually soared between 1929, when the stock market crashed, and 1932, when Franklin D. Roosevelt was elected president. But the increase in suicides was more than offset by the “epidemiological transition” — improvements in hygiene that reduced deaths from infectious diseases like tuberculosis, pneumonia and influenza — and by a sharp drop in fatal traffic accidents, as Americans could not afford to drive. Comparing historical data across states, we estimate that every $100 in New Deal spending per capita was associated with a decline in pneumonia deaths of 18 per 100,000 people; a reduction in infant deaths of 18 per 1,000 live births; and a drop in suicides of 4 per 100,000 people.
OUR research suggests that investing $1 in public health programs can yield as much as $3 in economic growth. Public health investment not only saves lives in a recession, but can help spur economic recovery. These findings suggest that three principles should guide responses to economic crises.
First, do no harm: if austerity were tested like a medication in a clinical trial, it would have been stopped long ago, given its deadly side effects. Each nation should establish a nonpartisan, independent Office of Health Responsibility, staffed by epidemiologists and economists, to evaluate the health effects of fiscal and monetary policies.
Second, treat joblessness like the pandemic it is. Unemployment is a leading cause of depression, anxiety, alcoholism and suicidal thinking. Politicians in Finland and Sweden helped prevent depression and suicides during recessions by investing in “active labor-market programs” that targeted the newly unemployed and helped them find jobs quickly, with net economic benefits.
Finally, expand investments in public health when times are bad. The cliché that an ounce of prevention is worth a pound of cure happens to be true. It is far more expensive to control an epidemic than to prevent one. New York City spent $1 billion in the mid-1990s to control an outbreak of drug-resistant tuberculosis. The drug-resistant strain resulted from the city’s failure to ensure that low-income tuberculosis patients completed their regimen of inexpensive generic medications.
One need not be an economic ideologue — we certainly aren’t — to recognize that the price of austerity can be calculated in human lives. We are not exonerating poor policy decisions of the past or calling for universal debt forgiveness. It’s up to policy makers in America and Europe to figure out the right mix of fiscal and monetary policy. What we have found is that austerity — severe, immediate, indiscriminate cuts to social and health spending — is not only self-defeating, but fatal.
 
Correction: May 25, 2013
An Op-Ed essay on May 13 about the health effects of economic austerity misstated cuts to the budget of the Centers for Disease Control and Prevention. The sequester will cut the budget by $293 million this year, not “at least $18 million.” (The $18 million represents cuts to a C.D.C. immunization program.)

domenica 24 maggio 2015

Renzi non esiste

Non vorrei dire una cosa tanto banale e scontata, ma qualcuno deve pur dirla: Renzi non esiste. 
Il Presidente del consiglio è un'invenzione della società dello spettacolo sussunta dentro l'ordine economico. E' un simulacro virtuale, non ha nè personalità, nè un'anima. 
La sua essenza si definisce per le finalità per le quali è stato creato, egli esprime concetti che non gli appartengono, ma sono solo la mera esecuzione di codici.
Il premier o se preferite il suo avatar  è un programma ideato da programmatori al soldo dei banchieri. Renzi è stato creato ad arte, non da nerds sfigati in un garage, ma da titolate società di marketing, che hanno espunto e buttato a mare il suo involucro umano e lo hanno sostituito con i pixel e con i codici.
Prima di lui c'erano altri programmi, troppo lenti e troppo brutti, con delle interfaccia deprimenti come Monti o Letta. Renzi rappresenta l'evoluzione, è un programma che sa agire come un trojan per infettare tutti i media. 
Il vecchio Renzi ha abdicato alla sua natura umana per diventare un superoe senz'anima con il potere di ipnotizzare il popolo stravolgendo le immagini della realtà, che mostrano bello e desiderabile ciò che  altro non è se non inganno e fregatura.
Dobbiamo prenderne coscienza e creare subito un programma, un software in grado di contrastarlo o presto anche i nostri diritti diventaranno virtuali.


sabato 23 maggio 2015

La pensione è un furto.

