lunedì 31 agosto 2015

Sinistra, la lezione di Sanders e Corbyn

di Carlo Formenti da Micromega 

È possibile che la lotta di classe, espulsa dal linguaggio e dalla prassi di partiti e sindacati (ex)socialdemocratici europei, riacquisti diritto di cittadinanza proprio in quell’area angloamericana da cui le controrivoluzioni di Reagan e Tatcher – e dei loro epigoni di destra e di “sinistra”- sembravano averla definitivamente bandita? Non vorrei sembrare troppo ottimista, ma mi pare che dalla scena politico-sindacale di Stati Uniti e Inghilterra arrivino segnali incoraggianti in tal senso.
Partiamo dagli Stati Uniti. Dopo che le leggi punitive nei confronti del diritto di organizzazione e di sciopero e le pratiche antisindacali delle imprese avevano ridotto quasi a zero il tasso di sindacalizzazione dei dipendenti privati e pubblici, da qualche anno stiamo assistendo a una vivace ripresa di lotte per ottenere aumenti salariali, ritmi di lavoro meno stressanti e un parziale recupero dei diritti sociali massacrati dalle politiche anti welfare.
I protagonisti di questa ondata non sono né quel che resta della classe operaia industriale, falcidiata dalle delocalizzazioni, né quei “lavoratori della conoscenza” che i teorici postoperaisti insistono a considerare come l’avanguardia del proletariato globale. A smuovere le acque di una società ingessata dalla disuguaglianza fra super ricchi e working poor (la massa di coloro che non guadagnano a sufficienza per vivere dignitosamente) sono soprattutto gli addetti ai servizi: catene commerciali, logistica, ristorazione, servizi di cura, ecc.
Molti sono giovani, afroamericani o immigrati (moltissimi i latinos) che hanno imparato a creare nuove, combattive organizzazioni sindacali, mentre i loro interessi appaiono spesso in conflitto con quelli della middle class (vedi le proteste dei conduttori degli autobus che portano al lavoro i nerd della Silicon Valley, o quelle degli abitanti di quartieri colonizzati e “gentrizzati” dai quadri della New Economy). E cominciano a ottenere risultati significativi: dall’aumento del salario minimo in alcuni importanti Stati e città, alla recente sentenza del National Labor Relations Board che stabilisce un principio importantissimo: quando negoziano con imprese che svolgono attività di subappalto, i sindacati possono coinvolgere nella trattativa le società appaltatrici. In settori dove il franchising è la regola, la decisione è destinata ad avere notevole impatto  (non a caso è ferocemente contestata da lobby, associazioni imprenditoriali e politici di destra).
Gli effetti del cambiamento di clima sindacale sono venuti a sommarsi a quelli delle mobilitazioni del movimento Occupy Wall Street , il quale – finché è durato – aveva tentato di saldare le lotte di questi strati sociali con quelle di una massa studentesca indebitata e senza prospettive di mobilità sociale, contribuendo al successo della campagna elettorale di Bernie Sanders, che potrebbe diventare il primo candidato socialista a sfiorare la nomination Democratica.
All’ascesa di Sanders fa riscontro quella di Jeremy Corbyn, l’anziano esponente della sinistra laburista che potrebbe fra poco diventare il nuovo segretario del partito. Corbyn non si afferma grazie a una nuova ondata di lotte, ma è a sua volta espressione di crescenti tensioni sociali che potrebbero invertire la dinamica che ha trasformato i laburisti in neoliberisti di centro. La base sindacale e la struttura territoriale dei militanti, esasperati da decenni di politiche filo padronali, privatizzazioni, tagli al welfare, ecc. condotte con la complicità o con l’avvallo esplicito del loro stesso partito, hanno trovato in Corbyn il campione di una rivoluzione “restauratrice” (come la definiscono i media mainstream). Se il colpo riuscisse, interromperebbe quella logica del “pendolo”, in base alla quale, dopo la sconfitta elettorale di un leader “di sinistra” come Miliband, s’imporrebbe un ritorno alle posizioni della destra blairiana.
Se Corbyn la spuntasse regalerebbe nuove vittorie ai Conservatori, ammoniscono i media inglesi, ai quali fa eco Paolo Mieli in un recente editoriale sul “Corriere”,  in cui fustiga il “masochismo” delle sinistre radicali (i fuorusciti di Syriza, la Linke tedesca, gli oppositori di Renzi e lo stesso Corbyn) che “fanno il gioco” delle destre, impedendo l’affermazione di una sinistra “moderna” (leggi liberista!). Ma l’inedita lezione che oggi ci viene da Occidente è che la sinistra non rinasce puntando a governare (né Sanders né Corbyn realisticamente ci arriveranno) bensì ricostruendo la rappresentanza degli interessi di classe.

