venerdì 24 maggio 2019

Europa: la democrazia dei triloghi


di Giovanna Cracco da rivistapaginauno

La farsa del Parlamento europeo
Ci sono immagini che colgono l’essenza delle cose, e in pochi secondi cristallizzano un momento di verità: le istantanee di un’Aula deserta, quella del Parlamento europeo durante il discorso di Renzi per la chiusura del semestre Ue il 13 gennaio scorso, sono fra queste. L’etica non ufficiale che per un momento fa capolino sul proscenio di quella ufficiale, svelandosi suo malgrado. Come se i 751 parlamentari, consapevoli di non avere alcun peso all’interno dell’Unione europea, si rifiutassero, per una volta (un rigurgito di onesta intellettuale?), di presenziare a una farsa.
La questione Europa-democrazia non è nuova; a sinistra fa parte della storia dei diversi partiti, a destra è stata cavalcata dopo la crisi economica. La cultura politica europea si basa sui concetti di Stato di diritto – l’esistenza di una Carta costituzionale scritta che lo stesso Stato deve rispettare nel proprio agire – e di democrazia – la sovranità appartiene al popolo, che la esercita in modo diretto o indiretto.
Uno dei principi fondamentali dello Stato di diritto è la separazione dei poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario. Dunque, lasciando da parte il campo giudiziario, uno Stato di diritto a regime democratico è caratterizzato da una Costituzione che non può essere violata, da un Parlamento, eletto dal popolo e suo rappresentante, con il potere di emanare le leggi, e da un governo, espressione della maggioranza politica, a cui spetta il compito di governare. (Non ci interessa in questa sede analizzare quanto la sovrastruttura democratica sia effettivamente inattuata in uno Stato di diritto, per motivi economici, sociali, a causa della struttura capitalistica ecc.; prendiamo per buono il principio democratico e ragioniamo su questo.)
La democratizzazione delle istituzioni europee è stato uno dei punti focali del programma politico della sinistra, soprattutto italiana, a partire dagli anni Sessanta quando, abbandonata la prima fase del rifiuto, il Pci si è arreso all’esistenza della Ue e ha cominciato a discutere su come modificarla dall’interno. Questione centrale della lotta politica è diventata trasformare il Parlamento europeo in un organo elettivo, espressione della sovranità popolare.
Il Parlamento nasce infatti come Assemblea comune della Ceca nel 1951, con 78 membri nominati dai governi nazionali con l’approvazione dei rispettivi Parlamenti; nel 1957, con il Trattato di Roma, i membri diventano 142 e nel 1962 il nome muta in Parlamento europeo e si allarga a 198 delegati; solo nel 1976 l’assemblea diviene elettiva, a suffragio universale diretto, e le elezioni del 1979 portano in Europa 410 parlamentari.
Alla fine degli anni Settanta dunque, formalmente, l’obiettivo è raggiunto. Il problema è che nella sostanza, il Parlamento eletto dai cittadini non esercita alcun potere legislativo, il quale resta nelle mani dell’esecutivo, nella fattispecie la Commissione europea (1) e il Consiglio (2): la prima
propone il testo di legge, il secondo lo approva o respinge; il Parlamento ha il solo potere di emettere un parere non vincolante.
Negli anni l’iter legislativo viene modificato, fino al Trattato di Maastricht del 1992 che introduce la ‘codecisione’: Parlamento e Consiglio votano su un piano di parità le proposte di legge della Commissione. La nuova procedura si applica solo in quarantaquattro settori di intervento, e occorre attendere il Trattato di Lisbona (2007) perché i settori siano portati a ottantacinque, in quella che oggi viene definita “procedura legislativa ordinaria”. Ne restano significativamente esclusi ambiti quali le liberalizzazioni di servizi, la concorrenza, le imposte, l’occupazione, in cui il Parlamento è tuttora confinato nell’inutile azione consultiva di un parere non vincolante. In aggiunta, la Commissione è ancora oggi l’unica detentrice del “diritto di iniziativa”: il Parlamento non può proporre una legge, al massimo può chiedere (!) alla Commissione di presentare una sua proposta.
Ottantacinque settori quindi, nei quali attualmente i parlamentari sembrerebbero avere perlomeno voce in capitolo. L’Unione europea si fa forza dell’esistenza di un’Assemblea elettiva: “Il fatto che si tratti di un organo eletto direttamente dai cittadini garantisce la legittimità democratica del diritto europeo” si legge in una delle tante pubblicazioni che mirano ad avvicinare i cittadini alla Ue (3).
Legittimità democratica, dunque. Per verificare quanto essa sia reale, o sia propaganda, occorre a questo punto intraprendere l’irta via delle procedure europee, che paiono scritte con l’intento di far desistere chiunque intenda cimentarsi nel tentativo di comprenderle.
La codecisione prevede tre possibili letture in Aula e un meccanismo di conciliazione tra Commissione, Consiglio e Parlamento, che si apre quando fallisce il passaggio della seconda lettura e mira a trovare un compromesso prima di arrivare alla terza e ultima (per i dettagli della procedura si rimanda alla Figura 1: descriverla a parole è impresa dai contorni kafkiani).

