lunedì 29 ottobre 2012

Scassiamo

Scassiamo. Nel senso usato da Luigi De Magistris. Scompaginiamo i giochi: votiamo Renzi, votiamo Grillo a seconda, nel caso votiamo ALBA (se si decide a sorgere) o le liste civiche. Purché si scassi. Qui non è più questione ormai di discernimento, discriminanti o fedeltà politica, è questione che quando ti trovi circondato da un muro e vedi un'unica porticina aperta, quella prendi e vai a costituire un fuori, un fuori dal muro di silenzi, complicità e orrori. E scassi a più non posso. Scassi il terreno, lo vanghi e semini qualcos'altro. Non c'è rimasto altro da fare. Geometrie variabili e scassanti. Non lo dico io per strategia d'accatto o dadaismo da dopolavoro ferroviario, è quello che sta succedendo e che succederà a meno di una lobotomia frontale di massa.
Scassiamo, sarà sempre meglio di quello che abbiamo ora.

domenica 28 ottobre 2012

A proposito di costituzione e capitale finanziario

da controlacrisi

Organizzerò il mio intervento su tre punti fondamentali. Cercherò innanzitutto di definire la convenzione finanziaria che oggi ci domina e come essa abbia modificato il rapporto tra privato e pubblico. In secondo luogo cercherò di analizzare come il privato e il pubblico siano stati fissati nella costituzione del 1948, ma soprattutto come essi si presentino nel farsi della costituzione europea. Infine, cercherò di capire come, in nome del comune, possa essere rotta la convenzione costituzionale che ci lega, opponendo dispositivi antagonisti all’esercizio del potere finanziario, costruendo una “moneta del comune” – insomma, che cosa significa, dentro/contro l’attuale convenzione finanziaria europea, procedere nella costruzione del comune?
1.1
La convenzione collettiva che oggi domina il rapporto costituzionale è una convenzione finanziaria. Laddove una volta era posto il valore-lavoro come norma regolatrice e misura delle attività sociali e produttive, ora è stata eletta la regola finanziaria.
Analizziamo quindi la relazione capitale finanziario / costituzione materiale. Il capitale finanziario, nella situazione attuale, si pone come autorità legitimante la costituzione effettiva della società postindustriale. Se in epoca fordista la Costituzione organizzava la società sulla base del tallone-misura del valore lavoro, e tale era lo schema di organizzazione della società industriale, ora, a quello standard, si sostituisce una misura finanziaria. Ne vengono subito alcune conseguenze. Mentre la misura-lavoro, nella costituzione fordista, era dura e relativamente stabile, direttamente dipendente dal rapporto di forza fra le classi (tale fu la condizione di ogni costituzione nel “secolo breve”), la convenzione finanziaria quando si materializza in forma costituzionale, quando cioè incarna in maniera egemone il rapporto politico capitalista, si presenta come potenza indipendente ed eccedente. I lavori di André Orléan e di Christian Marazzi hanno insistito opportunamente su questa evenienza istituzionale. Si tratta di un’indipendenza che, dal punto di vista del valore, consolida e fissa un “segno proprietario” (nei termini della “proprietà privata”: vedi soprattutto Leo Specht) ma che contemporaneamente si presenta anche come “crisi”, come “eccedenza” non semplicemente rispetto alle vecchie e statiche determinazioni del valore-lavoro ma soprattutto in riferimento a quell’“anticipazione” e a quell’“incremento” continui che gli sono propri nel confrontarsi con la captazione finanziaria del valore socialmente prodotto e nell’operare alla sua estensione sul livello globale. La convenzione finanziaria si presenta quindi, istituzionalmente, come governance globale, perché la crisi è permanente, in quanto organica al regime del capitale finanziario. Meglio è, in queste condizioni, parlare di varie fasi del business cycle, piuttosto che di crisi.
Sia chiaro quindi che, in questa nuova configurazione della regola costituzionale, permane la base materiale della legge del valore: non più lavoro individuale che diviene astratto, ma lavoro immediatamente sociale, comune, direttamente sfruttato dal capitale. La regola finanziaria può porsi in maniera egemone perché nel nuovo modo di produzione il comune è emerso come potenza eminente, come sostanza di rapporti di produzione, e va sempre più invadendo ogni spazio sociale come norma di valorizzazione. Il capitale finanziario insegue questo estendersi, cerca di anticiparlo, incalza il profitto e lo anticipa come rendita finanziaria. Bene dice Harribey, discutendone con Orléan, il valore non si presenta più qui in termini sostanziali ma neppure come una semplice fantasmagoria contabile: è il segno di un comune produttivo, mistificato ma effettivo, che si sviluppa sempre più intensivamente ed estesamente.
Facciamo il punto. Da un lato possiamo sottolineare che, nella società contemporanea, nei processi di sussunzione della società nel capitale, valore d’uso e valore di scambio si sovrappongono. Dall’altro lato, si avverte che il lavoro astratto non differisce dal lavoro concreto solo perché esso rappresenta l’astrazione della forma concreta del lavoro: questa è, per così dire, una differenza puramente epistemologica. La vera differenza – quella positiva –consiste nel fatto che, nel lavoro astratto, si eguagliano ora tutte le forme del lavoro, e ciò avviene nel quadro di uno scambio multilaterale e cooperativo di attività singolari produttive.
Su questa base si trarranno due conseguenze:
la prima è che quella sussunzione della vita, quando si presenta come comando sulle attività produttive attraverso i mezzi della finanza, incarna un biopotere, cioè la capacità di sfruttare, di estrarre plusvalore, di accumularlo sull’insieme della vita sociale. Il denaro, i prodotti finanziari, la Banca diventano mezzi di produzione, non come forze produttive ma come strumenti di estorsione di plusvalore. (Per esempio, oggi in Francia tutta l’imposta sul reddito serve a pagare il servizio del debito);
la seconda conseguenza è che il valore si presenta sul mercato non tanto come sostanza, non tanto come mera quantità di merci, ma come insieme di attività e di servizi, sempre maggiormente cooperativi, e che la vita è così sussunta dal potere nella sua interezza e nell’insieme delle sue singolari espressioni; insomma, che i rapporti di produzione pongono in contraddizione i mercati e/o la finanza con il comune produttivo.
1.2
A partire degli anni ‘90 – dopo la lunga crisi iniziata negli anni ’70 con la demolizione degli standard di Bretton-Woods – si determina dunque, in maniera sempre meno caotica, un nuovo standard globale che sostituisce quello lavorista.
Due condizioni ne permettano lo sviluppo. La prima è il compiersi della globalizzazione: è confrontandosi alla globalizzazione che la convenzione fordista cede su un elemento centrale della sua legittimità e funzione, intendiamo lo Stato-nazione, come base sovrana. La convenzione monetaria è sottratta allo Stato-nazione e condotta a standard globali. Il debito pubblico è sottratto alla regolazione sovrana (congiuntamente dal capitale e dai singoli Stati-nazione) e sottoposto ai meccanismi di valore determinati, sul mercato globale, dai soggetti detentori del capitale finanziario. La concorrenza fra questi attori si fa sempre solidarietà nei confronti degli sfruttati.
La seconda condizione consiste nel fatto che, con la crisi della sovranità (nazionale), ilpubblico viene sostanzialmente patrimonializzato in maniera privatistica, anche prima di esserlo giuridicamente. Voglio dire che le finalità dell’accumulazione vengono piegate alle regole dell’appropriazione privata diretta di ogni bene pubblico. In questa situazione, la funzione di mediazione fra gli interessi di classe che il potere e la proprietà pubblici (a partire dagli anni ’30) esercitavano (e qui andrebbe definito fino a che punto la stessarappresentanza politica democratica non si confonda con quella funzione di mediazione), è profondamente indebolita quando non venga interamente meno (la proprietà pubblica è tanto indebolita quanto lo è la rappresentanza politica perché questa non è più finalizzata al governo ed al possesso del pubblico, dopo essere stata nella globalizzazione sempre maggiormente svuotata della sovranità).
Alla ricerca di nuove convenzioni si susseguono le bolle (new ecomonics, asiatica, argentina, ecc.). “I mercati, per così dire, impazziscono – notano Marazzi e Orléan – ma questo è del tutto coerente con il principio della concorrenza applicato alla finanza”. Ivi, infatti, un bene non è ricercato perché è raro, ma paradossalmente sempre più ricercato quanto più è richiesto. Ne consegue che la crisi non è “dovuta al fatto che le regole del gioco finanziario sono state aggirate ma al fatto che sono state eseguite.” La crisi, in altre parole, èendogena. Essa dipende esclusivamente dalla deregolazione dei mercati di capitali e dalla privatizzazione crescente dei beni pubblici. Ogni valore d’uso è così trasformato in beni (titoli) finanziari soggetti a speculazione. La sussunzione reale della società nel capitale agisce attraverso la finanziarizzazione. “In questo processo, la finanziarizzazione ha imposto la sua logica al mondo intero, facendo della crisi il fondamento del suo stesso modo di funzionare. È un processo, quello della finanziarizzazione, di inclusione della cooperazione, del comune cognitivo e sociale, e poi di esclusione, cioè di estensione del modo capitalistico di produzione a mercati pre-capitalistici, e di successiva espulsione e pauperizzazione di coloro che in questo processo sono stati privati dell’accesso ai beni comuni. Una sorta di riedizione continua dell’accumulazione primitiva, di recinzione delle terre (beni) comuni e di proletarizzazione di masse crescenti di cittadini”.
Meglio detto:
1) il dispositivo costituzionale nella maturità capitalista subordina all’astrazione finanziariadel processo di valorizzazione la forza-lavoro viva come società cognitiva e cooperativa. La biopotenza del comune è totalmente sottoposta al feticismo della convenzione finanziaria.
2) il dispositivo costituzionale capitalista vuole dare misura, fissare un tallone regolamentare all’interno di quelle crisi che abbiamo percorso, laddove cioè la rottura del rapporto keynesiano-fordista esige nuove convenzioni-misura. Valore-misura? Certo, come già abbiamo visto, questa misura non è qui qualcosa di sostanziale; è piuttosto una “convenzione politica”, di volta in volta determinata. O meglio: se alla sua base non c’è un valore sostanziale, tuttavia ciò che rende la convenzione “capitalista” (cioè adeguata all’attuale organizzazione del lavoro sociale per estrarne profitto o per accumulare rendita finanziaria) è comunque una misura, una misura di classe, un dispositivo di potere. Non val qui la pena di ricordare che Marx ha sempre definito il valore subordinandolo al plusvalore. Ora, questa misura sarà ancora fondata sul rapporto fra tempo necessario e sovrappiù di tempo non pagato – certo, ma solo se questo rapporto sociale sarà considerato globalmente, e in ciò, nella tensione di questo sforzo indefinito, nella tendenza ad approssimare un limite assoluto, in questo affastellarsi di bambole russe, consiste anche la permanenza della crisi.
3) Per fissare questa misura politica, il potere costituzionale capitalista (e la convenzione che lo regge) deve costruire una nuova forma di governo – la governance, appunto. Essa non agisce principalmente come “potere di eccezione”, ma come governo di un’“emergenza continua” (è un’eccezione spalmata sul tempo che rivela, negativamente, una continua instabilità; positivamente, captazioni impreviste di eccedenza, salti e dismisure, ecc.) dentro una temporalità fratturata, un’inattualità permanente.
Aggiungiamo a margine che, ora, in questa fase, il carattere “costituente” dell’azione neoliberale si affianca a potenti strategie “destituenti” (la minaccia del default, gli spostamenti di capitale come minaccia politica, ecc.). E notiamo anche che sul terreno dei movimenti, l’immaginazione costituente è piena di contenuti destituenti (solo per fare un esempio, il diritto all’insolvenza come primo passo per riconquistare un uso della moneta liberato dallo sfruttamento diretto).
Ne viene che una riflessione “costituzionale” oggi presuppone anche la messa in discussione ed il ripensamento dei linguaggi e delle pratiche di movimento su cui abbiamo fondato fino ad oggi la nostra riflessione. Si tratta di individuare degli “strumenti con i quali imporre al capitale finanziario un nuovo rapporto di forza”.
2.1
Torniamo a noi, alla costituzione italiana, a quell’art. 1 – la repubblica è fondata sul lavoro – che fin da piccoli ci ha tormentato (o fatto ridere). Ricordiamo semplicemente che l’operaismo nasce dalla dichiarazione che, in quella formula, in continuità con lo statalismo intervenzionista anni ’30, era fissata la convenzione keynesiano-fordista, come norma dello sfruttamento operaio e di regolazione politica di una società in cui – per ben che andasse – il pubblico era totalmente funzione della riproduzione allargata del capitale. La costituzione del ’48 promuove una società capitalista in termini riformisti: da poco l’Unione sovietica aveva battuto le armate del fascismo europeo, solo il riformismo era ormai concesso ai capitalisti. In queste condizioni, si comprende come, nella lotta di classe, possa esercitarsi la pressione dei proletari sul salario operaio, come strumento (badate bene!) di democrazia, da praticare dentro e contro la produttività del sistema: questo processo aumenta il reddito (diretto ed indiretto) della classe operaia e della società lavoratrice.
In questo quadro il pubblico si definisce come funzione di mediazione del rapporto sociale capitalistico, ovvero della lotta di classe – ed è attorno a questa funzione che si coagula e prende figura la rappresentanza politica borghese (nella fattispecie, italica). Come si sa, la Costituzione italiana non è mai stata realizzata completamente. Anche se lo fosse stata, non sarebbe comunque costitutiva di quel mondo di meraviglie socialiste di cui ci raccontano. Non volendo confonderla con lo spirito della Resistenza e della Costituente repubblicana, come troppi retori facevano e fanno, M.S. Giannini sottolineava, già negli anni ’60, che pensare che lo spirito di quest’ultima fosse ancor vivo, significava farsi beffa dei cittadini o truffarli. Comunque, la Costituzione del ’48 è stata presto “omologata” e cioè adattata allo sviluppo incrementale del capitalismo italiano attraverso l’azione di regolazione dello Stato, come rappresentante del capitale sociale, cioè come mediatore della lotta di classe. E quando arrivano la crisi degli anni ’70 e le riforme capitaliste degli anni ’80, si avvia piuttosto quel processo reazionario di ristrutturazione generale del sistema, nel quale ancora viviamo. Che cos’era avvenuto? Che le lotte operaie al centro dell’impero e le lotte di liberazione dal dominio coloniale avevano rotto la possibilità della regolazione fordista. Il capitale raccoglie la sfida e promuove il biocapitalismo nella forma finanziaria. E non è ricorrendo a Foucault che, già allora, negli anni ’60, abbiamo cominciato a parlare di lavoro sociale e di sfruttamento del bios nel definire le nuove figure della regolazione capitalista, attorno e dopo lo scossone del ’68. Ci riferivamo semplicemente al fatto che, dentro le ripetute crisi fiscali della regolazione pubblica, il capitale aveva incominciato a ricorrere ai fondi pensione ed alle assicurazioni sociali per risistemare i suoi conti. Che cos’era successo? Che, a fronte alle trasformazioni che le lotte di classe operaia determinano dall’interno del sistema industriale, a fronte degli effetti micidiali del “rifiuto del lavoro” fordista ed in relazione alla pressione biopolitica del lavoratore sociale, a fronte della crisi dello Stato-piano, la risposta capitalistica avviene attraverso una ripresa di controllo politico dall’esterno del sistema industriale e la determinazione dell’egemonia politica della sfera monetaria sull’insieme della produzione sociale. La crisi fiscale di New York sta all’inizio di questo nuovo ciclo politico. E lo raffigura esemplarmente.
Occorre fare molta attenzione a questo passaggio (d’altra parte Marazzi, Offe, O’Connor, Aglietta ed altri già allora ne segnalarono il carattere sociale) perché qui non si verifica solo la destituzione del pubblico dalla sua funzione di mediatore dello sfruttamento (a tutto vantaggio dei cosiddetti “mercati”) ma comincia a svilupparsi una nuova figura dello sfruttamento – lo sfruttamento diretto del bios, l’esaltazione del welfare come base di valorizzazione finanziaria. Il mondo della produzione di sanità, dell’assicurazione dell’infanzia e della vecchiaia, della istruzione e dell’educazione, ecc., il mondo cioè della “produzione dell’uomo per l’uomo” diviene la materia prima, meglio, il sangue che circola nel sistema arterioso del capitale finanziario globale. Il mondo del lavoro è sfruttato in quanto bios, non solo in quanto “forza-lavoro” ma in quanto “forza vivente”, non solo in quanto macchina di produzione ma in quanto corpo comune della società lavorativa.
Ecco dunque che cosa diventa il pubblico nello sviluppo di queste pratiche di sfruttamento e di conseguente valorizzazione che la nuova costituzione europea contiene ed impone attraverso i cosiddetti “governi tecnici”. Dopo aver personificato la mediazione del potere capitalistico, nella sua lotta contro la classe operaia e i produttori sociali, dopo esser stato lo strumento attraverso il quale, vista l’impossibilità di sbloccare la rigidità del salario verso il basso e di recuperare attraverso l’inflazione i vantaggi relativi di reddito della società operaia… ecco dunque il pubblico che, in nome del capitale, comincia a saccheggiare i fondi pensione, a svuotare il Welfarestate del suo senso emancipatorio, a nutrirsi direttamente del comune produttivo. Tutto questo avviene attraverso i nuovi regimi monetari che sono imposti ai soggetti europei. Nella moneta europea il pubblico è totalmente assoggettato, violentato dal privato.
2.2
Se consideriamo molto rapidamente come si configuri giuridicamente il pubblico nella costituzione europea che viene formandosi, ci troviamo ovviamente a fronte di una sorta di codificazione di quanto siamo venuti fin qui definendo come il nuovo ordinamento del biopotere capitalista.
Ormai, quando si parla di costituzione europea, si parla essenzialmente di economic governance, e quando si parla di governance economica, spesso si traduce sostantivamente il concetto nel tedesco Ordo-liberalismus (ci è stato detto che questa traduzione si è data anche in documenti ufficiali). Vale a dire in una autoritaria “economia sociale di mercato” che, non a caso, sotto la pressione dei mercati, ha perduto ogni dimensione sociale e riformista per esaltare al massimo quella autoritaria ed ordinativa. Prodotto da una scuola che, assumendo diverse – e spesso inquietanti – figure politiche, si prolunga e si trasforma dagli anni ’20 ad oggi: essa domina gli attuali processi costituenti europei.
Stabilità dei prezzi, regolazione repressiva di ogni deficit budgetario inappropriato, unione monetaria separata dall’unione politica, sono diventati principi cui attenersi – con alcune conseguenze dissolutive di ogni pur formale regola democratica. Il controllo e la supervisione burocratica dei bilanci sono infatti privi di ogni legittimazione democratica (non solo delle istituzioni nazionali ma anche di quelle comunitarie); gli interventi regolatori sono di volta in volta individualizzati fuori da ogni norma generale – il carattere di giustizia dell’azione comunitaria è del tutto svuotato; e, in terzo luogo, le politiche europee di regolazione sociale, distributive e compensatorie, risultano effettivamente dissolte. Per dirla con Jörges, nella crisi l’Europa è passata da una costruzione giurisdizionale ad una costituzione autoritaria e da un deficit di democrazia ad un default democratico.
