giovedì 4 dicembre 2008

Berlusconi, Murdoch e l'Europa degloi ominicchi

QUELLO CHE MERITANO I QUACQUARACQUÀ

fox news


La penosissima vicenda Silvio-IVA-Sky riassume in modo esemplare la situazione del nostro sistema informativo.

Il Governo aumenta l'IVA sulle pay tv (cioè Sky) e l'opposizione “scopre” il conflitto di interessi, posizione squallidissima di gente che, quando si è ritrovata alla guida del paese, lavorava indefessamente a fare favori al Cavaliere Nero. I berluscoidi si attaccano all'Europa, che aveva imposto il riallineamento delle aliquote, ma non pensate che siano troppo condiscendenti: se l'Europa gli chiede di cacciare gli abusivi da qualche frequenza, non c'è problema, ne freghiamo una a RAIUNO...

E di tutto questo gli italiani che traggono la loro “informazione” dalla tv ne sanno poco o niente.

Come siamo fortunati noi happy few che in rete abbiamo tanto ben di dio: il solito Travaglio ci fa il riassunto, Miguel Martinez ci ricorda che genere di ceffo sia Murdoch, e tutti quanti scuotono il capo di fronte ai quacquaracquà del centrosinistra. No, sbagliano quelli che, come Carotenuto, dicono cose del tipo “per una volta che Silvio ne fa una giusta!” Noi, i privilegiati della Rete, possiamo sbertucciare l'affarismo rapinoso dei clientes berlusconiani e rinfrescarci la memoria sulle nefande attività di Murdoch. Schierarsi? Con quale criterio, quello di scegliere il meno fetente?

Come riporta Alberto Piccinini sul Manifesto di oggi, quando Berlusconi spiegò come mai (nel 1995) non avesse venduto parte della Fininvest a Murdoch, disse tra l'altro: “L'Italia ci vuole bene e questa tv se la merita.”

Parole sante!


Domenico D'Amico

mercoledì 3 dicembre 2008

Washball, Washball delle mie palle

Pensare male può far male
di Domenico D'Amico


Incappando nell'esaltazione della coreana Biowashball da parte di Beppe Grillo, ho immediatamente notato i classici segni dell'accricco-bufala.

La Biowashball si propone di sostituire, in tutto o in parte, il detersivo da lavatrice. Questa palla di gomma contenente palline di ceramica spezzerebbe le molecole d'acqua, emetterebbe raggi infrarossi, genererebbe acqua ossigenata, abbasserebbe il pH dell'acqua... Naturalmente, quando si arriva a descrivere i suoi effetti sull'aura dell'acqua, siamo arrivati al sintomo tipico dello pseudo-accricco, del genere braccialetto anti mal di mare. I dettagli li potete trovare qui.

In sé la cosa non è molto rilevante, non si tratta certo di vendere cure fasulle contro il cancro o praticare terapie pericolose e ingiustificate su bambini autistici...

Eppure...

Quelli che provano la washball dicono che funziona. Il problema non è capire come e perché funzioni (la sua azione consiste nell'aumento della movimentazione del bucato), quanto nel pensiero di chi la promuove. Che le dosi consigliate dai fabbricanti di detersivi siano dolosamente esagerate lo sa chiunque abbia mai seguito una delle innumerevoli trasmissioni “di servizio”, in tv o alla radio, degli ultimi vent'anni. Una quantità molto piccola basta e avanza. È imbarazzante che gli utilizzatori della washball additino come prova della sua efficacia il fatto che il bucato viene pulito usando una dose piccolissima di detersivo. Come a dire, per far sì che la gente usi meno detersivo non basta dirgli: ragazzi, mettetecene meno, che tanto pulisce uguale, e schiaffate nel cestello un paio di palle da tennis usate, che muoveranno i panni e il gioco è fatto. No, bisogna dirgli che esiste l'accricco meraviglioso, snocciolargli un po' di gris gris pseudoscientifico, e naturalmente, dulcis in fundo, la solita cospirazione di quelli che difendono gli interessi dei fabbricanti di sapone, che, si sa, non vogliono che il popolo conosca la verità (vedi Beppe Grillo che insinua “quelli del Salvagente sono della Coop, la Coop vende detersivi, ergo...”). Non è buffo? Chi esalta l'efficacia della palla di gomma da' per scontato che le dosi raccomandate dai produttori siano un dato attendibile. È il trionfo del cittadino-consumatore.

In fondo, però, che c'è di male? Voglio dire, molta gente userà meno detersivo, inquinando di meno, e avrà speso solo una quarantina di dollari per comprare la palla. Il risultato finale è positivo, no?

No.

Cosa succede quando si arriva a bersi le stesse scempiaggini sull'aura in questioni molto meno innocue, come la salute? Il fatto che Grillo porti come prova dell'efficacia della Biowashball la classica testimonianza dei “clienti soddisfatti” (come se stessimo parlando di qualche alga dimagrante) può far sorridere, così come sembra esagerata la proposta di qualcuno di realizzare esperimenti in merito con il metodo del doppio cieco. Ma ci sarebbe ben poco da ridere se, al posto della palla di gomma, stessimo parlando di qualche problema medico grave.

È dal tempo dei filosofi greci che cerchiamo di superare le difficoltà che i pregiudizi, i desideri, le aspettative, la percezione selettiva, oppongono alla nostra capacità di conoscere le cose.

Credere nella magia delle palle non aiuta.

lunedì 1 dicembre 2008

Perché non sono cristiano

RELIGIONE E RAGIONE:
PERCHÉ NON SONO CRISTIANO
di Bertrand Russell

Bertrand Russell
Questo discorso fu pronunciato il 6 marzo 1927 al Battersea Town Hall, sotto l’egida della South London Branch della National Secular Society


Vi spiegherò perché non sono cristiano. E qui bisogna subito chiarire il significato della parola. Oggi molti la usano non sempre a proposito. Certuni definiscono cristiano la persona che cerca di condurre una vita retta. Esisterebbero allora cristiani in ogni setta e credo religiosi. Forse che tra i buddhisti, i confuciani, i maomettani non figurano persone ammodo? Certamente non è questo il vero significato della parola. Per venire a buon diritto chiamati cristiani, occorre molta fede, e ben definita. La parola, ora, non ha la stessa chiara applicazione dei tempi di sant’Agostino e di san Tommaso, quando dogmi precisi erano accettati con profonda convinzione.

Che cosa è un buon cristiano?
Oggi bisogna essere più vaghi sul significato di cristianesimo. Vi sono, ad ogni modo, due elementi essenziali per definire un cristiano. Il primo, di natura dogmatica, è la sua fede in Dio e nell’immortalità. Il secondo, ancora più importante, è la necessità di credere in qualcosa che riguardi Cristo, com’è implicito nella parola stessa. Anche i maomettani, ad esempio, credono in Dio e nell’immortalità: tuttavia non sono cristiani. Per quanto riguarda Cristo, poi, se non lo si vuole riconoscere come essere divino, bisogna almeno vederlo come il migliore e il più saggio degli uomini. Se non ammettete questi princìpi, non vi potete chiamare cristiani. Nel Whitaker’s Almanach e nei testi geografici la popolazione del mondo viene suddivisa in cristiani, maomettani, buddhisti, feticisti, eccetera. Vi siamo compresi tutti: trattandosi però di una suddivisione geografica, la possiamo anche ignorare. Ora, vi dico perché non sono cristiano: in primo luogo, perché non credo in Dio e nell’immortalità; e in secondo luogo, perché Cristo, per me, non è stato altro che un uomo eccezionale.

L’esistenza di Dio

Per trattare in maniera adeguata il vasto e complesso problema dell’esistenza di Dio, dovrei trattenervi molto a lungo. Scusatemi, perciò, se procedo in modo sommario. Secondo la Chiesa cattolica l’esistenza di Dio può essere dimostrata con la semplice ragione. Questo dogma curioso venne introdotto dalla Chiesa cattolica quando i liberi pensatori cominciarono a sostenere che la mera ragione poteva dubitare dell’esistenza di Dio. La Chiesa cattolica comprese che doveva combattere costoro e stabilì che l’esistenza di Dio poteva essere dimostrata con la ragione enunciando gli argomenti per provarla. Ve ne sono molti, ma ne citerò soltanto alcuni.

L’argomento della causa prima

Forse è l’argomento più semplice e facile da comprendere. Ogni cosa di questo mondo ha una causa e, proseguendo nella catena di queste cause, si giunge ad una Causa Prima, cioè a Dio. Oggi questo discorso non ha molta importanza pratica. Filosofi e scienziati se ne sono occupati per confutarlo; ma il principio della Causa Prima non regge da se stesso. Quando ero giovane e studiavo questi problemi con molta serietà, ammisi per molto tempo il principio della Causa Prima. Un giorno, però, a diciotto anni, leggendo l’autobiografia di John Stuart Mill1, trovai questa frase: «Mio padre mi insegnò che la domanda: “Chi mi creò?” non può avere risposta, perché suggerisce immediatamente un nuovo interrogativo: “Chi creò Dio?”» Compresi allora quanto fosse errato l’argomento della Causa Prima. Se tutto deve avere una causa, anche Dio deve averla. Se niente può esistere senza una causa, allora perché il mondo sì e Dio no? Questo principio della Causa Prima non è migliore dell’analoga teoria indù, che afferma come il mondo poggi sopra un elefante, e l’elefante sopra una tartaruga. Alla domanda: «E la tartaruga dove poggia?» l’indù rispose: «Vogliamo cambiare discorso?» Non c’è dunque motivo per sostenere che il mondo debba proprio avere una causa ed un’origine. Potrebbe anche essere sempre esistito. È soltanto la nostra scarsa immaginazione che vuole trovare un’origine a tutto.

