martedì 30 giugno 2015

Moneta vuol dire fiducia: perché i CCF rischiano di non funzionare

Pubblichiamo un commento critico di Guido Iodice e Thomas Fazi alla proposta avanzata da Luciano Gallino e altri economisti nell'ebook “Per una moneta fiscale gratuita” edito da MicroMega. A seguire una replica degli autori del volume.

di Guido Iodice (Keynesblog.com) e Thomas Fazi (Oneuro eunews.it/oneuro) da Micromega




Marco Cattaneo e Giovanni Zibordi hanno avanzato, in un loro libro edito da Hoepli, la proposta di istituire una forma di “moneta fiscale”, poi rilanciata in un appello promosso da Stefano Sylos Labini e firmato anche da Luciano Gallino e infine meglio esplicitata nell’e-book di MicroMega. I certificati di credito fiscale (CCF) verrebbero emessi dal governo e sarebbero in sostanza dei crediti sulle tasse future (a due anni). Con i CCF, lo Stato potrebbe aumentare la spesa pubblica, ridurre il cuneo fiscale e immettere liquidità nel sistema economico. I CCF sarebbero (quasi-)moneta in più, in modo tale che lo Stato non dovrebbe sostituire parte della sua spesa pubblica in euro con spesa in CCF, ma attivare più spesa grazie a questi ultimi. L’auspicio è che essi vengano percepiti come moneta e utilizzati negli scambi, per lo meno tra imprese e tra imprese e Stato. Secondo i promotori, i CCF si ripagherebbero da soli perché, una volta rimessa in moto l’economia, il PIL tornerebbe a crescere e gli introiti fiscali ad aumentare, coprendo quindi l’ammanco dovuto all’utilizzo finale dei certificati, cioè lo sconto sulle imposte.

Un merito della proposta è che essa esplicitamente riconosce l’impraticabilità e i rischi di un’uscita unilaterale dall’eurozona e pertanto si preoccupa di trovare una soluzione “morbida”. I problemi però sono molteplici. In primo luogo i promotori danno per scontato che l’emissione di questa quasi-moneta non violi i Trattati. Ammesso che sia così, tuttavia è facilmente immaginabile che la Commissione europea chiami lo Stato a rispondere davanti alla Corte di giustizia. L’incertezza sull’esito farebbe precipitare il valore del CCF nei confronti dell’euro, rendendo via via meno efficace il programma. Ammettendo però di superare questo scoglio, un ulteriore problema è costituito dal fatto che i CCF andrebbero sommati allo stock del debito pubblico. Anche qui, i promotori insistono sostenendo che non sia un problema, ma la Commissione potrebbe porre comunque ostacoli che minerebbero la fiducia del pubblico.

In sostanza, i promotori sopravvalutano una affermazione della Modern Money Theory, secondo la quale la moneta legale ha valore perché con essa si pagano le tasse. Se fosse così semplice, allora nessun paese soffrirebbe mai di crisi monetarie e di iperinflazione, né vedremmo economie che ruotano di fatto intorno a valute estere (basti pensare all’Islanda prima della crisi del 2008). Nella realtà la moneta legale, come qualsiasi moneta priva di valore intrinseco, è fiduciaria e quindi ha valore in base alla credibilità di chi la emette. Chi ha una banconota da 100 euro in tasca sa che c’è un impegno, da parte dell’emittente, a fare in modo che essa sia scambiabile tra un mese o un anno con un paniere di prodotti il cui valore reale sarà, nel peggiore dei casi, solo di poco inferiore a quello odierno (è questo il senso del target inflazionistico). O che, se non bassa, l’inflazione sia almeno stabile e perciò prevedibile. Viceversa i cittadini di paesi che sperimentano tassi di inflazione elevati e crescenti per lungo tempo, alla fine, perdono fiducia nella moneta legale esattamente come la perderebbero in un assegno firmato da un noto protestato, e si rivolgono alle monete emesse da soggetti più affidabili (tipicamente gli Stati Uniti). Sia chiaro, non si sta dicendo qui che l’Italia farebbe la fine dello Zimbabwe, ma semplicemente che un dubbio sul valore futuro dei CCF li renderebbe pressoché inservibili come stimolo alla domanda.

Supponendo tuttavia di superare a pieni voti il test dell’incertezza, si pone paradossalmente il problema della possibile tesaurizzazione dei CCF. Per quanto riguarda la parte utilizzata per i trasferimenti, il pubblico potrebbe semplicemente decidere di non spenderli, ma detenerli fino a quando potranno essere usati per pagare le imposte, peraltro l’unico momento in cui il valore dei CCF potrebbe essere considerato sicuro ed uguale a quello facciale. In tal caso, l’effetto moltiplicativo sarebbe nullo e lo Stato si troverebbe con un buco di bilancio imprevisto.

Non vogliamo tuttavia apparire troppo demolitori nei riguardi di questa proposta. Al contrario, essa contiene in nuce qualche buona idea che potrebbe essere effettivamente applicata. L’importante è non cadere nell’illusione di un keynesismo “meccanico” o “idraulico”, nel quale l’immissione di nuova acqua fa girare il mulino dell’economia, checché ne pensino gli agenti economici (per inciso, Keynes non era affatto un keynesiano “idraulico”).

Se la proposta dei CCF è prona alle critiche testé illustrate, a maggior ragione lo è quella immaginata da alcuni in caso i default di uno Stato all’interno dell’eurozona, seguito dall’emissione di “euro-cambiali” che verrebbero utilizzate come liquidità sostitutiva. Il modello spesso richiamato è quello dello Stato della California che nel luglio 2009, di fronte ad una grave crisi delle proprie finanze, emise delle “promesse di pagamento” (Registered Warrants) per pagare i dipendenti pubblici, i fornitori e coloro che vantavano diritti a rimborsi fiscali per 2,37 miliardi di dollari. L’esperimento non fu propriamente un successo: appena pochi giorni dopo l’emissione iniziale, le principali banche si rifiutarono di accettare questi “pagherò” (o come li chiamano gli americani, IOU, che sta per I Owe You, “io ti devo”). Solo dopo ingenti tagli di spesa e aumenti delle imposte decisi dallo Stato, alcune di esse tornarono sui loro passi e ricominciarono ad accettare i Warrants. Se l’operazione ha mostrato i suoi limiti in California, lo Stato con il reddito più alto nel paese più ricco del mondo, la speranza che funzioni in luoghi come i PIIGS è pressoché nulla, sebbene possa rivelarsi l’unica, disperata, opzione se non si vuole uscire dall’euro. In tal caso, si può immaginare che il pubblico possa dare fiducia agli IOU a seguito di un accordo europeo che dia una qualche certezza sul fatto che gli “euro-pagherò” si potranno trasformare in euro “veri” entro un tempo ragionevole. In caso contrario non si capisce come la gente possa dare valore a pezzi di carta che riportano una promessa di pagamento in euro firmati da un governo che ha appena dichiarato la propria insolvenza su debiti in euro.

* * * *

Replichiamo con piacere, su invito di MicroMega, ai commenti di Guido Iodice e di Thomas Fazi in merito al nostro progetto di Moneta Fiscale, da attivarsi mediante emissione di Certificati di Credito Fiscale (CCF). E ringraziamo Iodice e Fazi per l’interesse dimostrato al riguardo. Dobbiamo però notare che pare essere loro sfuggito un aspetto chiave della proposta. I CCF non sono titoli di debito: lo stato emittente non assume alcun impegno a rimborsarli in euro, ma solo ad accettarli a compensazione di pagamenti di imposte future, o di qualsiasi altra forma di pagamento ad esso (lo stato) altrimenti dovuti. Sono titoli che conferiscono a chi li riceve il diritto a uno sconto fiscale futuro; sono cedibili a terzi e sono convertibili in euro per essere spesi immediatamente. Chi li vende vuole spendere, chi li compra vuole usarli per abbattere le proprie tasse e accrescere le proprie risorse per consumi e investimenti.

I CCF non sono quindi IOU analoghi al caso californiano, né ai titoli emessi in altri contesti di tensioni finanziarie (un esempio ancora più noto è quello della crisi argentina del 2001). Non esiste nessuna fattispecie né teorica né pratica sotto la quale lo stato emittente possa essere costretto a non onorare (quindi a fare default) su un CCF.

La loro natura non-debitoria e non-monetaria è all’origine anche dell’ammissibilità dei CCF ai sensi di trattati e regolamenti UE. Se non sono debito, i CCF non sono neanche “legal tender” nel senso in cui lo è l’euro. Non sono moneta legale che debba essere obbligatoriamente accettata in tutta l’Eurozona, sebbene possano diventare sostituti della moneta, secondo che il pubblico e il mercato siano disposti ad accettarli in pagamento. Ma questo vale in linea di principio per qualunque titolo e non per questo mette in discussione l’euro come moneta legale. I CCF traggono il loro valore dalla dichiarazione unilaterale e volontaria di accettazione da parte del singolo stato che li emette. Non confliggono con il monopolio della BCE riguardo all’emissione di moneta legale ad accettazione obbligatoria.

Quanto all’affermazione che “i promotori sopravvalutano una affermazione della Modern Money Theory, secondo la quale la moneta legale ha valore perché con essa si pagano le tasse. Se fosse così semplice, allora nessun paese soffrirebbe mai di crisi monetarie e di iperinflazione”: naturalmente qualsiasi attività di natura monetaria o quasi-monetaria può subire un depauperamento di valore al di sopra di certe soglie di emissione. Se i CCF venissero emessi in misura pari a un multiplo degli incassi annui dello stato (per esempio) italiano, passerebbero degli anni prima che il possessore riesca effettivamente a utilizzarli: ne seguirebbe una notevole perdita di valore. Ma le analisi numeriche ampiamente illustrate nell’ebook mostrano come l’Italia (ma vale anche per la Grecia) otterrebbe una forte ripresa della domanda e dell’economia con livelli di emissione annua che sono una frazione, non certo un multiplo, degli incassi sopracitati.