domenica 30 agosto 2015

Tra Schumpeter e Keynes: l’eterodossia di Paul Marlor Sweezy

di Riccardo Bellofiore da syloslabini.info

Il dibattito di Sweezy con Schumpeter
Paul  Sweezy è stato assistente di Schumpeter. Il rapporto di amicizia e la  distanza intellettuale sono tali per cui la parola discepolo suona  stonata. Come scrisse al fratello Al, benché interessato dalle teorie  dell’economista austriaco, non se ne sentì granché influenzato. La  relazione personale fu però molto forte, quasi fosse il sostituto del  figlio mai avuto. Tra i due si svolse un memorabile dibattito, di cui è  rimasta memoria grazie al «ricordo» di Paul Samuelson su «Newsweek» il 13 aprile1970, e ai materiali resi disponibili da John Bellamy Foster sulla «Monthly Review» nel maggio 2011. Era l’inverno del 1946-47. Il Socialist  Party di Boston aveva chiesto al dipartimento di economia di Harvard di  ospitare un dibattito su capitalismo e socialismo. Schumpeter ritenne  poco appropriato che la discussione si svolgesse all’interno delle  lezioni, e suggerì senza successo che il Graduate Student Club se ne  facesse promotore. Il dibattito ebbe luogo senza sponsor, protagonisti  appunto Schumpeter e Sweezy. Dal racconto di Samuelson, più di vent’anni  dopo, traspare ancora l’eccitazione per l’evento:
“Schumpeter  era il rampollo dell’aristocrazia austriaca all’epoca di Francesco  Giuseppe. Aveva confessato di avere tre desideri: di essere il più  grande amatore a Vienna, il miglior cavallerizzo in Europa, il più  grande economista del mondo. «Sfortunatamente», aggiungeva con modestia,  «il posto che mi è stato dato [ad Harvard] non era di primo livello».…
A contendere con l’astuto Merlino stava il giovane Sir Galahad [figlio  illegittimo di Lancillotto, uno dei tre cavalieri che nel ciclo  arturiano ritrova il Sacro Graal]. Figlio di un alto dirigente della  banca J.P. Morgan, Paul Sweezy era il meglio che Exeter e Harvard  potessero produrre … e si era affermato come uno dei più promettenti  economisti della sua generazione. Annoiato della «saggezza  convenzionale» e stimolato dagli eventi della Grande Depressione [degli  anni Trenta], era divenuto uno dei pochi marxisti americani … In modo  ingiusto, gli dei avevano dotato Paul Sweezy non soltanto di un ingegno  brillante, ma anche di arguzia e bellezza. Se un fulmine si fosse  abbattuto su di lui quella notte, si sarebbe giustamente detto che lo  aveva colpito l’invidia degli dei.”
Dopo la  presentazione dei personaggi, Samuelson procede a sintetizzare lo  «scontro» attraverso le parole che attribuisce al moderatore, Wassili  Leontief. «Il paziente è il capitalismo. Entrambi gli oratori lo davano  per morente, ma le diagnosi differivano. Sweezy riteneva si trattasse di  un cancro incurabile. Schumpeter (il cui affetto andava al sistema  defunto nel 1914) attribuiva il prossimo decesso a un conflitto  nevrotico, ad un odio di sé che gli aveva fatto perdere la voglia di  vivere. Sweezy stesso sarebbe stato talismano e segno profetico di ciò».  Il giudizio unanime fu che l’economista austriaco avesse perso  l’incontro. Restio, come sempre, a presentare la propria visione e la  propria analisi, si era lanciato in una apologia degli Stati Uniti,  probabilmente per il suo usuale gusto della provocazione.
Bellamy Foster ipotizza che Schumpeter si fosse basato sul capitolo 28 della non ancora pubblicata seconda edizione di Capitalismo, Socialismo, Democrazia, dove  criticava le tesi «stagnazionistiche» che alcuni autori (il più noto è  Alvin Hansen) avevano tratto da Keynes. Bellamy Foster ha anche  pubblicato gli appunti di Sweezy. Non era l’innovazione il primum movens,  ma l’accumulazione: un processo che non tende ad autoequilibrarsi. Lo  squilibrio tra investimenti e risparmi si riproduce sistematicamente,  perché non vi è modo di adattare l’investimento ai bisogni  dell’accumulazione, o di far sì che, se gli investimenti fossero  inadeguati, i capitalisti effettuino dei consumi compensativi. Non è  dunque vero che il capitalismo «trustificato» sia in grado di generare  più stabilità e di attenuare le crisi (come sostenuto da Hilferding per  il «capitalismo organizzato»). Le ragioni della tendenza alla crisi del  capitalismo non sono sociologiche o psicologiche: sono economiche, anche  se non ha senso ricondurre il ciclo a una causa unica e uniforme.
D’altra parte, l’ombra di Schumpeter sembra distendersi su quel che dice Sweezy nel 1982, in Why Stagnation, dove pure sostiene la rinnovata importanza della tendenza alla stagnazione:
“Significa  questo che sto sostenendo che la stagnazione è divenuta uno stato di  cose permanente? Niente affatto. Alcuni – e tra questi credo sia  legitttimo includere Hansen – pensavano che la stagnazione degli anni  Trenta «fosse qui per rimanere», e che potesse essere superata soltanto  attraverso mutamenti fondamentali nella struttura delle economie  capitalistiche avanzate. L’esperienza ha dimostrato che avevano torto, e  un argomento del genere potrebbe rivelarsi falso anche oggi.”
Nella  stessa «disfida» con Schumpeter il marxista statunitense aveva iniziato  dichiarando il proprio accordo con una frase dell’antagonista nella Teoria dello sviluppo economico: «Capitalism … is by nature a form or method of economic change and not only never is but never can be stationary».
La biografia
Sweezy  è nato a New York, nel 1910, rampollo della alta borghesia degli Stati  Uniti, figlio di un vicepresidente della First National Bank. I suoi  primi scritti compaiono sull’«American Economic Review», la più  prestigiosa rivista di economia, prima ancora di aver esaurito il primo  ciclo degli studi universitari. Studia alla Philips Exeter Academy e  alla Harvard University, dove si laurea nel 1931. Nel 1932-33 va alla  London School of Economics, dove fu influenzato dal pensiero di Laski, e  dove ebbe un primo contatto col marxismo. Tornato ad Harvard nel 1939  per il dottorato, divenne assistente di Schumpeter: per lui curò, oltre  ai rapporti con gli studenti, una serie di seminari. Importante fu  quello di un gruppo molto ristretto, cui partecipavano solo 4-5 persone:  tra loro Elizabeth Boody, storica economica, futura moglie  dell’economista austriaco; e Samuelson, futuro Premio Nobel per  l’economia. Allievo di Sweezy fu pure un altro premio Nobel, Robert  Solow, che partecipò al corso sull’economia del socialismo. In una bella  intervista a Savran e Tonak, tradotta da L’ospite ingrato,  Sweezy ricorda come Solow fosse al tempo uno dei giovani economisti più  radicalmente orientati a sinistra (non si poteva dire lo stesso,  osserva, di Samuelson). Ottenuta una posizione di ruolo, continua  Sweezy, il radicalismo di Solow impallidì alquanto. Sweezy non inclina  ad alcun giudizio «moralistico». Riferendosi a Solow, ma anche a Eric  Roll, dirà:
“È, in certo modo, una sorta  di opportunismo, ma non volgare o immorale in casi come questi. Tali  sono le pressioni della società americana che, per una persona, è  estremamente difficile resistere, soprattutto se non ha un’indipendenza  economica. Dovete capire che probabilmente anch’io mi sarei comportato  nello stesso modo. Fortunatamente, non dovevo dipendere da uno stipendio  universitario.”
L’interpretazione del titolo The Economics of Socialism  era alquanto «larga», visto che Sweezy sondava il terreno della  ricostruzione delle varie tradizioni teoriche del socialismo, andando  ben oltre il marxismo in senso stretto. In quel corso, peraltro, Sweezy  si provò anche a sviluppare una trattazione accademica e rigorosa del  marxismo; a questo scopo si basò molto sulla letteratura europea, anche  di lingua tedesca, che conosceva nell’originale. Fu così che, nel tempo,  Sweezy costruì una delle sue opere più famose, quell’autentico classico  che è ancor oggi La teoria dello sviluppo capitalistico, pubblicato nella sua prima edizione nello stesso anno, il 1942, in cui Schumpeter (la cui prima opera fu La teoria dello sviluppo economico del 1911) pubblicava Capitalismo, Socialismo, Democrazia.
È  in questo arco di anni che Sweezy diviene marxista, da autodidatta. Non  si può dire sia stata una scelta saggia dal punto di vista accademico. I  suoi scritti di teoria economica standard erano accettati nelle  migliori riviste. Dopo l’articolo sull’«American Economic Review» del dicembre del 1930 (The Thinness of the Stock Market) aveva pubblicato sul «Quarterly Journal of Economics» nel 1937 (On the definition of Monopoly), e sul «Journal of Political Economy» (Demand Under Conditions of Oligopoly) nel 1939. Quest’ultimo  articolo finì rapidamente sui libri di testo, e capita di vederlo  citato anche ai nostri giorni – senza che gli studenti che sanno  qualcosa di marxismo (una rarità) sospettino che si tratta della stessa  persona. L’interesse al tema della concorrenza imperfetta è testimoniato  anche dal suo primo libro del 1938, la sua dissertazione di dottorato,  dedicata al commercio del carbone in Inghilterra (Monopoly and Competition in the English Coal Trade), edito dalla Harvard University Press.
Sono  anni in cui Sweezy è influenzato dal keynesismo, e dal dibattito sulla  presenza o meno di una tendenza alla «stagnazione». Nel 1936 era uscita  la General Theory, gli Usa erano ormai dal 1929 in quello che John Kenneth Galbraith appropriatamente definì come The Great Crash. Nel 1932 un quarto della popolazione era disoccupata. La ripresa a metà degli anni Trenta stimolata dal New Deal  si accompagnava a una vivace stagione di lotte «dal basso». Vi fu però  una grave ricaduta nella crisi nel 1937-38 quando Roosevelt, spaventato  dai disavanzi nel bilancio pubblico, tirò il freno. Dalla crisi si uscì  davvero con la Seconda guerra mondiale. Sweezy fece in quegli anni parte  di alcune agenzie del New Deal, e partecipò alla stesura di un importante rapporto del 1938, The Structure of the American Economy,  che sostenne l’opportunità di una via d’uscita «keynesiana» dalla  crisi. Intanto lavorava alla divisione analisi e ricerca dell’Office of  Strategic Services, la futura Central Intelligence Agency, curando  l’European Political Report.
Per le sue  pubblicazioni, e non solo per lo stretto rapporto di confronto  intellettuale e di amicizia con Schumpeter, Sweezy era lanciato sulla  via di una carriera accademica di successo. Nel 1942 lascia Harvard per  un paio di anni, per un viaggio di ricerca: all’epoca è titolare di un  contratto temporaneo della durata di 5 anni. Mentre è via, si apre la  prospettiva per un posto di ruolo permanente in quella università.  Schumpeter appoggia Sweezy con determinazione. Ciò non di meno il  Dipartimento di Harvard non lo vuole. Sweezy ricorderà la diffusa  leggenda di un suo «licenziamento» da Harvard, ma la smentirà. Tornato  dal suo viaggio, avrebbe avuto in teoria la possibilità di rimanere  ancora due anni. Gli venne però chiaramente fatto capire che nessuno  voleva un marxista come docente di ruolo, e perciò dopo quei due anni se  ne sarebbe dovuto andare. Decise di «non restare in mezzo al guado».
Nel  1953, nel pieno della caccia alle streghe comuniste di McCarthy, Sweezy  viene convocato e interrogato in un processo intentato dallo stato del  New Hampshire. Si rifiutò di rispondere alle domande. Viene condannato, e  si appella alla Corte Suprema, che nel 1957, gli darà ragione. La  sentenza segna una svolta, e prelude all’esaurirsi della caccia alle  streghe. All’inizio degli anni Sessanta Sweezy, insieme a Paul Baran,  scrive Monopoly Capital, pubblicato in originale nel 1966, tradotto da Einaudi. Mentre la Teoria dello sviluppo capitalistico  era una introduzione al marxismo in tutti i suoi vari aspetti – dalla  teoria del valore, alla teoria della crisi, fino all’ultima parte  dedicata alla teoria dell’imperialismo – Il capitale monopolistico  affronta il passaggio dalla fase concorrenziale del capitalismo  dell’epoca di Marx alla fase della contemporanea concorrenza fra  oligopoli. Èun saggio redatto volutamente nel linguaggio dell’economia  tradizionale, di tipo keynesiano-istituzionalista, talora addirittura  con accenti neoclassici.
Nel 1949 Sweezy  aveva fondato, con Leo Huberman, la «Monthly Review». La rivista ebbe  una edizione italiana tra il 1968-1987 grazie all’iniziativa di Enzo  Modugno, che spesso ne stilava l’editoriale per la copertina (furono in  seguito coinvolti Lisa Foa e Luciano Canfora); e fu agli inizi  distribuita nelle edicole, vendendo sino a 20.000 copie. Il primo numero  si apriva con un articolo famoso: Perché il Socialismo di Albert  Einstein. Sweezy e i collaboratori della «Monthly Review» entreranno in  relazione con molte esperienze rivoluzionarie: da Mao a Cuba (su cui  pubblicò due libri con Leo Huberman: nel 1960, Cuba: anatomia di una rivoluzione, e nel 1969 Socialismo a Cuba).  Gli anni Settanta e Ottanta sono punteggiati dai numerosi articoli in  cui Sweezy, da solo o con altri (in primis, Harry Magdoff), propone una  interpretazione della crisi capitalistica, riconducendola alla crisi da  realizzazione. Ma Sweezy va oltre e, già negli anni Settanta, formula  un’analisi della sempre maggiore finanziarizzazione del capitalismo. La  finanza «conta», sia nel suo aspetto contraddittorio sia nel suo aspetto  funzionale all’accumulazione del capitale. Su tutto questo sono  importanti le raccolte di articoli della rivista, alcune tradotte in  italiano da Editori Riuniti, come Dinamica del capitalismo americano (1970) e La fine della prosperità (1977), altre no, come Stagnation and Financial Explosion (1987) e The Irreversible Crisis (1988).
Sono  anni in cui Sweezy interviene in molti altri dibattiti. Sulle economie e  le società post-rivoluzionarie ha una polemica con Charles Bettelheim (Il socialismo irrealizzato).  Sweezy è sempre stato critico rispetto all’idea del socialismo  sovietico come incarnazione del socialismo. Non ha però aderito alla  tesi di ispirazione trockijsta secondo cui l’Unione Sovietica sarebbe  stata uno «stato operaio degenerato»; e neppure all’interpretazione di  ascendenza maoista secondo cui l’Unione Sovietica sarebbe rimasta  un’economia capitalistica. Se è vero che permangono elementi  capitalistici, si ha comunque a che fare con economie e società non più  capitalistiche, ma post-rivoluzionarie e post-capitaliste.
Il  contributo di Sweezy è stato significativo anche in altre due  discussioni. La prima si svolse negli anni Cinquanta e fu originata  dalla pubblicazione dei Problemi di storia del capitalismo di  Maurice Dobb. La posizione di Sweezy sottolineava fortemente il ruolo  del commercio nella transizione dal feudalesimo al capitalismo,  smarcandosi rispetto ad una lettura più chiusa nel mondo della  produzione. La seconda, sulla individuazione dei possibili soggetti di  un cambiamento rivoluzionario, si svolse negli anni Sessanta e Settanta.  Sweezy rimarcava la tendenziale integrazione della classe operaia dei  paesi avanzati, e riponeva le proprie speranze di un cambiamento  rivoluzionario nella «periferia» e nelle lotte di liberazione nazionale.
In quel che segue, anche per le ricadute sulla  lettura del capitalismo contemporaneo e la sua crisi, mi concentrerò  essenzialmente sulla interpretazione che dà Sweezy della teoria marxiana  del valore e della crisi, su alcuni aspetti della sua teoria del  capitalismo monopolistico, e sulla sua lettura della finanziarizzazione.  In conclusione, tratterò della riflessione di un autore molto lontano  dalle tesi della «Monthly Review», eppure significativo per intendere  bene i limiti dell’economia keynesiana e la tendenza del capitalismo  alla crisi: Paul Mattick. 
La teoria del valore
Nel  suo libro del 1942 Sweezy riprende la distinzione di Franz Petry tra  l’aspetto qualitativo e l’aspetto quantitativo nella teoria del  valore-lavoro. L’aspetto qualitativo rimanda alla tesi che i valori  sarebbero cristallizzazioni di lavoro, quali che siano i «valori di  scambio» (ovvero i rapporti di scambio proporzionali alle quantità di  lavoro direttamente e indirettamente contenute nelle merci). L’aspetto  quantitativo ha a che vedere con la «trasformazione» dei valori di  scambio in un secondo, ulteriore sistema di rapporti di scambio, i  «prezzi di produzione». Il dibattito successivo ha chiarito che Sweezy  (come Dobb e Meek) patisce una definizione di astrazione del lavoro  ridotto a generalizzazione mentale. Il discorso marxiano sui rapporti di  scambio viene riletto riconducendolo al solo momento dell’equilibrio.  Il ragionamento si articola in due approssimazioni successive, di cui i  valori di scambio costituirebbero la prima, i prezzi di produzione la  seconda.
Sweezy ha messo in circolo per primo  nella discussione accademica (e non solo) i percorso che, da Bortkiewicz  a Seton, si è impegnato in una «correzione» della trasformazione di  Marx, nel solco del simultaneismo. Il punto è che al capolinea di quella  tradizione pare proprio esservi l’inessenzialità dei valori di scambio  come punto di partenza della fissazione dei prezzi di produzione. Sraffa  può essere inteso come una implicita, ma decisa, critica di questa  impostazione. In Produzione di merci a mezzo di merci salta  infatti la determinazione dualistica dei rapporti di scambio di  equilibrio. In un primo modello, i prezzi capitalistici vengono  immediatamente fissati una volta dati la «configurazione produttiva» e  il salario reale di «sussistenza». In un secondo modello si ammette un  grado di libertà nella distribuzione, e i prezzi sono determinati una  volta definita la spartizione conflittuale del prodotto netto tra  profitti e salari. La caduta dell’aspetto quantitativo della teoria del  valore-lavoro trascinerebbe con sé l’aspetto qualitativo. Il problema è  che così salta pure la tesi che la genesi del plusvalore sia da  ricondurre al pluslavoro: una conclusione che può essere giustificata  soltanto sulla base della possibilità di istituire un confronto tra la  quantità di lavoro oggettivata dai lavoratori nelle merci prodotte e la  quantità di lavoro che torna loro in quanto contenuta nei beni salario.
Va  però detto che Sweezy, alla fine degli anni Settanta, si è smarcato con  molta forza dal marxismo «tradizionale» con cui era stato (non a torto)  identificato. La sua strada – sostiene – deve intendersi come  alternativa sia alla visione di Dobb (l’autore che aveva meglio definito  una lettura di Marx in termini di due livelli di approssimazione nella  determinazione dei prezzi di equilibrio, e che su quel fondamento aveva  suggerito una continuità non problematica tra Sraffa e l’autore del Capitale) sia a quella di Steedman, che nel suo Marx dopo Sraffa  aveva suonato la campana a morto per la teoria del valore-lavoro  sottolineando una profonda frattura tra i due autori sul terreno della  teoria dei prezzi). In una lettera a Michael Lebowitz del 30 dicembre  1973, Sweezy così giudica la posizione di Dobb:
“Il  problema con loro, e il punto di vista da cui vanno (simpateticamente)  criticati, sta nel fatto che in questa era, e oggi, non è possibile una  critica efficace del capitalismo che non sia marxista. Coloro che come  Dobb immaginano che lo sraffismo sia una specie di variante del marxismo  sono sulla strada sbagliata. Il nostro compito è (1) cercare di  riportarli sulla strada giusta, e (2) evitare che i giovani li seguano  su quella sbagliata. Insomma, stabilire il marxismo per quello che è, la critica  definitiva (il che non significa che non sia suscettibile di ulteriori  sviluppi), con il suo legame intrinseco a una posizione politica  rivoluzionaria.”
Nell’intervista già citata così si esprime Sweezy:
“Sraffa  non riteneva che ciò che stava facendo fosse qualcosa di alternativo al  marxismo, o comunque una negazione del marxismo. Dal suo punto di  vista, la sua era una critica dell’ortodossia neoclassica. Joan Robinson  ha detto in modo molto esplicito che Sraffa non abbandonò mai il  marxismo. Egli fu sempre fedele al marxismo, nel senso che aderì alla  teoria del valore-lavoro. Ma non ne scrisse mai. Fu questa una  peculiarità di Sraffa. Egli cominciò nelle vesti di critico  dell’economia marshalliana. Ricordate il suo famoso articolo degli anni  Venti. Sraffa appartenne al gruppo di Cambridge. Combatté le battaglie  ideologiche che avevano il loro centro a Cambridge. Ebbe in esse una  certa parte, ma non come marxista. La sua fu una posizione del tutto  peculiare, che tuttavia non autorizza nessuno a contrapporre Sraffa al  marxismo (come invece fa Ian Steedman). Considerare la teoria di Sraffa  una teoria completamente alternativa è, a mio giudizio, del tutto  sbagliato, e non ha nulla a che vedere con le reali intenzioni di Sraffa  né con i veri scopi dell’analisi marxista. Non riesco a vedere in  Steedman nessuna dinamica, nessuno sviluppo. Pensare che sia possibile  procedere senza una teoria del valore (inteso il termine nel suo senso  più ampio, comprensivo anche della teoria dell’accumulazione ecc.) a me  sembra totalmente fallimentare. Non va bene per nulla. E non mi sembra  che ne sia venuto fuori qualcosa. Giusto era mostrare i limiti, gli  errori, l’intima incoerenza della teoria neoclassica: questa era una  buona cosa, questo era importante. Ma pensare che su questa base sia  possibile sviluppare qualcosa che abbia attinenza con l’ambito e con le  finalità del marxismo è del tutto sbagliato.”
Una  visione «larga» della teoria del valore –– che includa al suo interno non  solo la teoria dell’accumulazione,ma anche la teoria della crisi – è  cruciale per comprendere l’itinerario e larilevanza di Sweezy, ancor  oggi. Va pure detto che la sua lettura delle intenzioni di Sraffa è oggi  confermata, ben al là di quanto potesse intuire lo stesso Sweezy, dalle  carte dell’economista italiano conservate alla Wren Library di Cambridge.  Quello che è certo è che lo stesso giudizio pubblico di Sweezy sul  neoricardismo fu di dura critica e opposizione, quando questa corrente  attaccava la teoria del valore-lavoro.
Ne  testimonia l’intervento che Sweezy pronunciò a Londra, nel novembre  1978, ad una tavola rotonda (a cui chi scrive assistette) proprio sul  libro di Steedman: il testo venne poi pubblicato nel volume collettaneo The Value Controversy.  Il punto cruciale non sta tanto nel fatto che Sweezy contestasse alla  radice l’idea che non esisterebbe un «ponte» tra la dimensione  (essenziale) del valore e la dimensione (fenomenica) del prezzo. Non sta  neppure nell’argomento, da lui stesso avanzato, che l’analisi in  termini di valore non viene smentita da quella in termini di prezzo. La  novità sta nell’autocritica di Sweezy. Se è possibile analizzare la  realtà fenomenica esclusivamente in termini di prezzo, si chiede, che  senso ha preoccuparsi dei valori come «essenze»? Non è in realtà affatto  vero, sostiene, che sia possibile analizzare la realtà capitalistica in  termini esclusivamente di prezzo: è vero piuttosto che, una volta  sviluppata l’analisi in termini di valore, è possibile raggiungere i  medesimi risultati con l’analisi in termini di prezzo. La ragione sta in  ciò: che il centro di gravità dell’analisi marxiana è il saggio di  plusvalore. È un punto che non aveva compreso scrivendo la Teoria dello sviluppo capitalistico:  per questo le sezioni quinta e sesta del capitolo sul problema della  trasformazione, benché non sbagliate in sé, non toccano il cuore della  questione, cioè il ruolo chiave del saggio del plusvalore della teoria  marxiana del capitalismo.
La teoria della crisi
Vale  a questo punto la pena di procedere ad analizzare la lettura che Sweezy  dà nel 1942 della teoria della crisi. Si trovano ne La teoria dello sviluppo capitalistico  alcune utili distinzioni che hanno orientato non poco i dibattiti  successivi, tra la crisi dovuta alla caduta tendenziale del saggio di  profitto, la crisi indotta dalle sproporzioni intersettoriali, e la  crisi dovuta al sottoconsumo. Per quel che riguarda la caduta  tendenziale del saggio del profitto, l’argomento di Marx è che il  mutamento dei metodi di produzione darebbe luogo ad un aumento della  composizione organica del capitale che eccede percentualmente  l’incremento del saggio di plusvalore. L’aumento del rapporto tra  capitale costante e capitale variabile ha un’influenza negativa sul  saggio del profitto, mentre l’aumento del rapporto tra plusvalore e  capitale variabile, che anch’esso consegue al progresso tecnico, produce  all’opposto un effetto positivo sul saggio del profitto. Secondo Marx  il primo effetto è più forte del secondo, e dunque il saggio del  profitto non può che flettere lungo il tempo. Sweezy, come Joan  Robinson, è scettico, in quanto ritiene che le controtendenze, e in  particolare l’aumento del saggio di plusvalore, più che compensano  l’aumento della composizione del capitale.
Per  quel che riguarda la crisi da realizzazione, Sweezy la legge sulla  scorta del Kautsky del 1905. Il profitto è prevalentemente investito, il  salario integralmente consumato. La natura sempre più diseguale della  distribuzione fa sì che la quota del consumo divenga relativamente  sempre più bassa in rapporto al valore prodotto. La «realizzazione» del  plusvalore richiede progressivamente quote crescenti di domanda di  investimenti. Per quel che riguarda la crisi da sproporzioni, essa è  facilmente deducibile dagli «schemi di riproduzione» del secondo libro  del Capitale. Tanto la composizione dell’offerta quanto la  composizione della domanda sono legate ai rapporti quantitativi che si  stabiliscono nei vari rami di produzione. La struttura dell’offerta  delle diverse industrie dipende dal livello raggiunto dalle branche  produttive nel capitale totale; mentre quella della domanda dipende  dalla ripartizione del capitale costante e del capitale variabile  all’interno delle industrie. Gli schemi consentono di derivare le  condizioni di equilibrio, ovvero i rapporti che garantiscono la  compatibilità tra composizione dell’offerta e composizione della domanda  a livello di sistema. Il verificarsi effettuale di tali condizioni  dipende dall’operare del meccanismo dei prezzi in concorrenza,cioè dal  coordinamento ex post tramite il mercato.
Si può, come ha fatto Claudio Napoleoni nella sua importante Introduzione  alla riedizionei taliana (parziale) del 1970, contestare a Sweezy una  troppo rigida separazione della crisi da sproporzioni dal  «sottoconsumo», sino a farne due cause distinte di crisi. Nell’un caso,  la crisi da realizzo deriverebbe dal generalizzarsi degli squilibri  settoriali a causa dell’instaurarsi di una reazione a catena di tipo  demoltiplicativo. Nell’altro caso, avremmo immediatamente una classica  crisi da insufficienza di domanda effettiva. Secondo Napoleoni, al  contrario, abbiamo a che fare con due «concause» della crisi. L’elemento  di fondo sta nella incapacità del sistema dei prezzi di rendere  compatibili le scelte delle imprese individuali in condizioni di mercato  «anarchico». Quando, come è prima o poi inevitabile, il «caso»  fortunato in cui le condizioni di equilibrio dettate dagli schemi non si  realizzasse, i movimenti dei prezzi sul mercato dovrebbero correre in  soccorso, orientando gli investimenti delle imprese. D’altronde, vista  l’insufficienza radicale e costitutiva del coordinamento ex post  tramite i prezzi, quell’orientamento può essere efficace soltanto se la  quota dei consumi non scende troppo. Inquesto senso, allora,  sottoconsumo e sproporzioni sarebbero come le due lame di un’unica  forbice. Il sottoconsumo può determinare la crisi per i limiti del  coordinamento ex post del mercato tramite i prezzi, mentre  l’anarchia della concorrenza è fattore di crisi se il consumo non  orienta da presso l’investimento. Un aspetto rimanda all’altro, e i due  si completano a vicenda.
La lettura della crisi  capitalistica come indotta da una insufficienza di domanda effettiva,  per un eccessivo incremento del saggio di plusvalore – eccessivo in  quanto determina una tendenza alla stagnazione per carenza di sbocchi – è  una delle componenti essenziali che regge la lettura di Sweezy del  Grande Crollo, della crisi degli anni Settanta, degli sviluppi  successivi. Qui siamo anche evidentemente vicini ai temi che Baran e  Sweezy affrontano, con altro linguaggio e categorie, nel Capitale monopolistico.
Un  limite del libro del 1942, visto retrospettivamente, è che viene  trascurata l’analisi delle trasformazioni e dei conflitti nei processi  capitalistici di lavoro. È però nel gruppo della «Monthly Review» che  Harry Braverman prepara (e pubblica nel 1974) il volume sulla  «degradazione del lavoro» nel taylorismo e fordismo, proprio quando  Sweezy e Baran stanno pubblicando gli studi sul capitale monopolistico. Lavoro e capitale monopolistico,  tradotto in Italia da Einaudi, è, dopo più di un secolo, il primo libro  che torna ai temi che percorrono gran parte del primo libro del Capitale.  Una qualità di Sweezy, del tutto evidente, è quella di non lavorare mai  da solo, di avvalersi sempre di «alleati»che completino il proprio  lavoro di ricerca. Braverman significò anche il rapporto con gli operai,  con il mondo del lavoro – nella intervista che ho richiamato  Sweezy afferma che è un peccato che Braverman sia morto così presto, in  quanto rappresentava il contatto stabile e il dialogo con esperienze di  lavoro e sindacali.
Il capitale monopolistico
Secondo  Baran e Sweezy, il capitale monopolistico accentua le difficoltà che il  capitale incontra sul terreno della realizzazione del plusvalore. Si  badi, ciò non ha affatto a che vedere con una presunta superiorità del  capitalismo di libera concorrenza sul capitalismo monopolistico quale  «macchina» per la crescita. Sweezy è troppo buon conoscitore, oltre che  amico, di Schumpeter per cadere in una visione del ristagno ingenua come  questa. Il suo obiettivo, con Baran, è semmai l’opposto. Primo,  mostrare come le potenzialità di crescita vengano incredibilmente  sviluppate dalla mutazione monopolistica del capitalismo. Secondo, far  vedere come ciò dia luogo ad un aggravamento dei problemi che il  capitale incontra sul terreno della domanda effettiva, ovvero la  difficoltà di trovare sbocchi adeguati a consentire lo smercio dei  prodotti a prezzi tali da coprire i costi e il profitto: far vedere,  dunque, come si instauri e aggravi una tendenza alla stagnazione. Terzo,  chiarire come tale tendenza, invece di inverarsi immediatamente, sia  stata efficacemente ma perversamente controbattuta dall’evoluzione  concreta del capitalismo stesso, senza rimuovere la deriva verso una  crisi immanente che rivelerebbe l’irrazionalità e lo spreco tipici del  capitalismo monopolistico, ma per il momento solo spostandola in avanti.  Il perno di questa costruzione teorica e interpretativa è la  sostituzione alla caduta tendenziale del saggio di profitto marxiana di  una tendenza all’aumento del surplus, o «sovrappiù».
Cosa  sia il «capitale monopolistico» è presto detto: è quella fase dello  sviluppo capitalistico in cui dominano quelle imprese che, viste le loro  dimensioni, possono determinare i prezzi di ciò che vendono e di ciò  che acquistano. Si tratta di una fase che ha inizio a fine Ottocento per  i fenomeni di concentrazione, fusione e assorbimento determinati dalla  dinamica stessa della «libera» concorrenza (una concorrenza che passa in  modo essenziale per la via della riduzione dei prezzi), e che finiscono  con il rendere centrale il grado di monopolio e la battaglia per la  ‘qualità’ nell’analisi del meccanismo dello sviluppo. Senza che ciò  significhi – si badi – la scomparsa della concorrenza in quanto tale,  visto che la concorrenza è implicita nella natura privatistica del  capitale. Siamo piuttosto in presenza di un mutamento della forma della  concorrenza, non di una tendenza all’autopianificazione del capitale. È  una competizione che si esplica con l’abbassamento dei costi unitari per  il tramite del progresso tecnico e organizzativo, la pubblicità, etutti  quegli strumenti che possono contrastare una entrata nel mercato di  altre imprese o che riescono a indurre il consumo verso certe direzioni e  non altre.
È una posizione che si distacca dalle  analisi del «capitalismo manageriale» alla Berle e Means fondate su una  scissione tra proprietà e gestione economica delle imprese. Secondo  Berle e Means l’impresa monopolistica sarebbe ormai diretta da manager  indipendenti dai proprietari (tanto i grandi quanto piccoli azionisti), e  non sarebbe più orientata alla massimizzazione del profitto ma semmai  alla riduzione dei costi, all’allargamento delle vendite, al  miglioramento della qualità, allo sviluppo dell’impresa. Baran e Sweezy  obiettano che i manager appartengono allo strato superiore dei  proprietari, per questo il divorzio tra gestione e proprietà non si dà.  Si è prodotta, piuttosto, una differenziazione all’interno della  proprietà. La pura proprietà delle imprese da parte degli azionisti, in  quanto tale, benché quantitativamente estesa, conta qualitativamente  poco. Dentro la, e non fuori dalla, proprietà vi sono dei capitalisti  «attivi» alla Marx, che svolgono una funzione di controllo. Stabilito  questo punto, gli autori ne deducono che, quali che siano gli scopi  particolari che i manager si propongono di ottenere nel dirigere i  capitali che hanno sotto controllo, questi scopi particolari si trovano  tutti all’interno di quello scopo fondamentale che resta la  massimizzazione del saggio del profitto. La massimizzazione del profitto  può però essere condotta in un periodo più disteso di tempo di quanto  non fosse nel capitalismo di libera concorrenza. Può anche verificarsi  un conflitto sulla politica dei dividendi, ma sempre all’interno di quel  fine unico e dominante.
Una rilettura del libro  del 1966 dovrebbe integrarne le tesi con le elaborazioni di Sylos Labini  e di Kalecki – è un punto su cui insiste, e a ragione, Joseph Halevi in  un dibattito su Sweezy pubblicato da L’ospite ingrato. In Oligopolio e progresso tecnico Sylos  Labini esce da quella visione statica dell’oligopolio di cui è ancora  in qualche misura prigioniero il libro di Baran e Sweezy, e propone una  visione dinamica che può essere posta in relazione con il problema della  realizzazione in Marx e il principio della domanda effettiva in Keynes.  Di ciò gli autori delCapitale monopolistico divennero coscienti,  e infatti molto apprezzarono il contributo dell’economista italiano  quando ne vennero a conoscenza. Per quel che riguarda Kalecki, è  cruciale la tesi che i profitti sono determinati dalla spesa.
Non  estenderei però questo argomento, come fanno i kaleckiani, sino a  costruire il mito che sia possibile un capitalismo «trainato dai  salari». La spesa che conta, la domanda che traina, nel capitalismo è  quella autonoma: dei capitalisti stessi (per investimento o consumo), o  le esportazioni nette, o le «esportazioni interne» (così Kalecki  denominò la spesa pubblica in disavanzo finanziata monetariamente).  Senz’altro, una migliore distribuzione del reddito, aumentando il monte  salari, marxianamente aumenta le vendite del settore che produce beni di  consumo, e keynesianamente aumenta il «moltiplicatore» della domanda  autonoma. Il reddito cresce, e così la domanda, e gli stessi  investimenti (vista la elevata utilizzazione della capacità produttiva)  vengono spinti verso l’alto, una sorta di «acceleratore», in un circolo  «virtuoso». Non è però possibile rinvenire qui una locomotiva dello  sviluppo, la spinta decisiva per una lunga fase dello sviluppo  capitalistico, ma solo la spiegazione di particolari momenti del ciclo  capitalistico, per di più spesso su base puramente «locale», una  esperienza nazionale. Quella di una wage-led accumulation è una  illusione in cui Baran e Sweezy non mi pare siano mai caduti. Non si  tratta semplicemente di un ostacolo «politico»: ha a che vedere con la  «relazione di capitale», con il rapporto sociale di produzione.
Dobbiamo  aggiungere una cautela, che segnala un problema aperto. Abbiamo detto  che la strategia di investimento delle imprese dipende dalla capacità  produttiva inutilizzata, la quale a sua volta dipende dalla domanda  effettiva. È però sempre più vero nel capitalismo contemporaneo che lo  stesso investimento dei global player tende coscientemente a  creare capacità produttiva inutilizzata, come forma di concorrenza  «aggressiva» nei confronti dei concorrenti. Vale anche la pena di fare  un rapido cenno ad un aspetto significativo dell’analisi di Baran e  Sweezy, la loro visione dell’imperialismo (poi sviluppata da Harry  Magdoff). Per la Monthly Review l’imperialismo non ha tanto a che  vedere, come per la Luxemburg, con la caccia ai nuovi mercati (che il  capitalismo del centro nel Novecento ha peraltro saputo procurarsi da  sé); e neppure, come in Lenin, con capitali in eccesso che vengono  esportati e creano poi, come conseguenza, sbocchi per le esportazioni di  merci (anche qui, va detto, il capitalismo del centro nel Novecento ha  assorbito capitali più di quanti ne siano defluiti all’esterno).  L’imperialismo per i nostri autori ha semmai a che fare con la difesa  della propria quota di mercato da parte delle multinazionali, e con gli  interessi del blocco militare-industriale.
“Il capitale monopolistico” e la teoria del valore-lavoro
Il capitale monopolistico  fu molto contestato dai marxisti ortodossi. Al cuore di queste critiche  era la tesi che, visto che nel capitalismo della concorrenza tra  oligopoli questi ultimi hanno un potere di mercato sui prezzi, ciò  determinerebbe una tendenza del surplus ad aumentare. Il punto fu letto  un po’da tutti come un rigetto della teoria marxiana del valore e della  crisi. Vi erano, per così dire, delle prove indiziarie a conferma.  Innanzi tutto, lo stile del libro, che volutamente si teneva distante da  un apparato categoriale troppo esplicitamente legato al marxismo, e che  per essere letto dalle nuove generazioni era anzi declinato su un  linguaggio keynesiano o persino neoclassico. Era poi detto a chiare  lettere che gli autori preferivano il concetto di ‘sovrappiù’ come caratterizzato da Baran nel suo Il «surplus» economico –  e cioè come la differenza tra la produzione sociale totale e i costi  sociali necessari ad ottenerlo: questi ultimi essendo definiti in modo  da escludere il lavoro che non avrebbe avuto luogo in un ordine sociale  razionale non capitalistico – alla categoria marxiana di plusvalore:
“È vero che Marx dimostra – in alcuni passi del Capitale e delle Teorie del plusvalore  – che il plusvalore comprende [oltre a profitti, interessi e rendita]  anche altri elementi come le entrate dello stato e della chiesa, le  spese per trasformare le merci in moneta, e i salari dei lavoratori  improduttivi. In generale, tuttavia, Marx considerava questi elementi  come fattori secondari e li escludeva dal suo schema teorico  fondamentale. Noi sosteniamo che nel capitalismo monopolistico questa  impostazione non è più giustificata e speriamo che un cambiamento nella  terminologia contribuirà al necessario mutamento nella posizione  teorica” (p. 10-11).
Sicuramente  giocava anche la volontà di distaccarsi nella maniera più nitida  possibile dalla caduta tendenziale del saggio di profitto da aumento  della composizione di capitale, a favore di una determinazione del  plusvalore dal lato della domanda nelle nuove condizioni di un  capitalismo non più di libera concorrenza: senza però che questo  capitalismo sempre più «organizzato» fosse in grado di emanciparsi dalla  tendenza alla crisi, che veniva semmai accentuata, andando così contro  le tesi di Hilferding.
Anche in questa circostanza, a  distanza di vent’anni, nella intervista che abbiamo citato Sweezy torna  con note autocritiche sulla questione, e osserva: «Forse è stato un  errore». Con Baran avevano progettato un paio di altri capitoli per  spiegare i rapporti tra illoro impianto concettuale e la teoria marxiana  del valore: capitoli rimasti allo stadio di manoscritto alla morte di  Baran. E nell’introduzione alla ristampa dell’edizione greca lamenta le  incomprensioni rispetto alle loro intenzioni, e chiarisce che quella che  era stata presa come una constatazione ovvia, cioè il loro abbandono  della teoria del valore e del plusvalore di Marx, era del tutto falso.  Con Baran avevano inteso partire da quella teoria per procedere oltre:  anche qui scrive, «vedo ora che fu un errore» non averlo chiarito.  Avrebbero dovuto cominciare da una esposizione della teoria del valore  come si dà nel primo libro del Capitale, facendo seguire in prima  battuta la trasformazione dei valori in prezzi di produzione come  svolta da Marx nel libro terzo, e poi in seconda battuta il tema solo  accennato (per ovvie ragioni storiche) da Marx della trasformazione dei  valori, o dei prezzi di produzione, in prezzi di monopolio nello stadio  monopolistico del capitalismo: «in nessun momento Baran o io abbiamo  rigettato,esplicitamente o implicitamente, le teorie del valore e  plusvalore, ma abbiamo tentato soltanto di analizzare le modifiche che  si devono tenere in conto come conseguenza della concencentrazione e  centralizzazione del capitale».
Il punto è che, come  osserva Sweezy altrove, questa seconda trasformazione ha conseguenze più  significative della prima – una osservazione che mi pare alluda proprio  alla legge dell’aumento tendenziale del surplus. Queste  considerazioni di Sweezy hanno il limite di risultare in larga misura  implicite. A volte i due sembrano ragionare su un semplice paragone tra  il capitalismo degli oligopoli e il capitalismo della libera  concorrenza, sostenendo che il surplus nel primo sarebbe  superiore. In altri casi, in modo più significativo,affermano che la  determinazione non concorrenziale dei prezzi consente di far emergere un  sovrappiù più elevato di quel che deriva dalla mera dinamica del  processo immediato di valorizzazione. È possibile oggi seguire meglio il  discorso dei due autori perché nel numero di luglio-agosto 2012 della  «Monthly Review» è stato pubblicato un testo che Baran (soprattutto) e  Sweezy avevano redatto sulle «implicazioni teoriche» del Capitale monopolistico,  con un prezioso commento di John Bellamy Foster. Un punto importante è  la teorizzazione del salario: non più vincolato alla sussistenza, esso è  (come in Sraffa) variabile e in esso si nasconde parte del surplus.  Il capitale monopolistico può incrementare il sovrappiù non soltanto a  spese del capitale competitivo ma anche a spese dello stesso salario. La  quota del salario che include il sovrappiù non è tanto dovuta al  conflitto sociale, ma al fatto che tramite il salario trova sbocco e  assorbimento la stessa spesa «improduttiva»: si ha qui una acquisizione  di valori d’uso a cui non corrisponde un miglioramento qualitativo della  condizione dei lavoratori. Ciò apre in ogni caso la strada ad ottenere  profitto per «deduzione» dal salario, rallentando la crescita del valore  della forza-lavoro rispetto a quella che si sarebbe altrimenti avuta.
Sono  a questo proposito di grande interesse, ancora una volta, le  considerazioni avanzate da Claudio Napoleoni. In questo caso il  riferimento è ad alcune lezioni inedite dei primissimi anni Settanta. La  difficoltà di leggere il Capitale monopolistico come coerente con la marxiana teoria del valore/plusvalore può essere esposta nei termini seguenti. Nel libro terzo del Capitale  Marx sostiene che monopoli naturali o artificiali rendono possibile un  prezzo di monopolio superiore al prezzo di produzione e al valore delle  merci. Marx ritiene però che il modo di determinazione dei prezzi non  possa influire sulla formazione del valore e del plusvalore: incide  soltanto sulla distribuzione del plusvalore tra i vari capitali. Il  prezzo di monopolio consente semplicemente di appropriarsi di una parte  del profitto delle altre imprese, invece di spalmarlo uniformemente tra  tutte. L’unica altra possibilità è che l’extra plusvalore sia l’esito di  una redistribuzione dal salario al profitto. La forma di mercato  interviene quando si deve stabilire come il plusvalore si divide tra i  molti capitali o tra le classi.
Non è difficile,  sostiene Napoleoni, riformulare la tesi di Baran e Sweezy di una  crescita tendenziale del sovrappiù in modo da renderla compatibile con  la teoria marxiana del (plus)valore-lavoro. È vero che il capitale  monopolistico non può produrre plusvalore in eccesso alla situazione di  libera concorrenza, se gli altri fattori rimangono invariati. Vi sono  però due processi a cui accennano i due marxisti americani che possono  essere chiamati in soccorso. Il primo processo ha a che vedere con  l’andamento nel tempo della forza produttiva del lavoro  all’interno del capitalismo monopolistico. Qualora si potesse sostenere  che la forza produttiva tende a crescere nel mondo del capitale  monopolistico più di quanto non avverrebbe in libera concorrenza, per  esempio attraverso l’adozione di una tecnologia migliore, la supposta  contraddizione con la teoria marxiana del (plus)valore svanirebbe. E ciò  non soltanto è congruente con il rigetto da parte dei due autori di  ogni critica «romantica» alle forme imperfette della concorrenza,  secondo cui il monopolio comporterebbe l’arretratezza, ma è coerente con  il rapporto intellettuale di Sweezy con Schumpeter, pur nella reciproca  distanza.
Il secondo processo ha a che vedere con il  salario. Il caso di Marx è quello in cui il capitalista che gode di una  posizione oligopolistica è in grado di aumentare i propri salari  trasferendo il maggiore costo del lavoro sui propri prezzi. L’aumento  del salario delle imprese oligopolistiche spinge ad un aumento del  salario delle altre imprese, che vedono così una diminuzione del proprio  profitto. Può però considerarsi anche un altro meccanismo. L’aumento  delle dimensioni di impresa dà luogo ad un abbattimento dei costi  unitari, e consente di adottare nuove tecnologie e nuovi metodi di  organizzazione del lavoro, il che fa crescere la forza produttiva del  lavoro. Se a questo punto il salario reale e l’intensità capitalistica  crescono nella stessa proporzione, il saggio del profitto non muta. Il  salario reale può essere spinto verso l’alto dalla forza sindacale, sino  ad eccedere gli incrementi di produttività; ma nel capitale  monopolistico i prezzi sono «fatti»dalle imprese. Il possibile conflitto  salariale potrebbe a questo punto essere «accomodato» dall’autorità  monetaria, la quale favorisce quella risposta inflazionistica da parte  delle imprese che è consentita dalla particolare struttura di mercato,  permettendo loro di difendere, o persino ampliare, i margini di  profitto.
Mentre in una situazione di libera  concorrenza il salario reale segue da vicino i movimenti del salario  monetario, le cose stanno diversamente in condizioni di monopolio. Ora  l’incremento della forza produttiva si porta dietro una crescita del  salario monetario che però può essere (più che) eroso dai prezzi.  L’aumento tendenziale del plusvalore che ne discende può essere tanto  più rilevante quanto più, nel capitalismo contemporaneo, il salario  dipende dal conflitto tra le classi sociali, e non da una sussistenza  data. Il problema di trovare uno sbocco al surplus si pone a questo  punto in termini sempre più gravi. Se la domanda per investimenti e  consumi dei capitalisti non è sufficiente ad assorbire il surplus, si  apre un vuoto di domanda, che, se non è colmato per altre vie, rende  soltanto potenziali e non reali i maggiori profitti insiti  nell’accrescimento del sovrappiù.
La difficoltà  di realizzo può essere risolta secondo modi «esterni» o «interni».  Limitandoci a ricordare per il primo versante i già accennati filoni  leniniano e luxemburghiano, concentriamoci sui secondi. Tra i modi  «interni» vi sono i seguenti: spese per pubblicità; formazione di ceti  che siano «puri» consumatori improduttivi; ampliamento delle burocrazie  pubbliche e private; intermediazione commerciale pletorica, espansione  della borghesia finanziario-speculativa. Di qui si origina una domanda  di consumo che, se ha come sorgente ultima il plusvalore, viene  immediatamente da ceti alleati al capitale che si sono appropriati di  parte del profitto lordo. Va anche considerata la spesa pubblica,  finanziata in disavanzo, quando dà luogo alla produzione di valori d’uso  che non rientrano nella riproduzione del capitale. Svolge qui un ruolo  centrale la spesa militare. Commenta Napoleoni nella voce «Capitale» della Enciclopedia Europea Garzanti:
“L’esempio di  queste pratiche configura un capitalismo che è aggressivo verso  l’esterno, e che ha rilevanti elementi di «improduttività» all’interno,  dove la «produttività» è determinata secondo i criteri del capitalismo  stesso, e dove, d’altra parte, il termine di riferimento è costituito  dalle potenzialità implicite nello stesso capitale monopolistico, e non  dai risultati conseguiti dal capitalismo concorrenziale, che aveva una  dinamica certamente meno accentuata. Il capitale monopolistico, che pure  ha modificato sostanzialmente il classico andamento ciclico del primo  capitalismo, è dunque soggetto ad una particolare instabilità, dovuta  alla compresenza della tendenza inflazionistica derivante dalla  possibilità di amministrare i prezzi, e di quella deflazionistica,  derivante dalla difficoltà di realizzazione.”
Nello sviluppo che Napoleoni propone delle tesi del Capitale monopolistico  il punto di vista è integralmente immanente, in contrasto con le  interpretazioni più consuete del libro di Baran e Sweezy. La sua lettura  del capitalismo monopolistico viene prolungata in una interpretazione  della crisi degli anni Settanta dove la variabile chiave è un aumento  del salario relativo (cioè, relativamente al plusvalore) come reazione  all’aumento dello sfruttamento. Secondo Napoleoni, il capitalismo  monopolistico è sfuggito ad una nuova grande crisi da realizzo mediante  l’espansione di un’area di «rendita» (che Baran e Sweezy avrebbero  definito «spreco») la quale, se ha reso la massa del profitto  appropriato dalle imprese minore di quella potenziale, ne ha però  garantito gli sbocchi di mercato. Nel nuovo contesto, un più alto  salario, aggiungendosi alla rendita, potrebbe comprimere il profitto  effettivo. Qualora l’inflazione come meccanismo di recupero del profitto  si rivelasse un’arma spuntata, incapace di moderare l’aumento delle  retribuzioni reali, il salario come costo si andrebbe ad aggiungere al  prelievo costituito dalla rendita: la caduta del profitto si  confermerebbe, determinando una crisi strutturale del rapporto  capitalistico. Se invece l’arma dell’inflazione si rivelasse efficace,  potrebbe avvenire che gli stessi ceti improduttivi diventino la  principale sorgente d’inflazione, determinando così per altra via una  compressione del profitto e la crisi capitalistica. La pressione dal  salario e dalla rendita potrebbe in teoria darsi congiuntamente.
Una  riflessione del genere non la si trova in Baran e Sweezy, ma è a mio  parere importante per intendere appieno la nuova grande crisi  capitalistica che mette fine al cosiddetto «fordismo». Negli anni  Sessanta e Settanta il gruppo della «Monthly Review» giudicava la classe  operaia «centrale» integrata, e scommettevano sui movimenti alla  «periferia». Napoleoni era al contrario convinto che alla fine degli  anni Sessanta e neiprimi anni Settanta si fosse data una acutizzazione  del conflitto di classe nel«centro» stesso del capitalismo. La posizione  di Sweezy potrebbe a prima vista essere assimilata a quella espressa da  Kalecki in un articolo sulla «riforma fondamentale» del capitalismo  scritto con Tadeusz Kowalik. Quella di Napoleoni potrebbe invece  sembrare in continuità con il Kalecki del 1943-44, che negava la  possibilità di un capitalismo di piena occupazione e alti salari come  situazione permanente. Una realtà del genere avrebbe eroso le basi del  dispotismo capitalistico nei luoghi di produzione. I due scritti di  Kalecki sembrano in contraddizione. Nel 1943 il capitalismo keynesiano è  giudicato impossibile, se visto come regime stabile. Nel 1970 la tesi  appare quella di una ormai compiuta stabilizzazione del capitalismo  postbellico, grazie alle politiche economiche keynesiane. Le cose stanno  un po’ diversamente. Nel 1970 i due economisti polacchi affermano che  si sarebbe avuta una «limitata» e «temporanea» stabilizzazione del  capitalismo rispetto all’instabilità drammatica, politica ed economica,  che si era data nell’interludio tra le due grandi guerre mondiali. Nulla  di meno, ma nulla di più: e anche qualche cosa di largamente  condivisibile. Il che non toglie (come Kowalik oggi riconosce) che  Kalecki,come anche Sweezy, sottostimassero le contraddizioni del  capitalismo «centrale»di quegli anni. Su questo all’epoca lo sguardo di  Napoleoni fu più lucido.
La «Monthly Review» e gli anni della «finanziarizzazione»
Si  sbaglierebbe a sottovalutare il seguito dell’elaborazione di Sweezye  della «Monthly Review». Come ho sostenuto con Halevi, il gruppo fu in  grado di percepire nitidamente – molto più nitidiamente del resto del  marxismo e del postkeynesismo – una delle strade di risposta del sistema  alla crisi. Dalla fine degli anni Settanta Sweezy, quasi sempre insieme  a Harry Magdoff, apportò un arricchimento essenziale alla teoria del  capitalismo monopolistico, cogliendo con grande tempestività il ruolo  cruciale del debito e della finanza. In questi scritti – si tratta per  lo più di articoli poi raccolti in volume – si coglie bene il ruolo  tanto patologico quanto funzionale all’accumulazione di questa rinnovata  «finanziarizzazione», in undialogo a distanza con Hyman P. Minsky.
Già  nella seconda metà degli anni Settanta Sweezy e Magdoff segnalano che  l’esplosione del debito, sia pubblico che privato, introduce meccanismi  qualitativamente nuovi, e segna una discontinuità. I due autori sono  pronti a cogliere, al di là dell’integrazione, la frammentazione della  classe lavoratrice, in modi che mettono in difficoltà la tradizione  ricevuta del marxismo, e a sottolineare come prima necessità la lotta  contro queste tendenze disgregatrici. Nella raccolta del 1977 viene  chiarito il nesso che porta dal capitalismo monopolistico  all’indebitamento. Il pezzo centrale di quel testo si intitola: «Banche:  pattinando sul ghiaccio sottile». Benchè alquanto tecnico, è uno  scritto preveggente. L’espansione dei crediti non era, in prima battuta,  dovuta ad aspettative ottimistiche. Semmai, era diventato lo strumento  per far denaro scommettendo sulla capacità di ripagare i debiti in futuro  nonostante i vincoli posti alla liquidità e la circostanza che  l’orizzonte temporale degli investimenti nello stock di capitale, come  anche del «ritorno» in termini di flussi di cassa, era più lungo di  quanto non fosse quello della restituzione dei prestiti. I due marxisti  identificano, in altri termini, la tendenza ad un «accorciamento»  dell’indebitamento. Pochi anni dopo, nella raccolta del 1981,  individuavano, in tempo reale, l’incremento sistematico del rapporto tra  consumo delle famiglie e reddito disponibile. Si tratta di fenomeni che  discendevano – ma anche, rispondevano – alla tendenza stagnazionistica,  e dunque si avvitavano su se stessi per impedire che quella tendenza si  realizzasse a pieno.
Nella raccolta del 1987 Magdoff e Sweezy sintetizzavano così il loro discorso:
“Tra  le forze contrastanti la tendenza alla stagnazione nessuna è stata così  importante, e al tempo stesso meno compresa dagli analisti economici,  della crescita – che inizia negli anni Sessanta e che rapidamente prende  da allora velocità con la grave recessione degli anni Settanta –  dell’indebitamento su scala nazionale (governo, imprese, individui) ad  un ritmo che eccede di gran lunga quello dell’economia reale. Ne è  risultato il costituisi di una superstruttura finanziaria enorme e  fragile in una misura che non ha precedenti, e che è soggetta a tensioni  e scosse che sempre di più minacciano l’intera economia.”
 Si può a questo punto apprezzare quanto Sweezy osserva in una intervista pubblicata dalla «rivista del manifesto» in occasione dei suoi novantanni:
“Il  capitalismo si modifica continuamente; non è mai uguale a se stesso.  Questa integrazione globale di produzione e finanza in una teoria  generale del processo capitalista sta ancora muovendo i primissimi  passi; non viene mai trattata in modo esauriente. In Keynes vi sono  alcuni accenni e anche Marx suggerisce qualcosa al riguardo, ma una vera  e propria elaborazione teorica sarebbe avvenuta solo in una concreta  fase storica che avrebbe reso necessaria la nuova teoria. E questo sta  avvenendo oggi. Sia io sia Harry Magdoff sentiamo di essere forse troppo  vecchi e non abbastanza agili intellettualmente per occuparci della  questione. Quello che possiamo fare è incoraggiare i più giovani a  riflettervi e magari a saltare fuori con qualche idea.”