Figura 1. Procedura legislativa ordinaria Unione europea. Fonte: Unione Europea, Codecisione e conciliazione. Guida a come il Parlamento colegifera nel quadro del Trattato di Lisbona, gennaio 2012

Secondo la “Relazione di attività sulla codecisione e la conciliazione” dell’ultima legislatura (2009-2014), redatta dai vicepresidenti competenti per la conciliazione (Gianni Pittella, Alejo Vidal-Quadras e Georgios Papastamkos), “rispetto alle due legislature precedenti (1999-2004 e 2004-2009), il numero di accordi raggiunti nella fase iniziale ha registrato un sensibile aumento […] Per un numero molto elevato di fascicoli (455 [su 488, n.d.a.]) sono stati raggiunti accordi nella fase iniziale (vale a dire in prima lettura o all’inizio della seconda lettura). Questo numero rappresenta il 93% di tutti i fascicoli di codecisione approvati, rispetto al 54% e all’82% rispettivamente durante la quinta e la sesta legislatura. […] solo 9 fascicoli sono stati oggetto di conciliazione, di cui 8 sono stati approvati in terza lettura”.
Il Parlamento europeo quindi, tra il 2009 e il 2014 è riuscito ad approvare il 93% delle proposte di legge tra la prima e la seconda lettura, senza dover arrivare al passaggio ristretto della conciliazione. Parrebbe positivo: l’attività di dibattito, confronto, compromesso tra le varie anime politiche all’interno dell’Assemblea ha prodotto nuova legislazione (non entriamo nel merito delle norme approvate, di stampo neoliberista: ancora una volta sottolineiamo che qui ci interessa analizzare solo l’aspetto ‘democratico’ delle istituzioni europee). In realtà le cose stanno diversamente: la maggiore attività e rapidità legislativa è dovuta all’espansione dei ‘triloghi’.
Procedura informale non prevista in alcun trattato europeo, ma via via istituzionalizzata con il suo inserimento nelle ‘modalità pratiche’ della codecisione e successivamente nel regolamento del Parlamento, i triloghi sono riunioni ad accesso ristretto tra Commissione, Consiglio e Parlamento, a cui partecipano tre gruppi negoziali composti ciascuno da non più di dieci persone: trenta persone in tutto quindi, che a porte chiuse – nessuna trascrizione né relazione ufficiale esce da questi consessi – cercano la quadra di una proposta di legge, spesso già in fase di prima lettura. Trovato il compromesso, 751 parlamentari ricevono le istruzioni di voto, e pigiano il relativo bottone.