Riguardo poi al rischio di tesaurizzazione, questo è un dubbio applicabile a qualsiasi forma di azione espansiva attuata mediante incentivi alla spesa privata (riduzione di tasse o anche incrementi di trasferimenti, quali ad esempio le pensioni). Questo timore non inficia la validità del progetto: casomai può condurre a formulare l’azione espansiva allocando i CCF in maggior proporzione (rispetto a quanto già previsto nel progetto) a chi ha maggiori necessità di spesa, a chi ha una più elevata propensione al consumo e all’espansione della spesa pubblica con effetto diretto sul PIL (per esempio utilizzando i CCF a parziale finanziamento di opere di pubblica utilità).

Facciamo comunque notare che le azioni restrittive messe in atto in Italia (e in molti altri paesi dell’Eurozona) dal 2011 ad oggi hanno compresso la spesa privata (maggiori imposte e minori trasferimenti) più della spesa pubblica diretta. L’ipotesi alla base dell’”austerità espansiva” era che cittadini e aziende, pur trovandosi con meno soldi in mano, non avrebbero (se non marginalmente) compresso la loro spesa, grazie ai benefici effetti psicologici prodotti dalla constatazione che “i conti pubblici stavano tornando sotto controllo”.

Alla prova dei fatti, la “fata fiducia” (come la chiama Paul Krugman) si è rivelata una pura fantasia. Gli agenti economici, che poi sono, in ultima analisi, persone in carne ed ossa, si comportano in modo molto più semplice e lineare. Spendono meno quando hanno pochi soldi in tasca, e di più quando glieli rimetti e non li minacci di toglierglieli per altra via…

Il progetto CCF non ha nulla di magico. E’ l’applicazione di un concetto in definitiva intuitivo. Quando un sistema economico opera a livelli fortemente inferiori al suo potenziale (e soffre di conseguenza di disoccupazione massiccia e di rischi di deflazione), il recupero di domanda, produzione e occupazione è ottenibile (senza alcun rischio per la stabilità finanziaria e monetaria) immettendo potere d’acquisto, direttamente nella disponibilità degli agenti economici. Stampando moneta (o un suo equivalente) o emettendo strumenti che generano potere d’acquisto. In tal senso, i CCF creano capacità di spesa immediata e la conferiscono a chi quella spesa ha maggiore necessità di effettuarla. Si tratta di uno strumento direttamente destinato a incrementare la domanda e a ridurre significativamente la fiscalità che grava sulle famiglie, i lavoratori e le aziende (ottenendo così anche un recupero di competitività ed evitando squilibri nei saldi commerciali esteri).


Biagio Bossone e Marco Cattaneo


Grecia, tutte le differenze tra la proposta dei creditori e quella di Atene

Non è ancora chiaro al momento quale siano le nuove proposte last minute di Juncker.
Ad ogni modo non è limando qualche asperità che cambia la sostanza: sono l'austerità e le sue logiche inumane ad essere messe in discussione. Le scelte che faranno Tsipras e il popolo greco fanno parte del regno del possibile, dominato dai rapporti di forza, e non rappresentano certo il punto di vista di chi crede in un Europa democratica e solidale.

di Alfonso Bianchi da eunews




Aumento dell’Iva per alberghi e nelle isole, riforma delle pensioni e del mercato del lavoro, privatizzazioni e tassazione sui profitti più alti delle imprese. Le proposte di Atene e delle istituzioni a confronto per capire dove è saltato il tavolo delle trattative

(Questo articolo è stato aggiornato lunedì 29 giugno tenendo conto dell’ultima versione della proposta pubblicata dalla Commissione europea)
Bruxelles – A guardare le ultime proposte, quella delle istituzioni (Commissione, Bce e Fmi) da una parte (qui il testo di quella del 25 giugno, qui di quella del 26 che era stata preparata per l’Eurogruppo di sabato 27 e resa pubblica dopo la rottura di Tsipras), e quella Greca dall’altra (qui il testo diffuso giovedì mattina da Kathimerini), si vede che la trattativa verte su pochi, ma decisivi punti (utile leggere anche la proposta greca modificata dalle istituzioni lunedì 22 giugno per capire dove le posizioni si sono avvicinate e dove no negli ultimi giorni di trattative). Atene non vuole cedere sullo sconto dell’Iva per le isole e sulla quota al 13% per gli hotel (quest’ultima cosa accettata dai creditori nel testo del 26 giugno), accetta di alzare l’età pensionabile a 67 anni dal 2022 ma non di escludere del tutto i contributi statali per aumentare le pensioni più basse, e insiste sul ripristino della contrattazione collettiva e sull’introduzione di una tassa una tantum sui profitti aziendali più alti. Ecco punto per punto le principali differenze tra le due posizioni.
Iva
La Grecia accetta di portare entro il primo luglio l’Iva al 23% su tutti i prodotti ma insiste che oltre ad acqua ed energia elettrica anche cibo e soprattutto gli hotel debbano fermarsi al 13% (al momento sono al 6,5%). I creditori fino al 25 giugno volevano anche gli alberghi al 23, e al 13 solo cibi “di base”. Nella proposta del 26 giugno il rincipale cambiamento è che i creditori accettano invece gli alberghi al 13% e aggiungono una clausola che parla di “possibile revisione delle quote a fine 2016“. Atene insiste anche per mantenere uno sconto del 30% per le isole (dove il trasporto delle merci ha evidenti costi che in questo modo si intendono ammortizzare), altro punto di forte scontro. Lo sconto nelle isole fa sì che in Grecia esistano ben 6 quote differenti per l’Iva, la Commissione critica il provvedimento per gli oneri burocratici che comporta nei controlli, ma c’è anche chi punta il dito contro possibili ‘trucchi’ come quello di far ‘transitare’ per le isole le merci solo per ottenere tariffe agevolate.
C’è accordo tra Bruxelles e Atene sul super sconto al 6% per medicinali, libri e teatro.

Tassazione
La Grecia insiste sulla tassa una tantum del 12% sui profitti delle imprese superiori a mezzo milione di euro nel 2014, a cui si oppone fortemente il Fondo monetario internazionale, ma anche la Commissione che ne critica la retroattività e il fatto che non possa essere conteggiata nelle riforme strutturali, e quindi ‘permanenti’, richieste. Vuole eliminare dalla richiesta delle istituzioni l’anticipo del 100% dei pagamenti delle imposte sui profitti dichiarati di aziende e imprese individuali (al momento nel Paese l’anticipo è dell’80%). La Grecia accetta di aumentare la tassazione sulle imprese solo dal 26 al 28% invece che al 29% come chiesto fino a lunedì.
Tsipras insite anche nel mantenere i sussidi sulla benzina per gli agricoltori. Accordo sulla tassa al 30% sul gioco online.

Riforma delle pensioni
La Grecia accetta di portare greadualmente entro il 2022 l’età pensionabile a 67 anni e a 62 per chi ha 40 anni di contributi, ma vuole che la riforma valga per chi va in pensione dopo il 31 ottobre 2015 (le istituzioni vorrebbero già dopo il 30 giugno).
Per quanto riguarda i contributi statali per l’aumento delle pensioni più basse, il cosiddetto Ekas, la Grecia promette di “rimpiazzarlo” entro la fine del 2018, le istituzioni chiedono invece di “eliminarlo” entro la fine del 2019. Gli aumenti dei contributi alla salute per i pensionati verrebbero portati dal 4 al 5% (le istituzioni vogliono il 6%).

Mercato del lavoro
Atene non accetta la clausola che chiede di non ripristinare il sistema di contrattazione collettiva, uno dei punti centrali del programma di Syriza.

Privatizzazioni
La Grecia conferma di lavorare per portare a termine i bandi per la privatizzazione dei porti di Salonicco e del Pireo e dell’aeroporto di Atene (bandi lanciati dal governo Samaras e che Tsipras si è impegnato a non ritirare), ma non accetta la frase nel testo dei creditori che chiede di “non modificare i termini del bando” per Salonicco, Pireo e delle compagnie ferroviarie Trainose e Rosco. Atene non accetta neanche il punto che chiede di “adottare misure irreversibili per la vendita degli aeroporti regionali”. Tsipras ha sempre affermato che le privatizzazioni già lanciate verranno sì portate a termine, ma solo a cifre ragionevoli visto che non è intenzionato a svendere i gioielli nazionali.
I creditori chiedono anche di prendere “decisioni irreversibili” per assicurare la privatizzazione dell’Admie, la compagnia che gestisce le infrastrutture dell’elettricità.

Difesa
Resta il muro contro muro sui tagli alla Difesa, Atene li vuole di 200 milioni, le istituzioni di 400. La Difesa è un settore delicato per la tenuta del governo di Tsipras in quanto è stata affidata all’alleato Panos Kammenos, dei Greci indipendenti.

Mercato dei prodotti
La Grecia accetta di di riformare le regole per le licenze per gli investitori, ma non di farlo sotto la supervisione della Banca Mondiale.

lunedì 29 giugno 2015

Le tante (troppe) bugie sulla Grecia


 La macchina mediatica delle tecnocrazie si è messa in moto per demistificare il referendum ellenico del 5 luglio e il significato della sfida in campo: c’è un’alternativa all’austerity e all’Europa a due velocità ad egemonia tedesca? Dalla Grecia ci giunge una lezione di democrazia e dignità, ma il governo Tsipras non va lasciato solo.

di Giacomo Russo Spena da Micromega

Il Corriere della Sera, allarmato, si domanda in prima pagina: “Quanti Tsipras ci sono in Europa?”. Scrive Francesco Giavazzi: “Quest’anno grazie alla cura Tsipras (la Grecia, ndr) è tornata in recessione”.

I commenti, anche da parte di esponenti del centrosinistra, sono severi e senza appelli: “Tsipras ha promesso l’impossibile”, un “anticapitalista coi soldi degli altri”. E poi ancora: populista, sprovveduto. Un Ponzio Pilato. “Un gesto estremo di viltà politica”, l’aver indetto un referendum sulle politiche europee, il prossimo 5 luglio.

Si rispolverano i vecchi cavalli di battaglia – utilizzati per imporre i fallimentari memorandum alla Grecia negli anni scorsi – come l’aver truccato i conti. Secondo la vulgata, la crisi si sarebbe sviluppata per colpa dei greci stessi: un Paese arretrato, statalista, piagato dalle clientele e “fannullone”.