Ma, una volta fissata la temibile faccia di questa nuova costituzione del pubblico, ci lasceremo affascinare ed imprigionare dal suo gorgonesco sorriso? No di certo. Di nuovo riscendiamo a livello della composizione materiale della moltitudine europea, la si voglia o no considerare come classe. Ora, la separazione fra ordinamento economico del potere e strutturazione sociale delle classi lavoratrici, il primo centralizzato nella Costituzione europea, la seconda lasciata ai singoli Stati-parte, non rivela solo una crisi democratica profonda; essa produce – ancora riprendendo Jörges – una sorta di big bang. Rivelando paradossalmente proprio quello che si voleva celare.
E cioè: che l’affidamento dello sviluppo costituzionale europeo ad un potere monetario democraticamente incontrollabile, che lo sganciamento di un biopotere tecnicamente indipendente ed economicamente eccedente rispetto alla miseria sociale che impone, che la costruzione di un meccanismo regolatore sottratto ad ogni bilanciamento che non sia quello di un’austerità sociale insopportabile – bene, tutto ciò dimostra solamente che il “nuovo” potere pubblico incarnato dal MES (meccanismo europeo di stabilità) e nel TSCG (trattato per la stabilità, il coordinamento e la governance) rappresenta una spaventosa macchina di accumulazione privatistica originaria contro quel tessuto comune di cooperazione sociale e quel sostrato di attività produttive comuni che le lotte di classe operaia e i sommovimenti sociali avevano fin qui costruito.
E se è vero che questo processo distrugge ogni possibilità di una politica nazionale più o meno democratica (ma abbiamo già visto quanto il “meno” prevalesse); se è vero che non aiuta determinare nuove potenze comunitarie – è tuttavia anche vero che nel processo di unificazione in atto, paradossalmente, l’applicazione della golden rule mette in luce, meglio, fa risaltare con forza una nuova consistenza moltitudinaria, effettualmente resistente e virtualmente antagonista… da governare! Ma non sarà facile governare questo proletariato che, nella cooperazione e nella produzione, può organizzare la propria autonomia comune.
3.1
Come si può rompere, dal punto di vista dei lavoratori e con la forza del comune, ovvero della lotta di classe, la convenzione finanziaria (costituzionale) che ora ci domina? Per tentare di avanzare su questo terreno, ricordiamo alcune definizioni e, prima di tutto, alcuni presupposti della nostra analisi.
Il capitale finanziario è capitale, tout court, quindi non è una realtà parassitaria né un semplice insieme di strumenti di conto; è bensì una figura del capitale in senso pieno, così come lo è stato ed è e continuerà ad essere il capitale industriale, e come sono state altre figure padronali, storicamente date e/o dismesse nello sviluppo della lotta di classe. Un rapporto sociale: fra chi e chi?
Per comprenderlo bene occorre definire con il massimo di esattezza la posizione del “capitale costante” rispetto al “capitale variabile”, e cioè del comando capitalistico rispetto alla forza lavoro; e percorrere le forme attuali del processo di sottomissione del secondo da parte del primo. Ora, questo processo di sottomissione – pur essendo “reale”, cioè totale – è nuovo e singolare. Nel passaggio che analizziamo, la forza lavoro si è infatti riappropriata – in quanto forza-lavoro cooperativa e cognitiva – di parti (frammenti, attributi, modi, ecc.) del “capitale fisso”.
Se per “capitale costante” intendiamo l’insieme delle condizioni produttive nelle mani del capitale; se per “capitale variabile”, l’insieme dei valori trasferiti ai lavoratori perché si riproducano; e se per “capitale fisso” intendiamo le macchine e le strutture messe a disposizione del processo produttivo – va ora riconosciuto (nel passaggio che analizziamo) che la forza-lavoro, lungi dal funzionare semplicemente come capitale variabile, è venuta appropriandosi, meglio, incorporando quote di capitale fisso. Essa si mette così in una situazione di virtuale (relativa ma potenziale) estraneità rispetto al comando, cioè alla sintesi capitalista. Si aggiunga che, se alla rivelazione della sottrazione e dell’incorporazione di quote del capitale fisso da parte della moltitudine lavoratrice, si assommano gli episodi o le vicende di riappropriazione di “capitale circolante” (nella figura, per esempio, della forza-lavoro migrante), allora la situazione può mostrare una soglia critica nuova e positiva.
È in questa condizione modificata, che si realizza in una prima figura la sussunzione del lavoro vivo nel capitale costante, cioè nel capitale finanziario, cioè nel comando capitalistico nella figura principale che oggi presenta. E se così la composizione tecnica della forza-lavoro è divenuta assai rigida, avendo assorbito quote di capitale fisso e circolante, se dunque la sintesi capitalista deve comandare questa composizione (cioè rendere flessibile, meglio, frammentare, fracassare questa rigidità), allora il comando capitalista non potrà darsi che verticalizzandosi rispetto al piano della produzione, esternizzando (per così dire) e comunque esaltando il momento “politico” del comando su ogni altro elemento (ideologie, funzionalità, ecc.). Il capitale finanziario corrisponde a queste caratteristiche e svolge questo compito.
Ora, questa figura astratta del comando capitalista è sottoposta a grande tensione – e probabilmente a contraddizione – dal fatto che oggi il processo di valorizzazione, e quindi i processi di sfruttamento del lavoro vivo, debbano sempre di più diventare interni a quei corpi che esprimono direttamente funzioni produttive e, nella cooperazione sociale, esercitano funzioni organizzative del produrre. Tutto ciò comporta, di ritorno, l’investimento globale della vita da parte del capitale: il capitale diviene biopolitico. Ma di qui una contraddizione fondamentale: da un lato, il capitale esige una completa interiorizzazione del capitale variabile al processo di valorizzazione (come veniamo descrivendola or ora); dall’altro abbiamo, in funzione di comando, una forte, se non completa, astrazione del capitale costante (nella forma finanziaria) dal capitale variabile (in quanto lavoro vivo sociale ed in quanto lavoro cognitivo irriducibili – almeno per parte – alla mercificazione). Il capitale finanziario sembra dunque interpretare il rapporto sociale che costituisce il concetto di capitale come rapporto eminentemente politico.
Ora, come abbiamo visto, nella convenzione del capitale finanziario, il denaro prende il posto del valore-lavoro. Nella “relazione politica” che costituisce il capitale finanziario, laconvenzione di valore è monetaria. La convenzione monetaria prende luogo della convenzione valore-lavoro (cioè rappresenta una nuova figura dell’oltrepassamento della “legge del valore” interpretata, appunto, nella fase dello sfruttamento industriale del lavoro, alla maniera individualista, fabbrichista e salariale). Ora invece la convenzione è singolarizzata, sociale e debitoria. Al contrario di quanto avveniva nel keynesismo, essa definisce la parte salariale come il residuo delle unità monetarie di cui il lavoro astratto è l’equivalente.
Come muoversi a questo punto? Abbiamo (talora fastidiosamente) ripetuto che la richiesta di una nuova costituzionalizzazione del lavoro costituisce un tentativo completamente astratto di riproposizione di mediazioni pubblicistiche classiche ed abbiamo concluso (citando il documento di Giso Amendola, “Costituzione precaria”) che “oggi il senso della costituzionalizzione possibile sta nello sganciare l’idea stessa di costituzione dalla mediazione pubblico-sovranista entro la quale si è data originariamente e nell’intendere l’opposizione ai processi di decostituzionalizzazione come lotta per l’apertura continua diprocessi costituenti, lì dove la governance tende a neutralizzarli e a richiuderli nei canali di espressione costituiti. Si potrebbe dire, provocatoriamente ma neanche tanto, che le soggettività ‘precarie’ – più che la difesa della costituzione in quanto tale – hanno tutto l’interesse ad una ‘precarizzazione’ della costituzione stessa, a renderla cioè aperta allo sviluppo continuo a processi di autorganizzazione”.
Il nuovo terreno di lotta costituente, sul quale battersi, è dunque quello dellagovernamentalità. Che essa “non escluda il diritto ma piuttosto lo attraversi, provocandone la progressiva decentralizzazione e flessibilizzazione, e nello stesso tempo azzerandone la tradizionale pretesa di autonomia dalle altre scienze sociali”, mi sembra il punto sul quale insistere. Basti rifiutare, agendo la governance, l’illusione che ivi si possa dare una sorta di “dualismo di potere” che metta in tensione fino all’esplosione il processo costituente. No, non siamo sicuramente in una situazione insurrezionale, non sono ripetibili exploitsbolscevichi perché non si è di fronte ad un dualismo simmetrico di poteri in lotta; siamo invece a fronte dell’asimmetria potente della nuova figura della forza-lavoro cognitiva – la sua “ricca povertà” – che si confronta, certo, con il dominio del padrone, del capitale costante, ma non è indotta a precipitare nello scontro, poiché essa è nello stesso tempo irriducibilmente resistente, rigida anche nella precarietà, essendosi incorporata quote di capitale fisso e circolante.
Così arriviamo al vero problema, liberato da ogni presupposto catastrofico o palingenetico: cosa significa assumere i processi costituenti (a partire dalle sempre nuove produzioni di soggettività e di incorporazione di quote di capitale fisso) non come conclusivi ma come coessenziali ad un nuovo processo costituzionale? Certo, una nuova costituzionalizzazione del lavoro risulta essere un’idea del tutto reazionaria, pura nostalgia della mediazione pubblica-sovranista: ma di nuovo, cosa significa un processo costituente nell’accettazione della frammentazione, del pluralismo moltitudinario del lavoro e della società? Cosa significa costituire un “noi” comune dentro una realtà sociale in cui ogni identità sia stata dissolta ed ogni ricomposizione non possa essere, appunto, che “costituente”?
A questo punto ci permettiamo di insistere nuovamente sulla straordinaria opportunità che la convenzione costituzionale monetaria, imposta dal capitale, ci offre: quella di rivelare immediatamente che l’antagonismo anticapitalista non riguarda limitate sezioni della forza-lavoro sociale (esso non riguarda il lavoro vivo assunto in maniera individualistica, localizzata e salariale) bensì lo assume come moltitudine, quindi come realtà singolarizzata, sociale e in una relazione di dipendenza (indebitata, cioè) ma che tuttavia si prova nella riappropriazione della ricchezza, attraverso il riconoscimento e la costruzione del comune. Realtà moltitudinaria: certo, indebitata, sottoposta all’alienazione mediatica, invasa dalle tristi passioni dell’insicurezza, impedita nella rappresentanza democratica dal disgusto che essa merita e dall’impotenza politica che mostra – ma anche da ciò spinta ad esprimere una forte volontà di lotta. I movimenti “indignati” e quelli “occupy” hanno ampiamente avanzato questi comportamenti costituenti. I movimenti italiani sui “beni comuni” sono attivi essi stessi su questo terreno. Quello che ora è essenziale è di assumere la dimensione “costituente” per rompere con ogni momento “corporativo”, identitario e/o localistico di lotta. Non vogliamo certo negare che ogni momento di lotta sia legato ad interessi e/o luoghi specifici, ma la lotta oggi o è costruita contro l’universale immagine del dominio finanziario, o non c’è. Non siamo mai stati luddisti nei confronti del macchinario ma piuttosto sabotatori dello sfruttamento che veniva dall’organizzazione del lavoro, così oggi non spacchiamo i bancomat ma sabotiamo il sistema di dominio finanziario perché vogliamo costituzionalizzare – cioè appropriarci – delle banche, del potere che, attraverso la moneta, organizza e premia, separa e domina, capta e toglie il valore prodotto dai lavoratori, autonomamente e comunemente.
3.2
Autonomamente e comunemente.
Per quanto riguarda quell’“autonomamente”, ci spieghiamo subito. È a questo punto infatti che il nostro procedere si intreccia con quello di analisti che, nella rivoluzione post-sessantottesca dei saperi, hanno cominciato a riconoscere una nuova ontologia comune della società e del diritto. In particolare, come negli anni Settanta Claus Offe e i suoi compagni, così oggi Teubner e la sua scuola ci aiutano a comprendere (nella teoria delSocietal Constitutionalism) come la modernità (o la postmodernità) capitalista mostri ormai una insostenibile tensione insopportabile contro il dominio delle sterili alternative fra centralità del pubblico (statale) e istituzioni della proprietà privata – quando ormai le soggettività non appaiano più sulla scena come individui autoriflessivi ma piuttosto come reti di eventi sociali. Ci sono nuove forme di autopoiesis del collettivo che, attraverso i conflitti sociali, chiedono di farla finita con gli eccessi della proprietà privata ed ormai propongono nuove procedure di istituzionalità politica e di processualità sociale in differenti settori della società. [Su questi temi altri compagni interverranno]
Noi ci tratteremo piuttosto sull’altro termine posto in epigrafe: “comunemente”. Anche qui c’è da spiegarsi. Se c’è qualcosa da conquistare per trasformare in maniera vera questa società, questo qualcosa è il comune. Ed il comune non è una totalità ma un concetto di parte – si contrappone al privato e demistifica il pubblico. Se esso si presenta come totalità è perché il comando capitalistico se ne è impossessato e lo ha organizzato nell’indipendenza della Banca centrale, sottraendolo alla democrazia del 99%.
Di contro, quando noi non assumiamo più il comune come la “cattiva parte” da liberare ma come un compito da svolgere, come dispositivo da realizzare, lo opponiamo al privato ed al pubblico, e prima di tutto cominciamo col denunciare il feticismo del denaro, perché riconosciamo che in questa convenzione capitalista dell’istituzione sociale, esso ci è dato come simbolo e veicolo della violenza; mentre invece quella spettralità delle istituzioni finanziarie copre e mistifica un “qualcosa di comune” che non è più semplicemente una forza-lavoro complessiva della società (fissata come valore oggettivo nelle merci) ma un insieme molteplice di attività cooperative, creative, eccedenti [e – sottointeso – non più “popolo” ma “moltitudine” globale]. Così – nel progetto che emana da questa potenza, nel soggetto che lo incarna – nasce il desiderio di rimettere mano al nesso fra produzione e finanza, lottando contro l’impoverimento di coloro che, pur producendo nella cooperazione sociale, sono privati del comune prodotto – anche soprattutto di quello (il welfare, il benessere elementare) nel quale si riproducono miseramente.
La questione della Banca centrale e del sistema creditizio è dunque centrale dal punto di vista costituzionale. Il denaro è divenuto la misura costituzionale dei diritti dei cittadini ed ogni decisione politica – in nome dell’assolutezza del denaro e della sua funzione regolatrice – è stata così espropriata dalla Banca centrale. Essa infatti è divenuta non solo il deposito politico del valore ma il luogo dove si pone la questione del rapporto di forza fra le classi che compongono la società, quando la sostanza di valore sia intesa come un tessuto di rapporti sociali.
Il dispositivo utopico che guida la nostra pratica eversiva, consiste nell’imporre una convenzione costituzionale che fondi ed interpreti una “moneta del comune”. La moneta è sempre un’istituzione sociale che accompagna gli scambi, ed ogni valore sociale può essere espresso in forma monetaria. Se la banca produce moneta e se oggi essa la produce come mezzo di produzione, la democrazia, il comando del 99% deve impossessarsi della regola delle emissioni monetarie e piegarla al rapporto sociale nel quale, oggi, la forma del comune ha qualificato la cooperazione produttiva.
La costituzione consiste in genere nell’articolare il rapporto tra lavoro e scambi, nel fissare la circolazione fra attività e bisogni, subordinandoli alle necessità di rapporti produttivi comuni ed alle funzioni sociali che ne derivano. Solo se riusciremo in questo programma potremo restituire alla forza-lavoro sociale, alla fatica ed all’invenzione delle singolarità che compongono la moltitudine, il prodotto del comune. Così potremo realizzare la nostra utopia che consiste nello strappare il lavoro al plusvalore, alla schiavitù dello sfruttamento capitalista, alle determinazioni corporative della sua sindacalizzazione – ponendo dunque l’attività umana come misura della libertà e dell’uguaglianza della produzione del Comune, sull’orizzonte globale.
3.3
Ma tutto ciò è appunto un’utopia. D’altra parte, la capacità di rompere sulla quale un momento fa insistevamo, è il prodotto immediato della nostra indignazione. È possibile costruire una strategia costituente che realisticamente componga l’indignazione e il desiderio utopico? Quali dispositivi politici possiamo realisticamente mettere in azione per definire una strategia costituente?
O forse meglio, per prendere il potere? Troppo spesso ricordiamo a noi stessi che non c’è un Palazzo d’Inverno da conquistare. Ce lo siamo giustamente ripetuti, non volendo confondere il concetto di rivoluzione con quello di dittatura, l’idea di democrazia con quella dell’Uno sovrano. Talora abbiamo cancellato l’opportunità della prima per evitare le conseguenze del secondo. Il secolo XX° ce lo imponeva. Ora però siamo nel XXI° secolo. Che cosa vuol dire costruire quel “noi – potenza costituente – forza del comune” visto come un realistico punto di approdo delle lotte, davanti e contro all’unità costituzionale del denaro, dentro la nuova comune soggettivazione del lavoro astratto?
Ora, io penso che si tratti di muoversi evitando certo quel percorso utopistico e alla fine tragico che è stato del ‘secolo breve’ ma non per questo rinunciando ad un discorso istituzionale che non abbia paura di toccare, di slabbrare, di appropriarsi, attraverso un’esperienza militante, degli elementi universalistici delle rivoluzioni trascorse e delle attuali esperienze insurrezionali dentro/contro la democrazia capitalista. Per esempio: l’obbiettivo del reddito garantito incondizionato si appropria chiaramente di un momento universalistico ed interpreta allo stesso tempo un’istanza costituente, adeguata alle nuove forme di produzione delle merci ed alla nuova composizione sociale delle soggettività produttive. Ma così la montagna ha partorito un topolino, si ironizza! Vuol dire non comprendere come nel reddito garantito universale ed incondizionato sia implicito il riconoscimento di un soggetto produttivo comune.
Per esempio, ancora: c’è uno Zeitgeist che in tutto l’occidente (ma non solo) scredita i partiti politici, ne nega la rappresentatività, denuncia il senso di alienazione crescente che s’accompagna alla denuncia della corruzione del loro potere e dell’impotenza dei sudditi. È chiaro che qui, attraverso la critica della figura pubblicista del partito politico, si contesta di nuovo “il pubblico” – cioè la funzione della “rappresentanza politica” e la sua pretesa di non essere alle dipendenze della proprietà privata, la sua illusione di costituire uno strumento di decisione democratica. Ora, riprendendo il tema della sintesi di esperienze sovversive attuali e di proposte universaliste, si può certo concludere che solo il riconoscimento e la pratica del comune, come base produttiva e come scopo della produzione, come vita produttiva e ricerca della felicità, disposte insieme, possano oggi davvero fondare la democrazia. Perciò che cosa può essere il desiderio costituente se non la pulsione a incominciare subito a costruire strutture comuni che permettano di legalizzare azioni di espropriazione del privato, di legittimare strumenti di appropriazione del pubblico e di riconquistare la capacità di decidere assieme – e di organizzare così, in istituzioni adeguate, la forza del lavoro e la comune intelligenza delle moltitudini?