Figura 2. Percentuale dei fascicoli di codecisione approvati in prima, inizio seconda e terza lettura nel periodo 2009-2014 per commissione parlamentare; tra parentesi è indicato il numero dei fascicoli approvati dalla commissione durante la legislatura europea. Fonte: Unione europea, Relazione di attività sulla codecisione e la conciliazione, 14 luglio 2009/30 giugno 2014, settima legislatura

Per il quinquennio 2009-2014 la Relazione segnala la messa in piedi di 1.500 triloghi su circa 350 proposte di legge, e arriva a definirli “una caratteristica distintiva della procedura legislativa ordinaria”. Poche righe dopo, la stessa Relazione lancia un allarme: “Dati l’aumento del numero di fascicoli di codecisione adottati nelle fasi iniziali e il parallelo aumento dei negoziati interistituzionali ‘dietro le quinte’, le preoccupazioni circa la trasparenza e il rendiconto del processo legislativo sono continuate sotto la legislatura 2009-2014”.
In chiusura, il testo arriva addirittura a suggerire delle proposte per cercare di rendere i triloghi più “trasparenti”: “Inevitabilmente, i timori circa la trasparenza della procedura di codecisione continuano a essere una delle principali priorità dell’agenda politica […] tra gli esperti della codecisione l’impressione generale è che la procedura sia efficiente ed efficace e in grado di offrire normative importanti e di qualità ai propri cittadini. Tuttavia si riconosce nel contempo che, mentre la trasparenza al 100% dei negoziati non è né possibile, né necessaria [!], si potrebbero prevedere alcune misure concrete per migliorare la trasparenza e la pubblicità dei negoziati e dei fascicoli adottati. Per esempio, alla Conferenza il vicepresidente della Commissione Šefcovic ha proposto che le istituzioni prendano in considerazione la creazione di un registro pubblico sui triloghi che potrebbe essere reso pubblico e contenere, tra l’altro, informazioni sui fascicoli oggetto di negoziato e la composizione delle squadre negoziali e, una volta raggiunto l’accordo su un fascicolo specifico, tutta la relativa documentazione. Si tratta di un’idea sulla quale le istituzioni potrebbero riflettere ulteriormente insieme”.
Dal suggerimento della Relazione si possono trarre alcune considerazioni: non è possibile sapere pubblicamente quali proposte di legge siano oggetto di negoziazione nei triloghi; non è possibile conoscere pubblicamente la composizione dei tre gruppi di lavoro (Commissione, Consiglio, Parlamento) che vi partecipano; tutta la documentazione, come già accennato, è riservata. Infine: è evidente che la parola ‘trasparenza’ è un surrogato del termine ‘democrazia’, la cui assenza non può certo essere evidenziata in una relazione ufficiale; ma per quanto si scelga di usare un linguaggio mediato, la denuncia è forte, se si pensa l’ambito da cui proviene.
Significa che il meccanismo dei triloghi ha raggiunto livelli a tal punto preoccupanti da mettere in allarme la stessa classe dirigente; non tanto per il venir meno del principio democratico – difficile immaginarla affaccendata in simili angustie – quanto per la gestione interna dell’equilibro di potere tra le diverse formazioni politiche, divenuta probabilmente più ardua.
E in effetti, se si entra nel dettaglio delle varie commissioni parlamentari, specializzate nei diversi settori (economico, ambiente, sanità, agricoltura ecc.), si comprende immediatamente l’apprensione manifestata nella Relazione (figure 2 e 3). La commissione per i problemi economici e monetari (ECON), che ha portato il Parlamento ad approvare il 100% delle proposte di legge tra la prima (98%) e la seconda (2%) lettura, ha avuto il più alto numero di triloghi (331, per 54 leggi approvate); la commissione per l’ambiente, la sanita pubblica e la sicurezza alimentare (ENVI) registra il 98% delle proposte legislative approvate tra la prima (84%) e la seconda (14%) lettura, con 172 triloghi su 70 fascicoli di legge; la commissione per le libertà pubbliche, la giustizia e gli affari interni (LIBE) e riuscita a far approvare il 100% delle proposte legislative tra la prima (86%) e la seconda (14%) lettura, con 155 triloghi su 50 fascicoli di legge; e via a seguire (rimandiamo alle tabelle, per una lettura più immediata dei dati).