Con le istituzioni europee (e molti media) che hanno colpevolizzato, a volte sottilmente e altre volte meno, un intero popolo (“levantino”) per imporre misure di austerità che invece di curare il malato hanno finito per ucciderlo, o quasi.
Eppure, come raccontava Luciano Gallino su Repubblica, “pochi giorni fa il Parlamento greco ha diffuso un rapporto del Comitato per la Verità sul Debito pubblico. Le conclusioni sono che per il modo in cui la Troika ha influito sul suo andamento, e per i disastrosi effetti che le politiche economiche e sociali da essa imposte hanno avuto sulla popolazione, il debito pubblico della Grecia è illegale, illegittimo e odioso. Pertanto il Paese avrebbe il diritto di non pagarlo”.

Ci si dimentica di almeno due cose: che la Grecia avesse un problema strutturale era risaputo ben prima che il Paese entrasse nell’euro; e tutte le storture del sistema (dalla corruzione allo statalismo) sono state causate da quella classe politica che ha poi inflitto alla popolazione, su mandato di Bruxelles, misure durissime: socialisti e conservatori, in alternanza e poi in una grande coalizione.

Gli stessi partiti e la stessa classe politica che oggi inveisce contro Syriza, che ha all’attivo sei mesi di governo su 40 anni di ritorno alla democrazia. E che dal 2009 in poi la stessa Grecia è il paese europeo che ha fatto più “riforme” di tutti a livello continentale, con esiti disastrosi: un Pil ridotto del 25 per cento è un dato di guerra, unico in tempi di pace.

Syriza ha vinto le elezioni lo scorso gennaio, volendo incarnare una speranza di cambiamento e la discontinuità rispetto ai diktat dell’Unione Europea. Lo ha fatto con un programma di rinegoziazione con la Troika. Così è iniziato lo scontro tra due visioni, due “ideologie” contrastanti. Davide contro Golia. Una partita ad alta tensione dove la posta in gioco è diventata sempre più alta.

Come spiega Christos Mantas nell’intervista rilasciata a MicroMega, il governo greco ha cercato la via della mediazione aprendo a provvedimenti (privatizzazioni, innalzamento età pensionabile) estranei al programma originario di Syriza. La risposta della Troika è stato l’ultimatum: un piano ancor più stringente e sbilanciato che di fatto avrebbe favorito i ceti più ricchi del Paese. Un ennesimo memorandum. Lo scalpo di Tsipras per dimostrare a tutti come non sia possibile riformare e modificare la rotta dell’Europa.

La risposta di Atene è stata quella di far decidere i greci stessi. Di fronte a un vicolo cieco, senza margini di manovra, piuttosto che rompere un patto con i propri elettori, Tsipras ha preferito lanciare un messaggio ai propri connazionali: fin dove siete disposti a spingervi? Tra l’altro, sin dal programma elettorale del 2012, Syriza prometteva ai suoi elettori – testualmente – di “sottoporre a referendum vincolanti i trattati e altri accordi rilevanti europei”.

I sondaggi, ad oggi, dicono che il “sì” al pacchetto europeo vince sui “no”. La vittoria dei primi significherà, probabilmente, un cambio di governo, o comunque un rimpasto, escludendo i settori più radicali di Syriza. Ipotesi caldeggiata dai creditori, stufi di trattare con i “piantagrane”. Una vittoria dei “no” da un lato rafforzerebbe Tsipras, dall’altro rischierebbe di far saltare il banco in modo definitivo. “Syriza si è trovato sino ad oggi, politicamente parlando, in una posizione maldestra – ragiona Paul Krugman, su Repubblica – con gli elettori furiosi a causa delle crescenti richieste di austerità ma al tempo stesso riluttanti ad abbandonare l'euro. Conciliare queste due tendenze è sempre difficile, e lo è a maggior ragione oggi. Il referendum di fatto chiederà agli elettori di stabilire le proprie priorità, e di conferire a Tsipras il mandato per fare ciò che deve nel caso in cui la Troika lo porti a un gesto estremo”.

Se Angela Merkel e Jean Claude Junker, oggi, si dichiarano disponibili a nuovi negoziati con la Grecia dopo il 5 luglio è perché sanno che una Grexit non conviene a nessuno. Non la vuole Tsipras, non la vogliono i “mercati”, dato che potrebbe significare l’implosione, definitiva, dell’eurozona. E ovviamente della moneta unica, con conseguenze indecifrabili. Un salto nel buio per tutti.

In tutto questo, l’Italia dove sta? Il premier Matteo Renzi, dopo il famoso regalo della cravatta a Tsipras e i molti vibranti richiami contro l’austerità, si è espresso con un tweet: “Non è un derby tra Commissione europea e Tsipras, ma una scelta tra euro e dracma”. Una semplificazione che non corrisponde alla realtà e che, appunto, aggiunge confusione ad una situazione già di per sé ingarbugliata.

E si scoprono gli altarini di Renzi, le sue storielle sulla fine dell’austerity e l’inizio della crescita sotto il semestre a direzione italiana. Menzogne. Quel premier – che aveva spacciato il quantitative easing di Mario Draghi come l’inizio del cambiamento – ora sembra schierato con Merkel e la Troika. Senza capire che in caso di Grexit, potremmo essere noi le prossime vittime dell’austerity.

Sterile anche l’accusa di chi dice che dietro Tsipras ci sono logiche nazionaliste come dimostrerebbero gli attestati di stima di Marine Le Pen e Matteo Salvini. Demistificazioni. Il blocco degli euroscettici non è altro che l’altra faccia della medaglia della Troika e delle sue politiche di austerity.

Alla lotta del “basso vs alto” (quella contro i mercati, gli speculatori e i poteri forti) risponde con quella tra “basso vs basso”: la guerra tra poveri e il ritorno dei feroci patriottismi. In Grecia, Syriza ha arginato l’ascesa dei nazisti di Alba Dorata. Quindi due strade ben alternative. E in campo non c’è il nazionalismo ellenico perché la battaglia di Tsipras, da sempre, è europeista. Nello stesso momento, si rivendica però sovranità popolare e di decidere il come restituire i soldi del debito. Quel debito così alto a causa di speculazioni e interessi privati. E sempre quel debito che la Germania dopo la Seconda Guerra mondiale non ha pagato grazie alla Conferenza di Londra del 1953.

Syriza finora ha rappresentato un’anomalia nell’intero panorama politico europeo. Il governo Tsipras è stato il primo che, apertamente, ha messo in discussione i dogmi dell’austerità neoliberista condivisi da centrodestra e centrosinistra degli ultimi venti anni. Per questo fa così paura a molti: rappresenta un precedente pericoloso per l’establishment.

In gioco, infatti, non c’è una moneta né un aiuto a una nazione che ha un peso economico pari a quello della provincia di Vicenza. Di mezzo c’è l’idea stessa di Europa che si ha in mente per il presente e per il futuro. Il braccio di ferro è tutto politico e gli indici economici diventano un pretesto per non parlare di ciò che conta davvero: cioè la vita, i diritti dei cittadini europei. E la democrazia, se davvero ha ancora un senso.

Per questo sarebbe un errore lasciare solo Tsipras. E l’ora di una nuova fase di mobilitazione europea con l’augurio che a novembre, in Spagna, vinca Podemos e a marzo lo Sinn Fein in Irlanda. Un contagio. Con la mobilitazione di movimenti, sindacati e parti sociali, non c’è altra speranza per la sopravvivenza dell’Europa. Il 5 luglio OXI significa democrazia.

Grecia: e ora?

di Andrea Fumagalli da effimera


La trattativa tra il governo greco e i creditori (Brussel Group, ma sempre Troika) si è conclusa con un nulla di fatto. La Grecia (novello Davide) non ha la possibilità di spuntarla con la plutocrazia europea (il vecchio Golia). Ma la partita non si chiude ora, non finisce qui…
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La possibilità che la Grecia e i creditori possano trovare un accordo è oramai del tutto tramontata.
All’inizio di questa settimana di travaglio e di passione, l’offerta del governo Tsipras di venire incontro ad alcune richieste della Troika (aumento parziale Iva e dell’età pensionabile, seppur in tempi lunghi) per recuperare i 400 milioni di differenza tra le parti (pari allo 0,002 del Pil Europeo!) aveva fatto credere che fosse possibile giungere a una soluzione.