L’argomento della legge naturale

Questo fu uno degli argomenti preferiti durante il secolo diciottesimo, specie per l’influenza di Newton e della sua cosmogonia. A quei tempi il movimento dei pianeti attorno al sole si concepiva come comandato da Dio: i pianeti si muovevano in quel modo perché così dovevano. Semplice e comoda spiegazione che evitava un più profondo studio della legge di gravità. Oggi quel movimento lo si spiega con una complessa teoria enunciata da Einstein. Non possiamo dilungarci in particolari, ma è certo che ora non citiamo più quella legge naturale che vigeva nel sistema di Newton, secondo il quale, per motivi incomprensibili, la natura si comportava in modo uniforme. Ora appare evidente che molte delle cosiddette leggi naturali non sono altro che nostre convenzioni. Come sapete, anche nei più remoti spazi celesti, un metro si compone di cento centimetri: ciò, senza dubbio, è molto importante, ma voi certamente non lo chiamereste una legge di natura. D’altra parte, procedendo nella conoscenza dell’atomo, lo troverete molto meno soggetto a leggi di quanto potreste
1 John Stuart Mill (1806-1873), filosofo ed economista britannico. (N.d.R.) 7
pensare: le leggi alle quali si perviene sono medie statistiche come quelle che derivano dal calcolo delle probabilità. Se gettiamo i dadi, avremo il doppio sei circa una volta su trentasei. Non ce ne stupiamo. Al contrario, se il doppio sei uscisse tutte le volte, noi penseremmo subito all’esistenza di una legge vera e propria. Ci sono molte leggi naturali simili a questa. A parte ciò, il concetto che le leggi naturali richiedano un legislatore, è dovuto a confusione fra leggi naturali e leggi umane. Le leggi umane ordinano di comportarsi in un modo piuttosto che in un altro; le leggi naturali, invece, descrivono come avvengono i fenomeni. Non si può dedurne che tutto avvenga per un ordine superiore e, anche supponendolo, viene spontanea la domanda: «Perché Dio stabilì proprio queste cosiddette leggi naturali e non altre?» Se pensate che Egli abbia agito così soltanto per il proprio piacere, allora dovrete ammettere che c’è qualcuno che non soggiace a legge, e così la vostra serie di leggi naturali è interrotta. I teologi più ortodossi dicono che Dio aveva un motivo per concepire determinate leggi invece di altre: e cioè creare il migliore universo. A quanti, però, questo universo sembra il migliore? E poi, se Dio emanò leggi motivate, allora Dio stesso è soggetto a legge. Non Gli si fa gran credito introducendolo come mediatore tra legge e cosmo, postulando una legge superiore ed anteriore ai decreti divini. Dio non sarebbe più il primo e assoluto legislatore. In breve, anche questo argomento ha perduto la vitalità che poteva avere in altri tempi. Gli è che questi argomenti usati per dimostrare l’esistenza di Dio, mutano col mutare del tempo. Dapprima erano argomenti difficili e di carattere speculativo e comportavano errori ben definiti. Oggi hanno perduto anche molto del loro interesse speculativo, e riflettono sempre più concetti vagamente moralizzanti.

L’argomento del fine delle cose

L’argomento è abbastanza noto: ogni cosa è fatta in maniera tale da consentirci di vivere nel mondo, converge cioè a questo fine; un mondo diverso, invece, sarebbe privo di questa finalità. Questo, in sintesi, è l’argomento del fine delle cose. Questo fine delle cose si presenta talvolta in forma piuttosto curiosa; ad esempio, si dice che i conigli hanno la coda bianca per essere colpiti più facilmente. Chissà cosa pensano i conigli di questa interpretazione! L’argomento si presta alla parodia. Voltaire, ironicamente, dice che la forma del naso è dovuta alla necessità di adattarlo agli occhiali. Questa teoria, di vasta risonanza fino al secolo decimottavo, fu soppiantata da Darwin. Sono gli esseri viventi che si adattano al loro ambiente; non l’ambiente che si adatta agli esseri viventi. Da ciò non segue tuttavia che ci sia un fine delle cose. Approfondendo questo argomento, mi stupisco si possa credere che questo mondo, con tutti i suoi difetti, debba essere quanto di meglio onnipotenza e onniscienza siano state in grado di costruire in milioni di anni. Francamente non posso crederlo. Se voi aveste l’onnipotenza, l’onniscienza e milioni di anni a vostra disposizione, non fareste di meglio? Inoltre, se accettate le comuni leggi della scienza, dovete supporre che molto probabilmente la vita umana e la vita in generale su questo pianeta cesseranno: ci troviamo già in una fase del disgregamento del sistema solare. Osservando la luna, comprendiamo ciò che diventerà la terra: un pianeta deserto, 8
freddo e senza vita. Qualcuno dirà che questo pensiero è deprimente, toglie la gioia di vivere. Sciocchezze! Nessuno, in realtà, si affligge molto pensando a quanto avverrà fra milioni di anni. Chi dice di avere tali preoccupazioni inganna se stesso. Ci si occupa di pericoli imminenti o non molto remoti. Certamente è un poco triste pensare che tutto debba finire; però, osservando quale uso molta gente fa della propria vita, quel pensiero è quasi consolante.

L’argomento morale per dimostrare l’esistenza di Dio

Ora facciamo un passo avanti in quella che chiamerò la discesa intellettuale, compiuta dai teisti nelle loro argomentazioni per giungere ai cosiddetti argomenti morali dell’esistenza di Dio. Nei tempi passati si proponevano tre argomenti speculativi per sostenere l’esistenza di Dio. Kant ne parla nella Critica della ragion pura. A questi egli ne aggiunge un altro, di carattere morale, che lo convince appieno. Anche Kant, come tanti altri, era scettico per quanto riguarda gli argomenti intellettuali, ma abbracciava, senza riserve, i princìpi morali appresi da fanciullo, ciò che conferma la dottrina degli psicanalisti sulle esperienze dell’infanzia che lasciano tracce profonde nel carattere dell’adulto. Kant, dunque, propose un nuovo argomento morale per provare l’esistenza di Dio, che fu popolarissimo nel secolo decimonono. Questo argomento ha alcune varianti. Eccone una: non esisterebbero “giusto” ed “ingiusto” se non esistesse Dio. Per il momento trascuriamo pure la questione se vi sia differenza fra giusto e ingiusto. Il problema del quale voglio occuparmi è questo: fatta l’ipotesi che vi sia differenza fra giusto e ingiusto, mi chiedo se essa sia dovuta a Dio o no. Se è dovuta a Dio, allora per lui questa differenza non c’è e non si può più dire che Dio è buono. Se dite, come dicono i teologi, che Dio è buono, allora ne consegue che giusto e ingiusto sono in qualche modo indipendenti dalla volontà di Dio, e che non è per volontà di Dio che esiste questa differenza, ma che essa è logicamente anteriore a Dio. Si potrebbe naturalmente asserire che c’era una divinità superiore al Dio che fece questo mondo, oppure che questo fu fatto dal diavolo in un momento in cui Dio si riposava. Quest’ultima opinione, professata da alcuni gnostici, spesso l’ho condivisa. Su quest’impostazione del problema ci sarebbe molto da dire e per il momento non mi preoccupo di confutarla.

Del rimedio contro l’ingiustizia

Un altro curioso aspetto dell’argomento morale è questo: si dice che l’esistenza di Dio è necessaria per ristabilire la giustizia nel mondo, dove c’è tanta ingiustizia: i buoni spesso soffrono, i malvagi prosperano, e non so cosa sia più fastidioso; perciò, dicono, deve esserci una vita futura che ristabilisca un certo equilibrio. Quindi ci deve essere un Dio, ci devono essere necessariamente un paradiso e un inferno. Argomento alquanto specioso. Dal punto di vista del buon senso, si dovrebbe dire piuttosto: alla fin fine io conosco soltanto questo mondo. Non so nulla del resto dell’universo, ma quel che vedo in questo mondo mi basta e sopravanza per concludere che, se non c’è giustizia qua, non c’è giustizia nemmeno altrove. Se aprite una cassa di arance, e trovate che le prime sono cattive, non pensate certo che quelle sotto siano migliori, per amor di equilibrio: è molto più probabile che tutte siano cattive. La stessa cosa può dirsi dell’universo. Nel mondo non regna certamente la giustizia e questo, anziché a favore, è un argomento contro l’esistenza di Dio. Gli argomenti speculativi non spingono gli uomini a credere in un Dio: molti vi credono perché non sanno liberarsi degli insegnamenti appresi nell’infanzia. Nell’uomo c’è il desiderio di credere in Dio per bisogno di sicurezza e di protezione.

Il carattere di Cristo
Vorrei ora dire qualcosa su un argomento non sufficientemente trattato dai razionalisti: cioè se Cristo fu il migliore e il più saggio degli uomini. Si potrebbe credere che tutti siano d’accordo sull’affermativa, ma io non sono d’accordo. In molte cose potrei seguire Cristo, molto più di tanti che si professano cristiani. Ricordate che egli disse: «Non contrastate al male, anzi se qualcuno ti percuote su una guancia, tu porgigli anche l’altra». Questo precetto, non nuovo e già enunciato da Lao-Tze e da Buddha cinque o sei secoli prima di Cristo, non è certo accolto dai cristiani. Senza dubbio, il primo ministro Stanley Baldwin, ad esempio, è un convinto cristiano, ma non vi consiglio di andare a colpirlo su una guancia: vi direbbe che il principio di Cristo va inteso in senso figurato. C’è poi un altro punto che giudico molto significativo. Cristo disse: «Non giudicate acciocché non siate giudicati». Non è stato certamente questo principio ad ispirare i tribunali dei paesi cristiani. Ho conosciuto molti giudici di indiscussa fede, che giudicando non dubitavano, nemmeno lontanamente, di non agire secondo i princìpi della loro religione. Un altro precetto di Cristo, molto generoso, è questo: «Da’ a chi stende la mano e non respingere chi ti chiede un prestito». Non è il caso qui di parlare di politica: però non posso fare a meno di osservare che le ultime elezioni furono imperniate sulla questione di come rifiutare un prestito. Cosicché si deve dedurre che i liberali e i conservatori del nostro paese, in quell’occasione, si sono comportati da persone che non seguono l’insegnamento di Cristo. C’è infine un’altra massima: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, e donalo ai poveri». Principio, questo, ben poco popolare fra alcuni nostri amici cristiani. Tutte queste massime sono ottime, ma non vengono quasi mai messe in pratica. Non dirò certamente che sono io a metterle in pratica, ma, dopo tutto, io non mi dico cristiano.