sabato 27 ottobre 2012

Dallas e Berlusconi again

Adesso la cosa peggiore che si può immaginare è di fornire al peggio del peggio “che vuol restare in campo” una tribuna dalla quale lanciare strali su chiunque lo ostacoli e un set pieno di balocchi dove mettere in scena la solita fiction di distrazione di massa. Non dobbiamo fornire interlocutori a questa gente, né pretesti di qualsiasi genere che consenta loro di mettersi sullo stesso piano di persone per bene (se ancora esistono). Si dica la verità, la si urli se necessario con tutta la foga possibile, senza però cadere nella trappola del contraddittorio, senza nemmeno guardali in faccia. Il contraddittorio è la sostanza di cui è fatta la loro ipocrisia. Niente confronti con certi personaggi, occorre evitare di dare legittimazione e diritto di tribuna alle loro argomentazioni.
I titoli e le prime pagine sono solo per lui, evitiamo di alimentarli. Dobbiamo parlare di altro. Cacciare Monti, sconfiggere i banchieri, mutare le regole delle finanza e dell'economia, la sorte delle persone e il bene comune.
Questa è la nostra agenda.

No Monti, no menzogne.

Oggi c'è il NO-Monti Day a Roma, la manifestazione degli operatori della sanità nella stessa città e a Riva del Garda, il comitato Welcome Monti, unitamente a varie associazioni, partiti della sinistra e centri sociali, ha organizzato un comitato di benvenuto per l'arrivo di Monti e giungono notizie di tentativi di forzare i blocchi. Altre manifestazioni a Pisa e chissà dove. 
Dietro la nebbia di falsità, le facce voraci di banche e finanza mascherate da paladini di un buon senso che esige che i debiti si paghino anche a costo di farti strozzare, si comincia a scorgere un barlume di verità e di speranza.
L'austerità e le politiche neo-liberali rivelano tutta la loro anima classista e fraudolenta se qualcuno le guarda con una lente di ingrandimento. 
Persino l'OCSE si rimangia quello che aveva detto in tema di flessibilità. Adesso si è accorta, prove alla mano che forse non è vero che la scarsa flessibilità produce disoccupazione e scarsa fluidità del mercato del lavoro. 
I nodi sono l'Europa, una moneta senza una banca che la distribuisca agli stati e non alle banche, la finanziarizzazione dell'economia, l'idea di fare cassa comprimendo costo del lavoro e diritti sociali. Un'idea vecchia presentata sempre come attuale se non urgente vista la crisi. Una crisi vista come fenomeno naturale, insindacabile, oggettivo, e non come il prodotto di rapporti di forza fra chi è ricco e chi è povero.
Vediamo che succederà.


venerdì 26 ottobre 2012

La mano visibile del mercato. Intervista a Luciano Gallino


Disoccupazione, contrazione dei salari, precarietà. Viaggio nell’economia reale, dal mercato dell’auto all’ascensore sociale mondiale: le classi esistono ancora, ed è falso sostenere che maggiore flessibilità aumenta i posti di lavoro.

di Pietro Raitano - da altreconomia.it via Micromega

 
“Si sente dire spesso che ‘si vede la luce in fondo al tunnel’, che la ripresa non è lontana. Sono dichiarazioni totalmente slegate dalla realtà. E chi le afferma, se ne deve assumere la responsabilità”. Luciano Gallino, classe 1927, sociologo di fama internazionale e autore di innumerevoli manuali e saggi, è lucido nella sua analisi, forte di un incessante lavoro di studio e ricerca che dura da oltre 50 anni.