Invece il risultato è stato esattamente l’opposto.
L’irrigidimento dei creditori
Abbiamo infatti assistito a un irrigidimento delle posizioni dei creditori. Il primo, tra loro, è stato il Fmi, poi, il 26 giugno, è stato il turno dell’Eurogruppo. Perché tale irrigidimento, quando si era quasi vicino al traguardo di un accordo economico utile a tutti?
La risposta è molto semplice. La trattativa in corso da quanto Syriza ha vinto le elezioni in Grecia non è mai stata una trattativa economica, finalizzata a un accordo che consentisse alla stessa Grecia di rimanere, ufficialmente,  all’interno dell’Eurozona e ai creditori di avere la garanzia che gli interessi su un debito – che erano i primi a sapere inesigibile – venissero pagati nei tempi prestabiliti. È stata invece una trattativa squisitamente politica.
In un certo senso, possiamo paragonarla alla trattativa di Versailles all’indomani della Prima guerra mondiale, formalmente avviata per quantificare le riparazioni di guerra da parte della Germania sconfitta, ma di fatto finalizzata a ridisegnare la geopolitica europea in nome della supremazia inglese e francese. Sappiamo bene come l’ottusità dei vincitori di allora, imponendo condizioni capestro alla Germania, abbia innescato i processi storici che avrebbero portato all’ascesa di Hitler e quindi alla Seconda guerra mondiale. Keynes lo aveva ben compreso.
Così come allora, oggi non occorre essere degli indovini per immaginare come l’ottusità dei creditori (Fmi e Eurogruppo, in primis, con l’avvallo della Bce) rischia di trasformarsi in un boomerang assai pericoloso, pur di ribadire la supremazia della plutocrazia europea in nome del dogma del libero mercato e dello sfruttamento capitalista.
La chiusura del Fondo
Il Fmi è stato il primo a dichiarare che le proposte della Grecia erano insufficienti, chiedendo di eliminare quella tassa di solidarietà sui redditi più alti e sui profitti delle grandi imprese se superiori ai 500.000 euro, che, secondo il piano greco, avrebbe dovuto portare nelle casse statali circa 200 milioni di euro. Al di là della “ovvia” considerazione che le politiche d’austerity non devono essere uguali per tutti ma devono salvaguardare i ricchi, ciò che ha maggiormente irritato il Fondo è stato il mettere in discussione la dottrina (assai dubbia, come più volte empiricamente dimostrato) che gli aumenti delle tasse sarebbero dannosi per la crescita mentre le riduzioni di spesa pubblica la favorirebbero.
E a tal fine, come messo in luce dal Wall Street Journal, l’Fmi ha proposto una serie di rettifiche di segno opposto e impossibili da accettare da parte greca. Oltre all’eliminazione della tassa sui ricchi, si voleva, infatti, imporre alla Grecia l’obbligo di garantire un saldo primario crescente negli anni sino al 3%, un aumento generalizzato dell’Iva al 23% (perché quando si impongono imposte regressive che penalizzano le fasce reddituali più deboli, allora l’aumento delle tasse può essere accettato!), il tetto dell’età pensionabile a 67 anni entro il 2025 e non il 2037 come richiesto dalla Grecia, accompagnato da un’ulteriore riduzione del livello delle pensioni.
In assenza di assenso del governo Tzipras su tali snodi, nel caso in cui la Grecia non fosse risultata in grado di versare la tranche di 1,6 miliardi di euro nelle sue casse entro il 30 giugno, immediatamente il Fondo avrebbe, già il giorno dopo, avviato la pratica di default, contraddicendo, con ciò, le proprie stesse regole. Queste, infatti, prevedono, in caso di mancato rispetto dei tempi di pagamento, la proroga di un mese e poi altri tre mesi prima di concordare l’eventuale dichiarazione di default.
Il ricatto nei confronti della Grecia appare, con ciò, in tutta la sua evidenzia. eÇa va sans dire che questo primo blocco della trattativa non è stato mai messo in discussione dagli altri creditori (Eurogruppo e Bce), che, pure, avevano ben più da perdere da un eventuale default greco (220 miliardi contro i 39 miliardi di credito vantati dallo stesso Fmi).
I compitini della Grecia
Come riportato anche su La Voce.info, sito notoriamente rigido sul pareggio di bilancio e sulla necessità di tenere i conti pubblici in ordine, la Grecia ha eseguito molti dei compiti che i creditori le avevano sciaguratamente richiesto di portare a termine. Il deficit pubblico è stato portato dal 15,6 per cento del 2009 al 3,5 nel 2014: si tratta del più consistente aggiustamento dell’intera Europa. Il surplus primario (al netto degli interessi sul debito), corretto in funzione del ciclo congiunturale, supera il 5 per cento del Pil: il più alto d’Europa (l’Italia è seconda).
Tutto ciò è avvenuto a costi esorbitanti: il Pil, nello stesso periodo, si è ridotto di 20 punti percentuali (contro una previsione del Fmi di una riduzione del 5 per cento nei primi due anni e un successivo ritorno, nel 2014, ai livelli del 2009: al riguardo, una delle accuse del Fmi a Varoufakis è stata quella di avanzare stime economiche non attendibili…). Abbiamo assistito a una riduzione dei dipendenti pubblici del 25 per cento (255 mila unità); a una riduzione dei salari reali senza precedenti, dal momento che i salari nominali sono crollati ma i prezzi no; a una riforma delle pensioni che ha previsto di aumentare gradualmente l’età di pensionamento da 62 a 65 e poi a 67 anni per tutti, riduzione delle pensioni in 5 anni di oltre il 40% (come risulta dall’Ageing Report 2015 della Commissione Europea, pp. 39-40).
Si tratta proprio di quelle “riforme strutturali” più volte richieste come necessarie e che hanno portato la Grecia dal centonovesimo al sessantunesimo posto nel ranking del Doing Business Report tra 2010 e 2015 (l’Italia è al cinquanaseiesimo posto): una classifica che indica gli stati più virtuosi per favorire la profittabilità delle imprese.
La medicina fatta ingoiare ai greci non solo è stata assai amara, ma, quel che è ancora più grave, ha peggiorato la salute del paziente: tracollo del Pil, aumento dell’incidenza della povertà assoluta e relativa, insolvenza finanziaria con i creditori.
La paura dell’Eurogruppo
L’Eurogruppo non era sicuramente dispiaciuto dalla rigidità del Fmi se questa poteva essere utile a portare la Grecia a più miti consigli. Soprattutto non erano dispiaciute le oligarchie spagnole e italiane (indecise tra una presa di posizione nettamente contraria alla Grecia nei fatti e un ipocrita appoggio a parole ma opposto nei fatti – posizione tipica del governo italiano di Renzi).
Ma quando Merkel e Hollande invitanoTsipras a accettare la “generosa offerta” dei creditori di posticipare il tutto di sei mesi, accettando la tranche di finanziamento di 7,2 miliardi ma impegnandosi ad accogliere il contenuto del piano del Fmi “senza condizioni”, si capisce che non ci sono più margini di trattativa.

(Mutatis mutandis, la dichiarazione della signora Merkel mi ha ricordato quella di Paolo VI al culmine del rapimento Moro da parte delle Brigate Rosse, quando, invitato a perorare una conclusione positiva della trattativa in corso, il pontefice si limitò a chiedere agli “uomini delle Brigate Rosse” di liberare Moro “senza condizioni”…)
A ciò si aggiunge, in queste ore, lo schiaffo politico di Tsipras di indire per il prossimo 5 luglio un referendum popolare per approvare o respingere le proposte “indecenti” dei creditori. È la goccia che fa traboccare il vaso nei rapporti tesi tra le parti. E sta tutta qui la natura squisitamente politica che è stata al centro della trattativa di questi mesi e che, inevitabilmente, ne ha condizionato la conclusione: la Grecia esprime comunque la volontà di rimettere in discussione la politica di austerity, non solo perché il suo fallimento appare conclamato da un punto dei vista dei possibili risultati e perché spinge lungo una strada irreversibile ma perché viene imposta in modo dittatoriale e anti-democratico. Abbiamo il fondato sospetto che lo sprezzo verso forme di democrazia dell’Eurogruppo non si riferisca solo alla Grecia ma si rivolga anche alla situazione spagnola per evitare possibili effetti contagio nel caso di una vittoria elettorale di Podemos il prossimo ottobre.
Il libero mercato, in nome dell’efficienza e delle gerarchie imposte dal capitalismo finanziarizzato contemporaneo, fa a pugni con un’idea, seppur declinata in modo più formale che sostanziale, di democrazia. La governance economica si deve imporre su quella politica e giuridica (vedi Ttip), stroncando sul nascere qualunque nuovo tentativo di riportare al centro l’azione politica.
La critica, al limite, può essere mossa solo da coloro che fanno parte ordinatamente dell’attuale plutocrazia (i paesi Brics, ad esempio), non sicuramente da chi prospetta una possibile alternativa.

E ora?
In queste ore, giornalisti, esperti, tecnici si sbizzariscono nel provare a individuare lo scenario di ciò che porrebbe accadere. Non tanto alla Grecia, delle cui sorti pochi si interessano, ma dei possibile feedback collaterali che potrebbero investire in primo luogo l’Europa e poi il mondo.
Al riguardo, partiamo da alcuni punti fermi, dando per scontato che la Grecia non rispetterà la deadline del 30 giugno e quindi non pagherà 1,6 miliardi di euro al Fmi.
Tecnicamente, la Grecia entra in default. Il Fmi non potrà far altro che riconoscere ciò. Ciò tuttavia non significa che automaticamente la Grecia fuoriesca dalla zona Euro. Al momento attuale non c’è un regolamento giuridico chiaro sull’uscita di un paese dall’Euro. Tale evenienza è possibile solo se un paese decide di tornare alla propria moneta nazionale. In altre parole, nessun paese dell’area Euro può essere cacciato contro la sua volontà.
Chiarito questo punto, vi possono essere quattro possibili procedimenti che possano consentire l’uscita di un paese dalla zona Euro:
1) Il referendum sull’Euro
2) L’uscita unilaterale mediante modifica dei Trattati (TUE e TFUE -Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea)
3) Il recesso dall’Eurozona in base all’art.139 e all’art.140 TFUE
4) Recesso dai Trattati Europei secondo il diritto internazionale.