di Tonino D’Orazio 
E’ scoppiata la disputa del pollaio, quello dei poveri. Quello dei 7 milioni, in stragrande maggioranza pensionati, in povertà assoluta, cioè senza sussistenza vitale. Il pollaio borghese, chiacchierato e amorale, si svolge nei salotti televisivi su quisquiglie caratteriali di dubbia sanità mentale e luoghi comuni dove nessuno deve dimostrare niente a nessuno.
Ci risiamo con le pensioni. Lavoro e pensioni sono il problema costante delle “riforme” dei fascisti neoliberisti di qualunque provenienza. Con l’affabulazione e i trucchi del prossimo furto. Tutto in nome catto-pietistico dei pensionati, poverini. Siamo nelle campagne mediatiche emozionali. E’ il solito derby, già utilizzato da Berlusconi e la destra a suo tempo, oggi rilanciato dal centro-“sinistra”, dei giovani contro i vecchi.
Gli operai non hanno finito di prendere ceffoni. Forse lo meritano anche. E’ il subdolo pensionato operaio che prendendo più di 1.000 euro al mese, (meno di 1.000 sono il 74% dei trattamenti) dopo una vita di contributi versati, che diventa l’affamatore e che ruba il futuro alle nuove generazioni. Non si rendono conto nemmeno che con quelle mille euro devono aiutare i figli, i nipoti disoccupati (quelli che, nel famigerato 43%, non lavorano), se non i pronipoti, visto l’allungamento della vita. Oltre ai normali ticket, non riescono più a fare nessuna visita specialistica per tutelare un minimo di salute qualitativa. Vuoi vedere che sono anche responsabili del disastro finanziario, sociale e culturale dell’Italia? Può darsi in parte, essendosi adeguati a qualunque cattiveria fatta loro dai politici e dai governi che hanno votato o che sono stati loro imposti. Inoltre c’è anche un po’ di recidiva.
E’ la più grande ironia e sfacciataggine del padronato italiano, al governo del paese da vent’anni ora con un fantoccio ora con un altro. Cioè quelli che hanno delocalizzato tutta l’industriosità italiana, che hanno rubato a più non posso e continuano tra malavita e politica, che hanno rivenduto beni che non appartenevano loro, che hanno spostato sedi fiscali per non pagare tasse facendole aumentare per i poveracci, quelli che nascondono soldi in paradisi fiscali (e non sono certamente i lavoratori), quelli che negli ultimi due anni hanno licenziato 350.000 lavoratrici perché incinte (ossimoro:poco produttive, ma feconde), cioè quelli che fanno  mobbing proprio verso quei lavoratori che hanno fatto il mazzo per arricchirli, perché sempre del loro lavoro si sparla. Ora, sfiancati in pensione, sono ancora sottotorchio perché quelli pensano che stiano scialacquando e non soltanto mangiare  per sopravvivere.
Gli si fanno i conti in tasca. Sicuramente i pensionati stanno avendo troppo dalla rendita dei loro versamenti. Anzi bisognerebbe trovare il modo di non pagare più quelli che vivono troppo a lungo, perché, a conti fatti, stanno ricevendo incredibilmente più di quanto versato. Fine della solidarietà, anzi fine dell’Inps ad itinere. Appare addirittura luminosa e progressista l’idea di versarsi i contributi ognuno per conto proprio, magari in banca, (Oh! Sempre presenti questi!), all’americana. Tanto la realtà è che la mia pensione non è cosa mia e che la quiescenza come diritto sia finita. Sono i padroni che si occupano della mia vita e della mia morte.
La tecnica per farci passare da scrocconi? Snocciolare cifre, percentuali e statistiche. E’ la vittoria dei numeri sulla vita degli uomini. E’ lo scorazzare caotico dei numeri, rimbalzanti e mai verificati, sulla pelle delle persone, affascinate o disinteressate. D’altronde la Troika di Bruxelles si esprime solo così (anzi da buoni banchieri, in percentuali) e fa testo e legge. Protestare? L’ideologia imposta e ribadita dai media in coro è ben più sottile: “la verità non esiste, essa è solo una questione di punti di vista”. Magari di algoritmi. Basta raccontarlo con tono serio alla cassiera del supermercato per non pagare.
E da quale pulpito viene la lezione? Da quelli che avranno, senza aver versato quasi nulla, migliaia di euro di “vitalizio”, ovviamente non rubati, per il poco lavoro svolto. Spesso solo alzare la mano, o premere un pulsante, anche senza una parola (c’è chi pensa per loro) per quattro anni. Da quelli che cazzeggiano tutti i giorni in televisione e nei “rivoluzionari” talkshow, ben attenti a che non si modifichi mai nulla per i loro ceti sociali di riferimento o i loro soldi. O dai quadri dirigenziali delle imprese private che dopo il fallimento della loro cassa pensionistica privata per gestione folle e presuntuosa, si rifanno sulle spalle dei lavoratori attivi per continuare una vergognosa speculazione. Ve lo immaginate una legge che dice, visto che all’Inps non avete versato nulla, non vi spetta nulla. Prendetevela, in tribunale, con la gestione fallimentare della vostra cassa privata. Finalmente tipico ed esemplare degli Stati Uniti. Lo stesso dicasi dei ferrotranvieri, degli elettrici e via dicendo, aspettando tra breve il bubbone dei medici. Tutta gente tranquilla che ha versato 10 per prendere 50. Diritto acquisito, tana libera tutti.
Ma c’è di peggio dal punto di vista istituzionale. Viene fuori la controprova che la Costituzione non serva più e che sta passando l’idea che una sentenza della Corte non è una sentenza vera, ma semplicemente un consiglio, una raccomandazione. E che alla fine sia il governo, o la troika di Bruxelles, a dover decidere se e in che misura attenersi alle decisioni della Corte Costituzionale, secondo il modello della monocrazia renziana o dei poteri forti sovrannazionali. Allora arriva il “bonus”, cioè una regalia, un obbligo giuridico trasformato in obolo, un trucco per non pagare. Eppure basta semplicemente comprare due caccia-bombardieri F-35 in meno. A quando la legge per inserire più amici possibili in una future Corte “riformata”? Che dice la banca internazionale J&P Morgan, tramite il guardiano Padoan, di questa abnorme democrazia?
E’ chiaro che intanto è la guerra di tutti contro tutti che continuamente viene alimentata. Il fatto è che ci stanno facendo “partecipare”, come nella cronaca nera e morbosa di taluni seguite trasmissioni, tutti sentenziando il “giusto” e qualcuno si scalda e si emoziona pure. Come possiamo essere arrivati a questo?