Professor Gallino, che cosa ci dicono i recenti dati sul lavoro in Italia?“Ci dicono che la situazione dell’economia e del lavoro è gravissima. La disoccupazione tocca livelli altissimi: tra disoccupati ‘dichiarati’ e lavoratori ‘scoraggiati’ siamo arrivati ormai a quasi 4 milioni di persone. Se il tasso di disoccupazione è diminuito quindi è solo perché molte persone hanno semplicemente smesso di cercare lavoro.
Ma non solo. Ancora in questi giorni ho letto che i cosiddetti ‘precari’ sono soprattutto giovani. Ora, è senz’altro vero che l’80% delle nuove ‘assunzioni’ (se così possiamo chiamarle) riguarda persone poco avanti con gli anni. È anche vero, però, che ormai milioni di lavoratori hanno seguito questa trafila: dopo 15, 20 anni di contratti di breve durata di vario genere, non sono più tanto giovani. Si stima che almeno un 30% dei precari oggi abbia passato i 40 anni. Le stime dicono che i precari sono 3 milioni. Io ipotizzo 4 milioni. Quel che conta però è il totale: stiamo parlando di 7, 8 milioni di persone che non hanno lavoro, o lo hanno scadente e mal pagato (ricordiamoci che i precari quando hanno uno stipendio ragionevole lo hanno per 8, 9 mesi). Non vedo proposte adeguate per questa situazione. Eppure si dovrebbe ridurre di almeno 1 milione o 2 i disoccupati. Senza dimenticare un altro dato: per il 2012 è previsto un miliardo di ore di cassa integrazione, pari a mille ore in media per un milione di persone. La Cig vuol dire per un lavoratore ricevere meno di 750 euro netti al mese, per chi ne prendeva 1.200. La nostra situazione è più simile a quella della Spagna che a qualunque altro Paese europeo”.

Quali conseguenze ha la disoccupazione?“La disoccupazione è peggio di non avere reddito, o averlo senza essere occupati. È una ferita profonda del proprio senso di autostima. Soprattuto per i giovani: perché non ho lavoro? Ho studiato, ho esperienza... Senza contare i problemi familiari: anche coi 750 euro della cassa integrazione, il reddito è insufficiente, i rapporti in famiglia si logorano, si inaspriscono.
La disoccupazione è un enorme spreco economico e sociale. L’unica cosa che crea valore reale è il lavoro: 4 milioni di persone che non producono, 4 milioni che producono poco e male. Poi ci sono le professionalità che si perdono: il 50% dei disoccupati ha superato un anno di inattività, un’eternità se comparato con lo sviluppo della produzione e il mutamento delle tecnologie. Per strada si perdono forme di conoscenza. La disoccupazione è il più grande scandalo che la società possa conoscere. Che non se ne parli è uno degli aspetti più gravi”.

Perché colpisce il sistema produttivo italiano?“La finanziarizzazione dell’economia ha stravolto i criteri delle imprese. Il risultato è stato che queste cercano di comprimere i costi del lavoro, spremute dagli azionisti e dagli investitori, per inseguire rendimenti elevati, assurdi dal punto di vista industriale. Rendimenti tipici della speculazione, ovvero 3, 4 volte superiori rispetto a quelli tecnicamente sostenibili nel periodo medio lungo per una normale azienda.
Il risultato sono compressione dei salari, intensificazione dei ritmi, emarginazione dei sindacati. Attenzione, però, vale per tutti i Paesi europei, anche per la Germania, dove milioni di lavoratori hanno pagato questa situazione. Tuttavia la Germania ha una ventina di grandi industrie che vanno abbastanza bene, e parecchi altri elementi che spiegano la differenza con noi.
Uno fra tutti è il tasso di investimento in ricerca e sviluppo. Sui 27 Paesi dell’Unione europea, l’Italia è al quindicesimo posto, dietro all’Estonia, con un tasso di investimento dell’1,25% del Pil. Il tasso tedesco è più del doppio, quasi il triplo. Anche l’Inghilterra, che di per sé ha un prodotto interno lordo molto legato alla finanza, investe molto di più in ricerca. Un altro dato: sono particolarmente carenti gli investimenti in capitale fisso. Gli stabilimenti italiani sono irrimediabilmente invecchiati, con un’età media di 25 anni. In Europa la media è la metà. Neanche a dirlo, l’insufficienza degli investimenti è equamente divisa tra pubblico e privato”.

Quanto hanno influito le riforme del mercato del lavoro che si sono susseguite nel tempo?“Le cosiddette riforme del lavoro progettate dalla fine degli anni 90 in poi hanno aumentato il lavoro precario. In particolare, se si guarda la curva del lavoro precario, dal 2003 -anno della stesura del decreto attuativo della legge 30- c’è una fortissima impennata. La precarietà peraltro contribuisce alla crescita del coefficiente di disoccupazione, perché tra un contratto e l’altro passa sovente qualche mese.
È una delle conseguenze delle dottrine neoliberali, che per quanto sconfitte, smentite e sconfessate, sono sempre lì, si insegnano nelle università, costituiscono la forma mentale dominante nei media.
Chiunque abbia studiato a fondo la questione si rende conto che non c’è nessuno studio empirico di peso che metta in correlazione flessibilità nel lavoro e aumento dell’occupazione. Semmai molti studi dimostrano il contrario. Negli anni 90 l’Ocse insisteva molto sulla flessibilità, ma già dal 2004 ha cominciato a ricredersi.
L’evidenza ci dice che dal 2000 in poi l’indice Ocse della rigidità del lavoro in Italia è diminuito moltissimo, passando dal 3,50 del 2003 a meno di 1,8 oggi, in una scala da 0 a 5, dove il massimo significa quasi impossibilità di licenziare (tra gli indicatori c’è ad esempio il costo per il licenziamento). Ma questo nella testa degli economisti non entra. Eppure si danno l’aria di scienziati, e dovrebbero sapere che si fa se un esperimento fallisce”.

Molti spingono sulla retorica del costo del lavoro e della scarsa produttività, come nel caso Fiat.“Assistiamo a dell’umorismo nero: 5 anni fa Sergio Marchionne disse ‘Che cos’è questa storia del costo del lavoro, che incide 5/6% sul totale! Bisogna occuparsi di cose serie’. Anni dopo pare abbia scoperto che il lavoro costa troppo... Chissà, forse non aveva previsto la crisi...
Continuano a sperare di produrre 6 milioni di auto. Nel 2007 -l’ultimo anno buono per l’industria automobilistica- in Europa si sono vendute di 17 milioni di auto. Quest’anno saremo sotto i 13 milioni, 4 milioni di pezzi in meno. Tutte le società automobilistiche sono in crisi, tranne forse la VolksWagen. I manager non hanno tenuto conto che l’auto è alla fine dei suoi giorni. E ciò vale soprattuto per l’Italia, visto che detiene il maggior numero di auto per abitante (in Francia è inferiore di un terzo)”.

Non c’è però solo l’auto: tutto il nostro sistema industriale pare in crisi. “Come nel caso dell’acciaio: siamo il maggior produttore d’Europa, ma non è un segno di buona salute. Le acciaierie dovrebbero essere più piccole, per fare acciai più adatti. Noi abbiamo l’impianto più grande d’Europa, espressione di un vecchio modello produttivo, difficilmente riformabile. Negli Stati Uniti hanno chiuso gli impianti per realizzarli 5 volte più piccoli. Il sistema va ripensato, anche per ragioni ecologiche. Occorrerebbe pensare a produrre valore in settori differenti. Il territorio italiano è un disastro, da riqualificare. Il 50% delle scuole non è a norma, tra soffitti che crollano e pavimenti che cedono. C’è poi il risparmio energetico: 9 case su 10 riscaldano anche l’esterno...
Poi c’è da sviluppare nuovi sistemi di mobilità. Basti solo pensare alla metropolitana: l’Italia avrà meno di 250 chilometri di linee. Da sola, Parigi ne ha il doppio, Londra anche di più, così come Berlino. Tradotto stiamo parlando di grandi investimenti, per decine di migliaia di posti di lavoro”.

Come si può creare lavoro?“La cementificazione è un fatto orrendo: in 20 anni la popolazione è aumentata di 2 milioni, ma sono stati costruiti 20 milioni di vani. Pura follia, così come costruire senza fine fiumi di automobili e lavastoviglie. Molte altre scelte creerebbero lavoro specializzato ad alta intensità: riqualificazione del territorio, di quel 70% di edifici non antisismici, degli acquedotti che perdono, delle scuole non a norma. C’è un’ampia platea di settori che richiederebbero lavori che sono altamente tecnici, che richiedono l’impiego di tecnologie avanzate e al tempo stesso hanno utilità collettiva ampia e diffusa”.

Il suo ultimo libro parla esplicitamente di lotta di classe. “Le classi ci sono più che mai: quando una persona guadagna 1.200 euro al mese, è totalmente soggetto a ordini dall’alto, addirittura fino al modo in cui si muove. Prendiamo come esempio l’accordo per lo stabilimento Fiat di Pomigliano. In realtà è un diktat: 19 pagine sono dedicate alla metrica del lavoro, ovvero come e in quanti secondi si devono muovere la mani, le braccia, il collo, le gambe.
Ma questo vale non solo per l’industria meccanica, anche per la ristorazione, per l’agricoltura. Lavoratori con uno stipendio scarso, e una pensione che si annuncia da fame. Questa è una prima classe, distinta da altre, che hanno un minimo di indipendenza in più e di controllo fisico in meno: insegnanti, funzionari, fascia alta degli impiegati, commercianti.
Infine c’è la classe dominante, quella espressione di un potere politico ed economico enorme, che dice al 90% della popolazione che cosa fare, e controlla i mezzi per farglielo fare. Diffonde quella che viene chiamata ‘la mentalità del governare’. Sul piano internazionale è una classe dominante formata da tante classi locali.
In molti Paesi queste classi si assomigliano sempre di più, sono sempre più legate tra loro, dormono in alberghi identici, hanno gli stessi parametri di riferimento. Parecchi anni fa fu coniata l’espressione ‘classe capitalistica transnazionale’.
Tra classi, infine, la mobilità è dovunque inferiore a quanto si pensi. Un Paese in cui è particolarmente bassa sono gli Stati Uniti. La rigidità intergenerazionale negli Usa è drammatica. Anche in Italia la rigidità dell’ascensore sociale è molto rilevante, anche perché la cuspide della piramide del lavoro è sempre più stretta e c’è sempre meno posto”.

I salari fanno parte di questa dinamica.“Con patrimoni finanziari ingenti si può fare tutto. Ma invece di spendere in investimenti o in impianti fissi, una quota rilevantissima degli utili delle aziende è stata utilizzata per compensare i top manager, sia Usa sia in Europa. Oppure l’impresa compra azioni proprie per far salire il valore di mercato, perché su questo si misura l’operato del manager. Il risultato è crescita di disuguaglianze. I salari italiani sono fermi dal ‘95, negli Usa fermi addirittura dal 1975. Si stima anzi siano leggermente regrediti. Il fenomeno riguarda l’80, 90% della popolazione, mentre si è enormemente arricchito il famoso 1%. Tanto è vero che in alcuni Paesi europei troviamo indici di disuguaglianza astronomici. La Germania ha un indice di Gini (misura la distribuzione del reddito in una scala da 0 -massima distribuzione- a 1 -massima concentrazione-, ndr) tra i più alti del mondo: 0,8. Un Paese sull’orlo dell’esplosione sociale, dove a 5 milioni di persone sono corrisposti 500 euro al mese per 15 ore di lavoro la settimana, e il 22% dei lavoratori dipendenti, soprattutto operai, ricevono meno della metà del salario mediano”.

Come giudica la recente riforma del lavoro del Governo?“A leggerne i provvedimenti, è chiaro che si ispira quasi alla lettera alle indicazioni contenuti in alcuni documenti della Commissione europea e dell’Ocse di una ventina di anni fa. Nel 1996 l’Ocse aveva pubblicato un rapporto in cui si insisteva molto sul fatto che la rigidità dei contratti manteneva bassi i tassi di occupazione. Dopo vari rapporti intermedi la stessa Ocse ha pubblicato altri studi in cui diceva che tutto sommato non c’è evidenza empirica del rapporto tra rigidità e tasso di occupazione. Vi sono stati dunque casi di Paesi con rigidità elevata accompagnata a occupazione elevata, e viceversa. In sostanza, l’Ocse ha smentito se stessa. Eppure, la riforma del mercato del lavoro riprende pari pari queste indicazioni. Devo dire a questo punto che pensare sia utile in un momento di grave crisi (finanziaria, ma con forti radici nell’economia reale) facilitare i licenziamenti per accrescere il tasso di occupazione, significa applicare una ricetta del tutto sbagliata. Diciamo che da una parte c’è l’orientamento preconcetto di persone che hanno la mente intrisa delle dottrine neo liberali. Ma ci sono anche ragioni più dirette: qualcosa bisognava dire o dare al Fondo monetario internazionale, all’Ocse, alla Bce, un testo che li accontentasse. A ogni riunione che si fa si dice che l’Italia ha fatto passi in avanti sulla strada delle riforme”.

Perché la finanza ha preso tutto questo potere?“Perché non ha avuto opposizione. Non certo dai partiti, che a partire dagli anni 80 si sono adoperati per la finanziarizzazione, la liberalizzazione di movimenti di capitale, la produzione a valanga dei titoli come i derivati strutturati. Tra questi i partiti di sinistra e di centro-sinistra, che hanno ispirato molti documenti degli anni 80 in quella direzione, spinti da illustri personaggi della sinistra. Lo dico con una certa ambasce: i francesi Mitterand, Delors e Camdessus, il tedesco Schröder.
Le dottrine neo liberali, diffuse e propagandate a suon di dollari investiti in decine di ‘pensatoi’ e centri studi, hanno avuto un successo straordinario anche tra uomini politici, intellettuali e accademici. Poi c’è stata la caduta del Muro, e molte sinistre hanno fatto il possibile per mostrare di essersi allontanati dalle ideologie che vedevano nello Stato un soggetto di peso.
A dire il vero, soprattutto in Francia, furono dei problemi coi movimenti di capitale a sollecitarne la liberalizzazione. Si cominciò a dire che i capitali fuggivano, anche se il dato era falsato. Il risultato fu di liberalizzarne i movimenti.Questi fattori hanno fatto sì che la finanza non abbia avuto la minima opposizione. Il risultato sono state direttive, norme, leggi: l’Unione europea è diventata più liberale degli Usa.
Il fatto straordinario è che le banche oggi hanno convinto i governi che andavano salvate per la seconda volta. In meno di tre anni il debito pubblico europeo è aumentato del 20%. A partire dal 2008 si sono dissanguati i bilanci pubblici per salvare le banche. I tedeschi si sono trovati con miliardi di debiti. L’istituto Hypo Re è costata ai tedeschi 142 miliardi di euro: troppo grande per fallire, avrebbe trascinato con sé milioni di piccoli risparmiatori.
Dal 2010 la crisi delle banche è stata travestita da crisi del debito pubblico. E quando i bilanci pubblici sono esangui non ce la fanno più, e scattano i tagli. Ci sono dei progetti in sede di Parlamento Ue per regolare i derivati (che sono stati definiti da Warren Buffet un’ ‘arma finanziaria di distruzione di massa’) e per suddividere la banche commerciali da quelle di investimento, ma sinora non si è fatto nulla. La crisi ora è vagamente sotterrata ma potrebbe riservarci amare sorprese.
In America nel 2010 è stata introdotta la Wall Street Reform, ma è talmente complicata che richiede 500 decreti attuativi, che a oggi sono solo una trentina. La legge è farraginosa, e le lobby fanno la loro parte per svuotarla”.