Difetti nell’insegnamento di Cristo

Ho ammesso che queste massime sono eccellenti: ora ve ne cito però alcune che difficilmente permettono di riconoscere a Cristo la massima saggezza e la massima bontà. Storicamente non si sa nulla di lui, e si arriva anche a dubitare della sua esistenza. Non tratterò, quindi, questo difficile argomento. Parlerò di Cristo soltanto come ci appare dai Vangeli dove si trovano passi non molto felici. Ad esempio, egli era certo che la sua seconda venuta, nella gloria celeste, si sarebbe compiuta prima della morte dei contemporanei. Infatti Cristo dice agli Apostoli: «Voi non avrete visitato le città d’Israele prima che il Figliolo dell’Uomo non sia venuto». E poi: «Ci sono alcuni qui presenti che non gusteranno la morte, fino a che non abbiano veduto il Figlio dell’Uomo venire nel suo regno». E ci sono tanti altri passi che ribadiscono la stessa certezza che era alla base del suo insegnamento. Quando diceva: «Non preoccupatevi del domani» ed altre cose del genere, pensava che tutto ciò che era materiale non aveva importanza, perché la seconda venuta era molto prossima. So di cristiani che la ritengono imminente. Conobbi un parroco che atterriva i suoi fedeli col pensiero di questa seconda venuta; ma quelli si tranquillizzavano quando lo vedevano piantare alberi nel suo giardino. Invece i primi cristiani vi credevano realmente, e non piantavano alberi. Sotto questo aspetto, Cristo non è stato poi tanto saggio.

Il problema morale

Guardiamo, ora, il lato morale di questo insegnamento. C’è un grave difetto nella morale di Cristo: egli predicava l’inferno. A mio giudizio, chiunque abbia in sé un poco di umanità non può credere nel castigo eterno. Egli, invece, credeva nel fuoco infernale e, stando ai Vangeli, scagliava le sue invettive contro coloro che non lo ascoltavano. Atteggiamento, questo, comune a molti predicatori, ma non certo saggio e lodevole. Socrate, ad esempio, non si lasciò mai prendere dall’ira, ed anche in punto di morte usò molta dolcezza con tutti, anche con gli avversari. A coloro che non apprezzavano la sua parola, Cristo diceva. «Serpenti, progenie di vipere, come sfuggirete al castigo dell’inferno?» Celebre è la sua condanna del peccato contro lo Spirito Santo: «Chi pecca contro lo Spirito Santo non sarà perdonato né in questo mondo, né in quello futuro». Codesta minaccia ha causato sofferenze indicibili in molti che temevano di aver commesso peccati contro lo Spirito Santo. Frasi di questo genere hanno recato paura e terrore all’umanità, e non mi sento di riconoscere un’eccezionale bontà in chi le pronunciò. E ancora: «Il Figlio dell’Uomo invierà i suoi angeli, ed essi raduneranno tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente. Ivi sarà pianto e stridor di denti». Queste ultime parole vengono ripetute varie volte, sicché è palese una certa soddisfazione nel pensare a questo spettacolo. Ricordate, inoltre, la parabola del pastore che separa le pecore dai capretti: anche Cristo separerà gli uomini alla sua seconda venuta. Ai cattivi dirà: «Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno. E questi andranno nel fuoco eterno». Altro passo significativo: «Se la tua mano ti fa peccare, tagliala; è meglio per te entrare monco nel regno che andare con due mani nell’inferno, dove il fuoco non si estingue e il verme non muore». E lo dice e lo ripete. Questa del fuoco infernale, come punizione al peccato, è una dottrina che ha attizzato la crudeltà. E se il Cristo dei Vangeli fu veramente come ci è descritto dai suoi biografi, ne è in parte responsabile. Tante altre cose si potrebbero ricordare. C’è, ad esempio, l’episodio dei maiali di Gerasa: i demoni furono costretti ad entrare nel corpo di maiali, che poi precipitarono nel mare. Tutto ciò non fu molto gentile nei riguardi dei maiali, tanto più che, data la sua onnipotenza, Cristo poteva semplicemente scacciare i demoni, senza disturbare i poveri animali. C’è poi la parabola del fico: «Egli ebbe fame; e vedendo di lontano un fico fronzuto, andò a vedere se vi fosse anche frutto; ma essendosi avvicinato, non vi trovò che foglie; perché non era la stagione dei fichi. E Gesù prese a dire al fico: “Nessuno mangi più del tuo frutto”»... E Pietro... gli disse: «Maestro, il fico che tu maledicesti, è seccato». Racconto alquanto deprimente e che mi ha sempre lasciato perplesso. Quale colpa aveva l’albero, se non era la stagione dei frutti? Concludendo, la storia ci presenta persone ben più sagge e virtuose di Cristo; citerò soltanto Buddha e Socrate, che, sotto questo aspetto, mi appaiono molto superiori.

Il fattore emotivo

Come ho detto, il vero motivo per cui si accetta una religione non ha niente a che fare con le argomentazioni. L’adesione si basa su fattori emotivi. Si dice che non bisogna combattere la religione perché questa rende l’uomo virtuoso. Io non la penso così. Ricordo la gustosa parodia che di questo argomento fa Samuel Butler nel suo libro Erewhon Revisited. Il protagonista, un certo Higgs, dopo aver trascorso qualche tempo in un lontano paese, fugge su un pallone. Quando ritorna, vent’anni dopo, trova che è sorta una nuova religione, che lo venera come Figlio del Sole, salito in cielo. Si sta per celebrare la festa dell’ascensione; i professori Hanky e Panky, eminenti sacerdoti della nuova religione, stanno discorrendo fra loro e si rallegrano che Higgs non si sia fatto più vedere. Indignato, Higgs si avvicina e minaccia di svelare al popolo di Erewhon tutti i loro imbrogli. Essi lo pregano di non farlo, perché sul mito della sua ascesa in cielo si regge tutta la moralità del paese, e la corruzione dilagherebbe se la verità fosse risaputa. Higgs si lascia persuadere e se ne va via tranquillo. Con un ragionamento analogo, si bolla di malvagità chi non aderisce alla religione cristiana. Spesso, invece, è vero proprio il contrario. Possiamo constatare che, in ogni epoca, l’intensità della fede religiosa è andata di pari passo con inaudita crudeltà e scarso benessere. Ricordiamo tutti il periodo dell’Inquisizione: tante povere donne bruciate perché considerate streghe, e mille altre torture inflitte in nome della religione. In ogni tempo si è manifestata una ferma opposizione da parte delle Chiese contro ogni forma di progresso in campo morale e umanitario: dalla riforma delle leggi penali ai tentativi di evitare le guerre; dal miglior trattamento delle razze di colore all’abolizione della schiavitù. Il cristianesimo, così com’è organizzato, è stato ed è tuttora il più grande nemico del progresso morale nel mondo.

Perché la Chiesa ha ritardato il progresso

Penserete che mi spingo troppo oltre, dicendo che è così anche ora. Vi citerò un esempio, e scusatemi se l’argomento è poco piacevole. Supponete che una ragazza inesperta si sposi con un sifilitico. Ogni tentativo di sciogliere il matrimonio ed evitare così la nascita di figli ammalati, riuscirà vano, perché «il matrimonio è un sacramento indissolubile, e deve durare tutta la vita». Questa è la cruda risposta della Chiesa cattolica. Chiunque abbia un poco di cervello, e non sia annebbiato da dogmi, deve riconoscere quanto iniqui siano certi rigori. Questo è soltanto un esempio, ma sono innumerevoli le sofferenze non necessarie e non meritate che la Chiesa provoca in nome della sua morale. Questa morale si basa su un certo numero di regole che non hanno niente a che vedere con la felicità dell’uomo, e che contribuiscono ad aumentare le sofferenze dell’umanità. E se qualcuno suggerisce innovazioni per rendere più armoniosa la vita la Chiesa risponde che lo scopo della morale non è la felicità.

Il timore, fondamento della religione

Secondo me la religione si basa, essenzialmente, sulla paura. In parte è il terrore dell’ignoto, in parte, come ho già detto, il bisogno istintivo di immaginare qualcuno che ci aiuti e ci protegga nei pericoli: suppergiù una specie di fratello maggiore. In principio, dunque, fu la paura: paura dell’occulto, paura dell’insuccesso, paura della morte. La paura porta alla crudeltà, ed è per questo che crudeltà e religione stanno bene insieme. Oggi, tanti fenomeni non sono più misteriosi grazie alla scienza, che si è opposta alla religione cristiana, alle Chiese, e a tutti i princìpi anacronistici. La scienza può aiutare l’umanità a superare questa vile paura, nella quale ha vissuto per tante generazioni. Con l’aiuto della scienza e del nostro cuore, impareremo a non cercare aiuti immaginari, a non inventare alleati in Cielo, ma piuttosto a valerci delle nostre forze per rendere questo mondo più piacevole e diverso da quello che è divenuto, in questi secoli, sotto l’influsso delle Chiese.

sabato 29 novembre 2008

Saggezza


COSA DOBBIAMO FARE

Dobbiamo essere pratici, vedere il mondo nella sua giusta luce, coi suoi pregi e i suoi difetti. Non dobbiamo temerlo, ma conquistarlo con l’intelligenza, e non esserne schiavi. La nostra concezione di Dio deriva dall’antico dispotismo orientale, ed è una concezione indegna di uomini liberi. Non ha rispetto di se stesso chi si disprezza e si definisce miserabile peccatore. Dobbiamo aver fiducia in noi stessi, e guardare il mondo con sicurezza. Dobbiamo rendere questo mondo il migliore possibile, e se non è proprio come lo desideriamo, sarà sempre migliore di come ce lo hanno ridotto. Un mondo migliore richiede sapere, bontà e coraggio. Non bisogna rimpiangere il passato o soffocare la libera intelligenza con idee, che uomini ignoranti ci hanno propinato per secoli. Occorre sperare nell’avvenire, e non voltarsi a guardare a cose ormai morte, che, confidiamo, non rivivranno più in un mondo creato dalla nostra intelligenza.

