lunedì 29 luglio 2013

Costituzione e fascistizzazione in atto



di Tonino D'Orazio

Depotenziamento della Costituzione. Democraticamente. Insieme destre e centrosinistra. Piano piano.

La spending review, (modifica costituzionale dell’art.81, il paese è gestito da altri); lo spread (che fa paura giustamente ai poveri spogliati dai ricchi che possono avere Bot e CCT più pesanti e cospicui); la Bce, istituto privato che ci programma il paese secondo i suoi interessi; privatizzazione dei beni comuni e delle proprietà artistiche e culturali; abolizione dei referendum popolari, cancellazione del sociale e della solidarietà; le lauree che non servono e università e ricerca all’angolo; abbattimento dei diritti del lavoro e concorrenza tra lavoratori; milioni di pensionati alla fame, seguiti da giovani generazioni già in povertà; furti, truffe ai soldi pubblici e danni erariali, senza conseguenze penali, con omertà della magistratura, e pene dolci. Depenalizzazione del falso in bilancio.

Scacco matto alla democrazia e ai sindacati. I parlamenti non contano più, comanda la tecnostruttura in mano alle banche europee e americane, e nemmeno quello europeo conta un granché (la grande farsa sta per cominciare: si vota in primavera un parlamento per finta). Si scaldano i nazionalisti (anche i regionalisti) e anche quelli che vorrebbero una Europa diversa, di sviluppo e di speranza. Sembra invece andare dritti nel Quarto Reich a dominazione tedesca.

La costituzione di Eurogendfor approvata dal parlamento modifica i poteri e gli equilibri dello stato, quindi profondamente della Costituzione. E’ una forza di repressione internazionale alle dipendenze della tecnocrazia europea. Una gendarmeria (cioè esercito) che può intervenire in tutta Europa, ma anche fuori (magari su richiesta Onu, Nato, Israele, amici degli amici …), anche su richiesta di un governo europeo in “difficoltà”. E’ prevista l’impunibilità totale davanti a qualsiasi tribunale, ciò equivale alla illegalità più completa. (Non pensate ai fatti di Genova, per favore). Significa tutte le nostre forze di sicurezza pubblica degradate in secondo piano e una specie di situazione pilatesca dei governi nazionali in carica in merito alle loro responsabilità. Un altro “lo vuole l’Europa”.

Anzi gli inglesi hanno già tagliato il loro esercito, tanto che in caso di una grave crisi ci sarebbero al massimo due dozzine di battaglioni di fanteria schierabili nel Regno Unito (ben al di sotto di 20 mila uomini), e potrebbero chiedere aiuto proprio alla Eurogendfor, magari per le prossime sommosse se le cose dovessero peggiorare.

Altro esempi. Nell’esercito svizzero prestano servizio decine di estremisti neonazisti, i quali avanzano indisturbati nella gerarchia militare. La presidente della commissione di sicurezza del Consiglio Nazionale (Camera dei deputati) Chantal Galladé (PS) ha affermato che questi soggetti rappresentano una minaccia per l’immagine dell’esercito ma soprattutto per la sicurezza nazionale. (Inchiesta del quotidiano domenicale di Zurigo Sonntags Zeitung). Cosa possiamo dire o sapere noi in Italia dopo un nuovo ventennio con i fascisti direttamente al governo. Già prima era un esercito poco affidabile, pieno di servizi “deviati” e di sottomissione alla CIA (Ogni tanto la verità esce fuori). Dobbiamo temere qualcosa dopo 50/60 anni di segreti di stato?

In questo quadro gli armamenti offensivi stanno diventando imprescindibili. Il nostro Ministero della Difesa, di nuovo in barba all’art.11 della Costituzione, è diventato di fatto il Ministero della Guerra. Tra l’altro, con centrodestra o centrosinistra siamo già andati, a nome di altri, a bombardare e massacrare gente che non ci aveva fatto proprio niente. In questa prospettiva stanno aumentando anche le spese della Marina, meno pubblicizzate, per eventuali le truppe da sbarco. Sembra evidente il perché invece dei caccia, per la difesa del territorio, comperiamo bombardieri e il loro numero già esagerato appare addirittura insufficiente. Insomma tutti elementi che da sempre contraddistinguono la preparazione alla guerra, anche al popolo eventualmente. Sarà l’esercito a decidere se una elezione è valida o no, (Cfr tutta la situazione nel nord Africa), con eventuali movimenti di piazza fomentati.

La nostra vita privata e la decantata libertà? La storia è di almeno 20 anni di controllo illegale/illegittimo dell’informazione e della più vergognosa serie di abusi di potere nel libero e democratico Occidente (faro del mondo). Tutti spiati, catalogati, manca solo il registro DNA e il chips sottocutaneo. In Italia no? Anche i segreti svelati da Wikileaks (J.Assange) e ultimamente da Snowden in merito allo scandalo americano Prism sui “controlli” (o “sorveglianza segreta”) della National Security Agency (NSA) danno una idea solo di ciò che appare. Così, da anni, si fa una schedatura individuale di idee religiose, politiche, sessuali, culturali, etniche, di corrispondenza elettronica privata, (e cos’altro?) con metodo scientifico. Ma “non di cittadini statunitensi” dice Obama. C’è proprio da crederci. I governo europei hanno di nuovo fatto finta di reagire. Ma prima o poi chiederemo tutti la cittadinanza americana, sarà più semplice che stare a perdere tempo; una specie di imperiale “civus romanus sum”. Il mercato dell’informazione, quando spesso diventa crimine, può produrre molti soldi. Non c’è nemmeno da stupirsi, gli Stati Uniti non hanno alleati, amici o nemici eterni; solo “interessi permanenti”. Salvo a far passare il resto del mondo da antidemocratici o terroristi. Lo stesso termine è stato utilizzato ultimamente dal ministro degli esteri cinese riguardo agli USA. Ma come si permettono!

La modifica sostanziale e ufficiale della Costituzione sta arrivando. Il governo Letta d'accordo con il garante, l’Innominabile Napolitano, come uno dei punti fondamentali del suo programma ha presentato, con arbitraria procedura d'urgenza (data l’innaturale ma numericamente solida maggioranza parlamentare di questi due anni), una “legge costituzionale” che detta nuove e fantasiose procedure per la modifica della Costituzione. Tale legge non è una legge che modifica direttamente la Costituzione, perché non può, ma la "deroga", in quanto prescrive una procedura non costituzionale per la revisione costituzionale; sarà come dicono i Comitati Dossetti, una "legge grimaldello" per aggirare l’art.138 della Costituzione. Articolo che impedisce il ritorno del fascismo, o dell’anti-democrazia che è la stessa cosa, con la sua “rigidità”, come se i padri costituzionali ne paventassero il ripristino legale. E’ la garanzia che Letta e Napolitano devono dare ai nuovi fascisti bancari mondiali. Anzi il consiglio (ormai è un ordine) chiaro e diretto viene proprio da una banca criminale: la JP Morgan. In un rapporto pubblicato il 28 maggio 2013 JP Morgan afferma che: "i sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l'integrazione europea". Ritiene (addirittura!) che ci sia troppa "licenza di protestare se sono proposte modifiche sgradite dello status quo". JP Morgan tra gli aspetti "problematici" cita: la tutela garantita ai diritti dei lavoratori, i governi deboli (ma se sono tutti insieme!), i parlamenti e le istituzioni locali forti che non facilitano l’accentramento e le oligarchie. L’abolizione della province sembra un buon passo avanti.

Esattamente il contrario di quel che si ritiene sovranità popolare. In Italia e in Europa serve più democrazia diretta e partecipata, con referendum propositivi e senza quorum, leggi popolari discusse e votate obbligatoriamente in Parlamento. Per l’Europa, quello europeo. E' fondamentale dare più potere a tutti i cittadini per evitare nuovi totalitarismi. Ci sono preoccupanti analogie tra diverse proposte della JP Morgan ed il proposito del governo Letta di svuotare di poteri il Parlamento e la nostra Costituzione, il più presto possibile, andando verso un semi-presidenzialismo (la mezza misura che fa finta di mediazione) che esautora i cittadini. Cosa può storicamente guadagnare un Napolitano, ex comunista e ormai a fine carriera da anni, a riportare il fascismo e i poteri forti costituzionalmente a dirigere lo Stato italiano?

“C’è un progetto per trasformare la nostra Repubblica in una Repubblica presidenziale con l’azzeramento dei poteri di controllo nelle mani tutto di un presidente che diventerà un ‘uomo solo’ al comando e noi a questo ci opporremo“. Dice Antonio Ingroia, ex pm e leader di Azione Civile che si schiera contro il progetto di modifica della Costituzione e spiega: “E’ il progetto pidduista di Licio Gelli che si prepara a trasformarsi in Costituzione italiana, un progetto che ha perseguito Silvio Berlusconi per vent’anni senza riuscirci grazie all’opposizione di tanti italiani”. Sul ruolo dei saggi, Ingroia dice: “Ennesima espropriazione del Parlamento e delle decisioni importanti, non è questo il modo per far riappassionare i cittadini alla politica”.

“Stiamo cambiando la Costituzione e i 18 mesi vanno rispettati”. Il ministro Gaetano Quagliariello, dopo il Consiglio dei Ministri, in sala stampa e illustra il disegno di Legge Costituzionale per la modifica della Carta Repubblicana e l’introduzione del semipresidenzialismo in Italia. Lo stesso Boccia (Pd): “Cambiamo l’art.138, così la modifica della Costituzione è più facile”. Cosa vogliono gli italiani? Una modifica della legge elettorale? Bene in questa legge introduciamo tutto il resto. In fretta.

Sapevamo che il Parlamento non conta più nulla. Adesso lo certifica addirittura Napolitano, il garante ormai di sé stesso e contro sé stesso. “Il Parlamento non può porre veti al governo sull’adozione di provvedimenti riguardanti l’ammodernamento delle forze armate”. Non è più il Parlamento che utilizza un Esecutivo, ma il contrario. Questa, in sintesi, la sostanza di un comunicato diffuso al termine della riunione del Consiglio Supremo di Difesa, tenutasi al Quirinale e presieduta dal capo dello Stato, tale l’Innominabile Napolitano. Contro il volere di due terzi del Parlamento che, vista la spesa incredibile, aveva deciso uno slittamento di sei mesi per decidere, con una legge controfirmata dallo stesso Napolitano. Ormai Re Giorgio si crede capo del governo, dei giudici, dell’esercito e ora pure del Parlamento. E’ già “presidenzialismo di fatto” e prova generale per abolire questa “vecchia” Costituzione. Un altro colpetto. In realtà con il suo atto, come consuetudine sin dal primo mandato, fa di nuovo vincere, sulla sostanza, i fascisti del Pdl. La militarizzazione avanza nei gangli dello stato, oltre a poliziotti a capo del Ministero della Giustizia e dell’Interno (tanto ad Alfano non gli dicono niente), si aggiunge la vicenda di un pluri-indagato internazionale, tale Di Gennaro (massacro dei ragazzi a Bolzaneto, 2001; condanna del Tribunale Internazionale dell’Aia), sempre più ai vertici e sempre più promosso per “servizi resi”, come tanti altri “avanzamenti” rapidi.(cfr proteste del sindacato di P.S.). Ora i militi devono occupare anche l’economia e le fabbriche (Finmeccanica), non si sa mai cosa può succedere. Una specie di “Colpo di Stato permanente e immanente”. (Espressione coniata nel 1964 da Francois Mitterrand). Aggiungiamoci che il Parlamento e anche i lavori parlamentari possono essere “sospesi”. Grande vittoria del PD: intanto “solo per un giorno”. Il dito e la luna. I ricordi vanno alle sedute parlamentari del novembre 1922, anche allora prova generale delle oligarchie. Avete sentito il ruggito di re Giorgio? Era occupato a “trafficare”. Megalomania. In pratica diventa da solo il nuovo padre della “nuova” Costituzione. Insomma entra nella storia. Meno male che in Parlamento c’è ancora chi resiste. Anzi, molti giovani. E prima o poi scomparirà dalla storia per infamia e incoerenza.