Quel pasticciaccio brutto dell'austerità


Mi viene in mente che il liberismo porta con sé, fra le altre cose, una rivoluzione semantica, una specie di stravolgimento dei nessi associativi che crea un linguaggio schizofrenico percepito da riceventi sordi. Giusto è ciò che apparentemente, almeno secondo i dettami dell'etica e del sentire comune, è palesemente ingiusto e illogico. È giusto che per far quadrare i conti si affami un intero popolo, è giusto affermare che vecchi, bambini, malati, disoccupati, pensionati, siano colpevoli del debito pubblico, e quindi che paghino a prezzo del sangue. Così non è, il debito è per la maggior parte (80% nel caso della Grecia) frutto dell'esposizione a creditori pubblici (UE-FMI), ma dubito che tali soldi vadano in tasca a pensionati e casalinghe greche, immagino che ne beneficino maggiormente banche e imprese che guarda caso poi in una sorta di circolo infernale lucrano anche sui titoli di stato emessi per ripianare il deficit, aumentando di conseguenza il debito e il gap fra ricchi e poveri. Ma se anche fosse vero che vecchi e bambini hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità magari utilizzando prestiti per comprare Ferrari e Playstation, possiamo tranquillamente affermare che sarebbe giustificato far pagare loro un debito a costo della vita?
Un giornalista (?) ieri a RaiNews 24 affermava che i greci non possono pensare di continuare a nascondere la sporcizia sotto il tappeto, andare in pensioni a 50 anni, indebitarsi, truccare i conti ecc. lasciando intendere che devono proseguire sulla strada dei tagli, per realizzare quello che banchieri e giornalisti servi chiamano riforme. Il giornalista non si è posto minimamente il problema che tale modo di intendere l'economia ha portato a suicidi, aumento della mortalità infantile, povertà, mancanza di cure, disoccupazione.

È giusto ciò che è palesemente ingiusto, sulla base di un'equazione semplice che contempla una sola variabile: il debito, al netto delle determinanti dello stesso debito, che di certo non è stato contratto dai bambini e dai pensionati poveri.

Quanto sta succedendo in Europa, è la dimostrazione palese del fallimento e dell'ingiustizia delle politiche di austerità, e le regole e normazioni da essa imposta, appaiono il risultato di variabili palesemente arbitrarie. 
Il fallimento è insito non solo nel non raggiungimento di nessuno degli obiettivi che la troika aveva prefissato: il debito pubblico cresce, la disoccupazione cresce, il PIL cresce ritmi letargici e la tanto agognata crescita non si vede neanche col binocolo, ma anche negli assunti di base. Se infatti siamo disposti ad ammettere che per funzionare un'economia ha bisogno di succhiare sangue a pensionati e lavoratori, diminuire le garanzie sociali e privatizzare i beni pubblici, siamo nel pieno di un'aporia con poche possibilità di scampo. In altre parole stiamo affermando che per realizzare una cosa giusta occorre essere ingiusti. Per un verso la cosa potrebbe avere anche una sua giustificazione. Si potrebbe affermare (e i politici lo fanno) che per raggiungere dei risultati che arrechino “il maggior benessere possibile al maggior numero di persone” occorre che una minoranza di persone si sacrifichi. A parte gli interrogativi etici che tale affermazione reca con sé, visto che non mancano esempi storici tragici degli effetti di tale principio, e a parte la palese contraddizione sul concetto di pochi, dato che milioni di lavoratori e pensionati non sono certo pochi, si tratta di capire sulla base di quale logica si è potuto affermare che sacrificare alcuni per il benessere di molti è inevitabile e necessario. Due sono le risposte possibili: 1) l'economia ha delle leggi ferree che non puoi aggirare, in pratica l'economia è una e soltanto una, e i suoi precetti sono scolpiti sulle tavole della dottrrina liberista dell'economia. 2) l'austerità è un'ipotesi di lavoro, che ha delle premesse argomentative solide e paradigmi ben collaudati e quindi quello che si fa altro non è che la sperimentazione in vivo sulla base di un costrutto ipotetico deduttivo, che dovrebbe condurre a trovare una cura efficace per un'economia malata.

Rispetto alla prima tesi, possiamo dire che il liberismo non è l'unica dottrina economica esistente, ne esistono numerose altre come quelle di derivazione keynesiana che hanno altrettanta se non maggiore autorevolezza, dimostrando di funzionare meglio in tempi di crisi, come ci dimostra l'esempio di Roosvelt o dello stesso Obama che invece di tagli e aumenti della pressione fiscale hanno attuato politico di sostegno della domanda e di aumento degli investimenti pubblici e privati. Affermare quindi che il liberismo e solo il liberismo rappresenti la teoria economica in assoluto, sconfina nel fideismo religioso, cosa che certo non si addice a una scienza o presunta scienza come l'economia.

Riguardo alla seconda tesi, appare improbo affermare che la società possa essere un laboratorio a cielo aperto dove sacrificare a piacimento cavie umane. Una cosa è sacrificare topi per sperimentare un farmaco, altra cosa è far morire bambini o malati di tumore per trovare una cura che si sta rivelando peggio della malattia stessa.

Per ultimo, se anche una tale terapia d'urto funzionasse e il PIL crescesse a ritmi levati, la disoccupazione fosse pari a zero e il debito pubblico estinto, quale sarebbe gli effetti pratici? Lavori precari e sottopagati, sanità e scuole privatizzate, mano libera ai privati, nessuna garanzia sociale. 
Conviene? Non credo.

giovedì 21 maggio 2015

Telegraph: L’Europa affronta la seconda rivolta, con i socialisti in ascesa in Portogallo che rifiutano l’austerità

Sul Telegraph, A. E. Pritchard  preannuncia che il prossimo paese a saltare potrebbe essere il Portogallo, con un debito complessivo altissimo e segnali di ripresa troppo fragili. Ma l’opposizione socialista che guida i sondaggi per le prossime elezioni sembra avvitata nello stesso circolo vizioso di Syriza: rifiutare l’austerità senza mettere in discussione l’unione monetaria, cosa che ormai sappiamo impossibile. 