Bertrand Russell


mercoledì 26 novembre 2008

Il mio nome è depressione


Depressione
Mikhail Khazin: Gli Stati Uniti Affronteranno Presto una Nuova "Grande Depressione"
Il noto economista aveva previsto la crisi finanziaria statunitense fin dal 2000

di Yevgeniy Chernyx (Komsomolskaya Pravda, 10 novembre 2008)
da ComeDonChisciotte


Cinque anni fa dirigevo le pagine culturali della Komsomolskaya Pravda. Era normale che le case editrici mi inviassero mucchi di novità da recensire. Un giorno, scavando all'interno dell'ultimo carico di libri, mi sono imbattuto in un volume intitolato "Il Tramonto dell'Impero del Dollaro e la Fine della Pax Americana".
Ricordo di essermi ripetuto il titolo, tra me e me, in tono incredulo. Ai vecchi tempi, gli americanologi dell'Unione Sovietica adoravano dibattere sul collasso dell'impero finanziario statunitense. Ma questo libro era del 2003.
Lo sfogliai, dando una rapida occhiata al testo. La conclusione dell'autore (l'economista Mikhail Khazin) sembrava piuttosto convincente. Perciò passai il libro alla sezione economica della KP, curata da Jenya Anisimov, che scrisse una  recensione e in seguito intervistò l'autore nella nostra redazione.
In questi anni non mi sono scordato di Khazin e ne ho seguito la carriera, mentre teneva svariate conferenze in tutta la Russia. Sembrava sicuro che gli U.S.A. si trovassero sull'orlo di un crollo economico, teoria che gli altri analisti si affrettavano a rifiutare. E oggi, mentre la sua prognosi, un tempo così ostica, comincia ad avverarsi, la KP ha contattato Khazin per un'altra intervista.

Licenziato dal Cremlino!

KP: Mikhail Leonidovich, cos'è che l'ha portata a predire l'attuale crisi finanziaria?

Khazin: Nella primavera del 1997 il Cremlino costituì il Dipartimento Economico della Presidenza, e io ne fui nominato vicedirettore. Il nostro primo incarico fu la stesura di un rapporto per [l'allora Presidente Boris] Eltsin, riguardo la situazione economica. Rilevammo che per la Russia una crisi economica era imminente, e che si sarebbe scatenata tra la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno del 1998, a meno che la politica economica del paese non fosse cambiata.

KP: Quali spunti presero le alte sfere dal vostro rapporto?

Khazin: Nessunissimo, in realtà. A parte il vicepresidente e lo stesso Eltsin, nessuno lesse il rapporto. Nell'estate del 1998, l'Amministrazione ci licenziò tutti, perché avevamo cercato di bloccare un progetto di investimenti chiamato "Titoli di Stato - Corridoio dei Tassi di Cambio". Si trattava della più grande operazione finanziaria dell'era post-sovietica. Come avevamo previsto, la crisi economica colpì quello stesso agosto. Insieme ai miei colleghi, ho continuato a esaminare le ragioni di quella crisi. Dopo aver studiato approfonditamente il sistema finanziario statunitense, rilevammo un parallelo fin lì ignorato. Così come il nostro mercato dei Titoli di Stato aveva prosciugato l'economia russa, il mercato finanziario statunitense stava risucchiando le risorse dell'intero pianeta. Ci rendemmo conto che un destino simile attendeva il sistema finanziario degli U.S.A. Il nostro articolo venne pubblicato nell'estate del 2000, sulla rivista Ekspert, col titolo "Gli Stati Uniti Stanno Spianando la Strada all'Apocalisse?" La nostra conclusione era che una crisi economica statunitense fosse inevitabile quanto il collasso finanziario russo.

Fare gli Scemi

KP: Evidentemente negli U.S.A. non avevano ascoltato la canzone dei LUBE [gruppo rock russo] durante la Perestroka, "Don't Play the Fool, America!" Seriamente, comunque, qual è la vera ragione di questo crollo economico? Cerchiamo di spiegarlo senza ricorrere a un linguaggio troppo tecnico...

Khazin: Ci proverò! Il modello economico che ha portato al crollo è derivato dalla crisi degli anni 70. Fu una tremenda crisi finanziaria causata dal surplus di capitale. Persino i classici dell'economia del XIX secolo avevano concluso che il capitale tende a crescere più velocemente dei redditi da lavoro. Questo porta a una diminuzione della domanda. Nel capitalismo tradizionale, il problema si risolveva in una crisi di sovraproduzione, e in un'economia di tipo imperialistico in una fuga di capitali. Ma, arrivati agli anni 70, questi sfoghi non funzionavano già più. Eppure, la situazione internazionale esigeva che gli Stati Uniti effettuassero un grande balzo tecnologico in avanti, o avrebbero perso la Guerra Fredda con l'Unione Sovietica. L'amministrazione Carter e il presidente della Federal Reserve Paul Walker elaborarono un'idea molto scaltra. Per la prima volta nella storia del capitalismo, i capitalisti iniziarono ad aiutare la collettività, mettendo in circolazione nuova moneta che stimolasse la domanda aggregata.

KP: Decisero di far andare le stampatrici?

Khazin: Esatto. Nei primi anni 80 cominciarono a stimolare la domanda tramite i contributi dello Stato. Per esempio, lanciarono il programma delle "Guerre Stellari". E nel 1983 misero l'accento sui risparmi delle famiglie.

KP: Intende dire che si affidarono al cittadino qualunque?

Khazin: Sì. Per un intero quarto di secolo, nell'economia delle famiglie è stata riversata una quantità di valuta sempre maggiore.

KP: In parole povere, parliamo di credito?

Khazin: Sì. Gli Stati Uniti furono in grado di raggiungere un ulteriore traguardo del progresso tecnologico grazie a questo eccesso di domanda. Ottennero il collasso dell'Unione Sovietica e fugarono molti dei loro maggiori timori. Ma... L'espansione si era realizzata grazie a risorse che avrebbero dovuto provvedere alla crescita futura. Il paese divorava sostanze con due generazioni di anticipo. Gli Stati Uniti accumularono un debito spaventoso. Risulta evidente se confrontiamo la crescita del debito delle famiglie coll'insieme del debito statunitense e col PIL. L'economia cresce a un tasso annuale del 2-3%, al massimo del 4. Ma il debito cresce a un tasso dell'8-10%.

KP: Be', che cresca pure... Finora gli Stati Uniti se la sono cavata alla grande... Meglio di noi!

Khazin: Sì, gli U.S.A., stimolando la domanda nei consumatori, hanno creato un alto tenore di vita. Intere generazioni hanno vissuto senza conoscere la povertà. Ma è impossibile vivere per sempre a credito. Il debito delle famiglie è diventato più grande dell'economia nazionale, più di 14 bilioni di dollari. E adesso siamo all'incasso. Ovviamente, Wall Street ha cercato di rimandare il crollo. Non voglio entrare nel dettaglio dei titoli derivati e di altri simili prodotti finanziari, basti dire che si trattava di un ultimo respiro prima dell'inevitabile soffocamento.
Un ulteriore problema degli Stati Uniti è che intorno alla domanda in crescita sono state create grandi industrie. Qualunque decisione prenda Wall Street, la domanda è destinata a precipitare. Cosa ne sarà di queste aziende? Nel 200 stimammo che sarebbe scomparso il 25% dell'economia statunitense. Oggi riteniamo che la percentuale più verosimile sia un terzo, se non di più.

KP: È davvero tanto!

Khazin: È una quantità enorme. Ma cosa comporta esattamente questo, la distruzione di un quarto dell'economia degli Stati Uniti? Comporta una crescita incontrollabile della disoccupazione, una gravissima depressione, una brusca impennata dell'incidenza dei servizi sociali sulla spesa pubblica... In questo momento gli Stati Uniti si agitano nel tentativo di salvare questa porzione dell'economia. Il governo sta aiutando banche e industria manifatturiera... Ma nonostante tutto, entro due o tre anni gli Stati Uniti dovranno fronteggiare una crisi simile alla Grande Depressione.


Mikhail Leonidovich Khazin è nato nel 1962. Ha studiato matematica all'Università di Stato di Yaroslavl e all'Università di Stato di Mosca. Dal 1984 al 1991 ha lavorato all'Accademia Sovietica delle Scienze. Tra il 1993 e il 1994 ha lavorato al Centro Studi Statale per le Riforme Economiche. Tra il 1995 e il 1997 è stato a capo del Dipartimento per la Politica del Credito presso il Ministero dell'Economia. Tra il 1997 e il 1998 è stato vicedirettore del Dipartimento Economico della Presidenza. Nel giugno del 1998 ha lasciato il pubblico servizio. Attualmente è il presidente della ditta di consulenza Neokon.

originale

Traduzione di Domenico D'Amico

lunedì 24 novembre 2008

Il Venezuela e la disinformazione sempiterna

Chavez ELEZIONI AMMINISTRATIVE IN VENEZUELA
un paese e il suo futuro
di Gennaro Carotenuto (da Giornalismo Partecipativo)