domenica 28 luglio 2013

La bulimia dei servi e le virtù dell'on. Lanzillotta

Durante un programma televisivo, l'onorevole Lanzillotta, ha detto fra le righe una cosa molto grave, ma con estrema naturalezza. Si parlava di spesa pubblica italiana (800 mld), che per questi signori è sempre troppo alta, e si parlava ovviamente di tagli. Immancabile la sanità, che per quanto l'Italia sia la cenerentola in Europa per la spesa in rapporto al PIL, comunque va tagliata. Ad un certo punto, forse per un istinto incontrollato, l'onorevole ha tirato fuori le retribuzioni nel pubblico, scivolando rapidamente su una frase profondamente rivelatrice dei suoi pensieri reconditi: "... per fortuna (le retribuzioni pubbliche) stanno già diminuendo ma ci sono dei vincoli, occorre gradualità". Sissignore ha detto proprio "per fortuna". In altre parole, non possiamo taglieggiarli troppo e troppo in fretta, dateci un po' di tempo e ve li sistemiamo a dovere. Quelle frasi pronunciate in quel contesto, sono sembrate una cosa normalissima e a un orecchio poco attento potevano assumere una valenza quasi neutrale o fatalmente necessaria. Se mettiamo insieme quanto detto nelle premesse con questa improvvida irruzione dell'inconscio, il manifesto delle riforme all'europea è presto fatto. In sintesi: far dimagrire il settore pubblico un po' alla volta, come farebbe un bravo nutrizionista per non provocare reazioni scioccanti e controproducenti, tagliare il welfare a più non posso, sanità prima di tutto, con la scusa che "non è più sostenibile", perché non ci sono i soldi, perché ce lo chiede l'Europa ecc., e infine privatizzare tutto il privatizzabile. Tutto ciò a detta dei saggi servirebbe a diminuire il debito pubblico, a renderci virtuosi e a portare danaro fresco per far ripartire la "crescita". Un meccanismo ben congegnato direi, sebbene demolito da diversi economisti seri per i suoi effetti depressivi e se vogliamo perfino moltiplicatori del debito. Ad ogni modo tornando ai nostri dipendenti pubblici, fatte le dovute proporzioni in base alla ripartizione della spesa pubblica, questi vengono presentati come un esercito di maledetti bulimici divoratori della torta pubblica, non importa se hanno stipendi da fame, e se molti devono tirare la carretta per campare, qui si parla di categorie generali, di metafisica austeritaria, di spiritualismo mercantile, la carne viva non conta. Logiche da menti elette. A tutto questo gran parlare di austerità e tagli e stringiamo la cinghia, si aggiunge poi la dismissione del patrimonio pubblico sempre a beneficio dei privati.  

La spesa pubblica troppo elevata, la necessità inderogabile dei conti in ordine sancita dall'Europa, l'austerità come regola prima e non aggirabile, pena la pedità di ogni virtù, sono ormai ingredienti di una fabula che ha come unici protagonisti i mercati e le oligarchie finanziarie. Credo che le frasi di questa tagliatrice di teste, quelle esplicite e quelle scappate fuori dai denti, siano profondamente rivelatrici di ciò che ci attende e della filosofia di quelle "riforme" che la nostra orribile classe politica intende portare avanti. Fortunatamente succede che alle volte questi "illuminati" si lascino scappare le vere finalità del loro agire e pronuncino frasi di così elevata gravità, con la naturalezza di un pettegolezzo dal parrucchiere. Lanzillotta a parte, le finalità di questo bel manifesto, sono presto dette: una società di stampo feudale, dove i servi sono sotto il costante ricatto della penuria di risorse e con a capo una classe di parassiti che prospera allegramente, permettendo ad un'economia malefica di succhiare le ultime enclosure rimaste e dare un colpo mortale a tutte le conquiste degli ultimi due secoli. Il tutto con il supporto di una politica ridotta  a pura appendice di organismi sovranazionali che dettano le regole. 

Complottismo? Vaneggiamenti? Non credo. Le parole e le azioni di questi signori sono abbastanza chiare e seppure costoro non dibattono di tali argomenti col cappuccio in testa in sale buie, come si conviene ad una conventicola di illuminati, gli effetti di tanto agire sono quelli che abbiamo sotto gli occhi: aziende che chiudono, redditi decurtati e compressi, servizi sempre più scadenti, università scuole e sanità sotto attacco, disoccupazione alle stelle. Di contro banche salvate al prezzo del nostro sangue, forbice fra chi ha tanto e chi ha poco in costante aumento. Serve altro?

venerdì 26 luglio 2013

Il vero motivo della crisi

di Danilo Gambini
 
L’unico motivo che mi ha spinto a scrivere questo articolo è quello di cercare di spiegare a chi è estraneo ai discorsi di sovranità monetaria, e purtroppo sono tanti, quanto sia importante che essa sia detenuta dal POPOLO per USCIRE DALLA CRISI. La speranza è che tutti coloro che acquisiranno tale convincimento lo trasmettano ad amici e conoscenti, perché, purtroppo, oggi questo è l’unico modo per divulgare questi fondamentali concetti al Popolo Italiano.

BREVE RIFLESSIONE SULLA COSTITUZIONE

La Costituzione è il nostro documento fondante che sta al di sopra di tutte le leggi; Essa prevede il Diritto di resistenza ed autodifesa che è implicitamente legittimato dal dovere di fedeltà (alla Repubblica), stabilito dall’art. 54 e dal principio della sovranità popolare. Con “diritto di resistenza” si intende il diritto a difendersi da ordini, decisioni e comportamenti in contrasto con i principi costituzionali, adottati da pubblici funzionari, dalle Autorità e dagli Organi Costituzionali, anche dal Governo e dal Parlamento. 

La fedeltà alla Repubblica precede ed è preminente rispetto all’osservanza delle leggi pertanto in caso di contrasto delle leggi in vigore con i principi fondamentali dell’Ordinamento Costituzionale, è sempre l’obbedienza al senso dello Stato e della Costituzione che prevale sull’obbedienza alle leggi. La Costituzione sancisce esplicitamente che la Costituzione va tutelata contro tutti e contro tutti. Dunque, se in qualche frangente vi troverete a ravvisare comportamenti incostituzionali è chiaro che è vostro sacrosanto e legittimo diritto e DOVERE legale ribellarvi con ogni vostra forza, mezzo e capacità.
I nostri padri e i nostri nonni sono morti ed hanno sofferto grandi patimenti e privazioni ed hanno sormontato gravi difficoltà per ottenere la Carta Costituzionale che sancisse i sacrosanti diritti del cittadino Nessuno mai osi toccarla. Tutti dobbiamo rispettarla, in primis coloro che hanno il dovere istituzionale ed il ruolo per salvaguardare l’operato ed i sacrifici di sangue sudore e lacrime dei nostri avi ovvero i Politici.

La Costituzione all’articolo 1 sancisce: «….L’Italia è una Repubblica Democratica fondata sul lavoro. La Sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione…». Essa dichiara che l'Italia è una Repubblica democratica, e lo dice come prima cosa in assoluto. Quindi la Repubblica, la democrazia (traducendo letteralmente dal greco: potere – kratos - del popolo -demos) e l'Italia non sono scindibili, sono una in funzione dell'altra. Questo concetto è talmente importante che si ricollega direttamente con l'ultimo articolo, il 139, che afferma: «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». Quindi mai più monarchia, o dittatura, o impero, o qualsiasi altra forma di Stato che non sia pienamente democratico e repubblicano. Ora è necessario puntualizzare, per i meno attenti, il concetto di “Sovranità” ovvero cosa significhi essere SOVRANO. La sovranità è l'espressione della somma dei poteri di governo (legislativo, esecutivo e giudiziario), riconosciuta ad un soggetto di diritto pubblico. Potere eminente che si esercita da parte di uno stato o di un sovrano, che non riconoscono alcuna autorità a sé superiore, nei confronti di coloro che abitano in un determinato territorio. 

Essere “Sovrano” vuol dire quindi avere il “Potere”, il Sovrano delle monarchie feudali decideva perfino chi poteva vivere e chi no, senza che il povero suddito potesse minimamente obbiettare a tale scelta, spettava però al Sovrano il compito di mantenere la pace tra i propri sudditi, difenderli dai pericoli esterni e provvedere al loro benessere.

LA TRUFFA AI DANNI DEL 99,5% DEL POPOLO ITALIANO

Il breve richiamo alla Costituzione è indispensabile per evidenziare l’ignobile Truffa Economica perpetrata ai danni del Popolo Italiano con la cessione di SOVRANITÀ effettuata dai Politici a favore dei Poteri Bancari e Finanziari, tenendo il POPOLO all’oscuro. Oggi è a causa della perdita di sovranità politica – elettorale, di sovranità territoriale, di sovranità giudiziaria, di sovranità culturale, di sovranità informativa–formativa, di sovranità alimentare–agricola, ma soprattutto a causa della perdita di sovranità monetaria che noi cittadini italiani ci ritroviamo ed essere :
a) Poveri; b) Sempre in più senza lavoro; c) Senza autosufficienza; d) tassati oltre ogni immaginazione
e) gradualmente e sempre più senza assistenza sanitaria pubblica indirizzata al fallimento; f) con scuole pubbliche indecorose; g) con diritto alla giustizia negato; h) Pensioni da fame ormai poste a traguardi di età irraggiungibili; i) Inesistenza di qualunque tutela garanzia, assistenza da parte dello Stato.
Nel corso degli ultimi 20 anni si è svolta, tramite le “Privatizzazioni”, una immane e poderosissima azione di rapina, drenaggio, risucchio di capitali, “valori”, ricchezze di ogni genere e natura che esistevano sul territorio italiano, per svariate migliaia di miliardi di Euro.

Politici e mas-media continuano a ripeterci che le cause della crisi sono la corruzione, l’eccessiva spesa pubblica e soprattutto che «abbiamo condotto un tenore di vita al di sopra delle nostre possibilità». Non è assolutamente vero, anche se la corruzione e la spesa pubblica possono e devono essere migliorate, affermo, senza timore di essere smentito, che la grave crisi che sta affamando il Popolo Italiano è stata determinata unicamente dalla cessione della SOVRANITÀ MONETARIA ad una Banca Privata ovvero prima alla Banca d’Italia e poi alla B.C.E. (Banca Centrale Europea), nominalmente con funzione pubblica, ma con soci privati tra cui le banche centrali nazionali (quasi tutte Spa) e indipendente per statuto da qualsiasi organo pubblico, perciò al di sopra delle istituzioni pubbliche e dei governi eletti, avente nello statuto non l’utilità pubblica, ma gli obiettivi di base dell'Unione Europea, cioè la mercificazione globale di beni e servizi, moneta compresa.

Alcune Vicende Storiche che hanno favorito la Truffa

Per comprendere esattamente la gravità della situazione è necessario ricordare, sempre ai meno attenti, alcune vicende storiche:

Ø Nixon, presidente U.S.A., il 15 agosto 1971 dichiarò la fine degli accordi di Breton Woods, con la conseguente inoperatività del rapporto di cambio con l’oro, sancito e ratificato a dicembre dello stesso anno dal Consiglio dei Dieci. Per cui dal 1971 non esiste al mondo nessuna Nazione che emette la propria moneta garantendone come contropartita l’equivalente valore in oro e pertanto ogni Nazione con moneta sovrana ha facoltà di creare denaro dal nulla, semplicemente stampandolo, perché è l'economia della Nazione che da valore al denaro.