Il primo è quello più noto ma il meno applicabile, dal momento che un referendum sull’uscita dall’Euro non può essere approvato dalle legislazioni nazionali (come nel caso dell’Italia o della Grecia), in quanto non è ammesso un referendum abrogativo su un Trattato Internazionale. Il suo valore sarebbe quindi solo consultivo e simbolico.
La modifica dei Trattati Europei implica una procedura molto complessa e lunga e non sempre chiara. Come affermato da Jacques Attalì, uno dei padri del Trattato di Maastricht: “Innanzitutto, coloro che (di cui ho avuto il privilegio di far parte) hanno partecipato alla stesura delle prime versioni del trattato di Maastricht, hanno fatto in modo che non fosse possibile uscire. Ci si è accuratamente dimenticati di scrivere l’articolo che permettesse l’uscita”.
Infine, occorre ricordare che i Trattati Europei, nonostante le loro peculiarità, sono a tutti gli effetti dei Trattati di diritto internazionale e, in quanto tali, soggetti alle regole del diritto internazionale pattizio. Ricorrere al diritto internazionale può essere l’unica possibilità per “cacciare” un paese fuori dall’Euro o dall’Unione Europea, contro la sua volontà. Ma, certo, imbastire un procedimento giuridico in tal senso non è facile, soprattutto se si considera che la violazione del limite del 3% deficit/PIL (che è il motivo principale per giustificare la volontà di disdire unilateralmente tali accordi) è stata compiuta da tutti i paesi, compresa la Germania dal 2002 al 2005 e nel 2009-2010, a dimostrazione dell’insostenibilità dei parametri originariamente posti dai Trattati.
Ne consegue che la Grecia, piaccia o non piaccia, se lo vuole (così come sempre dichiarato dall’attuale governo di Syriza), rimarrà all’interno dell’area Euro e non tornerà alla dracma. Ne consegue che il possibile esercizio del diritto al default non può essere limitato al solo paese in questione ma interessa tutti i paesi dell’Eurozona. Di ciò l’Eurogruppo è perfettamente cosciente (il Grexit, nonostante quanto scritto dai giornali, non è oggi all’ordine del giorno) e ne sono coscienti soprattutto i paesi più rigidi (Germania e Spagna in testa), al punto tale che, pochi giorni fa, subito dopo il fallimento delle trattative, il 27 giugno, sono state fatte forti pressioni sulla Bce perché dopo il 30 giugno chiudesse i rubinetti della liquidità di emergenza (Ela): liquidità che sino ad oggi ha consentito il funzionamento del sistemo del credito ellenico, nonostante l’aumento della fuga di capitali a vantaggio delle banche europee. Nell’ultima settimana, la Bce ha ritoccato all’insù la disponibilità di liquidità per la Banca Centrale greca sino a portarla a 89 miliardi di Euro e, resistendo alle pressioni dei falchi, il 28 giugno Mario Draghi ha affermato che continuerà a fornire liquidità di ultima istanza alla Grecia, pur senza aumentarne il volume. In altre parole, Draghi si rifiuta di “bastonare il cane che sta affogando” come chiestogli da molti paesi europei per indurre la Grecia a ritornare alla dracma ma, allo stesso tempo, non fa nulla per impedire che possa affogare in futuro.
Per la Bce, esiste poi anche il rischio che la Grecia non sia in grado di rimborsare all’istituto di Francoforte parte dei titoli del debito pubblico greco, che aveva acquistato, in base al programma Smp, nella fase più acuta della crisi, fra il 2010 e il 2012. La prossima scadenza è il 20 luglio, quella successiva in agosto, per complessivi 6,7 miliardi di euro.
Solo azzerando la liquidità greca espressa in Euro si può obbligare la Grecia a uscire dall’Euro. Questa sembra essere la strategia dell’oligarchia europea, anche a costo di rinunciare agli interessi sul debito, rischiando un aumento dell’instabilità dei mercati finanziari europei. E i primi effetti si fanno sentire, con la decisione del governo greco di chiudere la Borsa di Atene e le banche elleniche per sei giorni.
Tuttavia, si noti bene, tale rischio non colpisce il capitale finanziario privato ma piuttosto, ancora una volta, i bilanci pubblici europei.
Infatti, le convenzioni dominanti all’interno delle borse europee, pur con qualche oscillazione, non sembrano evidenziare particolare incertezza o paura, anche perché il fallimento delle trattative potrebbe avere effetti svalutativi sulla moneta unica europea (come sta succedendo in questi giorni), favorendo in tal modo le produzioni dei paesi maggiormente esportatori.
Diversa è invece la situazione per i conti pubblici nazionali (in assenza di un bilancio pubblico europeo).
L’Italia ad esempio vanta crediti nei confronti della Grecia stimabili in 65 miliardi, poco meno della Francia e della Germania. Il rischio che il fallimento della Grecia coinvolga, con ciò, gli altri stati membri è assai elevato nel senso che potrebbe avere ripercussioni in termini di ulteriore austerity nelle prossime leggi di stabilità.
In poche parole, così come è successo nel 2008-09, una situazione di crisi dovuta all’arroganza dei creditori privati oggi trasformati in creditori pubblici sarà pagata non dai veri responsabili ma dalla collettività, secondo il più classico degli adagi: privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite.
Ma c’è una via d’uscita…
Un ritorno della Grecia alla dracma avrebbe risultati pesanti sulle condizioni di vita della popolazione, già duramente colpita in questi anni. Non solo perché la svalutazione della moneta ellenica avrebbe effetti inflazionistici che, anche se non elevatissimi, comunque ridurrebbe il già scarso potere d’acquisto dei redditi, soprattutto da lavoro. Ma, poiché la maggior parte del debito greco è detenuto in Euro, il pagamento degli interessi lieviterebbe di molto, favorendo un circolo vizioso senza fine e soprattutto senza intaccare l’oligarchia finanziaria europea. Ricordiamoci infatti che la moneta è uno strumento (qualunque sia la forma o il nome che assuma) che esprime rapporti sociali di potere.
Cambiare lo strumento non significa invertire i rapporti di forza.
Questi ultimi invece potrebbero essere intaccati, se parallelamente all’Euro (e non in alternativa), si agisce per costruire un circuito monetario-finanziario alternativo, in cui lo strumento monetario non è finalizzato solo a fluidificare l’attività di scambio (come in quasi tutte le sperimentazioni delle monete complementari) ma piuttosto a finanziare ciò che oggi è la base della valorizzazione del comune. E quale è la base della valorizzazione di quel comune di cui il capitale si appropria e fa suo? Sono i servizi sociali, la cooperazione e la riproduzione sociale e anche le produzioni alternative o pseudo-alternative.
Dobbiamo pensare, quindi, a una moneta del comune che entri nel processo economico, e quindi abbia ragione di esistere, nel momento stesso che diventa finanziamento di investimento di valore d’uso e della riproduzione sociale della forza lavoro. In altre parole, remunerazione di quel lavoro vivo che oggi è precario, sottopagato e sempre più erogato gratuitamente.
Da questo punto di vista, la moneta del comune come mezzo di finanziamento e di remunerazione è strumento di autonomia e auto-determinazione, in grado di contrapporsi allo sfruttamento e alla ricattabilità imposta dal processo di sussunzione vitale che oggi governa il rapporto capitale-lavoro e dall’imposizione di politiche d’austerity che hanno l’unico scopo di rimborsare i creditori.
È la cooperazione sociale che crea la moneta e non la moneta che crea le relazioni economiche di scambio. In altri termini, è la potenza del lavoro vivo, liberato dalla necessità della sopravvivenza, a generare la moneta del comune. Esattamente l’opposto della filosofia che ha generato l’Euro. In Europa, infatti, prima si è costituita la moneta unica, pensando che fosse sufficiente per costruire un’identità di Europa, partendo dal presupposto (neoliberista) che la moneta sia neutrale e non l’esito di rapporti sociali gerarchici.
In un certo senso assistiamo oggi, drammaticamente, all’inverarsi della critica al modello di costruzione dell’Europa già avanzato molti anni fa: un’Europa non sociale ma dei potentati finanziari che ci fece parlare, fin dal 1994, di Antieuropa delle monete.

domenica 28 giugno 2015

Il problema dell’università italiana, se bisogna dirne uno solo

Io sono entrato all’università come professore associato a 31 anni, al cinquanta per cento circa per merito mio. Il senso di colpa che provo per il cinquanta per cento mancante si mitiga un po’ quando mi guardo intorno e vedo docenti che sono, per l’università, più o meno quello che la criptonite è per Superman: il docente asino, il docente matto, il docente che fa da decenni sempre lo stesso (pessimo) corso, il docente che si presenta in aula tre volte e poi manda a far lezione i dottorandi (infinitamente migliori di lui, ma non pagati per insegnare, mentre lui lo è).
Tale è (in parte, si capisce) il panorama umano che si contempla nelle università italiane: un dato che andrebbe ricordato ogni volta che si lamenta la scarsità dei finanziamenti, “lo stato che ci ha abbandonato”, l’idiozia delle verifiche ministeriali, le strettoie dell’Anvur; oppure ogni volta che si vanta l’eccellenza (una parola che si trova con frequenza sorprendente sulle labbra dei mediocri) degli atenei italiani.
Gli atenei italiani pagano un gran numero di persone che in qualsiasi azienda privata (in qualsiasi azienda che, a differenza dello stato, debba rispondere a qualcuno del proprio operato) sarebbero licenziate in tronco.
Che fare? Niente. Il passato è immedicabile, e anche l’immediato futuro. Per il futuro meno immediato si può provare a fare qualcosa, si sta facendo qualcosa. Tre anni fa, il Miur ha bandito un megaconcorso al termine del quale un numero considerevole di ricercatori o di professori associati, nei vari settori disciplinari, sono stati dichiarati idonei allo scatto di carriera, cioè alla chiamata – rispettivamente – come professori associati o come professori ordinari.
Meritavano tutti quanti questa abilitazione? Assurdo pensarlo. Qualcuno la meritava al cento per cento, qualcuno al cinquanta (come me a suo tempo), molti non la meritavano affatto (il docente che va in aula tre volte all’anno, per esempio: che, non insegnando, pubblica un mucchio).
Il fatto è che le norme ministeriali premiano inevitabilmente gli interni, anche se mediocri, rispetto agli esterni, anche se ottimi.
Ma al di là del merito, il problema è che gli atenei hanno, come sempre, pochi soldi, e per smaltire (cioè per promuovere) tutti questi abilitati ci vorranno anni (l’abilitazione ne durava quattro, ora ne dura sei: che è già un modo per dire “mettetevi comodi”). Questo è un peccato per gli interessati (che spesso meritano, e da anni, la promozione), ma è un peccato soprattutto per chi ha avuto l’abilitazione ma non lavora già nell’università, e ancora di più per quelli che non si sono abilitati perché due o tre anni fa, quando sono state presentate le domande, erano troppo giovani e non avevano abbastanza pubblicazioni (gli toccava concorrere, infatti, con gente di venti, trent’anni più anziana, che aveva pubblicato, com’è logico, molto più di loro: la qualità conta fino a un certo punto).
Il fatto è che le norme ministeriali premiano inevitabilmente gli interni, anche se mediocri, rispetto agli esterni, anche se ottimi. Per assumere gli esterni, infatti, gli atenei devono sborsare uno stipendio intero; se invece promuovono qualcuno che lavora già al loro interno devono sborsare solo la differenza (il delta, si dice) tra lo stipendio da ricercatore e quello da associato, o tra quello da associato e quello da ordinario.
Perché chiamare qualcuno da fuori, coi pochi soldi che ci sono? Meglio pescare tra gli interni, anche se meno bravi di quelli che stanno fuori. E infatti il motto degli abilitati che non sono già nelle università è “Sì, ho l’idoneità, ma me la posso appendere al muro…”. Stiamo parlando di persone che hanno più di trent’anni, che sono al culmine della loro produttività scientifica, che potrebbero ringiovanire molto la senescente università italiana: ma che, in quanto “non incardinati” (cioè non in ruolo nell’università), stanno in fondo alla lista. Molti hanno già rinunciato. Molti, spesso i migliori, vanno all’estero.
Questa la situazione. Ora, la perorazione. Io ho meritato al cinquanta per cento il posto che ho. Ma tra questi trentenni o appena quarantenni che stanno a spasso (con o senza abilitazione) ci sono – e parlo per esperienza, potrei fare i nomi – persone che lo meritano al cento per cento.
Non c’è oggi, per l’università italiana, problema che sia più urgente di questo (e s’intende che l’università è un pezzo dell’intero: se è vero com’è vero che, come osservava giorni fa Marco Alfieri su Rivista Studio, la questione sociale italiana è soprattutto una questione generazionale).
Bisogna assolutamente fare in modo che questi giovani studiosi restino in Italia, bisogna dargli la possibilità di avere, prestissimo, un’occupazione stabile qui, e bisogna che un buon numero di loro vada a insegnare all’università. Ripeto: un’occupazione stabile, perché i contratti a tempo possono essere interessanti solo per chi non ha altra scelta, mentre l’università (come la scuola) dovrebbe attrarre i bravi, non i disperati.
Un rinnovamento necessario
Già ora si respira, in molti dipartimenti italiani, un’aria mefitica, dovuta soprattutto al fatto che l’età media di chi ci insegna è alta, troppo alta: un posto abitato quasi solo da sessantenni non è un posto da cui possano venire molte idee nuove, e neanche molte idee buone. Ora la chiamata en masse degli idonei rischia di rimandare ancora un rinnovamento che è, invece, necessario.
È opportuno che il Miur premi, con più fondi rispetto a quelli già ora disponibili, quegli atenei che assumono docenti idonei che non sono già nei ruoli universitari, o che faciliti in altro modo queste assunzioni.
Ed è opportuno che, nel più breve tempo possibile, si bandisca un nuovo esame di abilitazione, severo e selettivo, per dare una possibilità a chi, pur meritandolo, non ha potuto abilitarsi.
Perché il rischio non è solo che questi giovani vadano all’estero: è anche che, arrivati a trent’anni e vedendo che aria tira, decidano di fare altro, e altro facciano, lasciando l’università del futuro ai più ostinati, che non sono quasi mai i più bravi, e soprattutto a quelli che sono ricchi abbastanza da potersi permettere di vivere per anni in un limbo. È già successo, sta succedendo, ne pagheremo le conseguenze per decenni.