Perché il lavoro è così colpito dalla finanza?“Sin dagli anni 80 e 90, con lo sviluppo tecnologico, i mercati di consumo hanno cominciato a essere saturi, poiché l’industria aveva capacità produttiva in eccesso. Eccesso di capacità produttiva vuol dire che il capitale investito rende poco. Vuol dire che il rendimento è basso. La proprietà -non solo brutti personaggi panciuti col sigaro, ma anche gli investitori istituzionali, compresi i fondi pensione- chiedono rendimenti molto più alti. Sono i proprietari di metà delle azioni dei capitali delle imprese di tutto il mondo. Coi bassi profitti che non si possono far salire perché si produce troppo e si vende poco, i dirigenti, per dare retta agli investitori, hanno puntato a comprimere il costo del lavoro. Quindi flessibilità, precarietà, e compressione dei diritti. Si chiama la ‘strada bassa’, la strada impervia delle relazioni industriali.
Nessuno però ne parla. E non parlarne fa parte dello straordinario successo ideologico delle dottrine”. 


martedì 23 ottobre 2012

Il silenzio di regime sul No Monti Day

Giorgio Cremaschi da Micromega
 
L’adesione al No Monti Day si sta diffondendo ovunque. Assemblee, riunioni, messaggi per la rete, tutto fa pensare che sabato ci sarà un evento in un paese che finora è stato il più passivo d’Europa. Ma la notizia della manifestazione non esiste per l’informazione ufficiale. Un convegno di 30 persone di qualche organizzazione con agganci nel palazzo ha molto più spazio, per noi nulla perché?
La prima ragione sta nel sostegno pressoché unanime che i mass media danno al governo. Tutti i quotidiani eccetto tre e tutti i telegiornali eccetto nessuno sono portavoce di Monti e del suo doloroso ma inevitabile operare. Non c’è mai stata in Italia una tale informazione di regime, gli anni di Berlusconi al riguardo sembrano libertari.
Questo dimostra quanto sia logorata oggi la nostra democrazia, ove un governo privo di legittimazione popolare è al tempo stesso causa ed effetto di una riduzione delle libertà fondamentali. Il regime montiano, il pensiero unico nell’informazione è al tempo stesso espressione di una regressione cominciata con Craxi e proseguita con tutti i governi della seconda repubblica, ma anche manifestazione di una volontà di dominio dei poteri forti tutti schierati con il governo.
Si può anche constatare come l’efficacia di questa potenza di fuoco a favore di Monti sia relativa. Partito con un consenso del 71% quando fu nominato e acclamato salvatore della patria, il presidente del consiglio è precipitato al 37, anche se il regime dà buona prova di stupidità esaltando il fatto che comunque egli è davanti a qualsiasi politico. È che gara è? Dall’altra parte ci sono gli orrori e il disfacimento della casta, mentre il movimento 5 stelle raccogli consensi che non possono più essere nascosti.
Quello che in realtà si vuole testardamente affermare è ciò che Monti proclama tutte le volte che va all’estero. Ove ha più volte dichiarato che gli italiani ce l’hanno coi politici non con lui, e che accettano i sacrifici a differenza di tutti gli altri popoli europei.
E qui c’è il succo del pensiero unico che ci governa. Nel paese del gattopardo si può cambiare tutto, purché non cambi nulla di ciò che conta davvero. Le politiche di mercato e rigore non hanno alternative, come affermava anni fa la signora Thatcher. Chiunque governi dovrà continuarle. Per questo ogni tentativo di costruire una opposizione a Monti che lo contesti in quanto espressione della politica conservatrice europea, va censurato.
Ci possono essere le singole lotte, più o meno disperate, si può scendere in piazza per il lavoro, con ministri sfacciati che chiedono di partecipare. Ma non si può dire via il governo monti, basta con le politiche europee che stanno estendendo a tutto il continente il massacro greco. Da noi è questa opposizione che non ha cittadinanza, a differenza che in tutti gli altri paesi sottoposti alle ricette di Draghi, Merkel e Monti.
Qui emerge l’altra faccia del regime. Leggendo la carta d’intenti firmata dai candidati alle primarie del centrosinistra si resta sconcertati per la banalità e la retorica bolsa di un testo che pare fatto apposta per non discutere sul serio. Francamente non si capisce come una persona acuta come Tabacci possa lamentarsi. Quel testo è pura cultura democristiana, grandi valori e pochi impegni concreti da cui non si sgarra. Che, guarda caso, sono i brutali vincoli di bilancio messi nella Costituzione e negli accordi per il fiscal compact. Si dice che si vuol andare oltre Monti, accettandone però tutti i vincoli e gli impegni assunti. Quante ridicole chiacchiere.
Si capisce così la convergenza di interessi che porta a cancellarci. Da un lato coloro che vogliono affermare l’assenza di alternative alla politica dei tecnici. Dall’altro coloro che vogliono presentarsi come speranza e cambiamento, avendo già sottoscritto di non cambiare davvero niente.
Si capisce allora perché diamo fastidio e vogliono impedirci di esistere. Noi smascheriamo il trucco. Ma noi invece esistiamo e dal 27 ottobre cominceremo a riavvicinare l’Italia a quell’Europa che lotta contro Monti, Merkel e tutti coloro che li sostengono.

lunedì 22 ottobre 2012

Chávez e la Diplomazia Pubblica di Washnington

di Carlos Fazio da la Jornada (traduzione per doppiocieco di Franco Cilli)

Unitamente alla stampa occidentale, tradizionalmente schierata, uno dei grandi perdenti delle elezioni venezuelane del 7 Ottobre, è stato senz'altro il cosiddetto Ufficio della Diplomazia Pubblica di Washington.
Fomentatore del terrorismo mediatico sin dagli anni della guerra fredda, l'ufficio dedicato alla destabilizzazione dei processi democratici e popolari dell'area, ha lavorato instancabilmente tra la fine di Luglio e il giorno delle elezioni per cercare di imporre una serie di idea forza, che dirette a/e riportate dai principali media di Stati Uniti, America Latina, Madrid e Londra, hanno cercato di dare risalto al candidato dell'opposizione Enrique Capriles Radonski, allo scopo di controbilanciare le principali agenzie di sondaggi, che davano come vincitore certo Hugo Chávez.
L'argomento principe della campagna elettorale è stato che Capriles non era in competizione con Chávez, bensì contro un asse formato da una cricca di narcogenerali, politici nepotisti e cubani(sic) che avevano pianificato di utilizzare le elezioni come mezzo per controllare il Venezuela dopo che Chávez fosse divenuto inabile o fosse morto. In definitiva si trattava di impedire che attraverso le violenze, le intimidazioni e la frode elettorale si perpetuasse un chavismo senza Chávez .

Dietro consiglio di due esperti israeliani, il politico, diplomatico e scrittore Shlomo Ben Ami, membro del partito laburista ed ex ministro degli esteri di Israele, e Alon Pinkal, anch'egli diplomatico che ha rivestito la carica di console generale negli Stati Uniti fra il 2000 e il 2004, nonché consigliere di due ministri di Relazioni con l'estero e il primo ministro Ehud Barak, la campagna elettorale ha cercato di costruire l'immagine di Capriles come di un uomo serio, che offriva stabilità, affidabilità, capacità di previsione dell'economia e un miglioramento tangibile nella relazioni del Venezuela con il mondo. Con lui, il Venezuela si sarebbe convertito in una democrazia vibrante e aperta, rimpiazzando una oligarchia militar-autoritaria.

La cronologia di 84 giorni(77 fra il 23 dii Luglio e il 7 di Ottobre, e la settimana posteriore alle elezioni), è stata tratteggiata in tre fasi. La prima è consistita nella costruzione e configurazione del discorso e del dibattito nei media, attraverso la disseminazione di articoli ed elementi di notizia concernenti l'elezione, basate sulla polarizzazione di due puniti di vista: Henrique Capriles Radonski versus l'asse Narco-Junta-Cuba e il pericolo di un Venezuela post-chavista diretto da una dittatura castrista-autoritaria
Nella seconda fase si è cercato di promuovere relazioni fra Capriles, leaders mondiali e responsabili di affari, e i media internazionali, nel tentativo di persuadere gli attori della politica che il Venezuela con Capriles sarebbe un terreno migliore e più affidabile per fare affari. Gli accordi verrebbero portati regolarmente a termine, gli investimenti protetti e gli interessi rispettati. A tal proposito Alon Pinkas, direttore fra l'altro di Brainstorm Cell Therapeutics Inc. e commentatore di media israeliani e stranieri, incluso Fox News, ha preso contatto con con l'impresa pubblicitaria Thunder 11, presieduta da un ebreo residente a New York, Marcos Greenberg, che è stato anche consigliere della campagna del'ex presidente di Colombia Álvaro Uribe.
Nella terza fase della campagna ( i dieci giorni precedenti il 7 Ottobre) il fuoco dell'informazione e dell'intelligence si è concentrato sulla salute di Hugo Chávez, le presunte lotte intestine all'interno delle forze armate, i conflitti fra i narcogenerali, l'intromissione e il coinvolgimento diretto di Cuba, così come la manipolazione potenziale, le irregolarità e le frodi elettorali. Alla base di tutto il piano strategico, la prefigurazione di due ipotesi contrapposte: un Venezuela serio e democratico oppure un paese dove continua a governare una narco-junta e Cuba (narco-junta-Cuban ruled).
Il modus operandi della campagna conmtemplava l'identificazione di giornali, canali TV, e agenti dei social media di un certo rilievo e disposti probabilmente a pubblicare, e includeva un processo diretto principalmente a stabilire l'affidabilità di giornalisti e scrittori individuali, e successivamente di provvedere ad un flusso continuo di articoli da una ventina di grandi testate fra le quali risaltano: The New York Times, The Wall Street Journal, Reuters, Ap, The New York Post, The Miami Herald, Time, Newsweek/The Daily Beast, Foreing Policity, Bloomberg/Business Week, Forbes, The Atlantic, The Guardian, El País, CNN, CNBC, BBC e gli affiliati locali nell'area di Miami di ABC, CBS, NBC y Fox, cosi come vari giornali e blog dell'industria del petrolio.
Secondo il documento Public Diplomacy andMedia Shlomo Ben Ami, Alon Pinkas (suoi soci a Washington) e Thunder 11 avrebbero fornito a Capriles dati probanti e prove relative all'asse narco-junta-cubano. E dato che Diplomazia Pubblica è anche uno sforzo mediatico, l'idea era quella di utilizzare le riunioni con leaders, diplomatici, politici e ONG umanitarie perché riproducessero la matrice di opinioni disegnata per il piano. Sono stati programmati incontri con politici e leaders del Congresso degli Stati Uniti e dei comitati di Energia, commercio e relazioni esterne, e Human Rights Watch.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: Chávez e i Venezuelani hanno vinto anche la battagli mediatica con Washington. I contenuti della campagna sono risultati una frode degli pseudo-giornalisti di El País e di strumenti affini. La guerra però continua. Nel ridisegno del confronto è prevedibile che gli Stati Uniti vincoleranno un prolungamento del mandato al 2019 alla conferma di una matrice populista-dittatoriale, con gli annessi dell'infermità del presidente Chávez, la corruzione, il burocratismo e la violenza in chiave di polarizzazione classista. Idee di cui si faranno carico come al solito vecchi personaggi ormai ben noti:Roger Noriega, Vargas Llosa, Otto Reich, Patricia Janiot, Jorge G. Castañeda, la argentina Bullrich e una manciata di stelle mediatiche.

domenica 21 ottobre 2012

Ritorno al protezionismo

di Emiliano Brancaccio da ComeDonChisciotte ( pubblicogiornale.it)


...Tra il 2008 e il 2012 la Commissione europea ha registrato 534 nuove misure protezionistiche. Non solo l’Argentina, ma anche colossi come Cina, India, Brasile e Stati Uniti hanno introdotto restrizioni. La stessa Russia ha posto in essere 80 nuove misure protezionistiche, il che la dice lunga sul modo in cui intenderà gestire la recente adesione al WTO, l’organizzazione mondiale del commercio. L’unica potenza che ancora resiste alla tentazione di introdurre controlli sui movimenti di capitali e di merci è proprio l’Unione europea. Dietro ci sono gli interessi del paese più forte, la Germania, che dal libero scambio trae grandi vantaggi. Tuttavia, man mano che la crisi avanza, anche in Europa e in Italia aumentano i consensi verso misure di controllo dei commerci, di limitazione delle acquisizioni estere e di ripristino della sovranità nazionale sulla moneta. E’ un’illusione pensare di contrastare quest’onda con la solita vuota retorica europeista.

...Non solo: Marchionne ha pure chiesto alla Commissione europea di governare i tagli di capacità produttiva delle case automobilistiche europee, in modo da lasciare invariate le quote di mercato: una vera e propria pianificazione pubblica europea dei volumi di produzione. E’ una posizione sensata che tuttavia apre una contraddizione, visto che al tempo stesso Marchionne rivendica piena libertà di trasferimento del capitale di Fiat all’estero ed esige dai lavoratori una totale sottomissione alle leggi del mercato. E’ l’ennesimo sintomo di crisi del liberismo e dei suoi ideologi, che da un lato si arrampicano sugli specchi per giustificare i massicci aiuti pubblici ai capitali privati, e dall’altro continuano a pretendere di avere mani libere nello scontro con i lavoratori.

...Il premio Nobel per l’Economia Paul Samuelson, che non era un protezionista, ci ha spiegato che in presenza di disoccupazione il libero scambio crea problemi, non vantaggi. E l’economista di Harvard Dani Rodrik ci ricorda che negli anni Cinquanta e Sessanta sussistevano numerosi controlli sui movimenti di capitali e di merci, eppure lo sviluppo, l’occupazione e la distribuzione del reddito erano molto migliori di oggi, anche perché quei controlli permettevano ai singoli stati di perseguire obiettivi interni, occupazionali e distributivi. Si potrebbe anche ricordare che la massima liberalizzazione dei movimenti internazionali dei capitali fu raggiunta esattamente alla vigilia della prima guerra mondiale. E’ dunque proprio un incondizionato liberoscambismo, soprattutto in tempi di gravissima crisi economica, che rischia di alimentare le peggiori pulsioni nazionaliste.