Ø Nel 1981 è stata approvata la legge che impedisce allo Stato di finanziarsi in conto corrente presso la Banca d’Italia. Fino al 1981 la Banca d’Italia è stata sotto il diretto controllo del Ministero del Tesoro, il quale aveva piena autonomia e soprattutto non aveva limiti in merito alla possibilità di finanziarsi per mezzo di debiti verso la Banca centrale stessa.

Ø Nel 1993 la Banca D’Italia diventa, in sostanza, una specie di S.p.A. La partecipazione al capitale della Banca d'Italia è disciplinata dagli artt. 3 e 49 dello Statuto. Il capitale, di ammontare pari a 156.000 euro, è rappresentato da 300.000 quote di partecipazione nominative di 0,52 euro ciascuna, viene acquisito dalle Banche Commerciali, da alcune Assicurazioni e per il solo 5% da INAIL (l’elenco completo è disponibile sul sito ufficiale della Banca d’Italia – http://www.bancaditalia.it/bancaditalia/funzgov/gov/partecipanti - pensate che anche la “nostra” TERCAS detiene 110 quote ed ha diritto ad un voto). Ciò significa che costoro hanno il controllo delle Politiche finanziarie e monetarie del Paese.

Ø Nel 2001 il controllo delle Politiche finanziarie e monetarie del Paese passano nelle mani della B.C.E..

LA TRUFFA


A questo punto andiamo a vedere, con un esempio pratico, che differenza comporta per i cittadini, in termini economici, il fatto che la Sovranità Monetaria sia di competenza Statale oppure di una Banca Privata come la BCE.

Moneta Sovrana allo Stato: la spesa necessaria per erogare servizi pubblici (Sanità, Istruzione, Ricerca, opere pubbliche, ecc) di un anno è pari a circa € 700 miliardi (Riferim. spesa pubblica 2009 dati ISTAT). Lo Stato, attraverso la propria Banca Nazionale (non la privatizzata Banca D’Italia) stampa le monete e le spende direttamente. L’anno successivo ritira dai cittadini tasse per € 700 miliardi. I cittadini ogni anno pagheranno solo le Tasse necessarie per compensare i Servizi ricevuti l’anno precedente senza interessi.

Moneta Sovrana alla B.C.E.: la spesa necessaria per erogare servizi pubblici di un anno è pari a € 700 miliardi. Lo Stato deve stampare Titoli (ovvero “cambiali”) per 700 miliardi, e li deve collocare sul mercato finanziario. La BCE crea denaro per € 700 miliardi che viene immesso direttamente nelle riserve dei mercati di capitali privati europei attraverso le Banche Commerciali che acquisiscono il denaro ad un interesse dello 0,5% e comprano Titoli Italiani che renderanno loro un interesse anche del 7% annuo. Questo significa che alla scadenza dei Titoli il popolo Italiano dovrà pagare Tasse per € 750 miliardi. i cittadini Italiani, oltre le Tasse necessarie per compensare i Servizi ricevuti, pagheranno ogni anno miliardi di interessi alle Banche Commerciali.

A questo punto la domanda sorge spontanea: perché dobbiamo regalare alle banche ogni anno tutto questo denaro?

Ma soprattutto: Perché dobbiamo contrarre debiti con usurai legalizzati, mettendogli così nelle mani un’arma così potente da consentire loro di dominarci? (a Berlusconi – democraticamente eletto - la BCE e la Commissione Europea hanno imposto le immediate dimissioni e la sua sostituzione con “Monti” – dittatorialmente eletto da Re Napolitano - pena il fallimento dello Stato Italiano entro due mesi).

I Nostri Politici dal 1981 in poi hanno scelto per Noi, senza spiegarci hanno “TRUFFATO” il Popolo cedendo la Sovranità Monetaria prima alla Banca Centrale Italiana, Banca D’Italia, e poi alla BCE, cioè hanno scelto di metterci nelle mani degli usurai.

Ma quello che fa veramente rabbia è che nessun Organo Istituzionale e nessun organo di stampa e nessuna televisione (tutti asserviti al Potere Bancario e Finanziario) dica al Popolo Italiano che se avessimo avuto la SOVRANITÀ MONETARIA dal 1981 al 2011, dati Ufficiali ISTAT alla mano, non avremmo maturato il Debito Pubblico di oltre 2000 miliardi ma addirittura avremmo un utile di 484 miliardi di €. Tanti sono gli euro di tasse in più (avanzo primario) versati allo Stato dal POPOLO ITALIANO negli ultimi 30 anni (ribadisco, dati ufficiali ISTAT alla mano) ma gli oltre 2150 miliardi di Interessi pagati (soprattutto alle Banche) ci hanno indebitato.

È INCREDIBILE

i Politici e i mass media continuano a ripeterci che abbiamo condotto un tenore di vita al di sopra delle nostre possibilità mentre da questi dati inconfutabili emerge che in 30 anni abbiamo pagato tasse per 484 miliardi di € in più rispetto ai servizi ricevuti dallo Stato e che pertanto se non ci fossero stati gli interessi, immotivati (uno Stato Sovrano non paga interessi), oggi avremmo avuto un utile di bilancio di ben 484 miliardi.

Secondo Voi non sarebbe il caso di fare qualcosa contro questa Truffa, anche perché gli interessi passivi sul debito pubblico sono destinati ad aumentare: 2011 = pagati 78 miliardi di €; 2012 = pagati 89 miliardi di €; ... 2013 = da pagare 95 miliardi di €; previsione 2015 = si pagheranno 100 mild € di interessi sul debito!
In regime di sovranità monetaria questi miliardi andrebbero risparmiati...altro che manovre finanziarie basate su tagli della spesa pubblica e aumento delle tasse ai cittadini!

L'Italia per ritornare a "vivere" ha bisogno della SOVRANITA' MONETARIA e di politiche monetaria ESPANSIVE.

Uno Stato sovrano, con una propria banca che stampa moneta non è mai in debito con nessuno. Uno Stato sovrano che emette la propria moneta crea credito, infrastrutture e occupazione.

Più la crisi si inasprisce più le Nazioni hanno grande necessità di denaro, e non essendo in grado di contrattare ottengono interessi anche del 6-7%, una quantità che gli Stati non a moneta sovrana, non sono in grado di restituire, in quanto gli euro da restituire sono sempre più di quelli che è possibile ritirare. Allora, invece che pagare con gli euro (che non hanno), pagano con la cessione ai debitori dei servizi pubblici, con aree demaniali (territori, laghi, montagne, sorgenti), opere pubbliche (sistemi idrici, acquedotti) o con leggi favorevoli ai magnati del capitale internazionale, perché questo è il vero scopo della crisi creata ad arte.

Così appaiono sempre più chiare le varie fandonie che ci vengono propinate per giustificare le lacrime e sangue richieste dai nostri politici, asserviti alla grande finanza.
Non è possibile, infatti, ritenere che la causa dell’inasprimento delle tasse sia da ricercare nel deficit pubblico, senza considerare, in questa sede la grande truffa che vi è dietro e L’INESISTENZA DEL DEBITO PUBBLICO in quanto costituito unicamente da INTERESSI che lo rende “DEBITO DETESTABILE”. "Un debito detestabile è un debito contratto dallo Stato con le banche o altri istituti, che però non porta benefici alla popolazione, ma anzi la danneggia. Un debito simile non si può pretendere che venga pagato dallo stesso popolo che ne ha già subito le conseguenze in termini d'interessi sul debito pubblico". Questa nozione giuridica fu, per esempio, usata dagli USA prima della formazione del Governo di occupazione in Iraq, per cancellare il debito dell'Iraq (250 mld USD,) fu poi usata dal premier Correa in Ecuador per ristrutturarne una parte. (Correa ebbe come principali consulenti uno studio di N.Y.) ed è stata usata infine più recentemente dall'Islanda.

È ORA DI SVEGLIARSI

Perché stiamo permettendo a questi Ignobili Individui di asservirci totalmente al loro potere?

Perché stiamo permettendo all’attuale classe politica Nazionale di continuare nella loro opera mistificatoria?

Se non ci riappropriamo della Sovranità Monetaria e non Nazionalizziamo la Banca D’Italia non c’è speranza per il Popolo Italiano, non riusciremo mai a ripagare il Debito Pubblico agli strozzini.

Nessun Politico, anche il più esperto, onesto e nobile d’animo, potrà dare soluzione al problema, perché dovrà sempre rispondere, da sottomesso, al Potere Economico gestito unicamente da BCE e Commissione Europea (Organi Dittatoriali), che, gli ordineranno le misure da attuare, senza possibilità di replica, a pena di fallimento. Non permettiamo a nessuno che non sia il Popolo Italiano di modificare la COSTITUZIONE.

La NOSTRA Costituzione stabilisce che il POPOLO è SOVRANO, ovvero che il POTERE spetta al POPOLO. Questo Governo Farsa vuole modificarla per togliere ulteriore sovranità al POPOLO e metterla nelle mani di una Oligarchia Finanziaria, costituita da autentici mascalzoni criminali, che ridurrà in schiavitù il POPOLO ITALIANO. Non continuiamo a lasciarci ingannare da POLITICI e Giornalisti che da anni oramai fanno disinformazione e creano terrorismo mediatico con previsioni catastrofiche sull’uscita dall’Euro. Il POPOLO ITALIANO non solo non deve più permettere che la Costituzione venga modificata ma deve esigere da questo Governo e dai Governi che verranno che torni ad essere applicata in modo corretto, riappropriandosi quindi della Sovranità ceduta con i vari Trattati Europei che hanno massacrato economicamente la Nazione.

COSA FARE

¾ recedere dai Trattati dell’Unione Europea, che hanno di fatto tolto la sovranità allo Stato Italiano e lo hanno imbrigliato nella truffa dell’Euro, una moneta privata che dobbiamo restituire con tassi di interesse;

¾ nazionalizzare Banca d’Italia e collegarla al Ministero del tesoro;

¾ ripristinare la separazione tra banche commerciali e banche d’affari e di speculazione ed eliminare il meccanismo della “riserva frazionaria” (grande altra porcata che consente alle banche di creare inflazione di cui, se ne avrò l’occasione, vi parlerò in futuro).

Solo attuando questi tre punti potremmo uscire dalla crisi e riappropriarci della nostra dignità di Popolo. 