sabato 27 giugno 2015

Eurogruppo rompe con Atene. Ue allergica alla democrazia


I governi e la stampa del resto d’Europa non riescono a tollerare l’idea che chi subisce l’austerity possa almeno dire la sua. L’Eurogruppo riprende senza i greci

di Checchino Antonini da popoff


L’Eurogruppo ha rifiutato la richiesta del governo greco di estendere l’attuale programma di salvataggio della Grecia oltre il 30 giugno. All’incontro partecipano anche il presidente della Bce, Mario Draghi, e la direttrice dell’Fmi, Christine Lagarde ma non i rappresentanti del governo di Syriza, la delegazione guidata da Yanis Varoufakis, ministro delle finanze. Sul tavolo c’è l’esame di un fallimento ordinato della Grecia, quando il 30 giugno scadrà l’attuale programma di salvataggio e Atene dovrà ripagare 1,6 miliardi di euro al Fmi, e le conseguenze sull’area euro. È quanto rivelano fonti europee. Il governo greco aveva chiesto ai ministri delle Finanze dell’area euro di estendere il programma per comprendere il referendum del 5 luglio quando, in ossequio al mandato ricevuto da Tsipras e alla costituzione greca, si sarebbe tenuta la consultazione popolare sui termini dell’accordo.
il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem è stato piuttosto netto: il 30 giugno scade l’attuale programma di salvataggio della Grecia e «tutti gli accordi di finanziamento correlati al programma», compresi i profitti della Bce sui bond greci.
Il referendum voluto da Alexis Tsipras sulle proposte dei creditori internazionali «è altamente pericoloso», predica la stampa “perbene”, la stessa che ha coltivato il terreno della narrazione sull’austerity imponendo temi e contenuti a un’opinione pubblica impaurita dalla crisi e incapace di capirne i responsabili. Ad esempio lo Spiegel: «Se i greci votassero per l’Euro e per le riforme, bene. Ma il rischio di un rigetto è alto. La Grecia è una nazione confusa». È quanto si legge in un commento che il settimanale dedica agli ultimi sviluppi della crisi ellenica. «Attraverso gli infiniti dibattiti degli ultimi anni, le misure di austerità, che tanti hanno già dovuto sopportare, molti non sanno più cosa sia giusto e cosa sia sbagliato – sottolinea – In una situazione come questa non bisogna attendersi decisioni razionali». «Tsipras, si legge ancora, è prigioniero delle promesse non mantenibili che lui ha servito ai greci prima delle ultime elezioni. Alimentando l’illusione che la Grecia potrebbe anche uscire dalla crisi senza profondi cambiamenti o senza l’aiuto degli europei e del Fondo monetario internazionale Tsipras inganna il suo popolo». «La Grecia merita politici migliori, che guidino e dicano la verità invece di trarre in inganno la gente», scrive ancora ‘Der Spiegel’. «Con un no al referendum la situazione rischia di sfuggire completamente di mano». Nel caso in cui con il voto il paese «dovesse allontanarsi» evidentemente dall’Europa, questo rappresenterebbe «uno schiaffo in faccia a tutti coloro che da anni cercano instancabilmente di aiutare la Grecia». «Nessun politico europeo sarà quindi più in grado di spiegare ai suoi elettori perché bisognerebbe continuare ad aiutare la Grecia». Non è solo in Italia che la stampa “normale” è allergica alla verità e alla democrazia.
Se il Parlamento di Atene dovesse approvare il referendum proposto dal premier Tsipras sull’ultimo piano dei creditori sarebbe la seconda volta nella storia del Paese che l’elettorato viene chiamato alle urne per una consultazione popolare. La prima volta fu a dicembre del 1974 quando, alla caduta della giunta dei colonnelli, gli elettori dovettero decidere sull’abolizione della monarchia, a favore della quale si espresse quasi il 70% della popolazione greca. Nel testo sottoposto dal governo al Parlamento gli elettori sono chiamati a rispondere con un sì o con un no alla seguente domanda: «Al popolo greco si chiede se accettare la bozza di documento sottoposta dalla Commissione europea, Bce ed Fmi, all’Eurogruppo del 25 giugno scorso…i cittadini che la respingono dovranno votare ‘non approvata/no’, i cittadini che l’accettano dovranno votare ‘approvata/sì’. Una proposta di referendum la fece il 31 ottobre del 2011 anche l’allora premier socialista George Papandreou, alla vigilia del vertice del G20 di Cannes, per chiedere l’approvazione del popolo sul secondo piano di salvataggio per la Grecia, che prevedeva un taglio del 50% del debito greco detenuto dal settore privati. Il referendum, che avrebbe dovuto tenersi il 4 dicembre, venne poi cancellato su pressione fortissima degli altri leader europei, in particolare la cancelliera tedesca Angela Merkel ed il presidente francese Nicolas Sarkozy.
Il destino della Grecia è ancora legato alle decisioni dei suoi creditori, da una parte, e di Atene, dall’altra. Ma in queste ore lo spettro del default si sta facendo un’ipotesi più concreta. Così come l’extrema ratio, l’uscita dall’Euro. Il presidente della Bce Mario Draghi, segue due ‘dogmi’: primo, l’Euro «è irreversibile»; secondo, il terreno oltre la Grexit è «ignoto e inesplorato». (segue)

“Per la sovranità e la dignità della Grecia”, il discorso di Tsipras per il referendum


Cittadini greci,
Negli ultimi sei mesi, il governo greco ha condotto una battaglia in condizioni di asfissia economica senza precedenti, al fine di attuare il mandato che gli avete dato il 25 gennaio (giorno delle elezioni, ndr).
Il mandato di negoziare con i nostri partner per realizzare la fine dell’austerità, e per riportare ancora una volta la prosperità e la giustizia sociale nel nostro Paese.
Per raggiungere un accordo sostenibile che rispetti la democrazia, così come le norme europee, e che porterà ad una definitiva uscita dalla crisi.
Durante i negoziati, ci hanno più volte chiesto di attuare politiche concordate nel Memorandum dai governi precedenti, nonostante il fatto che il Memorandum fosse stato inequivocabilmente condannato dal popolo greco nelle recenti elezioni.
Non abbiamo mai preso in considerazione la possibilità di cedere, neanche per un momento. Di tradire la vostra fiducia.
Dopo cinque mesi di trattative difficili, i nostri partner hanno presentato una proposta-ultimatum alla riunione dell’Eurogruppo, prendendo di mira la democrazia greca e il popolo greco.
Un ultimatum che va contro i principi e i valori fondanti dell’Europa. I valori del nostro progetto comune europeo.
Al governo greco è stato chiesto di accettare una proposta che aggiungerà un nuovo insopportabile peso sulle spalle del popolo greco, e che metterà a repentaglio la ripresa dell’economia greca e della società, non solo alimentando l’incertezza, ma anche esacerbando ulteriormente le disuguaglianze sociali.
La proposta delle istituzioni comprende misure per deregolamentare ulteriormente il mercato del lavoro, tagli alle pensioni, e ulteriori riduzioni dei salari del settore pubblico, come pure un aumento dell’Iva sui prodotti alimentari, ristoranti e turismo, eliminando le agevolazioni fiscali delle isole greche.
Queste proposte che violano direttamente l’acquis sociale e i diritti fondamentali europei al lavoro, all’uguaglianza e alla dignità, dimostrano che alcuni partner e membri delle istituzioni non sono interessati a raggiungere un accordo praticabile e utile per tutte le parti, ma piuttosto vogliono l’umiliazione del popolo greco.
Queste proposte mostrano soprattutto l’insistenza del Fondo Monetario Internazionale su misure di austerità dure e punitive. Ora è il momento per le principali potenze europee di essere all’altezza della situazione e prendere l’iniziativa per porre fine definitivamente alla crisi del debito greco, una crisi che colpisce altri Paesi europei, minacciando il futuro dell’integrazione europea.