Figura 3. Percentuale di triloghi per commissione parlamentare durante la settima legislatura europea (2009-2014). Fonte: Unione europea, Relazione di attività sulla codecisione e la conciliazione, 14 luglio 2009/30 giugno 2014 settima legislatura

In sostanza, l’alto numero di triloghi ha portato a una più rapida approvazione delle leggi da parte del Parlamento, attraverso un meccanismo estremamente semplice: la sua esautorazione.
La trasformazione dei parlamentari in utili idioti – non se ne abbiano a male, ma a questa stregua non si sa che altro ruolo attribuirgli, non certo quello di legislatori – che votano a comando.
Stato di diritto, dunque, si diceva, separazione dei poteri, e democrazia. Possiamo considerare i trattati istitutivi dell’Unione come la sua Carta costituzionale, e i triloghi non sono contemplati all’interno della procedura legislativa di codecisione – l’Unione non è dunque uno Stato di diritto. Commissione e Consiglio sono organi esecutivi, eppure detengono anche il potere legislativo – l’Unione quindi non rispetta la separazione dei poteri. Il Parlamento è l’istituzione espressione della sovranità popolare, ma non ha il diritto di iniziativa legislativa ed è di fatto estromesso dall’esercizio del proprio potere – l’Unione quindi non è democratica. Si ribatterà che la Ue, come tipologia di istituzione, non è uno Stato, e questo è certo: nasce come un insieme di trattati economici di impostazione liberista, e tuttora non è nulla più di questo (4). Niente quindi le impone di rispettare principi come Stato di diritto, separazione dei poteri, democrazia. Soprattutto nel momento in cui quest’ultima, per il pensiero neoliberista, è un ostacolo. Ma a questo punto il quesito fondamentale è: per quanto tempo ancora i cittadini europei accetteranno di essere rimbecilliti dalla propaganda?
 


1) Organo esecutivo in cui siede un rappresentante per ogni Stato membro dell’Unione, designato dal presidente della Commissione in accordo con i governi dei diversi Paesi; il Parlamento europeo deve approvare l’elezione del Presidente – il cui nome, per la prima volta nelle elezioni del 2014, è stato preventivamente indicato nella scheda elettorale accanto al
simbolo dei diversi partiti politici – e dei 27 commissari. Attualmente il presidente è Jean-Claude Juncker, e il commissario italiano è Federica Mogherini
2) Composto da un ministro per ogni Paese, competente per il tema trattato (trasporti, giustizia, ambiente, affari economici ecc.
3) Come funziona l’Unione europea. Guida del cittadino alle istituzioni dell’Ue, Pubblicazioni dell’Unione europea, 2013
4) Cfr. Giovanna Cracco, L’Europa vista da sinistra, Paginauno n. 39/2014