La repubblica che non c'è. La grande occasione persa del movimento



La repubblica che non c’è. 
Un luogo virtuale, ma dagli effetti tangibili. E’ un luogo necessario, dove i saggi e i buoni di tutto il mondo si riuniscono per pensare a come mettere i bastoni fra le ruote ai potenti. 
Una nuova repubblica indipendente, con ministri  e presidenti eletti dal popolo del 99%, capace di misurarsi con le grandi potenze. 
Questo poteva essere il movimento di Seattle e di Genova. 
Questo dovrebbe diventare

mercoledì 26 agosto 2015

L'Impero e la guerra

di Danilo Zolo da sinistrainrete


Mi propongo in questo saggio di presentare una ricognizione linguistica e un'analisi critica degli usi della nozione di "impero" che oggi ricorrono sempre più spesso nella letteratura politologica e internazionalistica occidentale. Vorrei che la mia riflessione offrisse un minimo contributo alla precisazione del concetto teorico-politico di "impero" e alla giustificazione, a certe condizioni, del suo uso contemporaneo. Non si tratta di un esercizio di lessicografia accademica. Il riemergere della nozione di "impero" è uno degli indici della profonda trasformazione degli assetti politici internazionali legata ai processi di integrazione globale e all'affermarsi di fenomeni di crescente polarizzazione del potere e della ricchezza su scala planetaria (1).
Nello stesso tempo è in atto un processo di dislocazione delle sovranità statali a favore di nuovi attori internazionali - militari, politici, economici, giudiziari - come la NATO, il G8, l'Unione Europea, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, le Corti penali internazionali, e così via. All'interno di questa arena transnazionale emerge l'egemonia di alcune grandi potenze occidentali guidate dagli Stati Uniti d'America.
E gli Stati Uniti svolgono sempre più il ruolo di una potenza imperiale "globale" che si pone al di sopra del diritto internazionale e in particolare del diritto bellico. Essa è in grado di ricorrere all'uso della forza in palese violazione del diritto internazionale e ottenendo per di più dalle istituzioni internazionali prestazioni di legalizzazione dello status quo. Ciò si verifica sia in termini di legittimazione normativa dei risultati di guerre di aggressione mascherate come interventi umanitari o come guerre preventive contro il "terrorismo globale", sia in termini di ricorso alla giustizia penale internazionale ad hoc. Dal Tribunale dell'Aja per la ex-Jugoslavia al Tribunale speciale iracheno - iracheno, ma in realtà imposto dagli Stati Uniti - si perpetua il "modello di Norimberga": una "giustizia dei vincitori" che le grandi potenze applicano agli sconfitti e ai popoli oppressi.
Questi fenomeni hanno subìto una forte accelerazione alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, dopo la conclusione della guerra fredda, il crollo dell'Unione sovietica, il tramonto dell'ordine bipolare del mondo, l'affermazione degli Stati Uniti come la sola superpotenza planetaria e il diffondersi del terrorismo a livello internazionale. Ed hanno conosciuto un'ulteriore accelerazione dopo l'11 settembre 2001 e le guerre di aggressione condotte dagli Stati Uniti contro l'Afghanistan e contro l'Iraq.