Cittadini greci,
Siamo di fronte alla responsabilità storica di non lasciare che le lotte e i sacrifici del popolo greco siano stati vani, alla responsabilità di rafforzare la democrazia e la nostra sovranità nazionale. E questa responsabilità pesa su di noi.
È la nostra responsabilità per il futuro del nostro Paese.
Questa responsabilità ci obbliga a rispondere all’ultimatum basandoci sulla volontà sovrana del popolo greco.
Questa sera, il Governo è stato convocato e ho proposto un referendum, in modo che il popolo greco possano decidere.
La mia proposta è stata accettata all’unanimità.
Domani (oggi, ndr), il Parlamento terrà una riunione straordinaria per ratificare la proposta del Governo per un referendum che si terrà domenica prossima, il 5 luglio. La domanda sulla scheda elettorale sarà se la proposta delle istituzioni dovrebbe essere accettata o rifiutata.
Ho già informato il presidente francese, la cancelliera tedesca e il presidente della Bce della mia decisione, mentre domani chiederò una breve proroga del programma – per iscritto – ai leader dell’Ue e alle istituzioni, in modo che il popolo greco possa decidere senza pressioni e ricatti, come previsto dalla Costituzione del nostro Paese e della tradizione democratica dell’Europa.

Cittadini greci,
Vi invito a decidere, con la sovranità e dignità che vuole la storia greca, se dovremmo accettare l’esorbitante ultimatum che chiede una rigorosa e umiliante austerità senza fine, e senza la prospettiva di poterci reggere in piedi, socialmente e finanziariamente.
Dobbiamo rispondere all’autoritarismo e alla dura austerità con la democrazia, con la calma e con decisione.
La Grecia, la culla della democrazia, deve inviare un clamoroso messaggio democratico alla comunità europea e mondiale.
Io mi impegno personalmente a rispettare l’esito della vostra scelta democratica, qualunque essa sia.
Sono assolutamente fiducioso che la vostra scelta onorerà la storia del nostro Paese e invierà un messaggio di dignità in tutto il mondo.
In questi tempi difficili, tutti noi dobbiamo ricordare che l’Europa è la casa comune di tutti i suoi popoli.
Che in Europa non ci sono proprietari e ospiti.
La Grecia è, e rimarrà, parte integrante dell’Europa, e l’Europa parte integrante della Grecia.
Ma un’Europa senza democrazia sarà un’Europa senza identità e senza una bussola.
Chiedo a tutti voi di agire con unità nazionale e compostezza, e di prendere una decisione degna.
Per noi, per le generazioni future, per la storia greca.
Per la sovranità e la dignità del nostro Paese.


Contro il totalitarismo finanziario, l’Europa o cambia o muore

di Marco Revelli da Il Manifesto


L’«economia che uccide» di cui parla il papa la vediamo al lavoro in que­sti giorni, in diretta, da Bru­xel­les. Ed è uno spet­ta­colo umi­liante. Non taglia le gole, non ha l’odore del san­gue, della pol­vere e della carne bru­ciata. Opera in stanze cli­ma­tiz­zate, in cor­ri­doi per passi fel­pati, ma ha la stessa impu­dica fero­cia della guerra. Della peg­giore delle guerre: quella dichia­rata dai ric­chi glo­bali ai poveri dei paesi più fra­gili. Que­sta è la meta­fi­sica influente dei ver­tici dell’Unione euro­pea, della Bce e, soprat­tutto, del Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale: dimo­strare, con ogni mezzo, che chi sta in basso mai e poi mai potrà spe­rare di far sen­tire le pro­prie ragioni, con­tro le loro fal­li­men­tari ricette.
La «trat­ta­tiva sulla Gre­cia», nelle ultime set­ti­mane, è ormai uscita dai limiti di un nor­male, per quanto duro, con­fronto diplo­ma­tico per assu­mere i carat­teri di una prova di forza. Di una sorta di giu­di­zio di dio alla rove­scia.
Già le pre­ce­denti tappe ave­vano rive­lato uno scarto rispetto a un tra­di­zio­nale qua­dro da «demo­cra­zia occi­den­tale», con la costante volontà, da parte dei ver­tici dell’Unione, di sosti­tuire al carat­tere tutto poli­tico dei risul­tati del voto greco e del man­dato popo­lare dato a quel governo, la logica arit­me­tica del conto pro­fitti e per­dite, come se non di Stati si trat­tasse, ma ormai diret­ta­mente di Imprese o di Società commerciali.

Ha ragione Jür­gen Haber­mas a denun­ciare lo slit­ta­mento – di per sé deva­stante – da un con­fronto tra rap­pre­sen­tanti di popoli in un qua­dro tutto pub­bli­ci­stico di cit­ta­di­nanza, a un con­fronto tra cre­di­tori e debi­tori, in un qua­dro quasi-privatistico da tri­bu­nale fal­li­men­tare. Era già di per sé il segno di una qual­che apo­ca­lisse cul­tu­rale la deru­bri­ca­zione di Ale­xis Tsi­pras e di Yanis Varou­fa­kis da inter­lo­cu­tori poli­tici a «debi­tori», posti dun­que a priori su un piede di ine­gua­glianza nei con­fronti degli onni­po­tenti «creditori».
Ma poi la vicenda ha com­piuto un altro giro. Chri­stine Lagarde ha impresso una nuova acce­le­ra­zione al pro­cesso di disve­la­mento, alzando ancora il tiro. Facen­done non più solo una que­stione di spo­lia­zione dell’altro, ma di sua umi­lia­zione. Non più solo la dia­let­tica, tutta eco­no­mica, «creditore-debitore», ma quella, ben più dram­ma­tica, «amico-nemico», che segna il ritorno in campo della poli­tica nella sua forma più essen­ziale, e più dura, del «polemos».
In effetti non si era mai visto un cre­di­tore, per stu­pido che esso sia, cer­care di ucci­dere il pro­prio debi­tore, come invece il Fmi sta facendo con i greci. Ci deve essere qual­cosa di più: la costru­zione scien­ti­fica del «nemico». E la volontà di un sacri­fi­cio esemplare.
Un auto da fé in piena regola, come si faceva ai tempi dell’Inquisizione, per­ché nes­sun altro sia più ten­tato dal fascino dell’eresia.
Leg­ge­tevi con atten­zione l’ultimo docu­mento con le pro­po­ste gre­che e le cor­re­zioni in rosso del Brus­sels group, pub­bli­cato (con un certo gusto sadico) dal Wall Street Jour­nal: è un esem­pio buro­cra­tico di peda­go­gia del disumano.
L’evidenziatore in rosso ha spi­go­lato per tutto il testo cer­cando, con mania­cale acri­bia ogni, sia pur minimo, accenno ai «più biso­gnosi» («most in need») per cas­sarlo con un rigo. Ha negato la pos­si­bi­lità di man­te­nere l’Iva più bassa (13%) per gli ali­menti essen­ziali («Basic food») e al 6% per i mate­riali medici (!). Così come, sul ver­sante oppo­sto, ha can­cel­lato ogni accenno a tas­sare «in alto» i pro­fitti più ele­vati (supe­riori ai 500mila euro), in omag­gio alla fami­ge­rata teo­ria del tric­kle down, dello «sgoc­cio­la­mento», secondo cui arric­chire i più ric­chi fa bene a tutti!
Ha, infine, dis­se­mi­nato di rosso il para­grafo sulle pen­sioni, impo­nendo di spre­mere ulte­rior­mente, di un altro 1% del Pil — e da subito! — un set­tore già mas­sa­crato dai Memo­ran­dum del 2010 e del 2012.
Il tutto appog­giato sulla infi­ni­ta­mente repli­cata fal­si­fi­ca­zione dell’età pen­sio­na­bile «scan­da­lo­sa­mente bassa» dei greci (chi spara 53 anni, chi 57…). Il diret­tore della comu­ni­ca­zione della Troika Gerry Rice, durante un incon­tro con la stampa, per giu­sti­fi­care la mano pesante, ha addi­rit­tura dichia­rato che «la pen­sione media greca è allo stesso livello che in Ger­ma­nia, ma si va in pen­sione sei anni prima…».

Una (dop­pia) men­zo­gna con­sa­pe­vole, smen­tita dalle stesse fonti sta­ti­sti­che uffi­ciali dell’Ue: il data­base Euro­stat segnala, fin dal 2005, l’età media pen­sio­na­bile per i cit­ta­dini greci a 61,7 anni (quasi un anno in più rispetto alla media euro­pea, la Ger­ma­nia era allora a 61,3, l’Italia a 59,7).
E sem­pre Euro­stat ci dice che nel 2012 la spesa pen­sio­ni­stica pro capite era in Gre­cia all’incirca la metà di Paesi come l’Austria e la Fran­cia e di un quarto sotto la Ger­ma­nia.
Il Finan­cial Times ha dimo­strato che «accet­tare le richie­ste dei cre­di­tori signi­fi­che­rebbe per la Gre­cia dire sì ad un aggiu­sta­mento di bilan­cio… pari al 12,6% nell’arco di quat­tro anni, al ter­mine dei quali il rap­porto debito-PIL si avvi­ci­ne­rebbe al 200%». Paul Krug­man ha mostrato come l’avanzo pri­ma­rio della Gre­cia «cor­retto per il ciclo» (cycli­cally adju­sted) è di gran lunga il più alto d’Europa: due volte e mezzo quello della Ger­ma­nia, due punti per­cen­tuali sopra quello dell’Italia.

Dun­que un Paese che ha dato tutto quello che poteva, e molto di più. Per­ché allora con­ti­nuare a spre­merlo?
Ambrose Evans-Pritchard – un com­men­ta­tore con­ser­va­tore, ma non acce­cato dall’odio – ha scritto sul Tele­graph che i «cre­di­tori vogliono vedere que­sti Kle­pht ribelli (greci che nel Cin­que­cento si oppo­sero al domi­nio otto­mano) pen­dere impic­cati dalle colonne del Par­te­none, al pari dei ban­diti», per­ché non sop­por­tano di essere con­trad­detti dai testi­moni del pro­prio fal­li­mento. E ha aggiunto che «se vogliamo datare il momento in cui l’ordine libe­rale nell’Atlantico ha perso la sua auto­rità – e il momento in cui il Pro­getto Euro­peo ha ces­sato di essere una forza sto­rica capace di moti­vare – be’, il momento potrebbe essere pro­prio que­sto». È dif­fi­cile dar­gli torto.