sabato 4 maggio 2019

Euro: una questione di classe

di Thomas Fazi
 
[Ringraziando Stefano Tancredi, Robin Piazzo e Domenico Cerabona Ferrari per il bell'incontro di ieri a Settimo Torinese, riporto il testo del mio intervento, in cui rispondevo alla seguente domanda: «Un singolo Stato può “reggere” dal punto di vista economico l’uscita dalla realtà economica neoliberista dell’UE? Se “no” perché? È più opportuno un processo di riforme economiche nel contesto europeo? Come rapportarsi ai vincoli economici imposti dall’UE? Se si può “reggere” questa uscita come? Quali strategie adottare? Si deve ritornare alla propria moneta? È possibile un’alleanza economica con altri Stati dalla struttura economica più simile alla nostra?»].
La prima cosa da dire è che c’è poco da scegliere. O meglio, la scelta non è se uscire dall’UE o se riformare l’UE, per il semplice fatto che quest’ultima opzione non è praticabile.
L’UE è strutturata in maniera tale da non essere riformabile, perlomeno non nel senso che auspicano gli integrazionisti di sinistra, cioè nella direzione di una riforma dell’UE in senso democratico e progressivo/sociale, men che meno nella direzione di un vero e proprio Stato federale sul modello degli Stati Uniti o dell’Australia.
Come disse il compianto Luciano Gallino poco prima di morire: «Nessuna realistica modifica dell’euro sarà possibile», in quanto esso è stato progettato «quale camicia di forza volta a impedire ogni politica sociale progressista, e le camicie di forza, vista la funzione per cui sono state create, non accettano modifiche “democratiche”».
Basti pensare che per “riformare i trattati” è necessaria l’unanimità di tutti e 28 gli Stati membri dell’UE. In altre parole, sarebbe necessario che in tutti e 28 i paesi dell’UE salissero al potere dei governi progressisti che condividono le stesse prospettive di riforma “di sinistra” dell’euro. Ora, non bisogna essere particolarmente pessimisti per capire perché questo non accadrà mai.
E non accadrà mai innanzitutto perché le condizioni economiche, politiche, sociali, ecc. che si registrano nei diversi Stati sono estremamente eterogenee: ci sono paesi che registrano tassi di disoccupazione estremamente bassi (come la Germania) e paesi come il nostro che registrano tassi di disoccupazione altissimi; ci sono paesi che crescono e paesi che non crescono, ecc.
E la ragione non è che ci sono paesi virtuosi e paesi che non virtuosi, come vorrebbe la narrazione dominante: la ragione è che l’architettura dell’eurozona va bene per alcuni paesi – nella fattispecie i paesi che hanno storicamente una forte propensione all’export: vedi appunto la Germania – e non va bene per altri, come il nostro, che invece storicamente sono molto più dipendenti dalla domanda interna.
Detta in altre parole: gli interessi di noi italiani – e in particolare gli interessi dei lavoratori italiani – non sono gli stessi interessi dei lavoratori tedeschi. Questa è la realtà dei fatti: hai voglia a parlare di “internazionalismo”, come insiste a fare la sinistra europeista.
Come scrive Fritz Scharpf, ex direttore del Max-Planck-Institute: «L’impatto economico dell’attuale regime dell’euro è fondamentalmente asimmetrico. È modellato sulle precondizioni strutturali e sugli interessi economici dei paesi del nord, mentre è in conflitto con le condizioni strutturali delle economie dei paesi del sud, che si vedono così condannati a lunghi periodi di declino, stagnazione o bassa crescita».
Ma questa non è una peculiarità dell’eurozona. Questo è tipico di tutte le unioni monetarie ed economiche: poiché i paesi, come è normale che siano, hanno diverse strutture economiche – ma non solo: hanno pratiche sociali, istituzionali, ecc. diverse –, l’unione monetaria o economica finisce sempre per privilegiare un certo modello – di solito quello dei paesi dominanti: nel nostro caso la Germania – a scapito di altri.
Questo succede anche all’interno degli Stati nazionali: basti pensare agli squilibri che si registrano in Italia tra regioni del nord e regioni del sud. La differenza fondamentale è che negli Stati nazionali – cioè nelle federazioni compiute – questi squilibri sono compensati da trasferimenti perequativi (fiscali e di altro tipo) da parte delle regioni più ricche e da parte dello Stato centrale.
Che è esattamente quello che non c’è – e non ci sarà, almeno non nel futuro prossimo – in Europa. È assolutamente impensabile, infatti, che nel breve-medio termine la Germania accetti un sistema di trasferimenti fiscali permanenti nei confronti degli Stati più poveri della periferia. Chiunque conosce un minimo la Germania ed il dibattito tedesco sa che è così.