1. Un'avvertenza metodologica

Il lemma "impero", così come oggi viene usato in Occidente, presenta valori semantici in larga parte non coincidenti con le accezioni di "impero" e di "imperialismo" caratteristiche del pensiero marxista e largamente diffuse nel secolo scorso (2). Rispetto alle teorie marxiste gli usi recenti sono meno ambiziosi sul piano politico e anche meno elaborati sul piano teorico, ma proprio per questo essi svolgono rilevanti funzioni simboliche e comunicative. Va segnalato, a questo proposito, che secondo un certo numero di autori "impero" non è lo strumento concettuale più appropriato per denotare l'attuale assetto delle relazioni internazionali e per favorirne una interpretazione e comprensione adeguata.
Michael Doyle, ad esempio, propone, se non altro, di tenere nettamente distinta la nozione di "impero formale" da quella di "impero informale", la sola eventualmente pertinente al mondo contemporaneo. Nell'impero formale, rappresentato essenzialmente dal "modello romano", il dominio viene esercitato attraverso l'annessione territoriale. E l'amministrazione dei territori annessi è affidata a governatori coloniali sostenuti da truppe metropolitane e da collaboratori locali. L'impero informale, secondo il "modello ateniese", esercita invece il suo potere attraverso la manipolazione e la corruzione delle classi politiche locali, e lo esercita su territori contigui e nei confronti di regimi legalmente indipendenti (3).
Altri autori - fra questi alcuni teorici neorealisti delle relazioni internazionali come Robert Gilpin, Kenneth Waltz e Robert Keohane - di fronte all'alternativa fra il concetto di "impero" e quello di "egemonia" optano decisamente per il secondo. Keohane, in particolare, ha elaborato con notevole successo la nozione di hegemonic stability, che assume il primato di una o più grandi potenze come fattore di stabilizzazione delle relazioni internazionali e concepisce questo primato in termini molto lontani dall'idea di una conflittualità espansionistica permanente, secondo il modulo imperiale classico (4). Altri ancora ritengono che il termine "impero" debba essere rigorosamente limitato alle formazioni politiche universalistiche che hanno preceduto la nascita, nell'Europa del Seicento, del sistema vestfaliano degli Stati sovrani. La prevalenza entro i sistemi politici delle grandi potenze contemporanee del potere economico e dell'influenza culturale rispetto al potere politico-militare - si sostiene - è di per sé sufficiente a consigliare l'abbandono del modello imperiale o a raccomandare, quanto meno, una sua radicale riformulazione (5). Per contro, altri autori - fra questi, come vedremo, Alain de Benoist - si richiamano all'autorità di Carl Schmitt per legittimare l'uso del termine "impero" con riferimento alla dilatazione imperialistica della "dottrina Monroe", praticata dagli Stati Uniti a partire dal cosmopolitismo wilsoniano e che a loro parere ha continuato a influenzare profondamente le strategie espansionistiche della grande potenza americana (6).
E' dunque necessaria un'avvertenza metodologica per quanto riguarda il significato generale che il termine "impero" presenta oggi all'interno della cultura politica occidentale. In questo contesto il termine assume un valore semantico e una portata simbolica che tendono a cristallizzarsi in un vero e proprio paradigma. Al di là di varianti di dettaglio, questo paradigma imperiale allude ad una forma politica contraddistinta dalle tre seguenti caratteristiche morfologiche e funzionali:
1.1. La sovranità imperiale è una sovranità politica molto forte, accentrata e in espansione. Attraverso di essa l'impero esercita un potere di comando "assoluto" sulle popolazioni che risiedono nel territorio della madrepatria. A questo potere diretto si aggiunge un'ampia sfera di influenza politica, economica e culturale su altre formazioni politiche, più o meno contigue territorialmente, che conservano a pieno titolo la loro sovranità formale, per quanto si tratti, di fatto, di una sovranità limitata. Da questo punto di vista, come ha sostenuto Carl Schmitt, la "dottrina Monroe", applicata inizialmente dagli Stati Uniti nel subcontinente americano e poi dilatata al mondo intero, è stata una tipica espressione di espansionismo imperiale (7).
1.2. Al centralismo e all'assolutismo degli apparati di potere imperiale - l'autorità imperiale è per definizione legibus soluta sul piano internazionale ed esercita all'interno un potere non "rappresentativo" - si accompagna un ampio pluralismo di etnie, comunità, culture, idiomi e credenze religiose diverse, separate e distanti fra loro. Rispetto ad esse il potere centrale svolge un controllo più o meno intenso, ma che tuttavia non minaccia la loro identità e relativa autonomia culturale. In questo senso specifico assume un valore paradigmatico il modello dell'Impero ottomano, con l'istituto del millet e una diffusa pratica di tolleranza confessionale (8). La combinazione di assolutismo antiegualitario e di pluralismo etnico-culturale connota l'impero opponendolo al carattere rappresentativo e nazionale dello Stato di diritto europeo.
1.3. L'ideologia imperiale è pacifista e universalista. L'Impero viene concepito come un'entità perenne: è un potere supremo, garante di pace, di sicurezza e di stabilità per tutti i popoli della terra. La pax imperialis è per definizione una pace stabile e universale: l'uso della forza militare ha come scopo esclusivo la sua promozione. L'Imperatore è il solo, unico imperatore che per mandato divino (o per un destino provvidenziale) comanda, di fatto o potenzialmente, sul mondo intero: un solo basileus, un solo logos, un solo nomos. In quanto imperator, l'imperatore è il supremo capo militare; in quanto pontifex maximus è il sommo sacerdote; in quanto princeps esercita una giustizia sovrana. Il regime imperiale si autoconcepisce e si impone come un regime mono-cratico, mono-teistico e mono-normativo.
E' chiaro che la fonte remota ma determinante di questo paradigma è l'Impero romano, da Augusto a Costantino, con le sue strutture, la sua prassi, la sua ideologia (9), sia pure in una versione tendenzialmente "informale", nell'accezione proposta da Doyle. Ovviamente, se si volesse cogliere nella sua complessità la genesi di questo archetipo romanistico, si dovrebbero studiare le esperienze imperiali che si sono sviluppate in Europa dopo la caduta dell'Impero romano e che al suo modello si sono più o meno direttamente ispirate. Si pensi, ad esempio, a formazioni politiche come l'Impero germanico-feudale, l'Impero bizantino, l'Impero ottomano, l'Impero spagnolo (10). Nessuna diretta influenza sembra invece essere stata esercitata dall'esperienza degli imperi antichi: mediorientali, mesopotamici, cinesi. Scarso rilievo nella formazione di questo paradigma sembra che si debba attribuire sia all'esperienza dell'Impero napoleonico (11), sia alle vicende degli imperi coloniali, dai più risalenti, come quello britannico, ai più recenti (12).
Sono quattro gli usi della nozione di "impero" - corrispondente all'archetipo romanistico, attenuato in senso "informale" - che a mio parere sono presenti nella letteratura politologica e internazionalistica contemporanea, inclusa la nozione marxista di "imperialismo" che conserva un rilievo non del tutto marginale nella scia di alcune dottrine neo-marxiste delle relazioni internazionali che si sono affermate negli anni sessanta e settanta del secolo scorso.

2. Imperialismo e impero nell'uso neo-marxista

La nozione di "impero" implicata dalle teorie marxiste dell'imperialismo, basate sulla concezione classista della storia e sulla critica "materialista" dell'economia capitalistica, è ancora oggi presente in una parte della letteratura politologica occidentale (13). "Impero" in questo senso è nozione in larga misura destoricizzata e inserita nel contesto di una filosofia della storia che fa dell'imperialismo l'esito necessario dello sviluppo dell'economia capitalistica.
Questa dottrina dell'imperialismo oggi gode di un credito molto più limitato rispetto ad un passato anche recente. Ciò che di questa teoria dell'impero oggi è sottoposto a critica è soprattutto la tesi dell'esistenza di un "fattore causale", di natura economica, che determinerebbe il passaggio dal capitalismo all'imperialismo come necessaria condizione di sviluppo (o di sopravvivenza) dell'economia di mercato. L'imperialismo, in questo senso, è una dinamica di espansione dell'economia di mercato oltre il suo ambito naturale - l'area dei paesi industriali occidentali -, che arriva a coinvolgere nei suoi meccanismi di sfruttamento la forza-lavoro dei paesi industrialmente arretrati. Da questo punto di vista imperialismo e colonialismo sono fenomeni strettamente connessi. Per Lenin, come è noto, il "fattore causale" era la caduta tendenziale del saggio di profitto e la crescente concorrenza fra i capitalisti, mentre per Rosa Luxemburg questa funzione era svolta dal sottoconsumo dovuto all'impoverimento del proletariato europeo (14).
Assai più presenti al dibattito politologico contemporaneo sono le dottrine neo-marxiste dello sviluppo capitalistico e dei suoi approdi imperialistici, come la teoria del capitale monopolistico di Paul Baran e Paul Sweezy, la "teoria della dipendenza", elaborata, fra gli altri, da André Gunder Frank, o la teoria del "sistema mondiale" di Immanuel Wallerstein (15). Rispetto all'ortodossia marxista-leninista, in queste versioni neomarxiste la nozione di "impero" tende ad assumere caratteristiche assai più vicine all'"archetipo romanistico" cui ho sopra accennato. Baran e Sweezy, ad esempio, hanno collegato l'evoluzione imperialistica del "capitalismo monopolistico" - concentrato e centralizzato - alla necessità, assai più politica che economica, che i paesi industriali avanzati hanno di destinare il surplus a investimenti di natura militare. La gerarchia delle nazioni che compongono il sistema capitalistico - hanno sostenuto Baran e Sweezy - presenta un assetto piramidale: i paesi collocati al vertice sfruttano quelli situati a un livello più basso, sino a giungere all'ultimo paese che non ha più nessuno da sfruttare. Il vertice della gerarchia è la "metropoli imperiale" mentre i gradini più bassi formano la "periferia coloniale". La vocazione militarista degli Stati Uniti d'America - che occupano l'intero spazio metropolitano - dipende dall'esigenza che la loro forza armata venga usata sistematicamente per mantenere e, se possibile, irrobustire, la loro posizione di leadership nella gerarchia dello sfruttamento (16).
Naturalmente anche le versioni neo-marxiste dell'imperialismo sono state sottoposte a critica. Per autori liberal come Robert Gilpin o come Joseph Stiglitz, ad esempio, il crescente divario fra paesi ricchi e paesi poveri non dipende da forme di oppressione "imperialistica", formale o informale che sia. La globalizzazione economica e l'apertura mondiale dei mercati non può essere interpretata secondo lo schema della "gerarchia" imperiale dello sfruttamento capitalistico. La polarizzazione crescente nella distribuzione delle risorse globali dipende dal diverso grado di produttività dei sistemi economici nazionali, e quindi dai livelli di cultura, qualificazione tecnica, competenza amministrativa e capacità di iniziativa che caratterizzano i diversi paesi. E' su questi parametri che, secondo Gilpin e Stiglitz, occorrerebbe intervenire, oltre che sulla regolazione degli scambi commerciali internazionali e dei movimenti dei capitali. E a questo fine sarebbe necessaria una profonda trasformazione delle politiche adottate negli ultimi decenni dalle istituzioni economiche internazionali, a cominciare dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca mondiale, sottoposte al Washington consensus (17).

3. Un'Europa imperiale?

Oggi è la cosiddetta "Nuova destra" francese, rappresentata in particolare da Alain de Benoist, a riproporre un'idea imperiale che si richiama direttamente alla elaborazione schmittiana. C'è in de Benoist e nel movimento Grece (Groupement de recherches et d'études pour la civilisation européenne) che al pensiero di de Benoist si ispira, un netto rifiuto del nazionalismo e del liberalismo in nome sia di un europeismo culturale, sia di un "pluralismo localista". Questa è la radice dell'idea di un''Europa imperiale" che ammetta un'ampia pluralità politica interna, non nazionalistica ma etnica e regionalistica. De Benoist respinge l'idea gollista dell''Europa delle patrie"; liberalismo e nazionalismo statalistico sono da lui denunciati come dispositivi economici e ideologici che producono sradicamento e uniformità culturale. Alla americanizzazione della Francia e dell'Europa de Benoist oppone una cultura "pagana" che egli fa risalire alle origini indo-europee della tradizione europea. E alla proposta di un europeismo imperiale fa corrispondere una dura polemica contro l'imperialismo degli Stati Uniti, accusati di essere espressione suprema della disumanizzazione, della volgarità e della stupidità. L'Europa imperiale, egli proclama, o si farà contro gli Stati Uniti o non si farà (18).
Per de Benoist non ci sono che due modelli per costruire l'Europa: l'impero e la nazione. La nazione è ormai troppo grande per regolare i problemi locali e troppo piccola per occuparsi delle questioni globali, in particolare di quelle economiche. "L'Impero, nel senso più tradizionale del termine - sostiene de Benoist - è il solo modello che possa conciliare l'uno e il molteplice: è la politia che organizza l'unità organica delle sue diverse componenti, rispettando la loro autonomia" (19). L'inconveniente, aggiunge de Benoist, è che da Maastricht in poi non emerge il disegno di un'Europa autonoma, politicamente sovrana, decisa a dotarsi dell'equivalente di ciò che la "dottrina Monroe" è stata per gli Stati Uniti (è particolarmente chiara qui l'influenza del pensiero di Schmitt). Siamo invece in presenza di un'Europa senza progetto, legittimità e identità politica.
La proposta di de Benoist non è priva di aspetti interessanti, anche se, è appena il caso di dire, il modello euro-imperiale non sembra che possa essere accolto nè da forze politiche europee di ispirazione liberale, né da una sinistra europea modellata sulla tradizione liberal-democratica. Il paradigma imperiale, come abbiamo visto, comporta una concezione assolutistica e antiegualitaria del potere, anche se tollerante e compatibile con il pluralismo etnico-culturale. E non sembra agevolmente proponibile neppure l'idea di un'Europa "pagana" - non semplicemente laica -, se è vero che la cultura europea è frutto della filosofia greca, del diritto romano e dell'illuminismo, ma lo è anche dei tre monoteismi che sono fioriti sulle sponde del Mediterraneo: quello israelitico, quello cristiano e, last but not least, quello islamico.
Si può inoltre osservare che non è chiaro se, nel riferirsi, sulle orme di Schmitt, al modello della "dottrina Monroe", de Benoist pensi ad una "Europa imperiale" sotto l'influenza di uno o più Stati egemoni - eventualmente la Francia e la Germania - e se la sua idea di impero sia compatibile con una strutturazione egualitaria dei rapporti fra le diverse cittadinanze europee e quindi con l'eguale tutela dei diritti fondamentali dei cittadini europei, tematiche entrambe relativamente estranee alle elaborazioni della "nuova destra" francese (20).