Domani si vota per le amministrative in Venezuela*. Dai massimi storici del 2004 il Partito Socialista Unitario (PSUV) del presidente Hugo Chávez, che secondo alcuni sbrigativi commentatori sarebbe un dittatore, prova a tenere le posizioni.
Conta su dati positivi ineludibili di dieci anni di governo bolivariano, in pace e in democrazia, che analizzeremo qui sotto, come è sempre stato in Venezuela anche quando lo scorso anno per la prima volta Chávez fu sconfitto e gli ipercritici che vaticinavano un golpe fecero finta di sorprendersi dell’ennesima prova di democrazia. Ovviamente anche questa volta per ogni governatorato e ogni sindaco perso, migliorare è impossibile, gli canteranno il “de profundis”.
Nonostante gufi e avvoltoi, ed un contesto che non è più in crescita, secondo i sondaggi il governo dovrebbe mantenere la maggioranza in almeno due terzi degli stati del paese. I principali fattori di preoccupazione sono il prezzo del petrolio che è in picchiata, e le incognite date dall’uscita o non entrata nel partito unitario di vari dirigenti storici. Questi a volte si candidano come terzo incomodo oltre al candidato del PSUV e a quello dell’opposizione. Per Chávez, inoltre, è la prima prova elettorale dopo la sconfitta di strettissima misura nel referendum costituzionale dello scorso dicembre. Una sconfitta venuta dopo un decennio di democratizzazione e inclusione vera nel paese e dopo una dozzina di vittorie elettorali consecutive, nel paese più monitorato al mondo.
I critici picchiano anche sull’inflazione e hanno ragione perché quest’anno chiuderà intorno al 30%. Hanno ragione ma anche torto perché con Chávez l’inflazione, comunque strutturalmente alta, è diminuita. Basta guardare alle presidenze dell’ultimo quarto di secolo. Con Jaime Lusinchi (1984-88) fu del 22.7%; con Carlos Andrés Pérez (1989-93) del 45.3%; con Rafael Caldera (1994-98) addirittura del 59.4%; con Hugo Chávez (1999-2007) del 18.4%. Chi in questi anni ha letto centinaia di contritissimi articoli sull’inflazione chavista mediti su questi dati e provi a ricordare se ha mai letto di tanta preoccupazione prima di Chávez.
Conosciamo i nomi dei falsificatori e occultatori, che mai pubblicano i dati più significativi della storia di questo decennio in Venezuela. Sono il gruppo mediatico spagnolo Prisa innanzitutto, quello di El País di Madrid che sta dedicando alle elezioni venezuelane lo stesso spazio di quello che dedica alla elezioni in Gallegolandia (la Spagna), la Sociedad Interamericana de Prensa (SIP), la CNN, la Fox, le messicane Televisa e Tv Azteca, la brasiliana Tv Globo, il gruppo argentino del Clarín, lasciando da parte i media venezuelani e i guitti nostrani, i Rocco Cotroneo e gli altri quaquaraquà della nostra stampa.
Perché non scrivono mai che l’indigenza in Venezuela è passata dal 20.3 al 9.4%? Perché non scrivono mai che la povertà si è ridotta dal 50% al 33%? Perché dimenticano che il salario minimo dei lavoratori (con una disoccupazione scesa dal 16 al 7%) è passato da 154 a 286 dollari ed è il più alto dell’America latina? Perché dimenticano che la mortalità infantile (il più indicativo della salute generale di un paese è passato da 21 a 14 per mille)? Molto resta da fare ma il PIL dedicato alla salute è stato quasi raddoppiato in dieci anni così come quello dedicato all’educazione. Ciò senza citare mille altri fattori di progresso e di uscita da un sottosviluppo atavico. E allora perché tanto catastrofismo? Chi scrive fa salva la buonafede preferendo passare da ingenuo. Tanto catastrofismo si giustifica perché continuano a parlare sempre e solo con i ricchi. Ricordate Raffaele Bonanni che nel dire che il Venezuela era peggio della Cambogia di Pol Pot ammise di non essersi mai affacciato fuori dal suo albergo di lusso? Ricordate Ettore Mo che per andare a prendere il caffé si metteva il giubbotto antiproiettile? E se i ricchi restano straricchi (e ben pochi sono andati a Miami) i ricchi in Venezuela sono tristi perché sono meno sideralmente distanti dal resto della società.
E arriviamo all’ultimo inspiegabile dato che i disinformatori di professione preferiscono non dare: se chiedi a tutti i venezuelani e non solo a quelli che hanno sempre tenuto il paese in pugno il Venezuela è forse il paese più ottimista al mondo. Secondo Latinobarometro (il corrispettivo di Eurobarometro e lontanissima dal potersi definire filochavista), la maggior parte dei venezuelani (il 50%) considerano che il futuro del paese sarà molto migliore contro solo il 31% del resto della Patria grande. L’economia attuale è “molto buona” per il 52% dei venezuelani mentre appena il 21% dei latinoamericani pensa lo stesso. Nel 1998 solo 35 venezuelani su 100 dichiarava di credere nella democrazia. Oggi dopo un epocale processo di inclusione sociale siamo arrivati al 59% e addirittura il 67% dichiara di aver fiducia nello Stato. Lo stesso Chávez continua ad avere la fiducia di sei venezuelani su dieci.
Si potrebbe continuare a lungo, ma sempre ricordando che questi dati sono occultati dalla stampa mainstream. Dopo dieci anni il governo bolivariano entra in una fase nuova e più difficile dove con il prezzo del petrolio in caduta lo Stato avrà più difficoltà ad approfondire la democratizzazione reale del paese. Ma il Venezuela è cambiato in questi dieci anni e solo in meglio. E chi lo nega non è in buona fede.



* Articolo chiuso in tipografia lunedì 17/11.

giovedì 20 novembre 2008

Cinema (tra l'altro)

RACCONTA E ANCORA RACCONTA

 obamatubesNanolitografie di Barack Obama (mezzo millimetro) realizzate con nanotubi di carbonio



Essendo tutt'altro che immune agli effluvi di speranza che si levano dall'intero globo, in amorosa e simbolica rispondenza al primo african american insediatosi (a breve) nella Casa Bianca, mi sento quasi colpevole a occuparmi, di nuovo e ancora, di voluttuariaggini come il cinema coreano.

Ma, insomma, la vita va avanti. Assicurazioni e banche intascano i soldi del bailout e li distribuiscono agli azionisti o li ficcano nel materasso, entro il 2011 gli USA lasceranno l'Iraq lasciandovi megafortezze altro che la Bastiani, e Tremonti (davanti alla Commissione Bilancio) contesta chi dice che le iniziative del governo sono solo finanziarie: e il nucleare cos'è, se non economia reale?

Tanto è in arrivo una nuova Grande Depressione (citata, scusate tanto l'autopromozione, nella primissima pagina del nostro romanzo).

Ma veniamo alle cose davvero importanti.

Dubito che, almeno su questo pianeta, ci sia qualcuno che apprezzi la prassi dell'industria cinematografica janqui di riadattare film stranieri per il mercato interno. Tuttavia, di per sé il remake non è maligno. Da che mondo è mondo le storie vengono narrate e ri-narrate (sorvoliamo sull'eterno interrogativo, se esistano storie che non siano il ri-racconto di un racconto). Il fatto che una delle versioni della storia di Medea, per millanta ragioni, passi oggi per quella autentica, non ci autorizza a dimenticare le altre (Christa Wolf docet). E nemmeno siamo costretti a scegliere tra l'Oreste di Eschilo e quello di Euripide, anche se Aristofane ci fa sapere che il dibattito sul tema remake è antichissimo.



Faust



Quindi la questione non è se sia una bella cosa rielaborare un racconto adattandolo all'epoca o al gusto locali: lo si fa e basta. Ma possiamo legittimamente attribuire un valore (più o meno aleatorio) al remake che abbiamo davanti. Certo, con l'avvento della figura dell'autore nella cultura occidentale le cose si sono complicate, tanto da rendere problematico affermare che il Faust di Mann sia una rielaborazione di Goethe, o che l'Ulisse di Joyce racconti di nuovo l'Odissea. Ma, visto che parliamo di remake cinematografici, mettiamo da parte queste difficoltà...

Occorre comunque chiarire l'ovvio: il remake, nel linguaggio corrente, indica un film che trae la sua origine da un altro film. Questo significa che, colloquialmente, non possiamo definire She's the Man un remake della Dodicesima Notte di Shakespeare, così come Cruel Intentions non è un remake delle Relazioni Pericolose di Laclos, o My Fair Lady di Pigmalione, non più di quanto chiameremmo Romeo and Juliet un remake di Matteo Bandello.



shesthemanShe's the Man



Cruel IntentionsCruel Intentions



Nel cinema statunitense il remake non riguarda solo i film stranieri, al contrario. L'intrattenimento di massa non può certo rinunciare a una buona storia, e se il pubblico cambia, così cambiano anche le penne del racconto. Un esempio per tutti: Prima Pagina. Tra la prima versione, del 1931, e quella successiva del 1940 (quella con Cary Grant)) di Howard Hawks, assistiamo a uno spostamento di genere: il giornalista che vuole sposarsi è uomo in Milestone, donna in Hawks. Le due versioni successive del racconto ripetono il cambio: il celebre film di Billy Wilder con Lemmon e Matthau presenta la versione maschile, mentre il remake di Ted Kotcheff (con Kathleen Turner e Burt Reynolds) torna a quella femminile (e infatti non si rifà affatto a Wilder, ma a Hawks).

Quello che ci interessa, visto che stavamo parlando della nostra possibilità di valutare le singole versioni di un racconto, è come sembri “normale”, nel film del 1940, che la giornalista di punta sia una donna, e come sembri altrettanto scontato, nel 1974 di Wilder, che sia un uomo, per arrivare al 1988 di Kotcheff, con una “normalissima” anchorwoman da prima serata. Avrebbe senso parlare di sessismo, se non fosse che sia Wilder sia Hawks sono una delizia per il palato, mentre l'aver recuperato la protagonista femminile non salva Kotcheff dalla mediocrità.



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 His Girl Friday



Ma, anche volendoci andar piano coi giudizi di valore, è indubbio che parecchi remake janqui (adesso parliamo dei film stranieri) facciano gridare l'ottava musa come un Bondi che scoprisse che Silvio non l'ha mai veramente amato.

Non è stato bello vedere un gioiellino di commedia come Certi Piccolissimi Peccati  trasformato in quella deprimente svangata di La Signora in Rosso, una bomba sensuale come Profumo di Donna di Dino Risi impietrito nell'intediato Scent of a Woman (che ha un solo pregio: Giancarlo Giannini che doppia Al Pacino), lo sconnesso ed esagerato Nikita di Luc Besson sbollito nel pateticissimo Nome in Codice: Nina di John Badham, il tenero Tre Uomini e una Culla (Trois Hommes et un Couffin) di Coline Serreau nell'allucinante Tre Scapoli e un Bebè (3 Men and a Baby) di Leonard Nimoy... E via e via (sono solo i primi che mi sono venuti in mente).

Qui le questioni etiche o ideologiche non vengono trascese dall'arte del racconto. Tanto per dire, tanto in Nikita quanto nel remake la protagonista, a un certo punto, ha un assaggio di vita “normale”, può quasi far finta di non essere un sicario del governo, e conosce un bravo ragazzo che, ovvio, si innamora di lei. Ma il rapporto è travagliato, lei porta scritto in faccia “madonna, se sono traumatizzata”, e di certo non gli può spiattellare “senti, tesoro, sono un'ammazza-poliziotti trasformata dai servizi segreti in un killer di stato, passami l'insalata”... Ora, nell'originale francese il ragazzo in questione, di fronte al segreto grondante dolore della ragazza, assume un atteggiamento di totale apertura e accettazione: le offrirà il cuore (e il suo aiuto) senza condizioni o contropartite. Ma nel rifacimento janqui, probabilmente, questo sarà sembrato poco equanime. Il ragazzo in questione rivendica il suo diritto di avere un ruolo nel rapporto. Omme 'e mmerda. Più che il politically correct, qui emerge lo spicciolo pragmatismo dei manuali USA di savoir vivre, emerite merdate del genere “non puoi amare gli altri se prima non ami te stesso”.