L'austerity? E' servita solo ad aumentare il debito pubblico

di Tonino Bucci da umbrialeft

Nei primi tre mesi dell'anno - la notizia è di ieri, diffusa da Eurostat - il debito pubblico italiano ha sfondato la quota del 130 per cento. Solo la Grecia ha un debito più elevato, intorno al 160 per cento del suo prodotto interno lordo. Il dato, preso isolatamente, significa poco. Più interessante sarebbe capire come mai dopo un triennio di interventi, tagli alla spesa pubblica e strette fiscali, il nostro debito pubblico continui a salire in rapporto al Pil. Al momento dell'insediamento del governo Monti la proporzione tra il debito e il prodotto interno lordo era intorno al 120 per cento. Un anno dopo, questo rapporto era salito al 127 per cento. Oggi, senza mai interrompere la corsa verso l'alto, il debito è oltre quota 130. Ne discutiamo con l'economista Vladimiro Giacché.
Se questi sono i dati, le politiche di austerità applicate già a partire dal governo Berlusconi non hanno avuto nessuna efficacia. Nonostante gli interventi per rientrare dal debito, la percentuale continua a salire. Come mai?
Le misure adottate sono state molto efficaci nell'aumentare il debito pubblico. Le manovre di austerity, così come si sono configurate nel nostro paese, non potevano non avere l'effetto di deprimere il nostro prodotto interno lordo in misura significativa. Siccome nel rapporto tra debito e Pil non si guarda alle cifre assolute del debito, ma alla sua proporzione rispetto al prodotto interno lordo, è evidente che anche se si riducesse per ipotesi il debito, ma al prezzo di deprimere l'economia e far diminuire il Pil in misura significativa, automaticamente il rapporto aumenta. Questo è quel che è accaduto in tutti i paesi coinvolti dalla crei del debito pubblico. E' la logica conseguenza delle misure intraprese. Vorrei rivendicare, non solo per quanto riguarda me, ma per una serie di economisti critici, di aver detto queste cose con molto anticipo. Purtroppo siamo rimasti inascoltati benché le nostre argomentazioni fossero lineari. Molte cose che sono state scoperte negli ultimi mesi, erano state ampiamente previste. Quando il Fondo monetario ci dice che ha dovuto ricalcolare il cosiddetto “moltiplicatore fiscale", cioè gli effetti negativi di una stretta fiscale sul prodotto - e che questi effetti non corrispondono allo 0,5, come lo stesso Fmi prima riteneva, ma in qualche caso dell'1,5, si trattava di cose già previste. Per una stretta fiscale dell'entità di 50 miliardi di euro, ad esempio, il calo del Pil sarà superiore a 50 miliardi e non soltanto di 25 miliardi. Uno dei motivi di questo impatto maggiore di quanto il Fmi ritenesse, è che la zona euro è integrata. Se tutti fanno una stretta fiscale nello stesso tempo, ognuno ha non solo un problema di calo di domanda interna, ma anche nelle esportazioni. Tutto questo era stato scritto da me e da altri già a partire dal 2010. Paghiamo un prezzo pesante alle ideologie e agli interessi di chi ha convenienza a sferrare l'attacco finale al welfare. Per esempio, gli interessi dei privati che subentrano nella gestione dei servizi prima pubblici. Questo processo porta non solo all'impoverimento della già esigua ricchezza dei lavoratori, ma alla ricchezza complessiva dell'intera società. Siccome il prodotto interno lordo nei paesi industriali avanzati è in larga parte derivante dai consumi interni, è chiaro che quando si ha una caduta molto forte di questi consumi, si determina un impoverimento generalizzato. L'esportazione del modello tedesco di una competitività, basato su il contenimento estremo dei salari e, allo stesso tempo, delle tasse alle imprese, ai paesi del Sud Europa ha effetti catastrofici per tutte le economie.
E' il modello di relazioni che nasce con l'Agenda 2010, la riforma del mercato del lavoro nata per iniziativa dell'ex Cancelliere socialdemocratico Schröder. Negli ultimi anni è costata molto alla Spd in termini elettorali.
Sì, proprio quella, E ora viene esportata nei paesi del Sud dell'Europa. Mi conforta solo che la Linke abbia fatto in Germania un'analisi precisa di questa situazione ed evidenziati gli effetti fallimentari dell'Agenda 2010 che ha già impoverito i lavoratori tedeschi. Mi rendo conto che in Italia questo dato sia controintuitivo perché tutti si immaginano che i lavoratori tedeschi sguazzino nell'oro. Ma la realtà è che negli ultimi quindici anni in Germania è stato costruito un mercato del lavoro dualistico. Una parte di lavoratori è tuttora pagata relativamente bene, ma un'altra componente dell'economia - soprattutto quella legata ai servizi - è del tutto precarizzata grazie all'introduzione dei minijob a 480 euro al mese.
La diffusione di questi contratti, tra l'altro, consente alla Germania di occultare il proprio tasso di disoccupazione. O no?
Non solo. Siccome lo Stato deve aggiungere qualcosa a questi esigui stipendi, almeno in termini di contributi e accesso agevolato ai servizi, tutto ciò si traduce in un aiuto di stato alle imprese che, in quanto tale, andrebbe sanzionato dall'Unione Europea. Quando l'Europa si sveglierà, magari proverà a fare non solo gli interessi della Germania.
Che le politiche di austerità non raggiungano gli obiettivi dichiarati è forse noto persino a chi le sostiene. Le stesse istituzioni che fino a oggi hanno sollecitato l'applicazione delle ricette liberiste e delle politiche di austerità cominciano a nutrire più d'un dubbio che la causa effettiva della crisi dell'euro sia il debito pubblico. Lo stesso vicepresidente della Bce, Vitor Costancio, ha sostenuto di recente che lo squilibrio nell'area valutaria dell'euro siano dovuti soprattutto all'indebitamento privato. L'aumento del debito pubblico comincerebbe in realtà solo dopo il 2007, cioè dopo l'esplosione della bolla del debito privato, gonfiato dai crediti che le banche del Nord Europa hanno concesso alle banche del Sud e, indirettamente, alle famiglie e alle imprese dei paesi periferici dell'Europa, grazie al surplus commerciale dei paesi settentrionali. Dov'è allora l'utilità delle misure di austerity di rientro dal debito se non negli effetti politici che esse provocano?
C'è un interesse politico basato su un'analisi molto fredda della situazione. Si ritiene che per affrontare la competitività internazionale l'Europa abbia ancora del grasso da togliere dal welfare - il che, in ultima analisi, significa colpire i salari indiretti, perché i servizi sociali erogati dallo Stato e le pensioni sono salari differiti. Secondo questo schema ideologico, tagliando i costi dello stato sociale le imprese potranno tornare a fare profitti. Questa, credo, sia la vera intenzione. C'è, tuttavia, anche una valutazione sbagliata che, forse, qualcuno ancora condivide, secondo cui l crisi in Europa fosse originata dal debito pubblico. Non è così. E non è mai stato così. Il debito pubblico è una conseguenza della crisi. Primo, in una situazione di crisi molto forte diminuiscono le entrate di uno Stato. La gente guadagna di meno e versa meno tasse. Secondo, i conti dello Stato peggiorano perché se crolla il Pil, la proporzione del debito rispetto a esso aumenta - e si allontana dai parametri artificiali di Maastricht. Terzo, c'è stato un ingente trasferimento da debito pubblico a privato avvenuto nella prima fase della crisi tra il 2008 e il 2009. Secondo le cifre pubblicate dalla Bank of England pubblicate alla metà del 2009 gli Stati europei e gli Stati Uniti, insieme, avevano speso in garanzia o in prestito alle banche la cifra complessiva di 1400 miliardi di euro, pari al 50 per cento del prodotto interno lordo di tutti questi paesi messi assieme. E' ovvio che una cifra di questa entità non può che far peggiorare il bilancio pubblico. Quarto, motivo fondamentale ma a lungo trascurato, quando è iniziata la crisi i paesi del Nord Europa che avevano prestato soldi a quelli del Sud, non per beneficenza ma perché sfruttavano tassi superiori in una situazione che si riteneva esente da rischi, hanno cominciato a riportare a casa i soldi. Un po' per una maggiore preoccupazione nei confronti di questi paesi, un po' perché avevano problemi a casa da tamponare. In particolare, credo si continui a sottovalutare il rischio che tuttora corre il sistema bancario tedesco, molto più verosimile di quanto si pensi e si dica. Avrebbe bisogno di un'ingente ricapitalizzazione. Per questo motivo sono stati riportati a casa molti di quei soldi. Ed è per questo che la Germania sta di fatto impedendo l'unione bancaria. Da una parte, il numero delle banche che possono essere controllate dalla Bce è ridotto a pochissime banche che hanno asset, impieghi e portafogli superiori ai trenta miliardi di euro. Il sistema bancario tedesco è ancora poco concentrato. Dall'altra, si cerca di dilazionare il più possibile l'avvio della supervisione da parte della Bce. Il motivo è molto semplice. Le banche tedesche vogliono evitare che qualcuno che guardi i loro bilanci in maniera più disinteressata. Se è vero allora che il debito pubblico non è all'origine della crisi, tutta la terapia che è stata impostata, è stata sbagliata. Esattamente come avvenne negli anni Trenta, quando si affrontò la crisi con restrizioni di bilancio insensate. Allora le cose non andarono molto bene. La parte peggiore della crisi si manifestò dopo il '29 a causa di queste manovre in tutti i paesi. In Germania la ripresa arrivò più tardi con il riarmo e, poi, con la guerra. Ovviamente non si possono fare parallelismi meccanici, ma non va trascurato il fatto che siano già in atto guerre valutarie, che ci sia una ripresa del protezionismo e, soprattutto, una sempre maggiore aggressività del capitale, sia all'esterno sotto forma di interventi militari, sia all'interno nei confronti del lavoro. Come dice il miliardario americano Warren Buffett, “la lotta di classe esiste ancora e l'abbiamo vinta noi". L'ideologia post-89 secondo cui il mercato risolve tutto, si è diffusa paradossalmente in questa crisi. Purtroppo è diventata una cultura di massa. Se guardiamo alle forze presenti in parlamento sono pochissime quelle che non condividono l'idea che lo Stato debba ridurre il suo ruolo. Da questa crisi non si esce se non aumenta il potere di investimento e di coordinazione delle attività economiche da parte del settore pubblico. Oggi il mercato è in grado solo di peggiorare la situazione.

giovedì 25 luglio 2013

Bergoglio lava più bianco. La rivoluzione a parole di papa Francesco


Quello che maggiormente sorprende in questa prima fase di permanenza alla guida della Chiesa di papa Francesco è il coro pressoché unanime di consensi che l’ex arcivescovo di Buenos Aires sta raccogliendo. Ma pauperismo e «francescanesimo a puntate» sembrano più funzionali ad una gigantesca operazione di marketing piuttosto che ad una reale riforma delle strutture della Chiesa. Un'analisi controcorrente della “nuova Chiesa” di papa Bergoglio.

di Valerio Gigante da Micromega

I fatidici 100 giorni sono trascorsi, l’enciclica a “quattro mani” (ma con una sola una firma) è uscita, la visita a Lampedusa è terminata. E mentre il viaggio in Brasile è in svolgimento, giornali e riviste si sono già ampiamente scatenati nel tracciare un primo bilancio del pontificato di Francesco. Quello che maggiormente sorprende in questa prima fase di permanenza alla guida della Chiesa di José Mario Bergoglio è il coro pressoché unanime di consensi che l’ex arcivescovo di Buenos Aires sta raccogliendo, da destra a sinistra, nel mondo cattolico come in quello laico.

Se si escludono i soliti mugugni dell’estrema destra cattolica, tutti, dai progressisti ai conservatori, dai laici ai cattolici, dagli esperti di cose vaticane fino alle persone che chiacchierano al bar, considerano questo papa una sorta di straordinario miracolo, il grande riformatore che rinnoverà completamente la Chiesa e le sue strutture. Sull’Espresso tempo fa Sandro Magister ha parlato dell'«incantesimo di papa Francesco», della sua capacità, cioè, di mietere unanimi, entusiastici consensi. Ed in effetti non c’è gesto o parola di questo pontefice che non venga amplificata a dismisura, definita un evento di portata storica, una novità assoluta, una rivoluzione, una “svolta epocale”. Di fronte a tale enorme entusiasmo, proporre una lettura critica, o anche solo dubitativa del pontificato di papa Francesco appare difficile, se non impossibile.

Eppure è proprio del mestiere del giornalista andare nelle pieghe dei fatti, dei personaggi, analizzare le dinamiche per rilevare le contraddizioni ed i nodi eventualmente irrisolti e portarli poi all’attenzione ed alla riflessione di chi legge, piuttosto che limitarsi ad amplificare – non sempre con il doveroso distacco che dovrebbe caratterizzare la professione – ciò che è già sotto gli occhi di tutti. Così, se è comprensibile – seppure non giustificabile – che i giornali cattolici abbiano si siano prodotti in entusiastici “osanna” e peana nei confronti di Bergoglio, assai meno lo è che lo abbia fatto la stampa laica, che dovrebbe avere sui fatti religiosi un occhio un tantino più disincantato, se non proprio vigile e critico.