4. Hardt e Negri: un'apologia dell'Impero globale

Nel loro fortunatissimo volume, Empire, Michael Hardt e Antonio Negri sostengono che il nuovo "ordine mondiale" imposto dalla globalizzazione ha portato alla scomparsa del sistema vestfaliano degli Stati sovrani (21). Non ci sono più Stati nazionali, se non per le loro esangui strutture formali che ancora sopravvivono entro l'ordinamento giuridico e le istituzioni internazionali. Il mondo non è più governato da sistemi politici statali: è governato da un'unica struttura di potere che non presenta alcuna analogia significativa con lo Stato moderno di origine europea. E' un sistema politico decentrato e deterritorializzato, che non fa riferimento a tradizioni e valori etnico-nazionali, e la cui sostanza politica e normativa è l'universalismo cosmopolitico. Per queste ragioni i due autori ritengono che "Impero" sia la denotazione più appropriata per il nuovo tipo di potere globale.
Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che l'Impero - o il suo nucleo centrale ed espansivo - sia costituito dagli Stati Uniti d'America e dai loro più stretti alleati occidentali. Né gli Stati Uniti, né alcun altro Stato nazionale, Hardt e Negri dichiarano con forza, "costituiscono attualmente il centro di un progetto imperialista" (22). L'Impero globale è tutt'altra cosa rispetto all'imperialismo classico e sarebbe un grave errore teorico confonderlo con esso.
Questo è un punto molto delicato sia sul piano teorico, sia su quello politico, e che ha sollevato un'ampia discussione. Si è sostenuto che nelle pagine di Hardt e Negri l'Impero sembra sfumare in una sorta di "categoria dello spirito"; è presente in ogni luogo poiché coincide con la nuova dimensione della globalità. Ma, si è obiettato, se tutto è imperiale, niente è imperiale. Come individuare i soggetti sovranazionali portatori degli interessi o delle aspirazioni imperiali? Contro chi rivolgere la critica e la resistenza anti-imperialistica? Chi, se si escludono gli apparati politico-militari della grandi potenze occidentali - in primis degli Stati Uniti - esercita le funzioni imperiali (23)?
C'è un secondo aspetto della teoria dell'Impero di Hardt e Negri che ha sollevato obiezioni. E' un aspetto che sembra tributario dell'implicita "ontologia" che fa da contrappunto delle analisi di Hardt e Negri: la dialettica della storia, in una accezione caratteristica dell'hegelo-marxismo e del leninismo. Secondo i due autori l'Impero globale rappresenta un superamento positivo del sistema vestfaliano degli Stati sovrani. Avendo posto fine agli Stati e al loro nazionalismo, l'Impero ha messo fine anche al colonialismo e all'imperialismo classico ed ha aperto una prospettiva cosmopolitica che deve essere accolta con favore.
Secondo Hardt e Negri, ogni tentativo di far risorgere lo Stato-nazione in opposizione alla presente costituzione imperiale del mondo esprimerebbe una ideologia "falsa e dannosa". La filosofia no-global ed ogni forma di ambientalismo naturalistico e di localismo vanno dunque rifiutate come posizioni primitive e antidialettiche e cioè, in sostanza, "reazionarie". I comunisti - tali si dichiarano Hardt e Negri - sono per vocazione universalisti, cosmopoliti, "cattolici"; il loro orizzonte è quello dell'umanità intera, della "natura umana generica", come scriveva Marx. Nel secolo scorso le masse lavoratrici hanno puntato sull'internazionalizzazione delle relazioni politiche e sociali. Oggi i poteri "globali" dell'Impero devono essere controllati, ma non demoliti: la costituzione imperiale va conservata e finalizzata ad obiettivi non capitalistici. Per Hardt e Negri, anche se è vero che le tecnologie poliziesche sono il "nocciolo duro" dell'ordine imperiale, quest'ordine non ha nulla a che vedere con le pratiche delle dittature e del totalitarismo del secolo scorso.
Dal punto di vista della transizione ad una società comunista la costruzione dell'Impero è "un passo avanti": l'Impero "è meglio di ciò che lo ha preceduto" perché "spazza via i crudeli regimi del potere moderno" e "offre enormi possibilità creative e di liberazione" (24). Affiora qui una sorta di ottimismo imperiale le cui radici affondano, a mio parere, nella metafisica dialettica dell'hegelomarxismo. Un ottimismo imperiale che, come vedremo, si oppone al realismo e all'antiuniversalismo schmittiano, pur propenso a prendere atto della fine dell'ordinamento "statale" dello jus publicum europaeum e a proporre uno schema di ordine mondiale fondato sulla nozione post-statale di Grossraum.

5. Impero globale e guerra

Michael Ignatieff - autorevole esponente liberal anglo-americano - ha di recente sostenuto che gli Stati Uniti sono un impero. Si tratta di un impero di tipo nuovo, egli sostiene, che si ispira ai principi del libero mercato, dei diritti umani e della democrazia: una vera e propria "scoperta negli annali della scienza politica". Ma per quanto significative siano le novità e le specificità della loro egemonia globale, gli Stati Uniti, come tutti gli imperi del passato, hanno il loro pesante fardello di impegni e di responsabilità. Fra questi rientra la garanzia "della pace, della stabilità, della democratizzazione e dell'approvvigionamento di petrolio" nel Medio Oriente e nell'Asia centrale, dall'Egitto all'Afghanistan (25).
Gli Stati Uniti si trovano a svolgere il ruolo che in passato era stato garantito prima dall'Impero ottomano e poi dagli imperi coloniali della Francia e della Gran Bretagna. E' questa la ragione per cui, dopo aver sconfitto il regime dei Talebani e occupato l'Afghanistan, gli Stati Uniti hanno dovuto intervenire militarmente in Iraq, per scongiurare la proliferazione delle armi di distruzione di massa, prevenire l'azione dei network terroristici e rovesciare un regime tirannico e sanguinario. L'11 settembre ha dimostrato che gli Stati Uniti non sarebbero in grado di garantire al loro interno la pace sociale e l'affermazione dei valori democratici se non adottassero una politica estera imperiale.
Anche autori italiani, pur senza una specifica finalità teorico-politica, hanno sostenuto tesi analoghe a quelle di Ignatieff, dando loro tuttavia una valenza politica opposta, fortemente critica nei confronti dell'egemonia imperiale degli Stati Uniti (26). Personalmente, sia pure con qualche cautela terminologica e teorico-politica, ritengo che sia corretto usare l'espressione "impero" (e "impero globale') a proposito della crescente egemonia economica, politica e soprattutto militare della superpotenza statunitense.
Nel proporre questa tesi ho presente, senza tuttavia assumerlo direttamente come premessa teorica, il realismo e l'antinormativismo della filosofia del diritto internazionale di Carl Schmitt, così come essa è stata esposta in testi quali Völkerrechtliche Formen des modernen Imperialismus, del 1933, e Völkerrechtliche Grossraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte, del 1939, e come è stata poi riformulata, nel 1950, in Der Nomos der Erde (27). Della teoria dell'impero di Schmitt penso che sia da accogliere, come un importante contributo storico-teorico, la critica della proiezione universalistica della "dottrina Monroe" da parte degli Stati Uniti. Secondo Schmitt, dall'idea originaria di un Grossraum panamericano, particolaristico e difensivo, le strategie statunitensi sono via via passate a forme di intervento espansionistico ben oltre l'area caraibica e sud-americana. Questa proiezione universalistica e globalistica - imperiale - della dottrina Monroe ha trovato la sua massima espressione nell'idealismo wilsoniano e ha fortemente influenzato in senso universalistico e globalistico la struttura della Società delle Nazioni. Lo sviluppo planetario, ha scritto Schmitt in Der Nomos der Erde,
ha condotto a un netto dilemma fra universo e pluriverso, tra monopolio e polipolio, e cioè al problema se il pianeta sia maturo per il monopolio globale di un'unica potenza o sia invece un pluralismo di grandi spazi in sé ordinati e coesistenti, di sfere di intervento e di aree di civiltà a determinare il nuovo diritto internazionale della terra (28).
In secondo luogo non si può negare che Schmitt sia stato un analista penetrante nel denunciare, assieme alla dimensione globale e polimorfa dell'impero statunitense, la sua tendenza ad attribuire alla guerra dimensioni altrettanto globali e finalità di annientamento del nemico che erano state proprie delle guerre di religione. Senza dubbio gli Stati Uniti sono riusciti a imporre al mondo, assieme alla loro egemonia economica e politica, anche il monopolio della loro visione del mondo, del loro stesso linguaggio e vocabolario concettuale: Caesar dominus et supra grammaticam (29). Ma, la superpotenza americana si è imposta come un impero globale soprattutto grazie alla sua assoluta supremazia militare che le ha consentito di ergersi a garante dell'ordine mondiale, a "gendarme del mondo". Se la forza militare di uno Stato, sostiene Schmitt, è soverchiante, la nozione stessa di guerra si trasforma: il conflitto ha come finalità lo sterminio del nemico e l'ostilità diviene così aspra da non poter essere sottoposta ad alcuna limitazione o regolazione (30). Solo chi si trova in condizioni di irrimediabile inferiorità si appella, senza successo, al diritto internazionale contro lo strapotere dell'avversario. Chi invece gode di una completa supremazia militare fa della sua invincibilità il fondamento della sua justa causa belli e tratta il nemico, sul piano morale come su quello giudiziario, come un bandito e un criminale:
La discriminazione del nemico come criminale e la contemporanea assunzione a proprio favore della justa causa vanno di pari passo con il potenziamento dei mezzi di annientamento e con lo sradicamento spaziale del teatro di guerra. Si spalanca l'abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distuttiva. [...] Nella misura in cui oggi la guerra viene trasformata in azione di polizia contro turbatori della pace, criminali ed elelmenti nocivi, deve essere anche potenziata la giustificazione dei metodi di questo police bombing. Si è così indotti a spingere la discriminazione dell'avversario in dimensioni abissali (31).
In terzo luogo ritengo che la filosofia del diritto internazionale di Schmitt meriti attenzione quando sostiene che una riduzione della conflittualità internazionale e della distruttività della guerra moderna potrà difficilmente essere ottenuta attraverso istituzioni universalistiche e "despazializzate", come la Società delle Nazioni e le Nazioni Unite, impegnate in una radicale criminalizzazione giuridica della guerra. Secondo Schmitt un progetto di pacificazione del mondo richiede piuttosto un recupero neo-regionalistico dell'idea di Grossraum e un rilancio della negoziazione multilaterale fra gli Stati come fonte normativa e legittimazione dei processi di integrazione regionale, da opporre all'imperialismo statunitense.
Entro la cornice di questa filosofia del diritto e delle relazioni internazionali, l'antinormativismo e l'antiuniversalismo schmittiano converge con le posizioni anticosmopolitiche di teorici "neo-groziani" delle relazioni internazionali come Martin Wight e Hedley Bull (32). Bull, in particolare, ha insistito sulla necessità di recuperare categorie normative meno ispirate ad una concezione illuministica e giacobina dell'ordinamento internazionale. Contro la filosofia kelseniana del "primato del diritto internazionale" (33) Bull ha riproposto con forza idee come l'equilibrio fra le grandi potenze, la diplomazia preventiva, la negoziazione multilaterale fra gli Stati, lo jus gentium, inteso quale complesso di consuetudini internazionali affermatesi lentamente nel tempo, capaci, se non certo di sopprimere la guerra, almeno di renderla meno discriminante e distruttiva (34).
Quanto alla giustizia penale internazionale, inaugurata dai Tribunale di Norimberga e di Tokyo, Bull è stato fra i primi a denunciarne i limiti giuridici e le velleità pacifiste. In The Anarchical Society Bull ha sottolineato il carattere selettivo ed "esemplare" della giustizia dei vincitori. Queste caratteristiche violavano a suo parere il principio dell'uguaglianza formale delle persone di fronte alla legge e attribuivano alla giurisdizione dei due Tribunali internazionali un'arcaica e sinistra funzione sacrificale. La repressione penale era stata infatti applicata, ricorrendo largamente alla pena di morte, soltanto nei confronti di soggetti ritenuti, sulla base di valutazioni altamente discrezionali, come i più responsabili sul piano politico o come i più coinvolti in attività delittuose (35).