Tanto per ridire, nel film di Colin Serrau si giunge a una (utopistica) transvalutazione dei ruoli familiari e di genere, fino alla aggregazione di una sorta di neo-famiglia innervata (ecco, di nuovo) dall'accettazione e dal dono di sé. Gli janqui hanno trovato la cosa talmente inaccettabile da dover girare un seguito in cui la situazione scandalosa della povera bambina (una famigliola con mamma e tre papà, non scherziamo: i compagnucci della parrocchietta resteranno traumatizzati) venisse sistemata da un matrimonio riparatore (per quanto non col genitore biologico dell'infante)!

Non ci posso credere, tutto questo sproloquio solo per arrivare al vero argomento di questo post: il remake statunitense di My Sassy Girl.

Non è colpa mia. La natura mi ha fatto logorroico, e il Dottore (che, ricordiamolo, pratica la psichiatria) non è in grado, o non vuole aiutarmi. O forse gli Illuminati tramano contro di me. Va a sapere.

Dicevamo, il remake di My Sassy Girl.

Io non sono uno di quei fanatici che tirano fuori il sovrapposto quando parlano dei film janqui di derivazione orientale. The Ring? Ti sparo in testa! Dark Water? Ti sparo in faccia! Pulse? Ti sparo in bocca! The Eye? Ti sparo negli occhi! La Casa sul Lago del Tempo? Ti sparo nel culo!

Difatti, e so benissimo di rischiare la vita nel dirlo, certi remake possono essere meglio dell'originale. Qui lo dico e qui lo denego, ma, insomma, d'accordo che mettere la bionda Watts al posto di Natsushima sia una limpida metafora del manco tanto velato razzismo che sottende (coesiste e consiste) al protezionismo culturale che genera tanti di questi rifacimenti, ma il Ring rifatto, ammettiamolo, è più impressionante. E direi la stessa cosa per The Grudge, se non fosse che il regista (Takashi Shimizu) è lo stesso, quindi fa categoria a sé.

Con My Sassy Girl USA, invece, sono in una botte di ferro.

Sì, questo film fa pena.



elishacuthbertmysassygiqb5My Sassy Girl



Avevo forse esagerato nel paragonare sfavorevolmente Elisha Cuthbert a Jeon Ji-hyeon (protagoniste delle due Sassy Girl), ma solo in moderazione. L'inerzia, la legnosità che l'attrice janqui sfoggia in questo remake ha del misterioso. Intendo dire che in altre prove, sia televisive sia cinematografiche, l'abbiamo vista recitare passabilmente. Qui no, sembra convinta che una specie di broncio pensieroso sia capace di veicolare le tempeste interiori di una ragazza piuttosto bipolare col cuore parecchio spezzato. Conseguenza, la sua figura perde l'ombra di commossa comicità dell'originale coreano. Ma fosse solo questo. Anche qui, come detto più sopra, si assiste a una insopportabile avarizia sociale da parte degli adattatori statunitensi. Cos'è, era troppo far vomitare la ragazza sul parrucchino di un tizio in metro? Cos'è, mettersi le scarpe di lei, per giunta in pubblico, con la ragazza che corricchia e ridacchia, è troppo degradante per il maschio USA? Non voglio dire che un rifacimento si debba giudicare dagli elementi narrativi che mancano (rispetto alla precedente versione), al contrario, bisognerebbe guardare a ciò che c'è in più e di diverso...

Ma la Sassy Girl USA sembra realizzata sforbiciando pezzi da quella coreana. La deprivazione emotiva, in fin dei conti, rende inspiegabile la storia tra i due protagonisti, lui non è veramente un bamboccione, lei non è veramente instabile... E quello che c'è in più, nella Sassy USA, è un profluvio di spiegazioni psicologiche (del comportamento di lei) che farebbero la gioia di un sociologo da rotocalco.

Accidenti, dico io. Perché, perché lo fate?

E sono in arrivo i remake di A Tale of Two Sisters e Into the Mirror.



mirrors_ver3Mirrors (remake di Into the Mirror)



uninvitedThe Uninvited (remake di A Tale of Two Sisters)



Attendete.

Tremate.

Molla il mio parrucchino!



Domenico D'Amico

lunedì 17 novembre 2008

Dice Dio, dico io

ME LO HA DETTO DIO!


Thomas Paine ha detto: "Rivelazione, nell'ambito religioso, indica qualcosa comunicata direttamente da Dio all'uomo. Nessuno nega o mette in discussione il potere dell'onnipotente di fare una cosa del genere, se lo desidera. Ma ammettere che, guarda caso, una cosa è stata rivelata ad una certa persona e non ad un'altra, significa che la rivelazione vale solo per questa persona. Quando la prima persona dice questa cosa ad una seconda persona, e la seconda ad una terza persona, la terza alla quarta e così via, essa non è più una rivelazione: sarà una rivelazione per la prima persona certo, ma per tutti gli altri sarà una diceria, quindi non sono obbligati a crederci."
Sono d'accordo. A tale riguardo mi viene da pensare ai Dico, o se preferite la legge sulle coppie di fatto. Mi riesce davvero difficile credere che da quelle dicerie possano derivare precetti così categorici su simili minutaglie. Come è possibile che quei buffi signori con la tonaca sappiano con esattezza così spietata  che Dio sia tanto preoccupato dal fatto che due persone, non importa il sesso, si mettano insieme, condividano la propria esistenza, facciano sesso, figli e vadano a cena con altre coppie pari loro?
Lo so, è anticlericalismo ottocentesco, ma che volete: io sono uno alla buona. Io non capisco le profondità filosofiche di un Pera o di un Tremonti, che vedono nella fede qualcosa che "trascende" la fede stessa.
Gli uomini buffi con tonache e strani paramenti dicono che è lo Spirito Santo che li guida nelle giuste decisioni. Peccato che detto spirito ami contraddirsi e non poco, visto che, tanto per fare un esempio, prima guida un tal papa Formoso verso i sentieri illuminati dell'onniscienza e poi allo stesso modo guida Papa Stefano VI, successore di Bonifacio VI, che si prende la briga di disseppellire Formoso, fargli il processo da cadavere e "condannarlo a morte". Strani questi infallibili, che sono sempre infallibili anche quando se le suonano di santa ragione e si contraddicono a piè sospinto. "Lo spirito Santo è il sacro motore della dialettica della storia", ribattono gli uomini buffi, quindi può fare e disfare come gli pare: la dialettica va così, che diamine, altrimenti che dialettica sarebbe?
Mi arrendo. È che non sopporto l'idea che secondo questo signori della diceria all'ennesima potenza, Dio non vuole che una blastocisti, che  è una struttura che si forma nella prima parte del processo di embriogenesi, dopo la formazione del blastocele, ma prima dell'impianto, venga utilizzata per ricavarne cellule staminali, perchè in fondo anche se solo potenzialmente, è una vita umana. Ergo i cosiddetti embrioni congelati che non vengono utilizzati si devono buttare nel cesso, perchè così si rispetta la vita umana.
D'accordo, le cellule staminali si possono ricavare in altri modi, non debbono essere necessariamente cellule staminali embrionali, possono benissimo essere cellule staminali adulte e quindi essere ricavate, ad esempio, da cordoni ombelicali. Ma perchè precludersi questa possibilità, che a detta di tutti potrebbe rappresentare una vera manna per la ricerca? Davvero è meglio buttarli, gli embrioni? Il fatto è che per gli uomini buffi è sicuramente meglio così, perchè sono preoccupati unicamente di perdere il loro ruolo di fini dicitori dell'altissimo, che è l'unico mestiere che sanno fare. Per quanto riguarda il rispetto della vita umana gliene importa un fico secco, altrimenti avrebbero incenerito Bush.
La verità (quella vera) è che se non si fanno sentire la gente potrebbe accorgersi che non c'è più bisogno di loro e delle loro rivelazioni.

Franco Cilli

domenica 16 novembre 2008

Genova 2011

NOI CHE ABBIAMO VISTO...

Sono stato a genova nel 2001, come sanitario del GSF e ho visto tutto quello che c'era da vedere: teste rotte, nasi sanguinanti, cariche della polizia contro gente inerme, elicotteri che sparavano lacrimogeni dall'alto. Ho percepito il panico della folla e mi sono misurato con la mia paura. Quello che è accaduto è grave, ma ancora più grave è l'assoluzione dei responsabili di tutto ciò. 
Sul treno che mi riportava a casa, una volta che tutto sembrava finito, ho appreso della Diaz, ma non mi sono meravigliato, ho solo provato rabbia e vorrei che quel collega con gli anfibi militari provasse per una mezz'ora quello che lui ha fatto provare ad altri.
Quando sento parlare di mattanza, il mio pensiero oltre che a Genova, va alle  mattanze in America Latina e in Africa, dove la repressione è feroce e le mattanze significano centinaia o migliaia di morti. A Genova, Carlo Giuliani è morto, ha pagato il prezzo della nostra presunzione di cambiare il mondo. Nessuno pagherà per questa morte come nessuno ha pagato per le tante stragi in tutto il mondo, commesse nel nome di un'unica logica: mantenere in piedi un mondo dove una minoranza si ingrassa sulla pelle della maggioranza  e divora l'ambiente come un'idrovora impazzita.
Io credo fermamante che le ideologie non servano a niente, stiamo per affrontare una crisi che richiederà il massimo di coesione fra coloro che abbiano un minimo di barlume etico. Ci saranno altre Genova e ci saranno gli appestati di turno che diverranno capri espiatori.
Che senso ha continuare a dividerci?
 