Lavoro per un settimanale, Adista, che da anni svolge una funzione di informazione-controinformazione su Chiesa e politica, un osservatorio laico sui fatti religiosi che ha sempre costituito un punto di riferimento per chi, da una prospettiva progressista, credente ma senza essere clericale o “chiesastica”, è impegnato per un rinnovamento profondo delle strutture ecclesiastiche e dei rapporti tra la Chiesa ed il potere mondano. I nostri lettori sono stati quindi abituati ad un approccio assolutamente non apologetico nei confronti dei pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Sulle nostre pagine abbiamo pubblicato tanti documenti di teologi e vescovi che criticavano la teologia tradizionalista e la pastorale conservatrice dei due ultimi papi, l’indulgenza nei confronti di governi discutibili quando non esecrabili, i legami del Vaticano e dello Ior con i poteri economico-finanziari, gli intrecci tra gli uomini di Curia e le lobby intra ed extra ecclesiastiche. Ma quando abbiamo scritto del passato di Bergoglio all’epoca della dittatura in Argentina, quando abbiamo messo in evidenza le contraddizioni dei suoi primi atti di governo, in diversi ci hanno scritto delusi ed a volte indignati. Quasi avessimo “tradito” quel sogno di rivoluzione ecclesiale, di francescanesimo realizzato che per anni avevano coltivato e che ora volevano vedere incarnato nella figura di Bergoglio. E noi a sporcare questo idillio, per fare i bastian contrari a tutti i costi, cercare il pelo nell’uovo, insinuare sempre e comunque che il potere è brutto e cattivo.

In realtà non si tratta di avere un pre-giudizio, sul papa o su chiunque altro. È anzi comprensibile il clima di entusiasmo e speranza che le prime parole ed i primi gesti di Bergoglio hanno suscitato in tanti credenti. Ma a chi scrive non compete essere supporter di nessuno, men che meno di chi ha un ruolo istituzionale, connesso ad un potere e ad una capacità di enorme influenza sulle masse.

E allora, prima di entrare nel merito dell’attuale pontificato, vale forse la pena spendere qualche parola per capire il perché di un così diffuso e clamoroso successo del papa presso l’opinione pubblica. Certo, va fatta la necessaria tara all’entusiasmo che sempre accompagna l’elezione di un papa. Ma i mesi passano, e le udienze del mercoledì restano affollatissime, le colonne dei giornali piene delle parole e dei gesti del papa, la simpatia ed il calore che lo accompagnano Bergoglio sono visibili, palpabili. C’è, insomma, dell’altro oltre al fascino per la novità venuta “quasi dalla fine del mondo”.

Una prima spiegazione sta forse nel linguaggio di papa Francesco. Si tratta nella maggior parte dei casi di discorsi a braccio, che danno l’impressione di evitare formalismi e cerimoniali tipici di una gerarchia ingessata ed incapace di mettersi in sintonia con le folle cattoliche, ma cui pure papa Raztinger era assai affezionato come forma di sacralizzazione del suo ministero. Il papa attuale comunica invece con un linguaggio alla portata di tutti, dice frasi di piccola filosofia spicciola, utilizza un'oratoria colloquiale, imperniata su immagini o metafore di immediata presa comunicativa.

Al di là dell’apparente immediatezza e spontaneità, quella di Bergoglio pare in realtà una retorica assolutamente non improvvisata ed anzi molto studiata. Le metafore e le immagini utilizzate sono di notevole impatto ed efficacia comunicativa. Come quando papa Francesco parla di «Chiesa babysitter» (17 aprile) per stigmatizzare una Chiesa che solo «cura il bambino per farlo addormentare», invece che agire come una madre con i suoi figli; o di "Dio spray" (18 aprile) per mettere in guardia dall'idea di un Dio non cristianamente connotato, che va bene per ogni situazione (salvo poi partecipare alla kermesse per eccellenza del “Dio spray”: quella Giornata Mondiale della Gioventù che continua a riempire le piazze di effimeri entusiasmi mentre le chiese ed i seminari continuano a svuotarsi); o quella dei "cristiani satelliti", usata il 20 aprile per bollare quei cristiani che si fanno dettare la condotta dal "senso comune" e dalla "prudenza mondana", invece che da Gesù. Nell'omelia del Giovedì Santo, ha esortato i pastori della Chiesa, vescovi e preti, a prendere «l'odore delle pecore».

Da tutti questi esempi, oltre la grande abilità comunicativa, emerge uno sfondo teologico ed ecclesiale molto diverso da quello che aveva connotato il pontificato di Ratzinger. I pastori sono pastori e le pecore sono, appunto, gregge da guidare, il cristianesimo deve evitare ogni sincretismo religioso ed indulgenza nei confronti della cultura contemporanea, la secolarizzazione, i suoi valori, il suo relativismo vanno combattuti senza esitazione. Il diavolo esiste (e il papa lo cita in continuazione) e si annida nelle pieghe della realtà che ci circonda. Insomma, nella sostanza, non sembra essere cambiato molto rispetto a Benedetto XVI.

Semmai, rispetto al papa-teologo, l’immaginario religioso di Bergoglio è intriso di un devozionismo molto tradizionale e popolare, simile a quello tardo ottocentesco (un periodo non a caso in cui la Chiesa cercava di recuperare terreno presso le masse, “distratte” da anarchia, socialismo, scientismo, materialismo) fatto di madonnine oleografiche, di Gesù zuccherosi, indulgenze plenarie (nuovamente concessa a tutti i partecipanti alla Gmg brasiliana) e fervorini contro il demonio. E di una Chiesa che resta l’unica solida guida per i credenti e l’unico strumento di salvezza. Il 12 aprile, ad esempio, parlando alla pontificia commissione biblica, papa Francesco ha ribadito che "l'interpretazione delle Sacre Scritture non può essere soltanto uno sforzo scientifico individuale, ma dev’essere sempre confrontata, inserita e autenticata dalla tradizione vivente della Chiesa". Il 22 aprile, in un'altra omelia mattutina, ha detto con forza che Gesù è «l'unica porta» per entrare nel Regno di Dio e «tutti gli altri sentieri sono ingannevoli, non sono veri, sono falsi». Il giorno dopo, nell'omelia della messa con i cardinali nella Cappella Paolina per la festa di S. Giorgio, ha detto che «l’identità cristiana è un’appartenenza alla Chiesa, perché trovare Gesù fuori della Chiesa non è possibile».

Per non parlare dell’enciclica Lumen fidei, scritta in gran parte da Ratzinger, ma firmata da Francesco: un testo costruito nella contrapposizione tra fede cristiana e mondo moderno, nella polemica contro il relativismo, finalizzata ad ancorare la ricerca teologica all’obbedienza al Magistero. Insomma, il testo che doveva essere insieme il testamento spirituale di Ratzinger e il programma pastorale di Bergoglio, finisce per rivelare, come ha sottolineato Vito Mancuso su Repubblica (6/7) «al di là di differenze contingenti, la totale consonanza dottrinale con papa Benedetto sulle cose fondamentali quali la fede e la morale». Altrimenti l’enciclica poteva restare nel cassetto (non fu così per quella di Pio XI sul nazismo e l’antisemitismo, che il successore, XII, si guardò bene dal pubblicare?), oppure l’enciclica poteva portare (con un gesto certamente inedito, ma che da un papa come Francesco ci si poteva anche attendere) la doppia firma, quella del papa regnante e quella del vescovo emerito di Roma.

Anche sul versante delle donne, non pare che da papa Francesco ci sia da attendersi grandi sorprese: «Siate madri, non zitelle», ha detto Francesco alle 800 suore convocate all’assemblea dell’Unione delle superiori generali l’8 maggio scorso. La castità, ha spiegato, deve essere «feconda», generatrice, come insegna la figura di Maria Madre. «Che cosa sarebbe la Chiesa senza di voi? Le mancherebbe maternità, affetto, tenerezza, intuizione di madre!». Insomma, le suore come indispensabili procreatrici spirituali, curatrici di corpi e anime altrui. Dal punto di vista teologico, la semplice riedizione del ruolo materno celebrato attraverso la figura della mamma acrobata che concilia casa e lavoro. Ma che non deve rinunciare all’accudimento dei figli come funzione che ne caratterizza la dimensione “naturale”, oltre che sociale.

Cambia la forma, non la sostanza
Insomma, alla fine di questa rapida analisi si può concludere che se i contenuti di papa Francesco non sono diversi dai suoi predecessori, il modo di comunicarli quello sì, è radicalmente diverso.
In questa sua enorme capacità comunicativa Bergoglio appare simile al Wojtyla pope-star, quello che agitava la mani, ritmava i canti assieme ai giovani che assiepavano gli stadi delle Gmg, parlava in romanesco al clero romano, celebrava messe negli stadi e faceva continui bagni di folla. Ma a differenza di quest’ultimo l’attuale pontefice ha un’arma in più: riesce ad avere un rapporto quasi personale con la folla. Bergoglio ha iniziato la sera stessa della sua elezione, salutando con un semplice «buonasera», chiedendo alla folla di benedirlo (così almeno hanno detto tv e giornali: in realtà, in modo assai meno rivoluzionario, ha semplicemente chiesto ai fedeli di pregare affinché Dio facesse scendere sul papa la sua benedizione, prima che fosse il papa stesso ad impartire la sua, Urbi et Orbi), presentandosi semplicemente come il «vescovo di Roma» (poi però se si va a guardare sull’Annuario Pontificio pubblicato due mesi dopo i titoli tradizionalmente attribuiti capo della Chiesa cattolica ci sono tutti: «Successore del Principe degli Apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa universale, Primate d’Italia, Arcivescovo e Metropolita della Provincia Romana, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, Servo dei Servi di Dio»).

Al "Regina Coeli" di domenica 21 aprile, ha risposto alla folla che lo acclamava: «Grazie tante per il saluto, ma anche salutate Gesù. Gridate 'Gesù' forte!». Con la conseguenza che il grido “Gesù, Gesù” si è levato immediato ed altissimo da piazza San Pietro. Più in generale, quando è in mezzo alla gente, sembra capace di un rapporto diretto ed immediato con le persone. Anche all’interno di eventi collettivi, sembra cioè capace di interloquire con i singoli, ad avere una parola, un abbraccio, un gesto particolare per ciascuno. Rompe l’anonimato dei raduni di massa con piccoli e accurati “fuori programma” (conversazioni, battute, gesti di quotidianità, carezze, abbracci) che danno la sensazione di un papa che individua e cerca proprio te, in mezzo a tanti. E questo colpisce indubbiamente molto i fedeli. Ma anche i media che continuamente rilanciano le immagini del papa vicino ad un malato, con in braccio un bimbo, che parla di aspetti quotidiani della vita con qualcuno dei fedeli che riesce ad avvicinarlo, che parte per il Brasile con una borsa in mano (fatto di per sé insignificante, ma che i media di tutto il mondo hanno trasformato in un evento), che augura “buon pranzo” alla fine dell’Angelus domenicale. Che saluta, sorride e gesticola come una persona qualunque.

Denunce a perdere

Quando invece parla, i temi affrontati dai discorsi di papa Francesco sono ispirati a concetti molto generici: la misericordia, il perdono, i poveri, le "periferie", gli esclusi dal sistema, i poteri finanziari che schiacciano la dignità umana, l’amore e l’egoismo (una delle frasi più ricorrenti del papa è «non fatevi rubare la speranze»: l’espressione – la cui vaghezza è evidente a tutti – si ritrova anche nell’enciclica Lumen fidei). Mancano sempre i nomi, le circostanze, i responsabili. Cioè tutti quegli elementi che contribuirebbero a dare forza e profezia alle parole di un vescovo, quello di Roma in particolare. E questo vale anche per la visita del papa a Lampedusa, dove alla grande attenzione per le vittime non ha fatto da pendant quella nei confronti dei loro “carnefici”, cioè delle leggi e delle scelte governative italiane ed europee (legge Turco-Napolitano, legge Bossi-fini, respingimenti, sostegno a dittatori e autocrati nordafricani ed asiatici di ogni tipo, guerre e sfruttamento economico), che hanno consentito che il Mediterraneo divenisse un cimitero di disperati.