Non pos­siamo nascon­derci che quello che si con­suma in Europa in que­sti giorni, sul ver­sante greco e su quello dei migranti, segna un cam­bia­mento di sce­na­rio per tutti noi.
Sarà sem­pre più dif­fi­cile, d’ora in poi, nutrire un qual­che orgo­glio del pro­prio essere euro­pei. E ten­derà a pre­va­lere, se vor­remo «restare umani», la vergogna.

Se, come tutti spe­riamo, Tsi­pras e Varou­fa­kis riu­sci­ranno a por­tare a casa la pelle del pro­prio Paese, respin­gendo quello che asso­mi­glia a un colpo di stato finan­zia­rio, sarà un fatto di straor­di­na­ria impor­tanza per tutti noi.
E tut­ta­via resterà comun­que inde­le­bile l’immagine di un potere e di un para­digma con cui sarà sem­pre più dif­fi­cile con­vi­vere. Per­ché malato di quel tota­li­ta­ri­smo finan­zia­rio che non tol­lera punti di vista alter­na­tivi, a costo di por­tare alla rovina l’Europa, dal momento che è evi­dente che su que­ste basi, con que­ste lea­der­ship, con que­sta ideo­lo­gia esclu­siva, con que­ste isti­tu­zioni sem­pre più chiuse alla demo­cra­zia, l’Europa non sopravvive.
Mai come ora è chiaro che l’Europa o cam­bia o muore.
La Gre­cia, da sola, non può far­cela. Può supe­rare un round, ma se non le si affian­che­ranno altri popoli e altri governi, la spe­ranza che ha aperto verrà soffocata.
Per que­sto sono così impor­tanti le ele­zioni d’autunno in Spa­gna e in Portogallo.
Per que­sto è così urgente il pro­cesso di rico­stru­zione di una sini­stra ita­liana all’altezza di que­ste sfide, supe­rando fram­men­ta­zioni e par­ti­co­la­ri­smi, incer­tezze e distin­guo, per costruire, in fretta, una casa comune grande e credibile.

venerdì 26 giugno 2015

Europa senza euro o euro senza Europa. L'inessenzialità dei popoli

"Madre, madre, dormii settecent'anni settecent'anni; e vengo di lontano. Non mi ricordo più della mia culla"*
"...Quando con emozione ci si accorge degli anni Senza emozione, vissuti tra le rovine Di quello in che si credeva con maggior fiducia... E dunque meglio si presta ad esser ripudiato."**



da Ubu Re
   Caro Franco
 Che dire ?

Innanzi tutto che apprezzo il fatto che tu abbia voluto rispondermi (spero in qualità di amico e non di psichiatra!). Poi che vorrei che questo intervento, come il precedente, venisse considerato per quello che è: un colloquio fra amici. Quindi che mi scuso per le citazioni, che sono la mia passione, soprattutto se "casuali". Infine che cercherò di essere più conciso e meno barocco, per il sollievo di tutti quelli che avranno pazienza di leggere.

Tu dici:  "con le monete nazionali, va bene che possiamo svalutare e farci gli affari nostri, ma non rischiamo di ripiegare in un protezionismo becero foriero di nazionalismi e guerre?". Certo che rischiamo. Ma è quello che comunque sta già accadendo, con l'euro e dentro l'Europa. Anzi, il fatto che non possiamo farci "gli affari nostri" (che non significa essere nazionalisti e xenofobi) che bisogna sottostare ad "affari superiori", che si sia costretti ad una  innaturale convivenza forzosa, dentro il regime di una moneta che è un'arma dei forti contro i deboli, nell'assenza decisiva della politica, acutizza i nazionalismi e accelera i processi degenerativi. Questi processi sono già realtà, come si può ben vedere dalle cronache politiche. La guerra è già realtà, l'egoismo dilaga, la destra ha soluzioni forti da proporre. La sinistra deve prenderne atto, prima che sia troppo tardi. Da sinistra bisogna rivelare le logiche con cui questi processi agiscono, per quali interessi, per poterle governare da sinistra. Bisogna offrire una prospettiva e soluzioni ai cittadini, non utopie monetaristiche, cercando di ricomporre gli interessi delle classi subalterne con un progetto che indichi chiaramente quali sono le cause della sofferenza: non sono i poveri immigrati, non gli statali fannulloni o i tassisti... o la corruzione, ma il capitalismo finanziario che qui in Europa agisce per mezzo dell'euro e determina le politiche dell'austerità. 
Ci sono in Italia forze politiche disposte a farlo?

 La possibilità di svalutare, è, da un punto di vista economico, e mi azzardo a dire etico, salutare. "Unisce" le economie (e quindi i popoli), nel senso che rende le economie complementari, flessibili, adattabili alle varie circostanze di tempo, di luogo, di cultura. Che sia un peccato contro la morale lo dicono i ricchi creditori calvinisti, perchè lede i loro esclusivi interessi. L'impossibilità di svalutare infatti la pagano debitori e lavoratori (che sempre più spesso coincidono), soprattutto dei paesi più deboli. Su cui grava il peso maggiore delle politiche deflazionistiche. Questo, a maggior ragione, in un'Europa che non contempla affatto meccanismi di solidarietà. Né orizzontali né verticali.

"Farci gli affari nostri" non significa appiattirsi sulle logiche nazionalistiche o "patriottiche", perchè gli interessi che ci preme tutelare riguardano non soltanto gli sfruttati italiani, ma anche tedeschi, francesi e ghanesi. Nelle circostanze odierne, significa, a livello economico una ripresa delle politiche di spesa keynesiane (perchè il paziente soffre molto: questo con l' Euro, creatura neoliberista, naturalmente è impossibile). A livello politico significa riappropiarsi di quei meccanismi democratici di rappresentatività, che risiedono ancora nello Stato e negli altri enti territoriali, e che, pure con le loro indubbie enormi carenze, ci sono stati scippati (o sono stati svuotati), 
e di cui ora si sente estremo bisogno.
 Certo, l'attacco alla rappresentatività avviene anche dentro i confini nazionali, vedasi le terribili leggi elettorali progettate. Ma l'europa, qui, come altrove, non è d'aiuto. Anzi, così come è concepita, da questo punto di vista, è un ostacolo ancor più insormontabile, proprio perchè allontana i veri centri decisionali dai cittadini, e "mette al riparo" (monti dixit)  il potere decisionale dai processi elettorali, dalle pubbliche opinioni e dalle comunità che tentano attraverso grandi difficoltà 
vie democratiche.

Non vogliamo essere fanatici sostenitori dello Stato Nazionale, non lo siamo. Ma l'Europa ha tutte le peggiori caratteristiche dello Stato Nazionale senza averne alcun pregio. In Europa la Costituzione italiana, come le altre, per dire, è carta straccia. E fra un po', grazie all'Europa lo sarà anche in Italia. Ci sono dei bei trattati, al riguardo, di natura oserei dire privatistica, che si occupano, e sempre più si occuperanno, di governare tutto l'esistente.
 Il "vincolo esterno", "il pilota automatico",  il "ce lo chiede l'Europa": sono bei concetti della cui potenza, e della cui ineluttabilità  gli europei hanno appena iniziato a conoscere gli effetti devastanti. Si vedano, per esempio, in Italia i casi  del mancato adeguamento delle pensioni o del mancato rinnovo del contratto degli statali, dove la Corte Costituzionale e l'esecutivo hanno dovuto prendere atto, per le proprie decisioni, volenti o nolenti, della presenza del pareggio di bilancio nella Costituzione. Con grave danno per milioni di cittadini. Questo è "il macigno con l'orma di Sansone, la Majella con tutta la sua neve" che si pone davanti a noi cittadini europei.

 Ma c'è di più. Questa insana costruzione pseudo illuministica, progettata da menti superiori, che dovrebbe metterci al riparo dai nazionalismi, dagli egoismi, e che invece li sta aggravando, e lascia i cittadini soli, senza diritti, senza strumenti democratici e soldi, questa insana costruzione dicevo, dal lato del potere politico reale, dal lato delle economie forti, sempre egoisticamente nazionali si badi bene, dal lato dei rapporti internazionali è un nulla. Infatti la politica europea non esiste . Esiste quella tedesca soprattutto, poi la francese, la spagnola e via discendendo nelle stive e nelle stalle . Per risalire infine sulla radiosa cabina di comando dove gli USA, lo stato  più indebitato del mondo in termini monetari assoluti, gestisce imperialisticamente l'Europa 
in funzione anti sovietica e anti cinese.

 "L'euro come vessillo di equità ed uguaglianza", come tu dici, non credo sia  possibile. Purtroppo. Teoricamente è possibile un'altra Europa. Ma un'altra Europa è possibile solo senza l'euro: a patto che si abbiano la volontà, la forza politica e la capacità.
 Perchè?
 Perchè l'euro è la messa in atto, la realizzazione pratica di una logica di potere ferrea, da cui non si sfugge: è il concretizzarsi  del progetto neoliberista e neoimperialista statunitense, del mercantilismo tedesco, della volontà di potenza francese, e della volontà della borghesia italiana di non perdere il treno del "progresso". Precario equilibrio tra egoismi colossali, destinato  necessariamente a collassare secondo decine di economisti di tutte le scuole che non siano stati accecati o comprati dalla religione neoliberista. Ma comunque strumento da sfruttare al meglio fin che si può contro il vero nemico che è il lavoro. Egoismi che hanno partorito questa moneta-mostro contro i popoli europei, ingannandoli attraverso ideali progressisti. Popoli che scandalosamente possedevano ancora uno stato sociale.

 Sono gli stessi egoismi che operano distruttivamente negli altri continenti e in Africa. Un uomo che voglia essere di sinistra non può certo dimenticarlo. E soprattutto "il pensiero" e l'azione di sinistra dovrebbero essere sufficientemente radicali per immaginare e progettare  possibilità pratiche per ridurre da subito le sofferenze dei più deboli, ovunque essi siano. Altrimenti non c'è speranza. Ma, le possibilità pratiche mi sembra che nascano proprio nel tentativo concreto di risolvere problemi specifici e quindi, alla fine, dal riconoscimento, dall'accettazione delle differenze e dalla loro valorizzazione. Tutto ciò l'Euro non fa in economia e l'Europa in politica.
Finisco qui, sento notizie di vari attentati in europa e in Africa...

*   Da "La figlia di Iorio" di Gabriele D'Annunzio
** Da Quattro quartetti - I Dry Salvages di T.S. Eliot

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...