E non perché la Germania sia “cattiva”, ma perché non sussistono – non sono mai sussistite e non sussisteranno nel futuro prossimo – le condizioni per una reale statualità europea: per la trasformazione cioè dell’UE in uno Stato democratico sovranazionale. E la ragione di fondo, a prescindere delle questioni più aritmetiche di cui parlavo prima, è che la democrazia – come si evince dal termine stesso – si fonda necessariamente su un demos sottostante: cioè su una comunità politica – che solitamente si contraddistingue per un linguaggio, una cultura, una storia, un sistema normativo comuni e relativamente omogenei, ecc. – i cui membri si sentono sufficientemente uniti non solo da sottostare a un processo democratico e dunque da accettare la legittimità del volere della maggioranza, ma anche e soprattutto da accettare di impegnarsi in prassi solidaristiche quali appunti le politiche redistributive tra classi e/o regione.
In una parola, senza demos non può esistere democrazia, men che meno una democrazia sociale, cioè solidaristica. E oggi, checché ne dicano i federalisti, un demos europeo semplicemente non esiste: non solo parliamo lingue diverse, ma abbiamo prassi sociali, culturali, ecc. molto diversi.
Dunque oggi – come ieri – la democrazia è possibile solo al livello nazionale perché solo il livello nazionale storicamente è stato in grado di creare le condizioni per l’emergere di un demos. Questo non vuol dire che non possa emergere in futuro un demos europeo, ma proprio la storia della formazione degli Stati nazionali ci insegna che questi sono processi molto lunghi e complessi che richiedono secoli – e da noi il processo è a malapena iniziato.
E questo alcuni dei primi teorizzatori dell’UE – come per esempio Hayek, uno dei padri del neoliberismo – lo sapevano benissimo e anzi ne auspicavano la creazione proprio per questo motivo, cioè proprio perché sapevano che la diversità di interessi presenti all’interno dell’unione avrebbe reso impossibile il tipo di intervento pubblico nell’economia e di politiche redistributive (che osteggiavano) che invece sono possibili all’interno dello Stato nazionale, che presenta una maggiore omogeneità interna.
Dunque, per ricollegarmi a quello che dicevo all’inizio, non si tratta di scegliere tra riformare l’UE o uscire dall’UE. Si tratta di scegliere tra rimanere nell’UE a grandi linee così com’è ora – con tutto quello che comporta in termini non solo di costi economici e sociali ma anche in termini di una ormai sempre più evidente sospensione della democrazia – o uscire dal sistema (in particolare dall’euro ma a mio avviso anche dalla stessa UE) e recuperare quel minimo di autonomia economica e politica – e dunque di democrazia – necessaria per poter tornare a immaginare un futuro diverso dal presente. Cioè per rimettere in moto le lancette della storia. Questa è la scelta che abbiamo di fronte. Tertium non datur.
E anche qua io sono d’accordo sempre con Luciano Gallino, che poco prima di morire era giunto alla conclusione che «il costo economico, politico e sociale delle sovranità perdute a causa dell’euro supera il costo di uscirne». E se guardiamo a quanto ammonta quel conto, è difficile dargli torto.
Ora, per quanto riguarda la possibilità o meno di uno Stato di “sopravvivere” fuori dall’UE, bisogna distinguere tra due livelli: il primo è l’impatto che avrebbe l’uscita nel breve termine; il secondo è la possibilità o meno per uno Stato di sopravvivere nel “mare magnum della globalizzazione” – secondo un’accezione diffusa – fuori dall’UE.
Per quanto riguarda l’impatto di breve termine, è ovvio che ci sarebbe un costo. Ma è anche chiaro a mio avviso che la cosa sarebbe gestibile a livello tecnico. Senza entrare nei dettagli, ricordiamoci che la storia è piena di unioni monetarie che si sono disfatte (basti pensare all’Unione Sovietica, alla Jugoslavia o all’unione monetaria cecoslovacca) così come di paesi che hanno abbandonato unilateralmente delle unioni monetarie (per esempio diversi paesi africani nel corso degli anni hanno abbandonato il franco CFA, l’unione monetaria imposta dalla Francia alle sue ex colonie). E spesso l’hanno fatto in condizioni molto più deboli e tecnologicamente arretrate di quanto non lo sia l’Italia oggi.
Basti pensare al fatto che la stragrande maggioranza delle transazioni e del “denaro” circolante oggi sono digitali; dunque, non ci sarebbe bisogno di stampare e di distribuire alle banche vagonate di banconote da un giorno all’altro, ma in un primo tempo si potrebbe introdurre una nuova valuta a livello digitale. Dunque la cosa è tecnicamente fattibile, anche se ovviamente ci sarebbero dei costi, alcuni dei quali non sono quantificabili perché dipendono da fattori esogeni che sono al di fuori del controllo del paese uscente.
