mercoledì 29 dicembre 2010

Manganellatori democratici 2. Appello ai poliziotti

di Franco Cilli

Una volta vi consideravo nemici, voi poliziotti, il braccio armato del potere della borghesia a difesa di interessi di classe. Non mi inteneriva il discorso di Pasolini sui figli del popolo, né mi piaceva il suo disprezzo nei riguardi degli studenti borghesi del '68. Ero convinto che fare il poliziotto significasse comunque una scelta di campo, la quale, sia che fosse consapevole o meno, ti collocava “oggettivamente” dalla parte sbagliata della barricata, quella dei ricchi oppressori. Eppoi i poliziotti come direbbe qualcuno oggi, mi sembravano tutti “psicologicamente tarati”, vittime di una psiche malata e di una personalità lacunosa, perché mai altrimenti avrebbero scelto di indossare una divisa e portare armi?
Oggi, per dirla alla maniera di un mio amico americano, vi considero in certi momenti “a pain in the ass”, un fastidio da evitare durante le manifestazioni, così come si evita un terreno sdrucciolevole che può farti sbandare e uscire fuori strada. Oggi rifuggo dalla sociologia spicciola e dalle facili interpretazioni psicodinamiche. Semplicemente non mi interessano. Riconosco che in Italia c'è un problema di legalità, che travalica il senso della propria biografia personale e della propria identità politica, e riconosco che voi siete degli attori importanti in questo scenario fosco, dominato dalle mafie e dalla politica loro serva. Sono altresì consapevole che il nemico non siete voi, bensì un potere che cambia faccia, ma ha sempre l'aspetto vorace e sornione di chi si ingrassa a spese altrui. Non voglio cadere nella retorica e non sprecherò parole di commozione per le vostre fatiche di uomini perennemente a contatto con le miserie del mondo, voglio dire però che ho un debole per gli eroi e per questo motivo ammiro, seppur sommessamente, molti di voi che si comportano come eroici servitori dello stato a prezzo della loro pelle. Tutto questo però non può essere un alibi per giustificare il comportamento acritico di coloro che fra i poliziotti si comportano come robocop impazziti a causa di un microchip andato a male. Siete pur sempre un soggetto sociale e oserei dire anche politico e come tale avete l'obbligo di pensare e agire da esseri umani e non da marionette impazzite. Da un bel po' di tempo non siete più un corpo militare, vincolato ad un falso senso dell'onore e a regole assolute. Non potete trincerarvi dietro la scusa del “eseguiamo solo ordini”. Malmenare gli studenti, gli operai di Pomigliano e adesso i pastori sardi o chiunque disturbi la quiete del ducetto di Arcore è una responsabilità umana, civile e politica e vi rende strumenti passivi nelle mani di un potere che si fa sempre più pericoloso e violento. La soluzione autoritaria alla crisi di un modello sociale e politico e una vecchia ricetta, ma sempre attuale, i guizzi rabbiosi e prepotenti di un regime in piena incubazione, sono un segnale evidente. Quelle di Gasparri non sono boutade, ma sono la preparazione di un terreno di svolta in senso autoritario. Questi signori non hanno altra scelta del resto. Come considerare diversamente gli esiti politici di un'alleanza fra un partito nazistoide come la lega e una formazione politica che ha così forti legami con la mafia e apparati “deviati” dello stato?
Mi appello ai poliziotti democratici se questa parola ha un senso: avete delle rappresentanze sindacali, usatele per esprimere un vostro parere sulla repressione sociale e non solo per fare le vostre rivendicazioni di categorie. Bonificate tutti i focolai di fascismo all'interno dei vostri corpi, specialmente quelli più operativi: costringere qualcuno a cantare faccetta nera sotto la minaccia di sprangate in testa non è cosa civile. Richiedete un addestramento migliore, non è concepibile che vi si dia la licenza di portare un'arma dopo aver scaricato un solo caricatore su un bersaglio di cartone, senza nemmeno essere stati addestrati a gestire il conflitto e la paura, o semplicemente senza che sia stato instillato in voi il senso del servire la comunità. Smettetela col vostro spirito di corpo e non credete a La Russa, picchiare gli studenti non è una questione di par condicio. Avete il dovere di essere superiori allo spirito di vendetta e di sopraffazione.