Franco Cilli

mercoledì 12 novembre 2008

Dell'Utri, la mafia, il fascismo

COSÌ PARLÒ MARCELLINO


di Gianni Barbacetto


L'antifascismo? "Un concetto obsoleto". Mussolini? "Un uomo di valore". L'antimafia? "Troppo costosa". Saviano? "Il suo libro ha enfatizzato la camorra". La Rai? "Ci sono ancora troppi dirigenti di sinistra". Lo stalliere di Berlusconi? "Fu a suo modo un eroe". Ecco alcuni dei giudizi espressi da Marcello Dell'Utri, fondatore di Forza Italia, senatore e pregiudicato, nella lunga intervista rilasciata a Klaus Davi su "Klaus Condicio", su YouTube .


Il fascismo. "Mussolini sbagliò, non c'è dubbio, ma quando era al potere lo Stato era più presente di quanto non lo sia adesso. Aveva dato, e in questo è stato l'unico, un senso di patria al Paese". Dell'Utri rilegge, la sera, i Diari di Mussolini (falsi?) che dice di aver ritrovato. Da quelle carte "viene fuori l'immagine di un uomo di valore, dal punto di vista sia umano che culturale. Mussolini cita spesso le classi deboli e più bisognose. Molti provvedimenti in loro favore e diverse leggi sociali, come quelle che disciplinano la previdenza contro gli infortuni e la nascita dell'Inps e dell'Inail, risalgono proprio al famigerato Ventennio. Che dire poi delle colonie? L'Italia, essendo un Paese che occupa tutto lo spazio del Mediterraneo, non poteva restare fuori dalla politica di espansione delle potenze occidentali". Oggi l'antifascismo è "un concetto obsoleto" che "ritorna puntualmente in auge perché mancano nuovi argomenti seri di discussione e si finisce con il rivangare sempre gli stessi" e "ogni qual volta si tocca questo tasto succede un'insurrezione poiché questa situazione non è mai stata chiarita del tutto e la verità non è mai venuta a galla".


La mafia. "Penso che Roberto Saviano abbia ragione a voler andarsene dall'Italia. Il libro che ha scritto è un libro denuncia e in quanto tale oggetto di tante attenzioni poco piacevoli", ma quel romanzo-documentario "certamente non è una gran pubblicità per il nostro Paese, anche se il male, purtroppo, esiste e quindi non possiamo negarlo. Forse però non dovrebbe essere enfatizzato in questo modo. Il premier Silvio Berlusconi è andato a Napoli per affrontare il problema della monnezza ed è riuscito a toglierla dalle strade, ma la camorra non è altrettanto facile da estirpare".
L'antimafia? "Non è finita. C'è e ci sarà finché esiste la mafia ed è un bene. Credo, tuttavia, che, allo stato attuale, il rapporto tra costi e benefici sia assolutamente sproporzionato, soprattutto quando alcuni procuratori antimafia fanno politica". Il riferimento è a Gian Carlo Caselli , che aveva denunciato la difficoltà per i giudici di processare e condannare i politici collusi con la mafia. Dell'Utri (una condanna a 9 anni in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa e una condanna definitiva per frode fiscale) attacca "i procuratori di Palermo che hanno usato molto e a sproposito lo strumento dell'aggressione politica. Io, onestamente, me ne sento in assoluto una vittima. Non ci sarebbe stata l'accusa nei miei confronti se non ci fosse stata la grande affermazione di Forza Italia in Sicilia nel 1994".
Vittorio Mangano, lo "stalliere di Arcore" (condannato all'ergastolo per duplice omicidio) è "un eroe, a modo suo" perché "malato com'era, sarebbe potuto uscire dal carcere e andare a casa, se avesse detto solo una parola contro di me o contro il presidente Berlusconi. Invece non lo ha fatto".


La tv. "Negli ambienti della Rai ci sono ancora oggi dirigenti che sono stati messi dalla sinistra e che quindi rispondono a logiche di sinistra. È difficile pensare che migliori la qualità della comunicazione quando a guidarla c'è gente che alimenta una visione negativa della vita", afferma Dell'Utri, di rincalzo a Berlusconi che, con incredibile senso dell'umorismo (involontario), negli stessi giorni dichiara che in tv c'è troppa gente di sinistra ("Tutti i giorni ci sono attacchi televisivi nei nostri confronti, con tutti questi conduttori appecoronati sulla sinistra") e che la televisione è troppo ansiogena: "Io adesso cercherò di fare tutto il possibile perché le tv pubbliche e private non siano dei fattori ansiogeni, come purtroppo stanno diventando». In particolare «la televisione pubblica, che dovrebbe cooperare perché le cose vadano al meglio, adesso è il punto principale di diffusione del pessimismo".
Dell'Utri lo sostiene: "Le notizie, certo, bisogna darle, sennò si torna al fascismo, ma c'è modo e modo di comunicarle. Magari con conduttori più gradevoli di adesso. Io guardo il Tg3, ad esempio, e vedo che ci sono degli anchorman che hanno già una faccia un po' gotica, un po' dark".


Le telefonate. Intanto il 30 ottobre 2008 la giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato ha respinto la richiesta del gip di Palermo di utilizzare nel processo d'appello per mafia le telefonate tra Dell'Utri e il mafioso Vito Roberto Palazzolo, già condannato per droga nel processo Pizza connection e poi per mafia (9 anni anche lui, come Dell'Utri) e latitante in Sudafrica. "Non devi convertirlo, è già convertito", dice al telefono Palazzolo alla sorella nel 2003: cioè ha rapporti d'antica data con Cosa nostra e quindi è già disponibile. Ma le telefonate non potranno essere essere utilizzate in aula, a causa della legge boiata-Boato che impone di avere il permesso delle Camere per trascrivere e utilizzare le telefonate dei parlamentari.

venerdì 7 novembre 2008

Magico Obama



OBAMA E IL DISINCANTO: UN PROFILO ANTROPOLOGICO

Mcsilvan (da Rekombinant)

1.

Agli inizi del secolo scorso, la celebre prognosi di Weber sulla demagicizzazione del mondo definiva la comprensione di un processo secolare di crescita del disincanto nelle società occidentali quanto delle serie incomprensioni del fenomeno.  Weber fissava, con delle categorie legate alla comprensione dei lunghi processi storici, il processo dello sgretolamento della presa del potere del magico e del sacro di tipo religioso sulla significazione dei fenomeni, sull’interazione sociale e sulla concezione del futuro.  L’analisi weberiana sul quel processo di secolarizzazione, che riguardava non solo lo stato ma le radici stesse della società, è rimasta in questo senso un classico ineludibile. Ma, proprio a partire dall’analisi weberiana si sono registrate significative incomprensioni dei fenomeni politici non solo del ‘900 ma anche dell’epoca che stiamo attraversando. Infatti la crisi, definita irreparabile, della trascendenza nelle società contemporanee non solo ha di fatto semplicemente spostato i confini del trascendentale (dall’aldilà religioso all’aldiquà storico) ma ha anche ridefinito i poteri del sacro e del magico ricollocati entro questo nuovo spazio trascendentale ristrutturando i riti attraverso i quali questi poteri si riproducono. La capacità di attrazione del sacro e del magico, che ridefiniscono i tratti di ciò che è  straordinario in una società oggi a prescindere dall’esistenza del divino, non rinvia quindi la fonte del proprio potere all’aldilà ma la colloca come un’ombra appena sopra un aldiquà che nel ‘900 fino ai nostri giorni è stato spesso marcato dalla politica che ha prodotto così una nuova dimensione trascendentale.
La stessa politica ha però mutato le forme di produzione di questo trascendentale: sacro, magico e rituali, ovvero la produzione oggi rielaborata di straordinario che porta consenso anche impetuoso a chi la governa, hanno a lungo soggiornato sia in quelle che oggi vengono chiamate le ideologie (nel linguaggio corrente le teorie politiche che tentano di applicarsi nella società, e qui oggi ci si distanzia dall’ideologia in senso marxiano più di quanto si pensi) che nella dimensione che il lessico politico oggi chiama post-ideologica (ovvero la prassi  improntata a un puro pragmatismo).
Fin qui niente di cui stupirsi: la produzione di straordinario genera valore socialmente richiesto perché legato al desiderio e attira grandi masse attraverso una complessa serie di rituali (oggi tecnologicamente mediati). Fornisce quindi anima, vitalità e consenso ad ogni dimensione ideologica e post-ideologica. Del resto un classico come Mannheim aveva colto un importante tratto storico della politica moderna che nasce proprio dalla spiritualizzazione insita nelle aspirazioni di importanti strati delle società a noi precedenti. Tanto più le culture religiose tendono a realizzare le proprie aspirazioni spirituali e salvifiche nell’aldiquà tanto più cresce e si sviluppa la politica come “concorso dei gruppi sociali alla realizzazione degli scopi terreni” (Ideologia e Utopia ed. 1970). Dal novecento ad oggi il magico e il sacro ristrutturato sono quindi fenomeni permanenti di proliferazione del desiderio sociale della realizzazione dello straordinario nell’aldiquà ma mutevoli nelle forme, nelle tattiche di riproduzione di se stessi e negli obiettivi. La politica intesa come concorso collettivo alla realizzazione degli scopi è anch’essa rimasta ma profondamente mutata, non solo nelle forme ma anche nella ristrutturazione dei propri obiettivi storici. Ma straordinario e politica si tengono sempre assieme: senza la produzione di straordinario che anima l’atto spontaneo dell’erogazione di consenso alle istituzioni nelle nostre società nessun tecnocrate della politica può muoversi perché delegittimato. C’è un atto magico, sacro, quasi neoreligioso nell’agitarsi di una società verso uno scopo che deve essere compreso da un materialista perché genera potere, verticalizzazione dei rapporti tra ceti sociali e legittimazione delle forme del politico e dell’amministrativo intese come simulacro del concorso collettivo alla realizzazione degli scopi.
Quindi altro che demagicizzazione del mondo per far posto ad una civiltà ammistrativamente normata, come prefigurato da Weber e messo in atto da tutta la politica istituzionale dal dopoguerra a oggi  (vero tratto unitario da Schumpeter fino a Michael Walzer che, non a caso, si dice “nervoso” per la vittoria di Obama, temendo che il populismo spiritualista evocato dal nuovo presidente metta in crisi il totem del dispositivo razionale e normativo della regolazione sociale). La politica per legittimare ogni proprio tratto, e con lei i dispositivi della governance che dalla politica ricevono legittimazione di riflesso, deve saper suscitare quel consenso che nasce dallo straordinario e quindi da una dimensione sia magica che sacra ma quanto prodotta da un nuovo trascendentale, quello dell’aldiquà definito da forme mediali di rito collettivo quando non globale.