E poi c’è un altro punto: in politica raramente ci sono scelte che beneficiano tutti indistintamente. Ogni decisione politica ed economica tende ad avere degli effetti redistributivi che vanno a beneficio di alcune classi e a scapito di altre classi. Dunque la domanda che ognuno dovrebbe porsi non è se sia nell’interesse “dell’Italia” o meno uscire dall’euro, ma se sia nell’interesse mio in quanto lavoratore precario, in quanto disoccupato, in quanto persona che fatica arrivare a fine mese, in quanto classe lavoratrice, recuperare quelle leve economiche necessarie per rilanciare gli investimenti, la produzione e l’occupazione. Diverso è il discorso, per esempio, se avete un bel gruzzolo di risparmi in banca o se possedete titoli di Stato italiani. In quel caso sicuramente subireste una perdita netta.
Dunque è importare adottare una prospettiva di classe in queste cose. Così come l’euro non ha fatto male a tutti – e anzi c’è chi ci ha guadagnato molto: in particolare le classi parassitiche, i rentier, ma anche i grandi capitalisti –, allo stesso modo uscire dall’euro non farebbe male a tutti e non beneficerebbe tutti.
Dunque la prima domanda che uno dovrebbe porsi è: «A qualche classe appartengo io?». E sulla base di quello valutare l’auspicabilità o meno di un’uscita.
Questo per quanto riguarda l’impatto di breve. Per quanto riguarda invece l’idea stessa che un paese non possa sopravvivere fuori dall’UE, mi pare che qui si tracimi nel campo della pura ideologia: basta infatti guardarsi intorno per vedere centinaia di paesi – di ogni tipo: grandi, piccoli, medi, sviluppati, emergenti, democratici, autoritari, ecc. – che se la cavano benissimo fuori dall’UE e anzi in molti casi se la cavano molto meglio dei paesi dell’eurozona.
Per limitarci all’Europa, non mi pare che l’Islanda, la Norvegia, la Svezia, la Svizzera, ecc. siano in preda a carestie, more, invasioni di cavallette e altre piaghe di questo tipo; anzi, come sappiamo bene, sono tutti paesi che in media se la passano meglio dei paesi dell’eurozona.
Dunque l’idea che l’Italia – una delle prime dieci economie al mondo – non potrebbe “farcela” fuori dall’UE è un’affermazione semplicemente ridicola. Il problema semmai è psicologico: anni e anni di autoflagellazione – spesso e volentieri fomentata ad arte – ci hanno convinto di non essere in grado di autogovernarci, di avere bisogno del “vincolo esterno” dell’Europa per non sprofondare nella barbarie, ecc.
Ma si tratta, appunto, di un problema psicologico. Basti pensare che prima di Maastricht – dunque di prima di aderire all’UE – l’Italia se la passava molto meglio di oggi. Dunque, a meno di non pensare che in questi trent’anni sia avvenuta una trasformazione antropologica tale da averci reso dei minus habens, è evidente che il problema è perlopiù di natura psicologica. Abbiamo tutte le capacità tecniche, intellettuali, morali per ricostruire il paese. Dobbiamo solo convincercene.
Più in generale, comunque, è del tutto fallace l’idea che oggi staremmo assistendo al declino – se non addirittura alla morte – degli Stati-nazione. Semmai è vero l’esatto contrario.
E a proposito dell’argomentazione per cui l’Italia avrebbe bisogno dell’UE per non essere “schiacciata” dai nuovi giganti dell’economia mondiale come la Cina, vi invito a leggere ciò che scriveva il Financial Times qualche settimana fa: che se oggi tutti i paesi europei – inclusa l’Italia – spalancano le porte agli investimenti cinesi è perché l’Europa non investe: non investono gli Stati, in virtù degli assurdi vincoli di bilancio europei, ma non investono neanche le istituzioni dell’UE.
Dunque, l’Europa, lungi dal proteggerci da questi potenze, ci espone alla loro mercé. Sentite per esempio cosa dice Alberto Bradanini, ambasciatore a pechino tra il 2013 e il 2015, quindi non esattamente un radicale: «L’Italia potrà qualche beneficio da un’interlocuzione con la Cina se, dopo aver recuperato la propria sovranità monetaria, saprà avviare una politica economica degna di questo nome, riavviando il tessuto industriale ridottosi del 20 per cento nell’ultimo decennio e investendo massicciamente su innovazione e ricerca. In assenza di ciò, l’Italia è destinata a raccogliere solo poche briciole dal dialogo con la Cina, sia in seno che al di fuori del progetto Belt and Road».
Chiaro? Dunque, per concludere, non solo l’Italia può farcela fuori dall’euro, ma, come dice Bradanini, può farcela *solo* fuori dall’euro.

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...