di Ambrose Evans Pritchard da Vocidallestero

La Germania teme che qualsiasi concessione alla Grecia farà scattare il contagio e farà crollare la disciplina fiscale in tutta l’Europa meridionale
L’Europa corre il rischio di una seconda rivolta da parte delle forze di sinistra nel Sud, dopo che il partito socialista del Portogallo ha promesso di sfidare le richieste di austerità dei creditori e di bloccare eventuali ulteriori licenziamenti dei dipendenti pubblici.
Noi attueremo una politica opposta”, ha detto Antonio Costa, il leader socialista.
Costa ha detto che una netta maggioranza del suo partito vuole fermare la “ossessione dell’austerità”. Parlando ai giornalisti a Lisbona mentre il suo paese si prepara per le elezioni – previste nel mese di ottobre – Costa ha insistito sul fatto che il Portogallo deve cominciare a ricostruire le parti fondamentali del settore pubblico che sono state colpite dai drastici tagli sotto il regime precedente della troika, Ue-Fmi.
I socialisti sono in lieve vantaggio nei sondaggi sulla coalizione conservatrice di governo e possono allearsi con i partiti di estrema sinistra, forse anche con il vecchio Partito comunista.
Ci deve essere un’alternativa che ci permetta di voltare pagina sull’austerità, rilanciare l’economia, creare posti di lavoro, e – nel rispetto delle regole della zona dell’euro – ridare speranza a questa regione“, ha detto.
Mentre il Partito socialista insiste sulla sua diversità rispetto al movimento radicale di Syriza in Grecia, si nota una sorprendente somiglianza nel linguaggio pre-elettorale e nelle stesse proposte. Anche Syriza ha promesso di attenersi alle regole UEM, mentre allo stesso tempo ha fatto campagna per delle politiche destinate a provocare uno scontro frontale con i creditori.


Costa ha accusato il governo portoghese di lanciare un blitz di privatizzazioni negli ultimi giorni del suo mandato, segnalando che i socialisti intendono bloccare o rivedere la vendita della compagnia di bandiera TAP, come anche degli hub del trasporto pubblico e delle reti idriche.

Le parole più dure sono state riservate al Fondo monetario internazionale, ma questo riflette l’ambiente culturale della sinistra portoghese. In realtà, il Fondo monetario internazionale era il partner di minoranza nelle missioni della Troika.
A marzo Costa ha presentato un pacchetto di 55 misure, con in testa un flusso di spesa per l’assistenza sanitaria e l’istruzione, che equivale ad un pacchetto di reflazione fiscale. Il partito inoltre ritirerà le riforme del lavoro e renderà più difficile per le aziende licenziare i lavoratori.
Il piano sembrerebbe del tutto incompatibile col Fiscal Compact dell’UE, che impone al Portogallo degli enormi avanzi primari allo scopo di ridurre il debito pubblico dal 130pc al 60pc del PIL in 20 anni, sotto minaccia di sanzioni.
Gli attacchi sempre più feroci sull’austerità da parte di Lisbona rischiano di aumentare i timori di Berlino sul fatto che la disciplina di bilancio e le riforme crolleranno in tutta l’Europa meridionale  se i ribelli della Grecia otterranno delle concessioni. La preoccupazione per ilmoral hazard” politico sta notevolmente complicando la ricerca di una soluzione in Grecia.
La Grecia è il banco di prova a cui tutti stanno guardando con molta attenzione. È per questo che i primi ministri di Spagna e Portogallo hanno portato avanti così tenacemente la linea dura “, ha detto Vincenzo Scarpetta, di Open Europe.
Nessun accordo sulla Grecia è ancora in vista. Syriza continua a vivere alla giornata, rimandando di stretta misura il default di settimana in settimana, saccheggiando gli ultimi fondi. Il Ministro delle finanze del paese, Yanis Varoufakis, nella notte di lunediì ha detto alla televisione greca che “le pensioni e gli stipendi sono sacrie se il denaro si esaurisce avranno la priorità. “Preferirei dare default al Fondo monetario internazionale, piuttosto che ai salari,” ha detto.
Inviando dei messaggi contrastanti, ha anche detto che la Grecia non ha un piano per una rottura con Bruxelles o per un “cambio di valuta”.
Il Portogallo non è più sotto il controllo della Troika. L’anno scorso è uscito dal suo programma di salvataggio di 78 miliardi, ed è tornato sui mercati. E’ attualmente in grado di prendere in prestito denaro a 10 anni ad un tasso di interesse del 2.35pc. “Non abbiamo più alcun indebitamento diretto, ha detto un funzionario Ue.
Tuttavia, i paesi rimangono sotto un post-programma di sorveglianza”, con due missioni di monitoraggio sul campo ogni anno, fino a quando non avranno rimborsato il 75pc del denaro. Il Portogallo non sarà libero e a posto ancora per molto tempo.
La legge prevede che il consiglio dei ministri UEM possa emettereraccomandazioni per azioni correttive se necessario, e se queste risulteranno appropriate. I fondi di salvataggio della UE (ESM e EFSF) hanno un proprio “meccanismo di allerta precoce” per garantire che i debitori rimangano sulla strada giusta.
Il Portogallo ha superato la crisi di austerità molto meglio della Grecia, ma resta vulnerabile, con livelli di debito totale più alti e livelli di istruzione molto più bassi rispetto alla Grecia.
Il debito pubblico e privato totale combinato ammonta a più del 370pc del PIL, il più alto d’Europa. Questo lascia il paese gravemente esposto agli effetti della deflazione da debito, e col PIL nominale stagnante.