Ma ad un papa non spetta fare questo tipo di denunce, si dirà. Giusto, se questo valesse anche per i temi su cui la Chiesa è sempre intervenuta direttamente e pesantemente nella vita politica, lanciando su questioni come i matrimoni gay, la fecondazione assistita, i “diritti” dell’embrione, il divorzio breve, l’aborto, l’eutanasia, ed il testamento biologico anatemi e scomuniche di ogni tipo. Lo stesso Bergoglio, quando era arcivescovo di Buenos Aires ha parlato di aborto ed eutanasia come di «crimini abominevoli», dei movimenti pro-choice come di organizzazioni che promuovono una «cultura della morte»; si è opposto alla distribuzione gratuita di contraccettivi nel suo Paese, all'insegnamento dell'educazione sessuale nelle scuole, all’adozione da parte di coppie omosessuali, alla legge che nel 2010 fu varata dal governo per legalizzare i matrimoni gay, definita un provvedimento «ispirato dall’invidia del diavolo», «un attacco devastante ai piani di Dio», divenendo il punto di riferimento delle manifestazioni a favore della famiglia e del matrimonio tra uomo e donna che si susseguirono tra la primavera e l’estate del 2010.

In quei casi le denunce furono circostanziate e puntuali.. Sui poveri, gli sfruttati, i derelitti, i perseguitati, invece, solo generiche critiche al “sistema” che produce marginalità e disperazione.
Eppure nella storia della Chiesa è accaduto spesso che preti e vescovi denunciassero i meccanismi reali di esclusione e miseria. Senza voler citare il caso di Romero, finito vittima di un sicario al soldo del leader del partito nazionalista conservatore Roberto D'Aubuisson, e ucciso mentre celebrava messa, si potrebbe citare il recente caso del vescovo di Nola, mons. Beniamino Depalma, che si è apertamente e concretamente dalla parte di chi sta lottando per i propri diritti sindacali, presentandosi lo scorso 15 giugno davanti ai cancelli dello stabilimento di Pomigliano d'Arco (Napoli), in occasione della protesta contro due sabati di recupero lavorativo, susciti la dure reazione dei dirigenti della Fiat, che hanno sostenuto che il vescovo si è collocato «dalla parte dei violenti e prevaricatori».

Senza nomi e cognomi, i discorsi restano, inevitabilmente, delle prediche buoniste e ireniche, che muovono e commuovono le coscienze, ma che hanno scarsa o nessuna incidenza nelle dinamiche dei processi reali. E infatti, non risulta al momento che nessuno dei “poteri forti” chiamati quasi quotidianamente in causa da Bergoglio abbia mai veramente reagito in alle generiche critiche papali, a parte qualche infastidita ed estemporanea dichiarazione di pochi leghisti ed esponenti del centrodestra dopo la visita papale a Lampedusa. Senza fare nomi o accuse ai politici o ai governanti, poteva il papa decidere di stanziare una parte dell’8 per mille (più di quella misera parte – circa il 20% – attualmente destinata dalla Chiesa alle opere di carità) a favore dei migranti e delle strutture che si occupano di loro? Poteva mettere a disposizione una minima parte dell’immenso (circa un quinto degli edifici esistenti, solo in Italia) patrimonio immobiliare italiano che la Chiesa possiede per l’accoglienza di una parte di questi disperati? Poteva, e senza grandi difficoltà, ma non l’ha fatto.

Più in generale, il papa che paga il conto dell’albergo dove ha alloggiato per il Conclave, che ha deciso di rinunciare all’appartamento papale, che gira senza l’auto blindata e che si richiama continuamente alla sobrietà ed alla povertà come condizione indispensabile per la Chiesa, poteva – solo per restare in ambito italiano (il dramma di Lampedusa si consuma infatti nel nostro Paese) – chiedere di rinegoziare il Concordato o almeno qualcuno dei privilegi di cui gode la Chiesa (che dal 1999 non paga allo Stato italiano nemmeno la fornitura di acqua, che ammonta a circa 5milioni di metri cubi l’anno) come l’ampia esenzione dal pagamento dell’Imu; il pagamento a carico dei contribuenti dei docenti di religione cattolica, dei cappellani militari, delle carceri, ospedalieri; l’8 per mille garantito anche per quella parte di gettito che proviene dalle quote non espresse (cioè da coloro che non hanno barrato alcuna casella nella dichiarazione dei redditi, ma i cui soldi vengono ugualmente ripartiti tra lo Stato e le confessioni religiose in maniere proporzionale alle quote espresse); contributi statali alle scuole cattoliche ed all’editoria cattolica; finanziamenti pubblici a parrocchie, oratori e scuole materne; esenzioni per Ires e canone tv; benefits per lo Stato della Città del Vaticano ed i suoi cittadini, ecc. ecc.?

Più in generale, allargando la questione dalla Chiesa italiana a quella universale, poteva il papa decidere di utilizzare una piccola parte dei 55milioni di euro che ogni anni lo Ior stanzia a favore del bilancio della Santa Sede a favore di poveri e migranti, o di utilizzare a questo scopo una parte dei proventi delle speculazioni finanziarie su valute, azioni ed obbligazioni che da diversi anni tengono in attivo i conti della Santa Sede?
Il papa poteva farlo. Ma, almeno finora, non l’ha fatto.

La “rivoluzione” a parole

Certo, questo papa – contrariamente al suo predecessore – è stato finora attentissimo a non lanciarsi in anatemi espliciti contro la modernità, la secolarizzazione, le coppie di fatto, la ricerca scientifica, l’Europa scristianizzata. A tentare di accontentare tutti, annunciando la canonizzazione di Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II (e anche quella del successore di Escrivà de Balaguer alla guida dell’Opus Dei, Álvaro del Portillo…). Ma la linea della Chiesa, come dimostra l’enciclica Lumen fidei, resta la stessa. Ed anche per quanto riguarda la necessaria riforma dell’istituzione ecclesiastica, da molti invocata ed implicitamente promessa dall’avvento di un papa dal nome così impegnativo, per ora è accaduto poco o nulla.

La Curia è sempre lì, in testa il segretario di Stato. Se qualcosa cambierà allo Ior sarà per le pressioni che da anni la comunità internazionale sta facendo sul Vaticano affinché si adegui agli standard europei sull’antiriciclaggio (e che se hanno consentito finora enormi vantaggi stanno però restringendo sempre più il campo dei partner bancari a cui il Vaticano può affidarsi, come il caso del blocco del servizio bancomat gestito da Deutsche Bank all’interno delle Mura Leonine all’inizio del 2013 ha dimostrato). Anche sul campo dottrinario nulla sembra profilarsi di particolarmente nuovo all’orizzonte. Il 15 aprile, il papa ha confermato la linea severa della congregazione per la dottrina della fede nel trattare il caso delle suore degli Stati Uniti riunite nella Leadership Conference of Women Religious, messe sotto inchiesta dal Vaticano per la loro pastorale troppo liberal.

Tutti ricordano il caso del cardinale scozzese Keith Patrick O'Brien, arcivescovo emerito di St. Andrews ed Edinburgo, che aveva ammesso le sue responsabilità nello scandalo sulle molestie sessuali che lo aveva coinvolto e che per questo motivo era stato indotto dalle pressioni dell’opinione pubblica a rinunciare a partecipare al Conclave. Ebbene, a metà maggio il papa ha condannato O’Brien – udite udite – ad un esilio di qualche mese del cardinale in un luogo di preghiera e di penitenza. Come ha scritto Francesco Merlo su Repubblica (17/5) «sembra un rimbrotto burbero, una tirata d'orecchie complice che solo in Italia è ruffianamente raccontata come un giro di vite papale, una tolleranza zero della Chiesa verso gli abusi sessuali dei sacerdoti». Un provvedimento simile a quello preso da Ratzinger nei confronti del fondatore dei Legionari di Cristo Maciel, indotto nel 2006 a ritirarsi dalle sue cariche all’interno della sua potente congregazione ed a fare penitenza. Niente scomuniche allora, niente nel caso di O’Brien. E niente dimissioni – per l’uno come per l’altro – dallo stato clericale. Nonostante i gravissimi crimini.

Ma dal punto di vista del marketing, anche sul fronte pedofilia il papa si è mosso benissimo. E mentre della risibile punizione ad O’Brien nessuna o quasi ha detto nulla, tutti hanno parlato all’inizio di luglio della «rivoluzione nella legislazione vaticana», «l’ennesimo strappo di papa Francesco»: in pratica, l’abolizione dell’ergastolo (quanti ergastolani ci sono nella Città del Vaticano?), la ridefinizione, con relativo inasprimento di pene, di alcuni reati come la vendita di minori, la prostituzione minorile, la violenza sessuale su minori, gli atti sessuali su minore, la pedopornografia, la detenzione di materiale pornografico, arruolamento di minore. Più altre norme per chi attenta alla sicurezza, agli interessi fondamentali o al patrimonio della Santa Sede, modificate in relazione alla Convenzione delle Nazioni Unite del 2003 contro la corruzione. Tutti provvedimenti che riguardano ovviamente solo i delitti commessi nella Città del Vaticano o negli uffici di Curia (oltre alle nunziature ed al personale diplomatico) e che sono peraltro in parte adeguamenti alle Convenzioni internazionali richiesti proprio da quell’organismo, Moneyval, dal quale ormai da diversi anni il Vaticano si aspetta di poter essere ammesso nella white list dei Paesi finanziariamente “virtuosi”.

La collegialità del potere

Ma, si potrebbe eccepire, questo papa sta lavorando per fare della Chiesa una istituzione più collegiale. In questo senso andrebbe la nomina degli otto cardinali come suoi «super-consulenti» per assisterlo nel governo della Chiesa e nel progetto di riforma della Curia romana, definita unanimemente una «svolta epocale», una «rivoluzione», anche da diversi studiosi ed osservatori di questioni ecclesiastiche e di storia della Chiesa. Se lo storico Giuseppe Ruggieri ha già chiarito che la nomina di consiglieri per la riforma della Curia «riprende un istituto tradizionale della Chiesa» risalente «già al primo millennio» e tutt'ora esistente nella Chiesa ortodossa orientale (intervistato dall’Ansa il 13 aprile scorso), ancora non sono del tutto chiare le reali competenze dei cardinali nominati e sui poteri che il nuovo organismo potrà effettivamente esercitare, al di là del suo ruolo consultivo. Inoltre diversi commentatori hanno fatto notare che il nuovo organismo, che pure il papa ha voluto rappresentativo dei cinque continenti, è però composto di soli cardinali, senza preti, vescovi, laici e donne (nemmeno se suore).