... L’Europa può ritrovare coesione interna solo se mette un freno alla competizione salariale al ribasso e attiva un “motore interno” dello sviluppo economico e sociale. Per adesso, tuttavia, ci stiamo muovendo in direzione contraria. La Germania ha imposto ai paesi periferici della zona euro una ricetta a base di depressione, disoccupazione e fallimenti aziendali. La stessa Banca centrale europea segue questa linea: è disposta a difendere i paesi periferici dalla speculazione solo a condizione che questi comprimano ulteriormente la spesa pubblica e il costo del lavoro e si dispongano a vendere i capitali nazionali, incluse le banche. Questa violenta ristrutturazione a guida tedesca trasformerà vaste aree del Sud Europa in deserti produttivi, destinati solo a fornire manodopera a buon mercato alle aree più forti. I gruppi d’interesse prevalenti in Germania sanno che questi processi potrebbero scatenare tensioni tali da indurre i paesi del Sud ad abbandonare l’euro, ma questa eventualità non li spaventa. L’unica vera paura dei tedeschi è che con la moneta unica salti anche il mercato unico europeo, sul quale si fonda la loro egemonia: cioè temono che i paesi del Sud introducano limiti alla libera circolazione dei capitali e delle merci in Europa. In Francia si discute da tempo di opzioni simili, ma il governo socialista non sembra disposto a esplicitare una minaccia protezionista. In Italia, per evitare tentazioni, abbiamo addirittura messo un irriducibile liberoscambista ai vertici del governo. La crisi però avanza, i nodi verranno al pettine...

Estratti da “ Il rifugio dalla economia globale sarà un ritorno al protezionismo” intevista a Emiliano Brancaccio a cura di Marco Berlinguer (Pubblico, 20 ottobre 2012)


Da Lyotard a Pannella: miseria del postmodernismo

Come fu possibile che la sinistra novecentesca, madre del sistema del welfare all’interno di una concezione universalistica dei diritti, si svegliò un giorno ‘postmoderna’? Perché da una generazione all’altra ciò che prima era sinonimo di ‘protezione’ è diventato il volto di un insopportabile dispositivo repressivo? E qual è la pars destruens da salvare del cosiddetto ‘pensiero debole’? Dal nuovo numero in uscita di “Critica Liberale” anticipiamo il saggio di Pierfranco Pellizzetti sulle sbandate intellettuali che ci hanno condotto da Pannella a Berlusconi.
di Pierfranco Pellizzetti da Micromega

«I diritti sociali sono le ‘stecche del corsetto’ della cittadinanza democratica» Jürgen Habermas [1]
«Le rabbiose contestazioni proletarie contro i capitalisti sfruttatori cedettero il passo a slogan spensierati e ironici che chiedevano libertà sessuale» Tony Judt [2]
L’età della fiducia e del civismo
Il trauma funzionò da elettrochoc per almeno due generazioni: borghesi illuminati alla Keynes, poi riformatori liberali alla Beveridge, tutte queste persone intelligenti e generose avevano appreso al meglio la lezione del recente passato; trovando nella pubblica opinione del tempo terreno fertile per il loro costruttivismo sociale di stampo liberalsocialista e welfariano. L’arrivo dei loro figli e nipoti sessantottardi azzerò definitivamente tali effetti.
Il trauma interiorizzato al quale ci si riferisce era stata l’immane catastrofe di due guerre mondiali, inframmezzate dalla crisi del 1929 con la relativa depressione.
L’(inintenzionale) effetto positivo, derivato da tali spaventose devastazioni, fu che negli anni di ferro e di fuoco gli Stati impararono – come mai prima – a mobilitare, regolamentare e pianificare per scopi comuni, condivisi. Una lezione bellica che non venne dimenticata nel tempo di pace. Dal New Deal roosveltiano alla Great Society, dal Welfare State all’Economia Sociale di mercato tedesca.
Il vero miracolo nel miracolo fu che, per alcuni decenni, i cittadini trovarono assolutamente condivisibili tali pratiche, anche perché sottoposte alle regole del controllo democratico. Pratiche che operavano in senso distributivo attraverso la tassazione progressiva e tenendo a bada il mercato, le sue crisi cicliche e i suoi spiriti animali. Ciò fu reso possibile proprio perché si era venuto accumulando un vasto patrimonio di fiducia nei confronti delle politiche pubbliche; che rendeva credibile l’idea stessa di progetto orientato al futuro, faceva ritenere possibile ogni intrapresa collettiva.
Difatti – come sostiene il politologo di Harvard Robert D. Putnam – «la fiducia è un lubrificante della vita sociale». E in quegli anni tale risorsa abbondava, tanto da far crescere ciò che ancora Putnam definisce – riferendosi agli Stati Uniti – la “lunga generazione civica”. «Nata più o meno tra il 1910 e il 1940: un ampio gruppo di persone considerevolmente più impegnate negli affari della comunità e più fiduciose rispetto ai più giovani. Il cuore di questa generazione civica è la coorte nata tra il 1925 e il 1930, che ha frequentato la scuola elementare durante la Grande Depressione, ha trascorso la Seconda guerra mondiale alla scuola superiore, ha votato per la prima volta nel 1948 o nel 1952, ha iniziato a sistemarsi negli anni ’50 e ha assistito alla prima trasmissione televisiva verso i trent’anni. Da quando esistono i sondaggi d’opinione a livello nazionale, questa coorte risulta eccezionalmente civica: vota di più, si associa di più, legge di più, si fida e dona di più»[3].
Nel Vecchio Continente il fenomeno, seppure leggermente in ritardo, è stato analogo.
Come analoga fu l’inversione di tendenza sulle due sponde dell’Atlantico.
Commenta lo storico british, seppure naturalizzato USA, Tony Judt: «per tutti coloro nati dopo il 1945, lo Stato sociale e le sue istituzioni non erano soluzioni a dilemmi precedenti: rappresentavano le condizioni normali dell’esistenza (ed erano piuttosto noiose). I baby boomers, che a metà degli anni Sessanta facevano il loro ingresso all’università, non avevano conosciuto altro che un mondo di crescenti opportunità, generosi servizi sanitari e scolastici, ottimistiche prospettive di ascesa sociale e (forse soprattutto) un indefinibile ma onnipresente senso di sicurezza. Gli obiettivi della precedente generazione di riformatori non interessavano più i loro eredi, anzi venivano percepiti sempre di più come restrizioni alla libertà e all’espressione individuale»[4]. In ogni caso, nascere e diventare adulti dopo il secondo conflitto mondiale è risultato completamente diverso dall’averlo fatto prima. Come se queste nuove coorti generazionali fossero state esposte a una sorta di “raggi X anticivici”; che le ha rese sempre meno inclini a sentirsi parte integrante di un contesto sociale più ampio, a condividere progetti collettivi.
Restano da capire i percorsi intellettuali che hanno accompagnato la “rottura del consenso del dopoguerra”, offrendo le parole per rendere dicibile la cosa: il salto psicologico generazionale; con il conseguente declino della parte politica che di quel consenso era stata la diretta destinataria e interprete: la Sinistra politica.
Dal viaggio per uno scopo al nomadismo senza scopo
Certo, i lunghi decenni di successi incontrastati avevano gradatamente fatto perdere spinta propulsiva al fronte del riformismo sociale, armato degli strumenti messi a punto dal massimo pensatore del tempo: John Maynard Keynes.