William Buiter, capo economista di Citigroup, ha detto che il Portogallo ha molte delle stessepatologie” economiche della Grecia, ed è probabile che sia in prima linea per il contagio se la santità dell’unione monetaria venisse violata dalla espulsione della Grecia.
Citigroup ha calcolato che gli indici di indebitamento del Portogallo hanno già superato il punto di non ritorno, avvertendo che il Paese alla fine avrà bisogno di una qualche forma di ristrutturazione del debito per poter ripartire. Questa paura persistente nel mercato lascia il Portogallo esposto a una nuova crisi del debito.
Il FMI all’articolo IV della sua valutazione di questa settimana ha affermato che il piano di salvataggio del Portogallo è stato un successo, ma ha avvertito che “il paese resta molto vulnerabile”.
Ilmiracolo dell’esportazione” ha una base fragile e non riflette ancora dei miglioramenti duraturi in termini di competitività. “Un riequilibrio durevole dell’economia non ha avuto luogo e il settore “nontradable” è ancora dominante”, ha detto.
Mentre le esportazioni sono aumentate dal 30pc al 40pc del PIL dal 2010, il quadro è molto meno roseo per le esportazioni nazionali a valore aggiunto”, il dato utilizzato dal FMI per misurare dei miglioramenti significativi.
Il Fondo ha dichiarato che il Portogallo sta attualmente beneficiando di una “tripletta vincente, data dai tassi di interesse ai minimi storici, dall’indebolimento dell’euro, e dai bassi prezzi del petrolio”, ma questo vento in poppa ciclico svanirà nel corso del tempo.
Il Portogallo affronta una grave sfida sulla crescita. La crescita della produttività è diminuita nel corso dell’ultimo mezzo secolo. Guardando al futuro, la popolazione in età lavorativa del Portogallo dovrebbe scendere, e lo stock di capitale del paese si sta contraendo a causa del sotto-investimento“, ha dichiarato il Fondo.
Questa trappola della stagnazione rende estremamente difficile per il paese crescere per uscire dal debito, o per superare le passività estere pari al 215pc del PIL. “È necessaria una soluzione sistemica al problema della leva finanziaria eccessiva. Non solo le banche, che hanno sui libri troppo credito inesigibile, mettono in pericolo la stabilità finanziaria, ma non sono nemmeno in grado di finanziare la ripresa dell’economia “, ha dichiarato.


martedì 19 maggio 2015

Ambigua manifestazione Ombrina

di Tonino D’Orazio 
Il 23 maggio, a Lanciano (CH), vi sarà la nuova e ricorrente manifestazione contro il trivellamento delle spiagge abruzzesi dell’Adriatico. NO Ombrina (nome dato ad una piattaforma già in funzione). Alla manifestazione contro saranno presenti anche i “responsabili” delle trivellazioni, cioè gran parte dei sindaci eletti nelle fila del PD e non. Tra l’altro in Abruzzo è l’ennesima manifestazione contro la petrolizzazione, molto partecipate, in questo ultimo decennio.
Cosa e con che faccia si possono presentare alla manifestazione, tra l’altro in testa al corteo come dovuto dal protocollo e per la televisione, questi sindaci o questi politici, compresi quelli di destra. Infatti verso i loro elettori sono contro le trivellazioni e con la loro “azienda-partito” non riescono nemmeno a protestare. Una ambiguità e un doppio-pettismo non molto sorprendente ma rivelatore di una stagione di incoerenze variegate, di pavidità e di ambiguità strutturate. No no no, ma si si si..
Primo punto delle campagne elettorali degli ultimi due presidenti della Regione, uno di destra e uno di centro-Pd: “No alla petrolizzazione dell’Abruzzo!”. “Passate la fest, gabbate lu sante
Allora perché dovrei partecipare, nelle file, in secondo piano, alla manifestazione? Dov’è la presa in giro per decine di migliaia di abruzzesi, movimenti, associazioni, sindacati? Rappresentano, sindaci e politici, solo una presa di posizione “assolutamente” personale? Oppure hanno bisogno delle masse per “trattare”, o fare finta, all’interno dei loro partiti di riferimento? Oppure sindaci, istituzioni e politici non rappresentano più nessuno?
Se questo è, possiamo solo sentirci “colonizzati”, nel senso che il mio territorio, diciamo di mia prossimità, in cui si sviluppa la mia vita e quella dei miei cari, non mi appartiene più, ma appartiene ad altri, che vivono in altri luoghi e che decidono per me. Decidono perché e come devo vivere (se non morire intossicato) e loro lucrare. Il mio territorio diventa un “non luogo”, una colonia. Ed io un semplice colonizzato. Non vorrei che guardiani a nome dei  colonizzatori ci fossero proprio i nostri sindaci o i nostri rappresentanti politici democraticamente eletti. Ecco perché non devono stare in “prima fila” e farebbero bene a mimetizzarsi tra la folla per non essere fischiati in gruppo.
Ovviamente sarò alla manifestazione, per quanto possa ancora servire davanti a un periodo di decisionismo renziano avanzatissimo, con il suo nuovo fascismo prevalente (“ascolto ma non mi fermerà nessuno”).
Ma l’impegno è esserci, con tante persone oneste. Però con la massima chiarezza e senza presa in giro, anche se con un po’ di disillusione.