sabato 25 dicembre 2010

Basaglia non basta

postato su doppiocieco il 7 Febbraio 2010




Voglio dirlo con franchezza: stimo molto Basaglia, persona che per me è stata e continua a essere un punto di riferimento essenziale per la chiarezza del suo ragionamento e per la fattività del suo agire. La grandezza dell'uomo risiede principalmente nella sua capacità di interpretare con incredibile senso dei tempi il periodo storico in cui è vissuto, utilizzando quella “cassetta degli attrezzi” che la tecnologia sociale e le conoscenze scientifiche del tempo gli fornivano. Con altrettanta chiarezza devo però dire che non mi appassiona per nulla l’evocazione retorica di buoni sentimenti di stampo deamicisiano costruita attorno alla sua figura, e nemmeno la stucchevole rievocazione delle azioni di eroi muti e solitari contro il potere.

Trovo questo miscuglio grottesco di narrativa del cuore e manifesto politico, alquanto irritante, una roba utile a riprodurre dicotomie visionarie, buone a scaldare gli animi di chi ha bisogno di storie di oppressi e oppressori con l’immancabile lieto fine.
Si ignora o si finge di ignorare la complessità di un fenomeno che non può essere scorporato dai suoi aspetti biologici e psicologici e soprattutto da una seria analisi scientifica. Si ignorano altresì gli aspetti politici.
I manicomi andavano chiusi, erano un’aberrazione umana e un controsenso scientifico come lo stesso Basaglia sosteneva, e andavano sostituiti con strutture più idonee a soddisfare i bisogni di una società aperta, attenta e ai diritti delle persone, alla loro dignità e al loro benessere. Se gli strumenti adottati per rimpiazzare i manicomi e soprattutto la cultura che li sorreggeva, si sono rivelati inadatti e insufficienti, la colpa non può essere attribuita solo alla pigrizia intellettuale o alla perseverazione nell’uso di “cassette degli attrezzi” ancora pieni della ruggine manicomiale, ma al rifiuto per anni, di considerare la psichiatria in una visione unitaria, che oltre ad accogliere istanze sociali rispecchiasse un’organizzazione confacente alle sue diverse competenze e attitudini. Tutto ciò ha spesso determinato false dicotomie, come quelle fra psichiatria biologica e sociale, come se la malattia avesse una sola dimensione.
Le malattie psichiatriche hanno peculiarità che non sono paragonabili a quelle di altre malattie, per le loro conseguenze sociali e i loro risvolti psicologici, ma vanno tuttavia considerate in ambito unitario, pena la delega al sociale e a narrative consolatorie e intimistiche di tutto il carico di una sofferenza che non può essere affrontata con la retorica della partecipazione attiva delle comunità (sebbene indispensabile) o della dedizione di medici e operatori.
Questo discorso non vuole gli ignorare gli spetti restrittivi, coercitivi ed anche violenti della psichiatria, ma bisogna sgombrare il campo dalla retorica e dall’ideologia. La contenzione, per dirla in parole povere, il legare il paziente a letto, è una cosa obbrobriosa,...ma dobbiamo ragionare anche dell’aspetto terapeutico della contenzione, altrimenti sembrerà un arbitrio senza senso e una violenza gratuita. La contenzione è considerata una misura terapeutica ed esiste una gradualità basata sulla gravità dello stato di agitazione del malato, con cui va applicata. In altre parole la contenzione non è diversa concettualmente dal fare un’iniezione in caso di agitazione (quella che una volta veniva definita "camicia chimica"), sebbene si diversifichi enormemente da questa nei suoi aspetti simbolici. Non dimentichiamoci che la legge 180 di Basaglia, poi confluita nella legge 833 contemplava un aspetto fortemente coercitivo come il TSO. Se però consideriamo il contesto storico in cui è stato proposto ci accorgiamo che lo stesso costituiva un notevole avanzamento rispetto alla legislazione del tempo e che la sua filosofia ispiratrice era quella di consentire la cura anche di coloro temporaneamente non in grado di decidere per sé.
Il problema vero è come eliminare gli aspetti coercitivi della psichiatra, tenendo conto dell’impianto fragile su cui poggia la maggior parte della psichiatria italiana, dove la coercizione assume spesso un ruolo di supplenza a carenze organizzative, di formazione del personale e insufficienza di mezzi. 