6. Conclusione

Sulla base delle argomentazioni sin qui svolte si può sostenere che il potere degli Stati Uniti è un potere "imperiale", in un significato complesso e in parte nuovo rispetto all'"archetipo romanistico": un significato che deve ovviamente tener conto delle novità che i processi di globalizzazione e le conseguenti trasformazioni in senso globale della guerra hanno introdotto nelle relazioni politiche internazionali.
Il potere degli Stati Uniti è un potere imperiale anzitutto in un senso strategico, trattandosi di una potenza che, grazie alla sua assoluta superiorità militare, può operare in una prospettiva universalistica, avvolgendo il pianeta con la fitta trama delle sue basi militari e la rete informatica dello spionaggio satellitare. Nei documenti più autorevoli del Pentagono e della Casa Bianca gli Stati Uniti si dichiarano, in quanto global power, il solo paese in grado di "proiettare potenza" su scala mondiale. Essi hanno interessi, responsabilità e compiti globali e devono perciò estendere e rafforzare l'America's global leadership role, e cioè la loro supremazia nel modellare i processi globali di allocazione della ricchezza e del potere, nel far prevalere la propria visione del mondo e nel dettare le regole per realizzarla (36).
Il potere degli Stati Uniti è un potere imperiale anche in un senso normativo, perché tende a ignorare sistematicamente i principi e le regole del diritto internazionale. La superpotenza americana si sottrae sia al divieto della guerra di aggressione stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite - il caso dell'aggressione all'Iraq è un esempio conclamato -, sia alle norme del diritto di guerra, sviluppate dall'ordinamento internazionale moderno, in particolare dalle Convenzioni di Ginevra del 1949, a tutela delle popolazioni civili e dei prigionieri di guerra. Mazar-i-Sharif, Guantánamo, Abu Ghraib, Bagram, Fallujah sono i nomi tristemente famosi che ricordano i crimini di cui le massime autorità politiche e militari degli Stati Uniti si sono macchiate in questi anni. Gli Stati Uniti sono i maggiori esportatori di armi e la maggiore fonte di inquinamento atmosferico del mondo e nello stesso tempo si rifutano di ratificare Convenzioni e Trattati intesi a ridurre le stragi di vite umane e la devastazione industriale dell'ambiente, come la "Convenzione sulle armi disumane", che vieta la produzione e l'uso delle mine antiuomo, e gli accordi di Kyoto sul controllo del clima. E non solo si sono rifiutati di ratificare il Trattato di Roma che nel 1998 ha approvato lo Statuto della Corte penale internazionale, ma sono attivi nel contrastarne le attività.
Questi comportamenti mostrano come il potere esercitato dagli Stati Uniti è legibus solutus, al di fuori e al di sopra del diritto internazionale. Un Imperatore decide di volta in volta sui singoli casi, ma non fissa principi normativi di carattere assoluto, né si impegna al rispetto di regole generali. Il potere imperiale è incompatibile sia con il carattere generale della legge, sia con l'eguaglianza giuridica dei soggetti dell'ordinamento internazionale. In questo senso gli Stati Uniti sono fonte sovrana di un nuovo diritto internazionale - di un nuovo "Nomos della terra" - in una situazione che la minaccia del global terrorism consente loro di presentare come uno "stato di eccezione" globale e permanente. L'autorità imperiale degli Stati Uniti amministra la giustizia globale, definisce i torti e le ragioni dei sudditi, pone le condizioni dell'inclusione degli Stati nel novero dei vassalli fedeli o, invece, dei rogue states, svolge funzioni di polizia internazionale contro il terrorismo, appiana le differenze e gestisce le controversie locali (persino la contesa mediterranea fra Spagna e Marocco per l'"isoletta del prezzemolo"!). In poche parole: gli Stati Uniti operano per la pace e la giustizia internazionale. Il loro potere imperiale è addirittura invocato dai sudditi per la sua capacità di risolvere i conflitti da un punto di vista universale, e cioè imparziale e lungimirante.
Ed è altrettanto significativo che oggi venga riproposta nella cultura angloamericana la dottrina del bellum justum. Si tratta di una dottrina medievale, tipicamente imperiale, che suppone l'esistenza di un potere e di un'autorità al di sopra di ogni altra autorità. Esemplare in questo senso è il documento dei sessanta intellettuali statunitensi che ha tempestivamente sponsorizzato come just war la guerra degli Stati Uniti contro l'"asse del male". Riemerge così l'antica credenza ebraico-cristiana per la quale lo spargimento del sangue dei nemici può essere moralmente raccomandato, se non addirittura esaltato perché voluto da Dio. L'attività di polizia internazionale che la potenza imperiale svolge usando mezzi di distruzione di massa richiede un potenziamento della persuasione comunicativa fondata su argomenti teologici ed etici, non semplicemente politici. La guerra viene giustificata di un punto di vista superiore e imparziale, in nome di valori che si ritengono condivisi dall'umanità intera. La guerra è presentata come lo strumento principe della tutela dei diritti dell'uomo, dell'espansione della libertà, della democratizzazione del mondo, della sicurezza e del benessere di tutti i popoli. La guerra globale ha come scopo ultimo la promozione di una pace globale. La pax imperialis è per definizione una pace perpetua e universale.

Note
*. Rielaborazione del saggio "L'uso contemporaneo della nozione di 'impero'", apparso sulla rivista Filosofia politica, 3, 2004.
1. Su questi temi mi permetto di rinviare al mio Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Roma-Bari, Laterza, 2004.
2. Si veda R. Owen, B. Sutcliff, Studi sulla teoria dell'imperialismo. Dall'analisi marxista alle questioni dell'imperialismo contemporaneo, Torino, Einaudi, 1977.
3. Cfr. A.W. Doyle, Empires, Cornell University Press, Ithaca (NY), 1986.
4. Cfr. R.O. Keohane, After Hegemony. Cooperation and Discord in the World Political Economy, Princeton, Princeton University Press, 1984, pp. 31 ss., 49-64, 83-4; R.O. Keohane, Neorealism and Its Critics, New York, Columbia University Press, 1986; K.N. Waltz, Theory of International Politics, New York, Newbery Award Records, 1979, trad. it. Bologna, il Mulino, 1987; R. Gilpin, War and Change in World Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 1981, trad. it. Bologna, il Mulino, 1989. Sull'alternativa fra le nozioni di "egemonia" e di "impero" cfr. V.E. Parsi, L'impero come fato? Gli Stati Uniti e l'ordine globale, "Filosofia politica", 16 (2002), 1, pp. 87, 92-3.
5. Cfr. D. Lieven, Empire. The Russian Empire and Its Rivals, London, John Murray, 2000, p. 9.
6. Si veda: C. Schmitt, Völkerrechtliche Formen des modernen Imperialismus, "Auslandsstudien", 8 (1933), ora in C. Schmitt, Positionen und Begriffe im Kampf mit Weimar, Genf, Versailles 1923-1939, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1940; C. Schmitt, Völkerrechtliche Grossraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte. Ein Beitrag zum Reichsbegriff im Völkerrecht, "Schriften des Instituts für Politik und Internationales Recht an der Universität Kiel", n. 7, 1939, ora in C. Schmitt, Staat, Grossraum, Nomos, a cura di G. Maschke, Berlin, Duncker & Humblot, 1995, trad. it. Roma, Settimo Sigillo, 1996; C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlin, Duncker und Humblot, 1974, trad. it. Milano, Adelphi, 1991. Sulla teoria schmittiana dell'imperialismo e sulla connessa idea di Grossraumordnung, cfr. P.P. Portinaro, La crisi dello Jus Publicum Europaeum, Milano, Edizioni di Comunità, 1982, pp. 188-202.
7. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum (1950), Berlin, Duncker und Humblot, 1974, trad. it. Milano, Adelphi, 1991.
8. Il termine millet denotava una comunità religiosa che svolgeva il ruolo di unità amministrativa decentrata dell'Impero; cfr. G. Prévélakis, Les Balkans. Cultures et géopolitique, Paris, Nathan, 1994, trad. it. Bologna, il Mulino, 1997, pp. 81-5. Sul tema mi permetto di rinviare al primo capitolo (Imperial mapping and Balkan nationalism) del mio Invoking Humanity. War, Law and Global Order, London-New York, Continuum International, 2002, pp. 7-36.
9. Si veda: G. Poma, L'impero romano: ideologia e prassi, "Filosofia politica", 16 (2002), 1, pp. 5-35; C.M. Wells, The Roman Empire, London, Fontana Press, 1992, trad. it. Bologna, il Mulino, 1995; P. Veyne, The Roman Empire, Cambridge (Mass.), Belknap Press, 1997.
10. Si veda: E. Bussi, Il diritto pubblico del Sacro romano impero alla fine dell'VIII secolo, voll. 2, Milano, Giuffrè, 1957-59; G. Ostrogorski, Geschichte des byzantinischen Staates, München, Beck, 1940, trad. it. Storia dell'impero bizantino, Torino, Einaudi, 1993; D. Kitsikis, L'Empire ottoman, Paris, Presses Universitaires de France, 1985; A. Musi, L'impero spagnolo, "Filosofia politica", 16 (2002), 1, pp. 37-61; F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l'lépoque de Philippe II, Paris, Colin, 1982, trad. it. Torino, Einaudi, 2002 (voll. 2).
11. Si veda E. Di Rienzo, L'impero-nazione di Napoleone Bonaparte, "Filosofia politica", 16 (2002), 1, pp. 63-82.
12. Si veda W.J. Mommsen, Das Zeitalter des Imperialismus, Frankfurt a.M., Fisher Bücherei, 1969, trad. it. L'età dell'imperialismo, Milano, Feltrinelli, 1989; R.F. Betts, The False Dawn: European Imperialism in the Nineteenth Century, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1975, trad. it. Bologna, il Mulino, 1986.
13. Si vedano, fra i molti altri: P. Bourdieu, Contre-feux 2, Paris, Liber, 2001; L. Boltanski, E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalism, Paris, Gallimard, 1999; A. Callinicos, et al., Marxism and the New Imperialism, London, Bookmark, 1994; U. Allegretti, M. Dinucci, D. Gallo, La strategia dell'Impero, S. Domenico di Fiesole, Edizioni Cultura della Pace, 1992.
14. Si veda N. Lenin, L'imperialismo fase suprema del capitalismo (1917), Roma, Editori Riuniti, 1964; R. Luxemburg,L'accumulazione del capitale, Torino, Einaudi, 1968.
15. Si veda P.A. Baran, P.M. Sweezy, Monopoly Capital: An Essay on the American Economic and Social Order, New York, Monthly Review Press, 1966, trad. it. Torino, Einaudi, 1969; A.G. Frank, Capitalism and Under-development in Latin America, New York, Monthly Review Press, 1969; I. Wallerstein, The Modern World System, New York, Academic Press, 1974; I. Wallerstein, The Capitalist World Economy, Cambridge, Cambridge University Press, 1979.
16. Cfr. P.A. Baran, P.M. Sweezy, Monopoly Capital, trad. it. cit., pp. 150-5, 180-3.
17. Cfr. R. Gilpin, The Political Economy of International Relations, Princeton, Princeton University Press, 1987, trad. it. Bologna, il Mulino, 1990, pp. 34-43, 65-72, 270-3; J.E. Stiglitz, Globalisation and Its Discontents, New York, W.W. Norton & Company, 2002, trad. it. Torino, Einaudi, 2002, pp. 219-56.
18. Si veda A. De Benoist, L'Impero interiore. Mito, autorità, potere nell'Europa moderna e contemporanea, Firenze, Ponte alle Grazie,1996; P.-A. Taguieff, Sur la Nouvelle droite. Jalons d'une analyse critique, Paris, Descartes & Cie, 1994, trad. it. Firenze, Vallecchi, 2004, passim.
19. Cfr. P.-A. Taguieff, Sur la Nouvelle droite, trad. it. cit., p. 150.
20. Su questo punto mi permetto di rinviare alla mia introduzione all'edizione italiana, citata, di P.-A. Taguieff, Sur la Nouvelle droit (pp. 13-4).
21. Cfr. M. Hardt, A. Negri, Empire, Cambridge (Mass.), Harvard College, 2000, trad. it. Milano, Rizzoli, 2002, passim.
22. Cfr. M. Hardt, A. Negri, Empire, trad. it. cit., p. 15.
23. Su questa discussione si può vedere A. Negri, D. Zolo, L'Impero e la moltitudine. Un dialogo sul nuovo ordine della globalizzazione, "Reset", 73 (2002), pp. 8-19, ora anche in A. Negri, Guide. Cinque lezioni su Impero e dintorni, Milano, Raffaello Cortina, 2003, pp. 11-33. Una versione integrale in lingua inglese, più ampia rispetto a quella originariamente pubblicata da "Reset", è apparsa, a cura di A. Bove e M. Mandarini, in "Radical Philosophy", 120 (2003), pp. 23-37.
24. Cfr. M. Hardt, A. Negri, Empire, trad. it. cit., pp. 56, 208.
25. Cfr. M. Ignatieff, The Burden, "New York Times Magazine", 5 gennaio 2003.
26. Si veda ad esempio: M. Cacciari, Digressioni su Impero e tre Rome, "Micromega", (2001), 5; G. Chiesa, La guerra infinita, Milano, Feltrinelli, 2002.
27. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde, trad. it. cit., pp. 231-3, 311-12.
28. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde, trad. it. Cit., p. 311.
29. Sulla tendenza del dominio imperiale statunitense a imporre il proprio vocabolario, la propria terminologia e i propri concetti ai popoli egemonizzati, cfr. C. Schmitt, Völkerrechtliche Formen des modernen Imperialismus, cit., pp. 179-80.
30. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde, trad. it. cit., pp. 429-30.
31. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde, trad. it. cit., p. 430.
32. Si veda: M. Wigth, Why is there no International Theory?, in H. Butterfield, M. Wight (a cura di), Diplomatic Investigations, London, George Allen and Unwin Lmt, 1969; H. Bull, The Anarchical Society, London, Macmillan, 1977.
33. Sul tema mi permetto di rinviare al mio Hans Kelsen: International Peace through International Law, "European Journal of International Law", 9 (1998), 2.
34. Si veda H. Bull, The Anarchical Society, cit., passim; H. Bull, Hans Kelsen and International Law, in J.J.L. Tur, W. Twining (a cura di), Essays on Kelsen, Oxford, Oxford University Press, 1986; sul tema si veda inoltre A. Colombo, La società anarchica fra continuità e crisi, "Rassegna italiana di sociologia", 2 (2003), pp. 237-55.
35. Cfr. H. Bull, The Anarchical Society, cit., p. 89.
36. Si vedano: Department of Defense, Quadrennial Defense Review Report, 30 settembre 2001; The White House, Nation
 

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