martedì 12 maggio 2015

Ferrero: «Subito una costituente di sinistra»

di Daniela Preziosi da Il Manifesto



È giorno di brin­disi per Paolo Fer­rero, segre­ta­rio di Rifon­da­zione comu­ni­sta. È sod­di­sfatto per il risul­tato del primi giro di ammi­ni­stra­tive del nord: «A Bol­zano siamo a due cifre, va bene anche Aosta e Trento. Un bel risul­tato per far par­tire la costi­tuente della sinistra».
Segre­ta­rio, ci spie­ghi cos’è que­sta ’costi­tuente della sini­stra’ che proponete.
Biso­gna lavo­rare all’unità delle forze di sini­stra per costruire uno spa­zio in cui pos­sano par­te­ci­pare a pari grado tutti, iscritti e non ai par­titi. E i non iscritti solo la mag­gio­ranza da coin­vol­gere. Lo ave­vamo detto al con­gresso dell’anno scorso, usando lo slo­gan «costruire la Syriza ita­liana». Oggi la rilan­ciamo a par­tire dalle tante novità, come l’uscita di Civati dal Pd.
Una cosa chia­mata ’costi­tuente della sini­stra’ non rischia di tenere alla larga gli elet­tori meno pro­pensi alle appar­te­nenze ideologiche?
La parola sini­stra si può decli­nare in molti modi. Io use­rei una triade in ordine alfa­be­tico: anti­li­be­ri­sta, del basso con­tro l’alto, di sini­stra. Un pro­cesso che prende il meglio di Syriza e il meglio di Pode­mos: mette insieme la cri­tica al libe­ri­smo e la cri­tica alla poli­tica come cosa sepa­rata. Non penso a un par­tito ma a una sog­get­ti­vità con pochi ele­menti chiari di pro­gramma e la capa­cità di tenere assieme i mille modi in cui oggi la gente fa poli­tica: penso ai comi­tati, ai tanti inse­gnanti che in que­sti anni hanno resi­stito. Gente che sa che la patri­mo­niale è una neces­sità per­ché i ric­chi sono sem­pre più ric­chi. Che ha capito che è falsa la tesi che non ci sono i soldi.: i soldi ci sono, ma li stiamo con­ti­nuando a rega­lare alla spe­cu­la­zione finan­zia­ria. L’anno scorso abbiamo dato 85 miliardi di inte­ressi agli spe­cu­la­tori. La crisi non è scar­sità, ma ric­chezza mal­di­stri­buita. Il con­tra­rio di quello che dicono Renzi, Grillo e Salvini.
Per chi ha visto nascere e morire alleanze e fede­ra­zioni di sini­stra, uno dei det­ta­gli rive­la­tori della durata è se ven­gono sciolti o no i par­titi che si met­tono insieme. Vi scioglierete?
No, ma il pro­blema è dove risiede la sovra­nità. Io non pro­pongo una fede­ra­zione con diritti di veto, ma una costi­tuente vera con piena sovra­nità. E dove ci saranno dif­fe­renze poli­ti­che, si fac­ciano refe­ren­dum fra chi ne fa parte. Non dob­biamo river­ni­ciare quello che c’è già o fare una nuova sini­stra arco­ba­leno. Anche per­ché oggi l’opposizione non basta più, la sini­stra deve can­di­darsi a gover­nare con un pro­getto poli­tico nuovo. Ero con­tra­rio alla sini­stra di governo quando signi­fi­cava gover­nare con il Pd, ma ora non pos­siamo più limi­tarci alla testi­mo­nianza, dob­biamo pro­porre un’alternativa con­creta e non ideo­lo­gica su cosa si può fare sul lavoro, sul reddito.
Ha lan­ciato la ’costi­tuente’ già al con­gresso di un anno fa. Nel frat­tempo è suc­cesso di tutto. Con­ti­nua a fare la stessa proposta?
Non riven­dico pri­mo­ge­ni­ture e non sono affe­zio­nato alle for­mule. Se c’è una parola migliore, benis­simo. La sostanza per me è che si costrui­sca un pro­cesso che colga tutti gli ele­menti di novità, com­presi i volti chi lo deve rap­pre­sen­tare. Fer­rero non si can­dida a por­ta­voce, per essere chiaro. La crisi del neo­li­be­ri­smo si vede da anni, ma oggi si vede a livello di massa. La crisi del Pd oggi è evi­den­tis­sima, a me inte­ressa che que­sta con­sa­pe­vo­lezza dif­fusa ora trovi un sog­getto all’altezza della sfida.
Porte aperte a chi esce dal Pd?
Per me il per­corso o è uni­ta­rio o non ha nes­sun senso. Chi se ne va dal Pd non solo sta cri­ti­cando quello che è diven­tato quel par­tito, ma sta pro­po­nendo anche con­te­nuti poli­tici con cui sono in sin­to­nia, dal lavoro al welfare.
Dal Pd si aspetta altri addii?
Sì, altri pren­de­ranno atto che lì non c’è pos­si­bi­lità di cam­biare le cose. Noi dob­biamo aprire subito il pro­cesso costi­tuente, e tenerlo aperto. Anzi, per l’ultimo che arri­verà, come dice il van­gelo, ucci­de­remo il vitello grasso.
Come sce­glie­rete il leader?
È l’ultimo pro­blema. Que­sta atten­zione osses­siva sul lea­der è l’altra fac­cia del senso di impo­tenza sociale. In un paese in cui la gente viene con­vinta che non conta niente, si aspetta il mira­colo, l’uomo della prov­vi­denza. Fran­ca­mente non vedo Pablo Igle­sias can­di­darsi a fare il lea­der qui in Ita­lia. E allora impa­riamo dal movi­mento della scuola: un pro­ta­go­ni­smo di massa e dal basso, che sta obbli­gando il governo a trat­tare, ma non c’è un lea­der. Così dob­biamo fare noi, poi nel per­corso i migliori ver­ranno fuori. Di lea­der ne abbiamo avuti, anche a sini­stra, ma se non c’è un pro­getto un lea­der non regge oltre sei mesi.
A pro­po­sito di lea­der, per Lan­dini chi si can­dida in poli­tica è fuori dalla coa­li­zione sociale.
Fa bene. Con la coa­li­zione sociale lavora sui con­te­nuti, cosa di cui c’è ultra­bi­so­gno. Ma come un sin­da­ca­li­sta che si can­dida in poli­tica dà le dimis­sioni, così chi sta nella coa­li­zione sociale non lo fa per rac­co­gliere con­senso in politica.
Que­sto vuol dire che chi come lei sta in un par­tito sta fuori dalla ’ coa­li­zione sociale’?
Non neces­sa­ria­mente. Quello della rap­pre­sen­tanza è un ter­reno spe­ci­fico, ma non l’unico della poli­tica. Lan­dini ha preso il meglio dell’autonomia sin­da­cale. Noi invece dob­biamo fare una sini­stra che si pone anche sul ter­reno della rap­pre­sen­tanza. E penso che fra que­sti due pro­getti ci possa essere una siner­gia più che positiva.
Bar­bara Spi­nelli lascia la lista dell’Altra Europa, dice che vi siete snaturati.
Mi dispiace, ma con­fido che il per­corso che stiamo facendo possa farla ricredere.