Infine la biografia degli ecclesiastici nominati da Bergoglio non sono certo inattaccabili. Dal cardinale Oscar Andres Rodríguez Maradiaga (peraltro grande amico di Bergoglio) che ha sostenuto il golpe che nel giugno 2009 portò alla deposizione del presidente dell’Honduras Manuel Zelaya, al cardinale “bertoniano di ferro” Giuseppe Bertello. C’è poi il segretario della commissione mons. Marcello Semeraro, al centro di molte polemiche nella sua diocesi, quella di Albano, come nel 2007, quando tre suore missionarie di Santa Gemma, inviate dalla loro superiora nella diocesi retta da Semeraro per essere impiegate nei servizi della catechesi e della pastorale giovanile nella parrocchia dei Santi Pietro e Paolo di Aprilia, furono da lui cacciate per non aver accettato di fare da colf a due anziani sacerdoti presenti nella parrocchia (800 euro al mese, da dividere in tre…). E poi c’è la storia di p. Marco Agostini, prete pedofilo nei confronti del quale nel maggio 2006 la Procura di Velletri – che aveva appena ottenuto dal Gip la misura cautelare – chiese alla Curia di poter avere le informazioni raccolte dalle autorità ecclesiastiche. Semeraro disse no, appellandosi all’articolo 4 comma 4 del Concordato, secondo il quale gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero. Non c’era obbligo, ma nemmeno divieto. Eppure Semeraro preferì non collaborare.

Membro della commissione è inoltre il cileno Francisco Javier Errázuriz Ossa che nel 2006 celebrò i funerali religiosi di Pinochet («Che Dio lo perdoni e tenga conto di ciò che ha fatto di buono», disse) e propose al governo, nel 2010, l’indulto generalizzato, in nome del “perdono cristiano”, per i militari sostenitori della dittatura. E che fu anche accusato di avere cercato di insabbiare le indagini su uno dei casi di violenza sessuale più tristemente conosciuti in Cile, quello su James Hamilton, che ha subìto abusi sessuali per oltre venti anni da parte di p. Fernando Karadima, prete con un forte carisma presso i giovani dell’élite di Santiago del Cile. Last but not least, l’australiano George Pell, arcivescovo di Sydney, ultraconservatore, tra i cardinali che hanno scelto di celebrare la messa con rito tridentino, implicato tra l’altro nella vicenda di un prete della diocesi di Ballarat, 120 chilometri ad ovest di Melbourne, Gerald Francis Ridsdale, condannato a 19 anni di carcere per aver abusato di decine di bambini. Quando il 27 maggio 1993, il tribunale di Melbourne aprì un processo a carico di Ridsdale per aggressione sessuale ai danni di nove ragazzi, il prete venne accompagnato in tribunale e sostenuto proprio da George Pell, che nel frattempo era divenuto vescovo ausiliare di Melbourne. «Ho vissuto con lui – disse Pell nel 1996, dopo la condanna definitiva – ma sulla sua condotta non circolava nemmeno un sospetto». Tuttavia, il processo del 1994 provò che Ridsdale era stato inviato dai suoi superiori da uno psicologo già nel 1971, e che era stato spostato da una parrocchia all’altra a causa delle denunce arrivate in Curia.

Almeno dal punto di vista delle varietà delle presenze, la Commissione sullo ior (3 ecclesiastici e 2 laici, fra cui una donna) e quella sulla finanza vaticana (1 ecclesiastico e 7 laici, fra cui una donna), recentemente istituite dal papa, parrebbero meglio rappresentare la pluralità della Chiesa. Salvo che la composizione delle commissioni – come sottolinea anche Ignazio Ingrao su Panorama (27/6) rispecchia proprio quei conflitti intestini all’interno delle lobby economico finanziarie interne alla Chiesa che dovrebbero essere l’oggetto della riforma papale: la Pontificia Commissione sullo Ior vede infatti al suo interno una componente statunitense (con l’assessore monsignor Peter Brian Wells e la professoressa Mary Ann Glendon) che sostiene i Cavalieri di Colombo (di cui è massima espressione è Carl Anderson cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo, nel board dello Ior e principale artefice della defenestrazione dell’ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi) e una francese (rappresentata in Commissione dal cardinale Jean-Louis Tauran, che invece sostiene i Cavalieri di Malta (dei cui interessi è massimo garante l’attuale presidente dello Ior, Ernst von Freyberg). Insieme a loro, con il ruolo di coordinatore (è colui che fisicamente si recherà allo Ior per l'acquisizione di documenti) anche il vescovo spagnolo Juan Ignacio Arrieta Ochoa de Chinchetru, membro dell'Opus Dei. Di area Opus Dei sono anche Francesca Immacolata Chaouqui e Lucio Angel Vallejo Balda, membri della commissione di inchiesta sulle finanze vaticane.

Provvisorie conclusioni

Va bene, si potrebbe infine obiettare, ma questo papa che va a Lampedusa e parla dei poveri sarà pur sempre meglio di chi lo ha preceduto, vestito di ermellino e chiuso nella sua impenetrabile fortezza teologica, sempre pronto a lanciare strali contro chi a suo avviso assedia la cittadella fortificata della fede. È vero, se non fosse che – fino a prova contraria sempre possibile, seppure improbabile –pauperismo e «francescanesimo a puntate» (come in una canzone di De André) sembrano più funzionali ad una gigantesca operazione di marketing piuttosto che ad una reale riforma delle strutture della Chiesa.

Insomma, per l’emorragia di fedeli (nei Paesi dove esistono sistemi diversi dall’8 per mille, ciò corrisponde a minori introiti per le Chiese nazionali), di offerte (il bilancio vaticano lamenta da tre esercizi il calo a livello mondiale dell’Obolo di S. Pietro, le offerte che in tutto il mondo si raccolgono in favore della carità del papa, il 29 giugno), di vocazioni, di credibilità, l’arrivo di papa Francesco ha costituito finora un’ottima operazione. Per i divorziati risposati, i gay credenti, i laici, le donne, per tutti coloro che si battono per una maggiore collegialità nella Chiesa, per la libertà di parola e di opinione, di ricerca teologica e di azione pastorale, per coloro che desiderano una riforma che cambi strutture e classe dirigente, ecco, per tutti loro certamente un po’

domenica 21 luglio 2013

Intervista a Gallino: Prima il lavoro

di Sara Farolfi da sbilaciamoci.info

Per uscire dalle secche della crisi va riportata in cima all'agenda politica la piena occupazione. Perchè avere un lavoro è più importante che avere un reddito e la perdita del lavoro può infliggere danni maggiori della povertà stessa. Intervista al sociologo Luciano Gallino
Redistribuzione del lavoro e redistribuzione del reddito: è possibile conciliarle? Sul dibattito lanciato da Sbilanciamoci.info sul tema del reddito minimo garantito abbiamo interpellato il sociologo Luciano Gallino, professore emerito, già ordinario di Sociologia, all'Università di Torino.
Lo slogan più diffuso al momento è: più crescita per rilanciare l'occupazione. A parte il fatto che si dice ma non si fa, pensa che sia vero o ritiene che il problema occupazionale abbia anche dei caratteri strutturali non eliminabili da una ripresa del ciclo economico?
In generale si parla di crescita come un tempo si parlava del flogisto, termine medievale che indicava una sostanza imponderabile circolante ovunque e capace di compiere miracoli. Nove persone su dieci, tra quelle che parlano di crescita, non sanno di cosa parlano. Se non corredato di indicazioni precise, infatti, il termine crescita non significa nulla, o addirittura può essere fuorviante perchè per esempio la crescita può essere anche legata all'aumento dei profitti finanziari. Io penso che sia meglio parlare di qualcos'altro, e, per restare alla domanda posta, credo che una misura realistica di buon funzionamento economico dovrebbe essere il tasso di occupazione e quello di attività.
Il dibattito aperto da Sbilanciamoci.info si è polarizzato tra interventi a favore del lavoro di cittadinanza e interventi per il reddito di cittadinanza: quale ritiene che sia, tra le due, la strada da intraprendere?
Privilegerei la creazione di occupazione diretta. Riportare in cima all'agenda politica la prassi e l'idea di piena occupazione è una questione prioritaria. Il fatto è che la terminologia stessa di “piena occupazione” è stata rimossa dall'ideologia neoliberale. A partire dal dopoguerra, e per i primi vent'anni, il concetto è stato in primo piano, poi è scomparso. Persino nel Trattato Europeo l'espressione “piena occupazione” ricorre una sola volta e non come fine statutario ma come esito auspicabile di mercati efficienti. È paradossale. Detto questo, una prassi di piena occupazione non collide con un progetto di reddito di base, ma va detto che le due cose hanno due pesi differenti perchè avere un lavoro è più importante che avere un reddito e la perdita del lavoro, in termini tanto sociali quanto personali, può infliggere danni maggiori della povertà stessa.
Pensa che la proposta di legge di iniziativa popolare sul reddito minimo garantito, consegnata alla Camera il 15 aprile, abbia buone probabilità di aprire una strada diversa alla tutela del reddito in Italia?
Ne dubito molto, anche perchè il governo in carica è un governo di destra che applica le indicazioni, di destra, che provengono da Bruxelles, e più in generale dalla Trojka. Una proposta di legge di questo tipo difficilmente potrà trovare ascolto e spazio. A mio avviso uno degli aspetti più interessanti della legge è il riordino delle prestazioni assistenziali. La sostituzione della dozzina di prestazioni, oggi previste, con un unica forma di sostegno al reddito potrebbe avere un effetto positivo e sarebbe auspicabile. Naturalmente questa unica forma di sostegno al reddito dovrebbe avere un carattere universale ma variabile in base ai livelli di reddito e alle condizioni familiari, come previsto anche dalla proposta di legge.
Chiedere interventi per un “lavoro di cittadinanza” significa porre come obiettivo di politica economica la creazione di nuovi posti di lavoro da parte dell'amministrazione pubblica per ottenere una “piena e buona occupazione”, cosa ne pensa?
Preferisco parlare, come ha fatto recentemente anche la Commissione Europea, di job guarantee. E se persino la Commissione europea scopre la “piena occupazione” forse è segnale che è arrivato il momento di fare qualcosa.
Chiedere un reddito minimo garantito significa fissare di fatto un salario minimo al quale il soggetto beneficiario è disposto a prestare il suo lavoro. Non costituirebbe un argine ai processi di precarizzazione del mondo del lavoro?
Nutro molti dubbi in proposito perchè i rapporti di lavoro precari non riguardano l'entità della retribuzione ma la possibilità di usare il lavoro esattamente come si usano ricambi e componentistica nei servizi. Il principio che si è affermato prima nella produzione e poi nel mercato del lavoro è quello del “giusto in tempo”. La flessibilità è figlia di questa idea e non penso che pagando qualcosa in più o in meno le cose possano cambiare. È sull'organizzazione complessiva della produzione che bisogna intervenire.
Cosa pensa di proposte che vogliono connettere la redistribuzione del reddito nella forma di una garanzia universale e una redistribuzione del lavoro attraverso l'espansione di forme contrattuali a tempo ridotto?
Penso che siano linee di difesa di secondo e terzo piano, mentre oggi sarebbe meglio concentrarsi su quelle di primo piano. Negli ultimi trent'anni abbiamo assistito a una gigantesca redistribuzione del reddito dal basso verso l'alto: questa è un'enorme questione politica che andrebbe affrontata attraverso gli strumenti legislativi, il potenziamento dei sindacati e del contratto nazionale.
Pensa che politiche di sostegno al reddito come quelle di cui abbiamo parlato siano sostenibili o che richiedano una rimodulazione della politica fiscale nel suo complesso per il loro finanziamento?
Una rimodulazione delle politiche fiscali sarebbe comunque necessaria perchè, come ho detto, le politiche fiscali hanno ridotto le entrate e favorito soprattutto l'aumento delle disuguaglianze. Però è necessario fare due conti: con 15 miliardi di euro si potrebbero creare posti di lavoro, in un anno, per 1 milione di persone, mentre destinando la stessa somma al reddito garantito non si coprirebbe una popolazione altrettanto numerosa e non si avrebbe quell'effetto moltiplicatore sull'economia che il creare occupazione produce.

venerdì 19 luglio 2013

“Il governo Letta non si tocca”. L’ultimo diktat di Re Giorgio


di Matteo Pucciarelli e Giacomo Russo Spena da Micromega

La Costituzione? È carta straccia. La Repubblica come soppiantata da una monarchia, quella dello Statuto Albertino. Al comando, lui. Da solo. «Re Giorgio», come lo chiamò il Times. Giorgio Napolitano detta la linea, magari esautora il Parlamento (come sulla vicenda degli F35), commissaria il Pd (quello da anni) e, in nome della governabilità, costringe milioni di elettori del centrosinistra ad inghiottire rospi che somigliano a vitelli.