Parlando di coercizione, per scendere nel concreto, allo stato attuale dei fatti è praticamente impossibile non tenere chiuse le porte di un SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura), perché malgrado i pazienti volontari usufruiscano del diritto di qualsiasi altro paziente ricoverato, compreso quello di uscire dal reparto, sappiamo benissimo che molti dei pazienti volontari di un reparto psichiatrico non sono affatto autonomi a causa del loro stato di angoscia e di dissociazione. La responsabilità dell’allontanamento di questi pazienti dall’Ospedale, con i rischi connessi al loro stato, ricadrebbe inevitabilmente su medici e infermieri, che ne dovrebbero rispondere alle autorità giudiziarie (malgrado l’assenza di qualsiasi reato) e soprattutto ai familiari dei pazienti, spesso molto poco comprensivi riguardo a presunte disattenzioni del personale di cura, quegli stessi familiari che magari in altri contesti si battono per maggiori diritti dei pazienti psichiatrici.
Gli operatori psichiatrici, eccezioni a parte, non sono un branco di aguzzini, ma subiscono anch’essi le contraddizioni di un sistema  in teoria valido, ma ormai cristallizzato in logiche che appaiono lontane dalla dimensione privata dei pazienti. Lo psichiatra si trova inevitabilmente fra incudine e martello, dovendo farsi carico di bilanciare gli aspetti coercitivi con quelli della tutela e del rispetto dell’individuo, sapendo che comunque agirà sarà esposta a critiche da un fronte o dall’altro.
Un Dipartimento Psichiatrico si definisce come un insieme di strutture semplici e complesse che in teoria dovrebbero agire in modo sinergico, allo scopo di affrontare la malattia mediante un approccio multidimesionale, dipendente dallo stato della malattia stessa e dalla sua complessità. La realtà dei fatti è che in molti casi gli organismi dei Dipartimenti assumono la forma di un fortino assediato, esposto all'assalto di nuovi conquistatori sul versante esterno e minato sul fronte interno da lotte intestine per il potere. Il rischio è che il malato e la sua sofferenza, contino ben poco. 
Tutta la medicina, psichiatria compresa è una enclosure recintata dalla politica e soggiace alle sue logiche lottizzatorie. È la realtà di tutte le istituzioni pubbliche italiane. Uno spazio di progettualità autonoma, separata dalle logiche della politica e centrata sui bisogni reali delle persone, è una rarissima eccezione. Le cose che si fanno nella pratica quotidiana sono spesso un fare per il fare il fare, buono per le manifestazioni pubbliche, dove ci si profonde in una retorica struggente con discorsi ricolmi di commozione (e di autoincensamento), magari dopo l’ennesima recita teatrale dei matti del proprio piccolo feudo o della mostra dei loro quadri.
Per essere chiari ed evitare possibili (nuove) denunce a questo blog, dirò che il mio discorso è assolutamente astratto e prescinde da realtà particolari.
La riabilitazione è una scienza "morbida" forse, ma non per questo meno seria. In alcuni servizi viene fatta seriamente e con impegno, in altri, chiamano riabilitazione è un misto di intrattenimento e buona volontà condite con pratiche ardimentose come la pet therapy, il torneo di calcetto, l'ippoterapia e la montagnaterapia. Il tutto in maniera totalmente indipendente da qualsiasi progetto individualizzato. I pazienti, a volte entusiasti  a volte annoiati, molto spesso sembrano un gruppo di vacanzieri da villaggi vacanze.
C’è poi alla fine il capitolo sulla terapia farmacologica e sulle terapie somatiche. I farmaci servono? L’ECT e magari la TMS* servono o sono pratiche disumanizzanti? È un argomento che ho già affrontato in un precedente post e non credo sia il caso di ripetermi. Quello che vorrei fosse chiaro è che è indispensabile liberare la psichiatria dal morbo della politica e permettere un discorso serio sul suo ruolo e sui suoi approcci alla malattia in una visione unitaria.