La polveriera asiatica

di Tonino D’Orazio
 
Il XXImo secolo viene preannunciato come quello cinese. Intanto la Cina (che nessuno cita più come comunista) non si fida degli USA e viceversa. Ma nell’area nessuno si fida più di nessuno, eppure si tenta di convivere.
La Cina ha moltiplicato per tre le spese militari negli ultimi dieci anni. La Corea del Sud per due; il Vietnam per il 133%. L’India per più di un terzo. Il Giappone, sotto l’ombrello americano, rimane stabile. Pechino spende ufficialmente il 2,1 % del Pil, l’India il 2,4, la Corea del Sud il 2,6, gli Stati Uniti il 3,8.
Eppure, malgrado la pericolosità, la situazione non sembra quella della guerra fredda. Non vi è competizione di sistema tra Pechino e Washington. Sono tutti e due partigiani del liberismo economico, un po’ più statale il primo che il secondo, ma le loro economie, comprese le enormi riserve in dollari del primo, dipendono ormai l’una dall’altra. Due economie rivali il cui teatro principale è l’Asia.
Politicamente e storicamente bisogna risalire alla spartizione del mondo dell’accordo di Yalta, (1945) durante la 2° guerra mondiale, e dalla paura, in occidente e in Giappone, dell’avanzata del comunismo.
Anche in occidente vi fu per anni una rivalità tra Londra e Washington sulla questione coloniale tradizionale, propensa al mantenimento la prima (vedi il caos rimasto in Medio Oriente), contraria la seconda che preferisce quella economica.
Anche l’Unione Sovietica di Stalin ha problemi, intorno al 1962, di conflitto territoriale con la Cina, oggi risolti. Non sono risolti i problemi tra le due Coree quando nacquero, malgrado la sporca guerra, malgrado i bombardamenti americani (1953) a tappeto, al napalm appena inventato, dopo aver ridotto veramente in cenere gran parte delle città nord-coreane e le loro popolazioni civili (2.8 milioni di morti), e inizialmente (1950) anche quelle sud-coreane in gran parte nelle mani dei comunisti “invasori”. La minaccia dell’utilizzo della “nuova” e risolutiva bomba atomica, più volte programmata dal generale D. MacArthur, fu bloccata dai sovietici, dai cinesi con l’invasione della Corea del nord nella mischia, e dallo stesso presidente statunitense. L’immagine mondiale di Nagasaki e Hiroshima era abbastanza deleteria. Nulla è dimenticato, nemmeno oggi.
La storia più impressionante fu la sconfitta americana in Vietnam, sufficientemente conosciuta ma ricostruita in malo modo dal cinema di Hollywood per i giovani. Guerra della quale non si sono mai “rimessi”. Altrove la tecnica fu quella di piazzare governi e presidenti fantocci dopo vari colpi di stato, ad esempio l’Indonesia o le Filippine. Ancora oggi la tecnica funzione nell’area e altrove.
Vi sono conflitti latenti, momentaneamente solo dimostrazioni di muscoli, per il possesso (non risolto da Yalta) di piccole ma strategiche isole, tra Cina e Filippine (isole Spratley e Paracel); tra Cina e Giappone; tra Cina e Vietnam (isole Paracel). Questi ultimi hanno oggi addirittura il sostegno americano (!!), soliti guerrafondai.
I conflitti sono pur sempre per il petrolio, per le aree di pesca e per la strategia militare.
Tutti sfidano tutti, il che si traduce in un aumento continuo delle spese militari. Le pedine dello scacchiere, occupate di volta in volta e militarizzate, sono le varie isole delle zone confinanti tra paesi in tutta l’area del Mare di Cina.
Le tensioni ci sono anche tra la Corea del Sud per le isole Takeshina (Giappone) e Dokdo (Sud Corea). Tra la Cina e il Giappone, sempre per le isole Senkake/Diaoyu, vendute da un ricco privato giapponese al proprio paese. La Cina ha decretato una zona “no fly” nelle vicinanze. Le due marine militari si sfidano nelle vicinanze con il rischio che una eventuale collisione potrebbe comportare. Ma la Cina ormai non considera più il Giappone come potenza, se non come una succursale degli Stati Uniti e una potenza economica ormai in declino.
La guerra economica tra Cina e Usa si sviluppa anche sugli armamenti. La Cina ha appena speso per la “difesa” 134 miliardi di dollari, 2,8 volte quella del Giappone e 3,6 volte quella dell’India. Lo scarto con gli Usa rimane, ma si riduce, era da 1 a 20 nel 2.000, oggi è da 1 a 4.
La Cina investe 1/3 della sua valuta straniera in Buoni del Tesoro americano, ma è anche il primo esportatore in quel paese. Inoltre ha la più grande riserva d’oro del mondo che continua annualmente ad accrescere. Hanno i piedi in due staffe. La Cina si rifiuta di rispettare l’embargo verso l’Iran. E con la nuova posizione della Russia, a Obama non resta che toglierlo, e tentare di bloccare il flusso di petrolio verso l’industria cinese.