Il Presidente è il garante delle “larghe intese”, terminologia soft per ricordare che si sta parlando in realtà dell’inciucio con Silvio Berlusconi e i suoi aiutanti Angelino Alfano, Renato Brunetta, Daniela Santanché e compagnia cantante. Eppure guai a chi osa criticare il suo operato. La divisione in Italia non è tra destra o “sinistra”, o tra Pd-Pdl e M5S; la discriminante è altra: o si considera Napolitano il salvatore della Patria (c’è chi lo pensa e c’è chi non lo pensa ma lo dice perché conviene farlo) o lo si considera uno dei peggiori Presidente della Repubblica.

La storia di Napolitano è quella di un comunista sui generis: del passato ha abbandonato la tensione ideale (cosa che lo accomuna a tutti i dirigenti ex Pci ora del Pd), ma ha conservato e anzi reso vincente il pragmatismo più spinto di sovietica memoria. A dimostrare che la storiella del bambino buttato con l’acqua sporca ha, se possibile, dei risvolti ancor più drammatici: butti il bambino e ti tieni l’acqua sporca. Proveniente dal partito napoletano, storicamente roccaforte stalinista, favorevole all’invasione dei carri armati russi a Budapest nel 1956, primo dirigente comunista a volare negli Stati Uniti, “migliorista” di primo piano — la “destra” interna al Pci — e vicino ai socialisti di Bettino Craxi (la sua corrente a Milano fu l’unica del partitone rosso toccata da Tangentopoli), poi presidente della Camera durante Mani Pulite, nel 2006 diventa presidente della Repubblica. E diventa protagonista indiscusso. Trasformando un ruolo di garanzia in uno di giocatore attivo, l’arbitro che si fa attaccante.

Ottobre 2010. Berlusconi è agonizzante. Gli scandali delle escort lo stanno travolgendo, la sua maggioranza in frantumi, i cattolici all’attacco. L’opposizione prepara la mozione di sfiducia ma Napolitano («prima va approvata la legge di stabilità») la calendarizza dopo un mese dando il tempo al Cavaliere di comprare una decina parlamentari e salvarsi il 14 dicembre successivo. Olé. Un anno dopo, Berlusconi getta la spugna. Non è in grado di proseguire, la pressione dell’Europa è fortissima. Si va al voto? No, con l’incubo spread alle porte Napolitano impone al Pd la carta Monti. Il tecnico della salvezza con il loden taumaturgico. Un anno, con lui, di lacrime e sangue in cui il Pd, spesso in imbarazzo, è costretto a difendere l’indifendibile come la riforma Fornero. Tredici mesi di Monti per ritornare alle urne e scoprire che SuperMario era un’invenzione (ottimamente veicolata) di Napolitano: il consenso, ahimè, era un’altra cosa.

Qui entra in ballo il fattore Bersani che perde elezioni già vinte e soprattutto si incarta sul nuovo nome per il Colle: Franco Marini, Romano Prodi e infine, pur di non sostenere Stefano Rodotà (è di sinistra, cosa ci volete fare), ecco la richiesta a Napolitano per il bis. La prima volta nella storia repubblicana. Napolitano accetta con un solo discrimine: le larghe intese siano accettate e condivise da Pd e Pdl. Un governissimo, come i diamanti, è per sempre. Così il governo Letta è in vita, la sua creatura in tutto e per tutto. Il compito dell’esecutivo è fare subito una nuova legge elettorale, qualche riforma strutturale e poi di nuovo alle urne nel 2014. Invece dopo 100 giorni la legge elettorale è già un’eco lontano, le misure economiche sono state rimandate a settembre e intanto si sta provando a stravolgere la Costituzione. Un fallimento, o magari un successo: dipende dai punti di vista. Con gli smacchiatori che finiscono smacchiati. E gli elettori del centrosinistra, come da copione, gabbati.

«Se cade il governo contraccolpi irrecuperabili per Paese», ha detto oggi «Re Giorgio». Senza spiegare esattamente a cosa si riferisse. Traduzione: caro Pd non fare scherzi e non invocare le dimissioni del ministro a sua insaputa Alfano, per il quale il Cavaliere minaccia la crisi di governo. Napolitano ordina. Il Pd ubbidisce. Berlusconi ringrazia.


mercoledì 17 luglio 2013

Sovranità di destra e sovranità di sinistra.

di Tonino D'Orazio

Quando si fa il tifo si perde la nozione della sostanza del contendere e sicuramente una certa razionalità.

La sinistra dovrebbe rinunciare a criticare la deregolamentazione internazionale del neocapitalismo perché in alcuni paesi è diventato programma prioritario delle destre se non insieme? Rinunciare significa partecipare, viene utilizzata una tremenda parola più dolce, accompagnare.

Non si può più dire o fare nulla per intralciare il cosiddetto libero scambio. Che tanto libero, e lo sappiamo tutti, proprio non è. Da un po’ di tempo la merce la si prende con le armi. Qualunque concetto di de-mondializzazione diventa velleitaria e autarchica. Qualunque riferimento alla volontà popolare per una trasformazione sociale positiva passa per nazionalismo. Sono gli stessi propositi della sinistra europea attuale e delle destra. Sono alla fine gli elementi base per le “grandi coalizioni” per mantenere in piedi un sistema che crolla dappertutto.

Su queste idee opportunistiche delle destre, in questa fase, purtroppo le sinistre convergono anche se in ordine sparso. Per non dare adito ad accuse di neonazionalismo la sinistra non intralcia più il neoliberismo e lo stesso concetto di de-mondializzazione è visto ormai come intralcio al principio dell’internazionalismo. Principio però sempre più astratto. Perché solo i popoli, le nazioni, le democrazie partecipate possono uscire dall’ordine mondiale istaurato dal neoliberalismo. È l’esempio dei paesi sud americani. E’ il granello che può inceppare la macchina stritolatrice.

Ecco quindi di nuovo riapparire il termine nazione. Termine maledetto dagli internazionalisti, anche se quest’ultimo concetto è politicamente vuoto e non riesce a concretizzarsi in nessun posto perché occupato di fatto dal pensiero unico neoliberale in estensione e espansione mondiale. Quindi una unica nazione mondiale con regole conformi al pensiero dominante, cioè con meno regole democratiche possibili.

Una profonda differenza tra sovranità di destra e sovranità di sinistra sta nei concetti differenti. La prima si basa sulla sovranità della nazione, anche se il mondo è diventato nazione, la seconda sulla sovranità del popolo.

La destra cerca sempre l’uomo della provvidenza per dirigere la nazione, il “gruppo dei saggi”, dei competenti, dei tecnici che devono guidare la nazione, che “non hanno tempo da perdere”. In questo senso si può dire tranquillamente che Napolitano è un uomo di destra che mette in atto strumenti di destra; che per attuare il presidenzialismo di quella cultura, spinge i “saggi” embeded all’annullamento dell’art. 138 della Costituzione, vera barriera contro il risorgente fascismo e il governo autoritario di eventuali oligarchie. Quindi solo la ricerca del governo dei popoli in mano a pochi. Una tristezza dal profumo totalitario o solo e sempre più autoritario. Se si prende ad esempio la Cina, passata da uno stato totalitario ad un sistema autoritario, con aperture democratiche diluite nel tempo, in modo inversamente proporzionale si può quasi immaginare che il modello di regime verso cui tendono i paesi occidentali e la Cina possa nei prossimi anni miracolosamente convergere. Lo stallo economico ha messo in evidenza il predominio dei mercati finanziari sulla vita democratica dei paesi. La vera sinistra intende invece, come sovranità, la partecipazione più larga possibile di tutti gli interessati a prendere le decisioni. Cioè la democrazia vera e faticosa che può chiamarsi anche sovranità popolare.

L’abuso propagato dalla destra è proprio relativo alle questioni economiche. Hanno sempre approvato e sostenuto l’avanzata del neoliberismo come se fosse solo libero capitalismo e libero mercato. La parola libertà si è ristretta a pochi, a quelli che possono e possiedono tutto e tutti. Hanno osannato Regan e la Thacher. Ideologicamente le destre sono sempre state pronte allo scontro con la sovranità popolare rappresentata dalla democrazia e dai suoi strumenti o istituzioni. La doppiezza attuale delle destre sta nel fomentare loro stessi le critiche al neoliberismo e al capitalismo visti i risultati socialmente, e pericolosamente, disastrosi. Come se non avessero governato l’Europa e l’Italia da decenni. Prendono prima, davanti a una sinistra pavida e senza più orientamenti anti-capitalistici necessari al sostegno della democrazia e della sovranità popolare. Anzi, in qualche modo prona se non addirittura contro, sgretolando le costituzioni e lasciando praterie politiche alle destre che vi scorazzano e vi sguazzano.

Possibile che l’abbattimento del muro di Berlino nel 1989 abbia abbattuto definitivamente qualsiasi altra visione per un mondo diverso? Anche di un socialismo minimo ma chiaro?

Eppure un mondo diverso esiste. Ne è l’esempio la Boldrini, Presidente della Camera, con un no secco a Marchionne che governa la Fiat a nome dei suoi padroni e pensa di fare quello che vuole in Italia, Costituzione o meno, poiché i politici, proni, glielo hanno sempre permesso e gli hanno sempre regalato i soldi visto che ogni volta che chiacchiera di investimenti bussa a cassa. Ovviamente la Boldrini viene tacciata di lesa maestà anti-capitalista, e quindi di estremismo contro il pensiero unico, dalle destre italiane. Ma il centrosinistra non coglie nemmeno l’occasione di sostenerla e ribadire un sembiante di socialismo democratico, all’interno del sistema capitalistico. In nome del napolitanesco “il governo non può cadere”, anche se programmaticamente di destra e “costi quel che costi”, il centrosinistra ingoia tutto, compreso l’acquisto inutile, dannoso e guerrafondaio di farseschi bombardieri che nemmeno gli americani vogliono (vedi blocco del Congresso alla sua costruzione). Eppure, nella lettera della Boldrini, tutti gli ingredienti di una visione diversa ci sono: “Il livello e l’impatto della crisi sono tali da imporre un progetto del tutto nuovo, una politica industriale che consenta una crescita reale, basata su modelli di sviluppo sostenibile tanto a livello economico, quanto sociale e ambientale. Lei concorderà che le vecchie ricette hanno fallito e che ne servono di nuove. Affinché il nostro Paese possa tornare competitivo è necessario percorrere la via della ricerca, della cultura e dell’innovazione, tanto dei prodotti quanto dei processi. Una via che non è affatto in contraddizione con il dialogo sociale e con costruttive relazioni industriali: non sarà certo nella gara al ribasso sui diritti e sul costo del lavoro che potremo avviare la ripresa.” Un vero ceffone. Ci sono tutti gli elementi del fallimento del neoliberismo, la sua arretratezza e la sua deriva schiavistica del mondo del lavoro. La maggior parte dei partiti del centrosinistra è stata zitta e ciò non può che sembrare un silenzio assenso alle tesi delle destre. In questo forse non rappresentano più la sovranità popolare ma una rappresentanza usurpata da leggi incostituzionali e truffaldine che la magistratura pavida, o a volte tristemente connivente (basta vedere lo scontro tra Stato e mafia), tarda a dichiarare tali con i massimi organi costituzionali.

Ah, già ! La Costituzione! Quella reale o quella in trasformazione di fatto? 

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...