Declino che si accompagnava alle crescenti attrattive da “ozi di Capua” offerte dagli organigrammi pubblici e agli imbolsimenti burocratici.
Soprattutto, la Sinistra occidentale non era minimamente attrezzata ad affrontare una sfida che la colse del tutto di sorpresa. Infatti – sino a quel momento – “il nemico” da tenere sotto osservazione continuava a essere considerato il Totalitarismo, nelle sue differenti forme e revival (per l’intero fronte quello fascista; per buona parte dei riformatori occidentali pure quello comunista sovietico). Mentre il Capitalismo sregolato (in base alla sconsiderata ideologia ottocentesca del Mercato “autoregolantesi”) veniva ormai giudicato una belva del tutto addomesticata e resa innocua; vuoi dai patti storici stipulati (quello fordista e welfariano in particolare), vuoi dalla crescente accumulazione di ricchezza resa possibile dalle esperienze di economia amministrata e “mista” pubblico/privata.
Sicché l’irrompere dall’esterno di un potente avversario – quale il Thatcher-Reagan-pensiero – la colse del tutto impreparata a contrastarlo. Anche perché – in contemporaneo alla resistibile avanzata del nascente soggetto antagonistico – stavano intervenendo processi culturali più interni all’equilibrio postbellico, conseguenti all’emergere di una Sinistra che si definiva “nuova”; portatrice di modelli alternativi di pensiero, tali da scardinare l’intera tradizione culturale di riferimento e ancoraggio, sotto forma di un vero e proprio disarmo unilaterale.
Insomma – come è stato detto – la Nuova Sinistra preparò il terreno per la “rivincita degli austriaci” (i von Hayek, i von Mises e i loro epigoni friedmaniani della scuola di Chicago. “Liberisti da Guerra Fredda”, li chiama qualcuno). Seppure inconsapevolmente, ma sempre insaporendo il piatto con un’abbondante spruzzata di salsa francese: Jean Baudrillard, Michel Foucault, Jacques Derrida… per arrivare all’estensore del manifesto, datato 1979, che formalizzò quella che ora veniva definita “la condizione postmoderna”: Jean-François Lyotard. Una rappresentazione del mondo che – a detta del ricercatore che ne ha esplorato più attentamente le cause e le ragioni della sua diffusione, partendo dalle trasformazioni sociali intervenute, Ronald Inglehart – ha come componente centrale l’ambiguità nelle sue pratiche di decostruzione dei vigenti modelli di pensiero.
«Domanda: qual è la differenza tra un malavitoso e un decostruzionista? Risposta: un decostruzionista ti fa un’offerta che non puoi capire!»[5].
Il punto fermo che accomuna questi pensieri – pur tra loro diversi – è quello dell’andare oltre la razionalità strumentale dell’epoca al tramonto liberandosi dai suoi vincoli, ormai reputati non più necessari; resi inutili dal superamento di uno stato mentale fino ad allora giudicato permanente: il senso di insicurezza, che permeava le percezioni delle donne e degli uomini formatisi in stagioni dove il pericolo per la propria vita e le ristrettezze materiali apparivano l’inquietante ed ansiogena compagnia quotidiana. Mentre quei vincoli – da rassicuranti, in quanto protettivi – si erano trasformati nell’esatto contrario: costrizioni repressive da abbattere. E con esse la gauche de papa che ne era guardiana.
Va detto che nell’azione decostruttiva dei postmodernisti si può riscontrare anche una pars destruens utile e – dunque – largamente condivisibile: la presa d’atto che le grandi “metanarrazioni ideologiche” otto/novecentesche avevano perso capacità di fornire un qualsivoglia senso/significato all’agire umano; l’intuizione delle forme mutevoli di un Potere camaleontico che esercita repressione attraverso la costruzione del consenso (nella formula foucaultiana de “la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità”). Quindi – sempre secondo Foucault – «la critica sarà pertanto l’arte della disobbedienza volontaria, dell’indocilità ragionata»[6].
Purtroppo è la pars construens a difettare, imprigionata nel gioco – appunto – ambiguo dell’incredulità compiaciuta e autoreferenziale. Culminata nella distruzione teorizzata di qualsivoglia ragione per cui valga la pena di impegnarsi collettivamente: il moderno “viaggio per uno scopo” affonda – così – nelle sabbie desertiche del postmoderno “nomadismo erratico senza scopo”.
Con le parole del filosofo Remo Bodei: «i moderni appaiono come pellegrini nel tempo, uomini che si muovono secondo una meta e un progetto, per cui l’identità diventa in loro costruzione, previsione e tragitto. I post-moderni, al contrario, si sarebbero adattati ad abitare nel deserto, a vivere l’esperienza della frammentazione del tempo e ad avere la percezione netta della distanza incolmabile tra gli ideali dell’io e la loro realizzazione. Non si prefiggerebbero quindi di costruire qualcosa di stabile. Bensì di soggiornare in una serie di identità provvisorie»[7].
In questo perenne oscillare di punti di vista, più brillanti che argomentati, scompare ogni rigorosa distinzione. Nel trionfo dell’indistinto vale solo quella pulsione “desiderante” che in concreto trova il proprio sbocco naturale nel consumo e i suoi riti («dove l’implosione del reale e dell’irreale ci lascia con un senso indefinito della loro differenza… c’è tanto di irreale intorno a noi che ci troviamo più a nostro agio con questo piuttosto che con il reale»)[8]. Quasi a prefigurare acriticamente – seppure veicolandolo attraverso oscure terminologie iniziatiche – il passaggio postindustriale (postfordista) dal Capitalismo manifatturiero a quello delle reti distributive: «quando la filosofia – sentenzia il postismo standard – riflette sull’assoggettamento dell’uomo ai suoi prodotti, non può non trovare in questo esito del nichilismo una condizione normale»[9]. Perché – secondo David Harvey – «il post-modernismo galleggia, sguazza addirittura, nelle correnti frammentarie e caotiche del cambiamento, come se oltre a questo non ci fosse null’altro»[10].
Il conflitto oltre la classe
L’apoteosi dell’indeterminatezza, con le sue favole caleidoscopiche, esorcizza da par suo ogni accreditamento della ricerca scientifica in quanto pratica produttrice di conoscenza verificabile, parla il gergo dell’individualismo senza legami (di fatto, soltanto lo “specchio dell’isolamento”) e – soprattutto, almeno per l’utilità del nostro discorso – rifiuta qualsivoglia analisi della composizione sociale basata su interessi materiali (appunto, “di classe”).
Certo, nei lunghi anni dell’integrazione/pacificazione welfariana – per dirla con Ralf Dahrendorf – il conflitto era andato “oltre la classe”. La qual cosa non significava minimamente che la società fosse diventata anch’essa un indistinto. Senza alcun dubbio «la politica e la società erano piacevolmente semplici al tempo in cui la scena del conflitto sociale era dominata da due gruppi principali, dei quali l’uno difendeva il privilegio mentre l’altro rivendicava il diritto di cittadinanza»[11]. Ossia, il paradigma semplificatorio impostosi nella fase industrialista ormai in esaurimento.
Alla luce di tali fatti, a sagaci decostruttori quali i postmodernisti (teorici di un dominio panottico riproposto attraverso forme costantemente rinnovate) – ammesso e non concesso che fossero in grado di concepire il lavoro intellettuale come responsabilità – sarebbe spettato il compito di affrontare il problema delle mutazioni in atto nelle dinamiche conflittuali. Invece si limitarono a proclamare compiaciuti, per la penna del solito Lyotard, che «la lotta di classe, ormai sfumata al punto di perdere qualsiasi radicalità, si è infine trovata esposta al rischio di perdere la sua consistenza e a ridursi a una ‘utopia’, a una ‘speranza’, a una protesta di principio»[12].
Insomma, risultava loro molto più suggestivo volteggiare negli arzigogoli su complottismi onirici piuttosto che attardarsi nella squallida quotidianità dello sfruttamento e della precarizzazione, insiti nel modo di produrre postfordista ormai in marcia. A partire dal fatidico 1973 (anno della grande crisi energetica e del colpo di Stato in Cile; punto d’avvio della globalizzazione, intesa come apertura delle gabbie in cui erano stati rinchiusi gli spiriti animali capitalistici).
Intanto, a loro insaputa, avanzavano fenomeni di ben altra consistenza, tali da terremotare l’intera orografia del consenso. Puntualmente registrati dal lavoro d’indagine sul campo di Inglehart.
«L’affermarsi della dimensione politica postmoderna tende a invertire le posizioni di classe: secondo la vecchia distinzione tra destra e sinistra, i ceti più abbienti sostenevano la prima, difendendo la propria posizione economica privilegiata. La dimensione politica postmoderna, invece, non si fonda più sulla proprietà, ma sul senso di sicurezza individuale. Essa contrappone chi ha una visione del mondo materialista/moderna a chi ne ha una postmaterialista/postmoderna. In questa dimensione, coloro che hanno un reddito superiore, un miglior livello di istruzione e uno status occupazionale più alto, quindi una maggiore sicurezza, tendono a collocarsi in misura crescente a sinistra»[13]. Questo è quanto conclude l’importante sociologo americano. In effetti, ciò che si andava realmente appalesando era il distacco della Sinistra dalla sua base tradizionale, abbandonata alla massiccia propaganda degli avversari, per inseguire un consenso episodico e quanto mai fluido. La vaghissima metafora della “liquidità”, seppure coronata dal successo, con cui Zygmunt Bauman ci intrattiene da anni e in reiterati saggi.
Insomma, a fronte di un movimento tellurico dalle dimensioni inaudite, la Sinistra sulla via della Damasco postmodernista che fece? Si potrebbe dire: fece l’amore non la guerra, mise fiori nei propri cannoni.
Con tutto il rispetto dovuto alla libera sessualità e al pacifismo, emergeva – così – quella confusa agenda politica ridotta a elenco (“contaminazione”) di rivendicazioni individuali contro Stato e società.
Il tema identitario andava strabordando fino a occupare l’intero campo del dibattito pubblico, frammentato in identità individuali, sessuali, culturali… Con contorno di esotismi vari, che gratificavano la prevalenza – molto vague postmoderna – dell’estetica sull’etica. «Cibo quotidiano – commentava in quegli anni Carlo Augusto Viano – per gli eredi della cultura che si è riconosciuta nel rifiuto della società industriale… Una cultura morbida, che alla dura realtà materiale della società industriale contrapponga un’altra realtà, nella quale l’essere tramonta e al posto delle cose ci sono semiosi e giochi linguistici»[14].
Sotto l’effetto di siffatte morbidezze e/o liquidità si produceva l’inevitabile “ declino di uno scopo condiviso”; la fondamentale dimensione pubblica cedeva di fronte alle pretese ultimative del “privato”. E la nuova Destra emergente poteva fare propria questa alternativa, schierandosi con ben maggiore credibilità dalla parte dell’individualistico (il mantra “avido è bello” sotto le spoglie della riapparsa Mano Invisibile) contro la priorità del sociale; ma anche trovando un campo completamente spianato dalle involuzioni culturali avvenute nello schieramento contrapposto.
La sua smobilitazione politica per implosione.
La Rivincita degli austriaci
Torniamo alla ricostruzione fornitaci da Judt. «Il compito della rinascente destra fu reso più facile non soltanto dal tempo trascorso (con i traumi degli anni Trenta e Quaranta ormai lontani, la gente era più disponibile a prestare ascolto alle voci tradizionali del conservatorismo) ma anche dagli avversari. Il narcisismo dei movimenti studenteschi, i nuovi ideologi della sinistra e la cultura popolare della generazione degli anni Sessanta crearono le condizioni ideali per una reazione conservatrice. La Destra ora poteva affermare di essere la paladina dei ‘valori’, della ‘nazione’, del ‘rispetto’, dell’‘autorità’ e della tradizione e civiltà di un paese (o di un continente, o addirittura dell’Occidente) che ‘loro’ (la sinistra, gli studenti, i giovani, le minoranze radicali) non capivano e non amavano»[15].
Il punto di massima critica distintiva per questa Destra diventavano lo Stato e i suoi scopi, che nel frattempo erano già sott’attacco della critica postmodernista come ricettacolo di una nuova forma di oppressione occhiuta: “il consenso repressivo”.
Così le fisime di ottocenteschi espatriati dall’Austria, alla Mises e alla Hayek, venivano rimesse a nuovo; con il loro carico da novanta contro ogni forma di programmazione (“costruttivismo sociale”) e di intervento pubblico. Concezioni confuse che alimentarono pratiche comunicative mirate e vincenti; rifornendo le armerie degli spin-doctors al servizio di personaggi terribilmente e pericolosamente mediocri, come Ronald Reagan e Margaret Thatcher.
Il rapido successo di costoro nell’occupazione dell’area mediana del consenso elettorale, sbandierando l’apologetica della deregolamentazione, creò frotte di cloni in tutto l’Occidente; contagiò persino il fronte opposto: la Sinistra, che si omologava postmodernizzandosi, piegandosi allo spirito dei tempi e facendosi “liberista”.
Qualche nome degli insipienti quisling sul lato mancino, tra i tanti che Judt bolla come pronti a «santificare banchieri e nuovi ricchi» (per mostrarsi up-to-date e magari farsi cooptare nella rampante “sfera del lusso”): Tony Blair e Gordon Brown, Bill Clinton, Gerhard Schröder e – per fare buon peso – pure Massimo d’Alema con i suoi Lothar. Sublime esempio di parvenu ossessionati dal desiderio di cancellare la propria colpa di presunti “figli di un dio minore”. Guarda caso, quella “divinità di seconda scelta” era nientemeno che l’epopea dello Stato sociale e dei Gloriosi Trenta: il periodo tra la seconda metà degli anni Quaranta e i primi Settanta che lo storico inglese di scuola marxista Eric Hobsbawm definisce “l’Età dell’Oro”[16].
Alla faccia dei postmodernisti schifiltosi!
Il terreno di scontro fu la conquista dell’area mediana della società, estesa a dismisura dalle politiche redistributive di allargamento della cittadinanza sociale. E il successo della Destra – di certo – non dipese soltanto dalle polemiche retrò di qualche Hayek. Ben altri strateghi, agendo dietro le quinte, mettevano a punto nel quartier generale del Potere le mosse per vincere la guerra in corso. Nel loro caso, riflettendo attentamente su quella concretezza materiale (dimenticata da una Sinistra in crisi di identità) degli interessi che si intendevano aggregare al proprio carro. Qualcosa come una sorta di “sintesi keynesiana alla rovescia”, che produce coalizioni al servizio di una politica. Nel caso, politica anti-keynesiana e pro “Stato minimo”. Con un punto nodale: in che modo disamorare il ceto medio nei confronti di quei servizi sociali welfariani (sanità, assistenza pensionistica, diritto allo studio per i figli, mecenatismo di Stato per arte e cultura…) che nel corso di ben tre decenni gli avevano migliorato le condizioni di vita, tanto da favorirne l’inclusione nell’area del benessere? Presto detto: virando la retorica populistica anti-tasse a grimaldello per anemizzare finanziariamente i servizi pubblici, fino al completo abbassamento qualitativo delle loro prestazioni. Annota l’economista liberal Paul Krugman: «immaginiamo un settore pubblico più piccolo e con un sistema fiscale meno progressivo, nel quale l’elettore medio paga in imposte molto più di quanto riceve in benefici: in questo caso, la maggioranza degli elettori vedrà il settore pubblico più come un onere che come un sostegno e voterà per ridurlo ulteriormente»[17].
Ecco il punto archimedico: la frantumazione di quanto Habermas definisce icasticamente le stecche nel corsetto della cittadinanza democratica. Messa in pratica con grande determinazione, ha innestato la spirale negativa che riuscì a tranciare alla radice l’antico patto sociale su cui si fondava la lunga stagione del Capitalismo amministrato (“embedded”), l’egemonia della Sinistra nel dopoguerra. Quel Big Government che, nonostante tutti i difetti di burocraticismo e paternalismo addebitabili, seppe coniugare con successo il binomio tasse e libertà.
Proprio così: libertà; visto che, in una società con troppo poche tasse e punto ridistribuzioni, gli unici cittadini effettivamente liberi resterebbero soltanto quelli con risorse personali tali da metterli in condizione di affrontare i costi necessari per vivere davvero liberamente. Questa era la semplice verità su cui la Sinistra aveva saldato i propri destini con la maggioranza della popolazione: il successo della democrazia nel dopoguerra poggiava sull’equilibrio tra produzione e ridistribuzione regolamentato dallo Stato. L’equilibrio era stato rotto; e da allora la crescita si sarebbe contrapposta alle politiche dei trasferimenti per ridurre le disuguaglianze.
Non essere stati in grado di comprenderlo, inseguendo altre (più che problematiche) vie per il successo, è anche l’effetto della confusione delle idee indotta dalla pericolosa retorica postmodernista.
Altamente pericolosa, perché evita di affrontare il realistico stato delle cose inseguendo chimere e abrakadabra. Acrobazie sul filo teso sopra il baratro dell’assurdo. Sulla scia di Lyotard, secondo il quale «non può esservi alcuna differenza tra verità, autorità e seduzione retorica; chi ha la lingua più sciolta o la storia più interessante ha il potere». Di conseguenza, «gli otto anni di regno di un carismatico bugiardo [Ronald Reagan, ndr.] alla Casa Bianca indicano che c’è più di un’esile continuità in quel problema politico, e che il postmodernismo sfiora pericolosamente la complicità con l’estetizzazione della politica su cui si basa»[18].