Nell’area Asia-Pacifico ormai la Cina, oltre a potenza economica, è potenza militare, nucleare e spaziale. Un paese competitivo pericoloso, che continua a non voler rivalutare lo yuan e a conquistare mercati, soprattutto con una vera egemonia in Africa e si affaccia in Europa e in Italia in particolare (vedi tra l’altro il porto del Pireo e la Pirelli). Una Cina che, insieme agli altri paesi del Brics sta fondando una nuova Banca Mondiale di Sviluppo, concorrente e alternativa del FMI. Gli americani aumentano il valore del dollaro per far pagare la differenza alle monete costrette a svalutare, diminuendone il potere d’acquisto e aumentandone l’indebitamento. Negli ultimi 12 mesi il biglietto verde si è apprezzato del 40% sul real brasiliano, del 60% sul rublo russo, del 22% sulla lira turca, del 15% sulla rupia indonesiana e il peso messicano, del 23% sullo zloty polacco. Marcato l'apprezzamento anche sulle divise di aree economiche più forti: un dollaro oggi, rispetto a un anno fa, vale il 15% in più di uno yen, il 12% in più di una sterlina e il 26% in più di un euro. Ma i cinesi possono utilizzare il dollaro stesso in loro possesso con i Bot americani.
Gli Usa spingono sempre più la cooperazione militare con Giappone, Sud Corea, Filippine e Vietnam, con il solito concetto di “accerchiamento” degli avversari. In questo senso va visto il forte riarmo di Taiwan del 2011 per spingere la Cina a spendere e rinnovare continuamente il suo arsenale militare.
Appare sulla scena anche l’India. Legata alla Cina nel Brics di libero scambio, rimane pur sempre un avversario politico ed economico. E’ un gigante mondiale di un miliardo di individui, in piena ascesa. E’ il primo importatore di armi al mondo. Potenza militare nucleare (150 bombe), in parte con reattori in buona riconversione civile, se non fosse nemica del Pakistan (a causa del conteso Kashmir) e dipendente ancora dalla Russia (80% del rifornimento militare), compresi una portaerei, un sommergibile atomico e più di un centinaio di aerei Mig. Nel 2013 ha speso 47,4 miliardi di dollari per la difesa, allargando piano piano la clientela. Nel 2020, con i 65 miliardi previsti diventerà il quarto paese a livello mondiale in armamenti, superando Francia, Gran Bretagna e Giappone. Con l’aiuto israeliano ha piazzato in orbita un satellite militare. Con l’aiuto cinese, ha inviato un satellite intorno a Marte con ottimo risultato nel settembre 2014. Con 1,3 milioni di soldati, uomini e donne, è numericamente il 3° esercito del mondo, dopo Cina e Usa.
Bisogna aggiungere che con questo ultimo nuovo governo il concetto ghandiano di “non allineamento” del paese sta scomparendo.
Ma l’amico più fedele per gli Usa, oltre alla Nuova Zelanda, è la cugina anglofona Australia, che si presenta come sceriffo aggiunto nell’area. Da qui al 2020, a Darwin (nord Australia) si stabilirà il 60% della flotta americana dell’Asia-Pacifico, e il 60% della forza aerea americana all’estero, compreso l’ambito spaziale, cibernetico e uno “scudo spaziale” anti-missili, tipo Polonia (prossimamente Ucraina e Lettonia). E’ l’accordo firmato dal pacificamente guerrafondaio Obama nel 2013 a Camberra. Sostituisce e rafforza il Patto del 1951 sottoscritto durante la guerra di Corea.
Gli altri punti forza sono a Singapore (Changi Est), in Tailandia (Korat), in India (Trivandium), in Filippine (Cubi-Point e Puerto Princesa), Corea del Sud (isola di Cheju), in Giappone (Okinwa con 9.000 militari), e altri aerodromi in Indonesia e in Malesia. Oltre alle svariate isole in loro possesso nel Pacifico, Guam in particolare.
A tutto questo si aggiunge la nuova visione politico-economica della Russia, spinta da UE e Usa verso l’est e l’Asia, con accordi energetici, militari e finanziari con gli altri due giganti del Brics, India e Cina. Si avvicinano agli accordi di “dedollarizzazione” anche Pakistan e Iran.
Insomma in tutta l’area, malgrado le provocazioni verbali e i nazionalismi montanti, cooperano tutti a livello economico, di ciberdifesa, di turismo e di cultura. La tematica di fondo è l’ambiguo concetto: contro “tutti i terrorismi”, non avendo sempre chiaro chi sono e chi ha deciso che lo siano.
Eppure sia le tematiche di “dedollarizzazione” che di anti-americanismo latente rendono tutta l’area (più della metà della popolazione mondiale) una vera polveriera.

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...