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In questo senso la vittoria di Obama alle elezioni Usa non ha niente di stupefacente: nella cultura politica dei comitati elettorali americani il marketing, come tecnica di estrazione di legittimazione politica nei bacini di produzione dello straordinario presenti nella società Usa, è una disciplina consapevole di sé e del rapporto tra straordinario e politica almeno da qualche decennio. E’ una scienza della produzione del consenso mediale matura quindi consapevole di sé, dei propri dispositivi di produzione non lineari, dei propri punti di crisi come di potenza.
 Chi guarda alle dinamiche di produzione dell’utopia dal basso sollevate dall’elezione di Obama di solito ha presente solo quest’aspetto del fenomeno: quando è così è come pensare che la birra che viene bevuta con soddisfazione sia stata prodotta dallo stesso bevitore soddisfatto. Non funziona ovviamente così nelle società contemporanee anche se il bevitore partecipa, anche consapevolmente, alla valorizzazione del marchio e con i propri gusti orientando la composizione della formula della birra. E qui va detto che in Italia, tanta retorica dell’autovalorizzazione dei processi di soggettivazione ha costruito enormi ostacoli epistemologici per la comprensione di questi fenomeni.  Lo stesso giudizio vale per una certa cultura di sinistra ferma ancora al terrore orwelliano verso i media con il risultato di vedere solo fenomeni di eterodirezione quando le dinamiche sono invece estremamente più complesse. Ostacoli epistemologici che testimoniano il fallimento di culture politiche che già alla prima metà di questo decennio non riuscivano più  a orientarsi e che si candidano al disorientamento anche per i prossimi anni.
 Va infine detto che lo scatenamento della scossa collettiva che produce quello straordinario che si concretizza in consenso elettorale con Obama è avvenuta in forme differenti dal passato. Sul piano mediale e quindi su quello politico. E qui c’è un aspetto antropologico che non va affatto trascurato: il processo di rimagicizzazione del mondo in atto da quando la comunicazione globale ha fatto la presa sul pianeta. Già negli anni ’80 Marc Augè si era accorto di un fenomeno apparentemente inspiegabile: le soap opera americane venivano accolte con entusiasmo in ogni angolo del globo. Sembrava l’apparente conferma del primato planetario dei valori americani nella significazione dei modi di vita di tutto il mondo. Eppure era l’esatto contrario: le soap penetravano nel pianeta grazie al fatto che tutte le culture, nessuna esclusa, hanno a disposizione degli universali di spiegazione dei fenomeni, e di magicizzazione dell’immaginario, in grado di decodificare ed assorbere qualsiasi messaggio venga dall’esterno. L’egemonia dell’immaginario americano stava “solo” nel fatto che la fonte della produzione dei messaggi era tutta americana. Allo stesso tempo tutti i dispositivi di immaginario mitologico delle culture non occidentali assorbivano figure e racconti provenienti da occidente. E questo perché, come commentava Augè, è proprio della televisione imporre l’egemonia dei propri contenuti attraverso un uso mitologico dell’immagine che fa immediata presa sulle popolazioni. Un processo di rimagicizzazione del mondo veniva quindi a coincidere con la nascita di un patrimonio globale di immagini e con la successiva, altamente complessa, interconnessione tecnologica. Weber non poteva certo prevedere l’esplosione globali della comunicazione via immagine emozionale, noi lo sappiamo e dobbiamo tenerne conto.
Per la sua natura, si tratta quindi di una rimagizzazione in grado di mettere in connessione opzioni culturali differenti. Proprio come è accaduto negli Stati Uniti dove, scossi dall’entusiasmo per lo straordinario evocato dal messianismo di Obama, si sono attivati differenti archetipi culturali che hanno trovato un mediatore comune: il linguaggio mediale in grado di attivare universalmente l’intero spettro della diversità culturale presente in un paese.
In questo senso lo staff elettorale di Obama ha saputo elaborare questo bacino spontaneo di produzione di mitologie, secondo i nuovi canoni della rimagicizzazione del mondo, in quanto staff strutturato secondo un’organizzazione del lavoro post-moderna del tutto simile a quella che si forma quando si produce un film a Hollywood (organizzazione a rete ma con gerarchie, mutevole ma con delle policies, contratti di professionisti a tempo ma con dei fiduciari storici del committente, forte coesione interna ma immediata solubilità dell’organizzazione una volta raggiunto lo scopo). Le modalità di attivazione dello straordinario, il fenomeno sociale che se saputo governare crea legittimazione politica, da parte dello staff di Obama sono quelle della capacità di distinguere e di mettere a produzione mito e propaganda. Il mito è quel bacino spontaneo di immaginario sociale in grado, se attivato o se dotato di attivazione propria, di scatenare quel sentimento sociale dello straordinario  che unisce una società e produce potere politico.  La propaganda, in questo caso quella dell’organizzazione cognitiva postmoderna non quella strutturata secondo criteri fordisti risalenti all’esperienza delle guerre, è invece la capacità di un dispositivo politico-elettorale strutturato di saper far emergere il bacino grezzo dello straordinario presente nella società indirizzandolo nell’investimento emotivo di massa verso un candidato. Il Financial Times non a caso ha commentato la campagna elettorale di Obama definendola sia fortemente emotiva che rassicurante: vuol dire che entrambi gli obiettivi, mobilitare il consenso di massa tramite un messaggio straordinario ma incanalandolo verso un membro dell’establishment, erano stati raggiunti.
Si crea così l’effetto partecipazione: come nelle funzioni religiose, in questo caso sia dal vivo che su una pluralità di piattaforme tecnologiche, c’è una emotività profonda e diffusa a cui tutti partecipano anche attivamente e un funzionariato del clero che gestisce e amministra il rito partecipativo, scegliendo il tono emozionale delle retoriche. E’ comunione e distinzione allo stesso tempo: la comunione trova qui la propria acme rituale nelle elezioni, la distinzione permette che il ceto politico una volta esaurita la funzione, e fatto il pieno di legittimazione e di investimento, agisca separatamente dalla società e in piena discrezione.
E qui per creare un effetto partecipazione così dirompente lo staff di Obama ha utilizzato al meglio, nel contesto favorevole di una nuova cultura magico-mediale, almeno due killer application tipiche del bagaglio concettuale di Internet: la cultura convergente e la Long Tail. La cultura convergente nasce dalla consapevolezza che il messaggio mediale dominante non è più quello strettamente televisivo ma quello che nasce dall’ibridazione di più media (giornali, radio, internet, con la televisione che deve lottare per guadagnarsi un ruolo egemone) con una produzione dei messaggi egemoni che è condizionata dall’elaborazione e dalla ricezione che avvengono in Internet. Non a caso infatti lo staff di McCain, vistosi perduto, a pochi giorni dalle elezioni ha accusato i blogger di orientare faziosamente la campagna elettorale. Non le televisioni, le radio o i columnist della stampa ma i blogger di Internet: è un riconoscimento diretto del fatto che il messaggio dominante nella campagna elettorale lo produrrà anche uno staff, spendendo cifre impressionanti in spot televisivi, ma se questo non sa incontrare le correnti che si agitano in rete (e quindi nella società) la battaglia è persa. In materia di Long Tail la campagna elettorale di Obama funzionerà come un classico della storia del finanziamento. I rivoli di piccoli cifre che si sono riversati nel fondo elettorale di Obama, attivati dalla rete internet dalle catene create via cellulare, hanno creato un immenso fiume di denaro come nei classici della teoria Long Tail che sostengono proprio l’importanza di saper attirare miriadi di piccole somme economiche entro un bacino più grande. E adesso?
Discorso di Chicago di Obama subito dopo l’elezione appare un inizio ma in verità è un congedo. Il dispositivo intelligente della propaganda creato per essere capace di suscitare lo straordinario nella società Usa si distaccherà dalle miriadi di reti di comunicazione spontanea che hanno veicolato e rielaborato, potenza di Internet, i messaggi guida della campagna elettorale fin negli interstizi della società americana. La verticalizzazione della società americana può riprendere il proprio corso dopo il necessario rito catartico che ha l’apparenza dell’orizzontalità come in ogni rito partecipativo, non importa a quale scala.
Oggi il governo dell’utopia ha cambiato sovrano: questa forma potente dell’immaginario viene evocata dai presidenti tramite le credenze sullo straordinario per salire al governo attirando consenso mentre ai movimenti, per essere credibili, spetta il peso del doversi dimostrare realisti. Non a caso un giornale come Repubblica fa lavoro militante verso gli studenti ammomendoli a non scoprire il sessantotto: un “non aprite quella porta” come da titolo di film dell’orrore. Perché non deve essere rielaborata dal basso la potenza sociale dell’utopia che invece oggi, paradossalmente, è elaborata dal dispositivo integrato media-politica perché fonte di legittimazione sociale in ultima istanza.
Dovranno passare ancora diversi terremoti prima che l’asse della politica sposti di nuovo di direzione l’utopia, le pulsioni, l’animalità creando nuove culture alternative e autonome dall’abbraccio con i poteri strutturati. Si tratta delle sole in grado di portarci al di fuori di questo mondo dove l’alternativa invece riposa tra declino di una civiltà e rigenerarsi dell’ideologia e delle pratiche di assoggettamento del mercato, dell’efficienza e del merito. Evidentemente, si deve lavorare più a fondo. Sulle strutture antropologiche del potere sulle quali oggi si esercita, tecnologicamente mediata, l’egemonia dei dispositivi di governo che estraggono consenso dalle nuove forme del sacro e del magico e che producono quello straordinario che è la linfa vitale per il nuovo piano di legittimazione del dominio. Anche se, e questo va considerato, la profondità della crisi capitalistica può dare una mano a chi vuol presentare il conto ad una forma di governo che ha fallito quanto il socialismo reale, impropriamente definito comunismo dall’ignoranza di quella e di quest’epoca, nei giorni dello sgretolamento del muro di Berlino.

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...