Ci va giù ancora più duro – in quanto a denuncia delle collusioni “pericolosamente” inconsapevoli tra decostruzione postmoderna e controriformismo oscurantista – il converso anti-postmodernista Maurizio Ferraris, osservando che «Ratzinger ha potuto servirsi della critica postmoderna alla oggettività scientifica per sostenere che dopotutto la condanna a Galileo era plausibile»[19].
Flebili e furbetti
E qui da noi? I philosophes nostri compatrioti – ancora una volta – ce l’hanno messa tutta per dare ragione all’intellettuale francese Marc Fumaroli quando ci definisce i «cugini di provincia»[20], dal tempo ormai immemorabile in cui l’Acadèmie Française soppiantò l’Accademia della Crusca quale sancta sanctorum del pensiero à la page.
Esattamente un lustro dopo la pubblicazione del manifesto parigino sulla “condizione
postmoderna”, il riflettore si accese per il canonico “quarto d’ora di celebrità” (e forse qualcosa di più…) sul team di intellettuali nostrani coordinati da Aldo Rovatti e Gianni Vattimo, prevalentemente baroni accademici (tra cui Umberto Eco e Alessandro Dal Lago; più il giovane e già citato Ferraris, allora alla corte di Vattimo), autori dell’opera collettanea intitolata “Il pensiero debole”.
Fu così che balzarono sulla scena del sempre ritardatario dibattito culturale italiano i “debolisti” o – come li soprannominò subito Viano – “i flebili”. Questo in quanto un tratto comune nella loro operazione, molto strombazzata dai media intra moenia, è la vaghezza buonistica tendente all’inerme. Come dichiararono loro stessi, anche in questo caso si trattava del rifiuto di qualsivoglia filosofia dell’emancipazione, che si traduca in prassi conseguenti, «ma anzi rivolgendo un nuovo e più amichevole, perché più disteso, sguardo al mondo delle apparenze, delle procedure discorsive e delle ‘forme simboliche’, vedendole come il luogo di una possibile esperienza dell’essere»[21]. In altre parole, narrazioni decontestualizzate perché sprovviste di categorie selettive rigorose per una necessaria scelta di campo. Infatti, nulla di tutto ciò è riscontrabile in quel funambolico saltabeccare nell’autocompiacimento; accompagnato dal sorrisetto divertito di prammatica; particolarmente irritante viste le condizioni tendenti al comatoso in cui già versava il sistema democratico italiano (erano gli anni del CAF). Del resto, “l’ironico” – per dirla alla Richard Rorty – è un tic perfettamente in linea con l’individualizzazione solipsistica postmoderna; cui fa ottima compagnia l’assunto che la coscienza è «assoluta contingenza»[22].
Il venerando volontarismo dell’undicesima tesi marxiana su Feuerbach («i filosofi hanno soltanto interpretato il mondo in modi diversi, si tratta di trasformarlo»), che aveva ispirato per un secolo l’agire della politica occidentale, diventa – così – un reperto archeologico, oggetto di tacita irrisione.
Quanto rimane sono solo metafore, paradossi e niente più. Prevalenza del sovrastrutturale più effimero che crea un mood, uno stato d’animo declinato in gusti/disgusti e qualche temporanea insofferenza. Sempre nella più beata insensibilità a quanto sta avvenendo nella concretezza (certamente ritenuta banale e stucchevole) della vita reale, alle lotte in corso e alle poste in palio; seppure impellenti, magari drammatiche. Insensibilità che vira nel suo contrario solo quando si tratta – ancora una volta – di abbandonarsi alle fughe nell’esotico; fino ad arrivare, nel caso dello spirito credente Vattimo, all’odierno entusiasmo per il bullo venezuelano Chavez.
Spentisi i fuochi d’artificio, resta solo la sensazione di una pirotecnia fine a se stessa.
Lo si vide benissimo ancora due anni fa, quando uno dei co-equipier del Debolismo – il sociologo Dal Lago – pensò bene di pubblicare un libello contro Roberto Saviano (l’autore di “Gomorra”, il best-seller a livello planetario contro la malavita organizzata partenopea), a suo dire reo di sciatterie linguistiche e di imprecisioni narrative[23]. Neppure per un istante il noto sociologo venne sfiorato da qualche dubbio sull’opportunità di contestare non uno scrittore, bensì il simbolo (pur con tutti i suoi evidenti limiti) della resistenza alla penetrazione criminale in una vasta area del nostro Mezzogiorno. Insomma: puro estetismo del tipo “lasciatemi divertire” (stavolta prendendo a bersaglio un intruso negli orticelli accademici della sociologia della devianza) alla Aldo Palazzeschi fuori tempo massimo; declinato in una sorta di provocazione dadaista modello “baffi alla Gioconda”, sulla scia ironico-distruttiva di Marcel Duchamp. Nel frattempo, dalle parti di Scampia e dintorni proseguono imperterrite le mattanze della Camorra e lo scempio della civile convivenza, della legalità.
Scusabile leggerezza? Distacco dalla realtà al limite dell’estraneazione? Sberleffo beffardo tracimato oltre le soglie cinismo?
Il Debolismo produce anche tali effetti…
D’altro canto – in questa sede – poco importa analizzare i ghirigori filosofici dei reduci giocherelloni di battaglie combattute con fucili a tappi e proiettili di borotalco.
Non ci interessa ricostruire le divaricazioni nella linea genealogica della filosofia moderna; con il passaggio dalla filiera primaria, che da Kant persegue l’elaborazione di un discorso metodologicamente rigoroso e logicamente fondato, a quella che – secondo il pragmatista/postmoderno Rorty – «fa invece capo a Hegel, e in cui egli include Nietzsche, Heidegger e Derrida, [cercando] di sbarazzarsi di questa idea di verità a favore di un filosofare… interessato non a rispecchiare la natura o il mondo esterno, bensì a produrre nuovi orizzonti di senso, a elaborare nuove metafore e nuovi linguaggi»[24]. E poco importa se il risultato spesso ha la consistenza della papier mais fumata al tavolino di un café della Rive Gauche.
Ci basta e avanza verificare – pure dalle nostre parti – l’impatto sulla politica di uno slogan deresponsabilizzante, vera essenza del messaggio postmodernista, quale il «non esistono fatti, esistono solo interpretazioni» di Friedrich Nietzsche. Sintesi mirabile della sorda indifferenza alla ricerca di punti fermi condivisi, atti a mobilitare campagne di interesse generale.
Di più: l’apoteosi della nebulizzazione del sociale in un pulviscolo di “narrazioni” autoreferenziali.
Furbetti e furboni, fauna che da sempre abbonda nei meandri dei partiti italiani, si ficcarono letteralmente a capofitto in questo piatto ricco (di frutti avvelenati). E il discorso pubblico si trasformò rapidamente nel terreno di caccia degli affabulatori malandrini.
In principio, Pannella
Probabilmente il primo politico postmoderno nazionale è stato Marco Giacinto Pannella. Un tipo che negli anni Sessanta – in quanto francofono per via di madre – fu spedito a Parigi come corrispondente de Il Giorno diretto da Italo Pietra. Lì venne a contatto con i fermenti intellettuali da cui presto si sarebbero generate le fioriture filosofiche che scardinarono gli equilibri incentrati sulla vecchia Sinistra.
Dato che l’editore del suo quotidiano era l’allora boss dell’ENI (l’ente petrolifero nazionale) Enrico Mattei, il Marco Giacinto giovane e svelto ne divenne pure l’ambasciatore presso le nuove classi al governo negli Stati del Maghreb decolonizzato. Tanto il mandante come gli ambienti frequentati risultarono una formidabile scuola di cinismo. Che – del resto – poggiava di per sé su solide basi preesistenti: le pratiche di assoluta spregiudicatezza apprese nei parlamentini universitari pre-sessantottardi (la malfamata UNURI).
Non a caso la politica universitaria ha funzionato da incubatrice per altri cinici politicanti, inoculatori di un machiavellismo un tanto al chilo gabellato per pragmatismo realistico, dediti al proprio successo personale raccontato come “primato del Politico”. Il primo nome che viene alla mente è quello di Bettino Craxi, sodale intermittente del Pannella; ma come lui costantemente dedicato – nella logica maoista del viaggiare separati per colpire uniti - a combattere la Sinistra organizzata (leggasi PCI berlingueriano e sindacati), azzerarne i referenti: ogni identità collettiva legata al ruolo sociale coperto (leggasi classe operaia), premessa irrinunciabile per la conquista della soggettività da parte del lavoro, quale attore rilevante nell’arena competitiva degli interessi.
È anche grazie alla loro indefessa opera guastatrice se il “Blocco Storico” della modernità, che coalizzava le forze produttive, è stato sostituito anche nel “caso italiano” da un “Conglomerato Emotivo”, che mescola i risentimenti degli abbienti e quelli degli impauriti in un blend reazionario.
Tornando a Pannella, dopo Parigi e l’Algeria era ormai pronto per rientrare in Patria, conquistare d’assalto il venerando Partito Radicale dei Villabruna e degli amici del Mondo di Mario Pannunzio, iniziare la propria cinquantennale epopea da “avventuriero qualche volta dalla parte giusta”. Intendendo per “giusta” la stagione delle campagne referendarie per i diritti civili.
Liberista anti-welfariano, nemico acerrimo della Sinistra storica e sindacale, promotore di referendum contro i diritti dei lavoratori, pusher della democrazia diretta (ammazzata mediante overdose), lo spregiudicato guru radicale è stato un perfetto prototipo del giocatore tra le righe e gli schieramenti, sempre alla ricerca famelica della solita luce del riflettore (e della comparsata gigionesca in televisione), inafferrabile nelle giravolte lessicali finalizzate a scompaginare le fila, confondere le idee e disarticolare aggregati sociali.
Una volta trasformato il suo partito nella protesi della propria iomania – se la memoria non inganna – fu proprio lui il primo a promuovere liste elettorali modello “santino” (il culto della personalità tramutato in una sorta di icona salvifica); il va sans dire, liste intestate non più a un simbolo identitario collettivo, bensì al proprio nome: la riduzione fideistica del progetto generale al carisma individuale.
Altri lo seguiranno nell’andazzo indecente della politica personalizzata e “situazionista”, magari crescendo nella nidiate dei suoi figlioletti spuri (da Francesco Rutelli agli Stracquadanio vari).
Ormai il tempo era maturo per l’instaurazione del politainment mediatizzato di Silvio Berlusconi. Il supremo imbonitore, con cui Pannella ha trafficato fino all’ultimo. Ripercorrendo ancora una volta la vicenda vergognosa della Destra più bieca che si impadronisce del Potere grazie all’opera decostruttiva inscenata sotto l’etichetta di “sinistra alternativista”.
Ma i guasti del berlusconismo, di cui l’inventario catastrofico durerà per molti anni a venire, sono un altro argomento.
Ormai la ricreazione è finita; e con essa i giochi a somma altamente negativa con cui ci si è baloccati troppo a lungo, fino a rendere l’intera società quel deserto prospettato come libertà nelle metafore derisorie di sconsiderati distruttori.
Giochi al massacro – diciamolo francamente – che erano possibili soltanto al tempo della sicurezza materiale di massa; accumulata dall’azione pubblica e poi dilapidata grazie al suo autolesionistico accantonamento.
Ritorno alle virtù repubblicane
Il risveglio dal lungo sonno della ragionevolezza ora ha bisogno di ritrovare un pensiero, una direttrice di marcia.
Recupero più che urgente. Senza perdere troppo tempo con le seghe mentali sul grado di durezza del pensiero pensabile. Tipo il dibattito – oggi à la page – sulla fine del postmoderno e il ritorno al realismo. Quel “Nuovo Realismo”, di cui un antico compagnon de route dei pensatori deboli – Umberto Eco – adesso ce ne parla nei termini di “Realismo Negativo”; «che si potrebbe riassumere, sia parlando di testi che di aspetti del mondo, nella formula: ogni ipotesi interpretativa è sempre rivedibile (e come voleva Peirce sempre esposta al rischio del fallibilismo) ma, se non si può mai dire definitivamente se un’interpretazione è giusta, si può sempre dire quando è sbagliata»[25]. Per poi ammettere lui stesso che questa formulazione non si distacca molto dalla dialettica popperiana congetture/confutazioni, dalle trite e ritrite semplificazioni del Razionalismo critico di Karl Popper. Con l’ulteriore codicillo, davvero assai poco originale ma sempre neorealista, della presa d’atto «[non della negazione] che vi siano oggetti socialmente costruiti, ma solo che tutti lo siano»[26].
Ma guarda un po’ che intuizione sconvolgente!
Il tema è semmai un altro. Il ripristino di quell’abito morale di serietà e responsabilità che si potrebbe sintetizzare nella formula “virtù repubblicane”.
E qui conveniamo con il nostro beneamato Judt: occorre ritrovare al più presto le ragioni dell’azione pubblica per il bene comune. Dove invece ha torto è quando – forse in un momento di comprensibile sconforto – afferma che «nessuno sta ripensando lo Stato»[27].
Perché questo non è vero: sotto le macerie della controrivoluzione liberista qualche barlume di speranza sta facendosi strada. Appunto, un’idea molto “repubblicana”. Non solo la stupefacente/indecente corsa dei banchieri al salvataggio da parte dello Stato, a seguito del crac di Wall Street nell’autunno 2008!
Dopo la pianificazione burocratica, andata fuori giri per l’impossibilità di governare centralisticamente un numero infinito di fattori, dopo la deregulation che lasciava mano libera ai saccheggi dei beni pubblici e ai banchetti con il patrimonio dello Stato, emerge timidamente un paradigma alternativo ad entrambe. Ossia il potenziamento della democrazia deliberativa attraverso vaste coalizioni pubbliche e private, messe assieme dalla regia “catalitica” delle istituzioni e orientate a scopi condivisi: la via europea alla programmazione strategica su base territoriale, le cui pratiche eccellenti restano ancora largamente sconosciute dalle nostre parti, nel nostro dibattito da “cugini di provincia”. Nella perdurante atrofia dei valori pubblici.
Era il 1982 quando Albert Hirschman scrisse che «le società occidentali sembrano condannate a lunghi periodi di privatizzazione nel corso dei quali sperimentano una depauperante ‘atrofia dei valori pubblici’, seguita da esplosioni di ‘pubblico’ spasmodiche e molto difficilmente costruttive. Che cosa si deve fare per rimediare a questa atrofia e agli spasmi successivi?»[28].
L’unica risposta possibile a questa domanda è mettersi al lavoro per ricostituire il capitale di fiducia necessario ad accompagnare una ripresa di progettualità riformatrice come impegno collettivo. Mentre i campi verso cui indirizzare tali progetti sono già fin troppo evidenti, sotto gli occhi di tutti: l’abbassamento dei livelli materiali e morali della civile convivenza. Quindi, la priorità della lotta alla disuguaglianza; che sta raggiungendo livelli di guardia, mettendo a repentaglio lo stesso pactum societatis.
Questo il compito a cui è chiamata una Sinistra liberata da compromissioni e vassallaggi psicologici, postmoderni o meno che siano. Capace di riprendere in mano la pur stinta bandiera della Giustizia nella Libertà; eppure sempre in attesa di poter tornare a sventolare.
NOTE
[1] J. Habermas, La costellazione postnazionale, Feltrinelli, Milano 1999 pag. 20
[2] T. Judt, Guasto è il mondo, Laterza, Bari 2011 pag. 67
[3] R. D. Putnam, Capitale sociale e individualismo, Il Mulino, Bologna 2004 pag. 308
[4] T. Judt, Guasto è il mondo, op. cit. pag. 63
[5] R. Inglehart, La società postmoderna, Editori Riuniti, Roma 1998 pag. 37
[6] M. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997 pag. 40
[7] R. Bodei, La filosofia nel Novecento, Donzelli, Roma 1997 pag. 184
[8] G. Ritzer, La religione dei consumi, Il Mulino, Bologna 2000 pag.206
[9] A. Dal Lago, “L’etica della debolezza” in Il pensiero debole (a cura di G. Vattimo e A.Rovatti), Feltrinelli, Milano 2010 pag. 115
[10] D. Harvey, La crisi della modernità, EST, Milano 1997 pag. 63
[11] R. Dahrendorf, Uscire dall’utopia, il Mulino, Bologna 1971 pag.479
[12] J. F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981 pag. 29
[13] R. Inglehart, La società, op. cit. pag. 323
[14] C. A. Viano, Va’ pensiero, Einaudi, Torino 1985, pag. 18
[15] T. Judt, Guasto, op. cit. pag. 70
[16] E. Hobsbawm, Il secolo brave, Rizzoli, Milano 1995
[17] P. Krugman, Meno tasse per tutti, Garzanti, Milano 2001 pag. 32
[18] D. Harvey, La crisi, op. cit. pag. 148
[19] M. Ferraris, Ricostruire la decostruzione, Bompiani, Milano 2012 pag. 6
[20] M. Fumaroli, Le api e i ragni, Adelphi, Milano 2005 pag. 35
[21] G. Vattimo e A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, op. cit. pag. 9
[22] R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, Laterza, Bari 1989, pag. 32
[23] A. Dal Lago, Eroi di carta, Manifestolibri, Roma 2011
[24] G. Chiurazzi, Il postmoderno, Paravia, Torino 1999 pag.68
[25] U. Eco, “Il realismo minimo”, Alfabeta2 marzo 2012
[26] R. Esposito, “Le parole o le cose”, la Repubblica 15 marzo 2012
[27] T. Judt, Guasto, op. cit. pag. 8
[28] A. O. Hirschman, Felicità privata e felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 1995 pag. 158

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20 ottobre 2012

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