Gli SPDC rappresentano a mio avviso una concezione da superare, sono l'esatta rappresentazione terrena dell'eterno conflitto fra libertà e necessità: necessità di cura e libertà di sottrarsi all'istituzione come dispositivo di controllo "biopolitico". Si può forse immaginare in alternativa all'SPDC una comunità aperta che accolga i malati in fase di acuzie, ma non si può ignorare la componente biologica della malattia e la necessità in taluni casi dell’approccio medico e farmacologico, e al momento l'SPDC appare l'unica soluzione praticabile. La coercizione si può evitare, ma chi glielo dice al manager della ASL che occorrerebbe il quadruplo del personale?
Riguardo poi al reinserimento in ambito sociale ed al recupero delle abilità perdute a causa della malattia, si può e si devono ampliare le risorse per la riabilitazione, ma lo si deve fare seguendo metodologie rigorose, senza lasciare spazio all’improvvisazione e soprattutto curando la formazione del personale.
Si può fare tutto questo senza ignorare che alcune malattie abbisognano di approcci che richiedono competenze diverse, dalla semplice empatia all'uso di presidi strumentali e farmacologici La depressione richiede cure adeguate, farmacologiche e psicoterapiche, auspicandis di non cadere nelle mani del lacaniano o del fagiolino di turno. Taluni sindromi neurologiche o mediche si manifestano con sintomi psichiatrici. Occorrono competenza clinica e capacità di diagnosi differenziale. Occorre infine dare spazio anche alla ricerca di laboratorio e all’epidemiologia per mettere a punto nuovi e più efficaci strumenti di cura. Quando parlo di visione unitaria in definitiva, mi riferisco a un contesto dove sia possibile mettere insieme competenze diverse in una visione laica e rispettosa della scienza.
Non ho affrontato il capitolo costi, ma è ovvio che un “progetto dedicato” per ogni singolo paziente ha dei costi elevatissimi. Se si vuole davvero evitare che l'ospedalizzazioni sia l'unica scelta occorrono investimenti ingenti. Se vogliamo evitare che gli aspetti coercitivi svolgano un ruolo di supplenza, occorre personale preparato e motivato, con un rapporto operatore/paziente di almeno 1 a 1. Laddove si riesca a stabilire una relazione centrata sui bisogni individuali, anche la coercizione, alla volte inevitabile, può assumere un senso.
Mi rendo conto che in poche righe sto cercando di comprimere una realtà difficile da afferrare nella sua interezza, ma è necessario che tutti noi facciamo uno sforzo di comprensione per non lasciare fuori aspetti della psichiatria niente affatto secondari. Il rischio è che sull’onda dell’emotività si privilegi l’aspetto della libertà in modo astratto, senza fare nulla di diverso per liberare realmente il malato psichiatrico dalla sua sofferenza.
Basaglia forse aveva ragione. È inutile interrogarsi sulle cause (spesso inconoscibili) delle malattie psichiatriche, quando abbiamo davanti agli occhi una sofferenza che non può essere curata indossando un camice, ma restituendo rispetto e dignità alle persone. Tuttavia sappiamo benissimo che molte delle persone che vivevano dei manicomi avevano perso anche la capacità di essere liberi e non è bastato aprire le sbarre per restituire loro dignità. 
I manicomi di oggi sono meno visibili e più subdoli, ma non meno rovinosi. Per fare in modo che siano aboliti del tutto dobbiamo aprirci anche a ciò che è apparentemente inconoscibile.   

*La Stimolazione magnetica transcranica (TMS) è una tecnica non invasiva di stimolazione elettromagnetica del tessuto cerebrale. Mediante questa tecnica, è possibile studiare il funzionamento dei circuiti e delle connessioni neuronali all'interno del cervello, provocando uno squilibrio piuttosto ridotto e transitorio. È possibile adottare anche questa tecnica in modo ripetuto, ciclicamente, per trattare disturbi psichiatrici e neurologici quali la depressione, le allucinazioni, il morbo di Parkinson etc.; gli studi su questi presunti effetti terapeutici sono stati tuttavia condotti, finora, sono su scala ridotta ed hanno dato risultati contrastanti

mercoledì 22 dicembre 2010

Antipsichiatria


L’antipsichiatria è un’ideologia come tante altre e non è dissimile da quelle ideologie e sistemi di pensiero che l’hanno generata.
Suonerà strano che un blog che dichiara la sua appartenenza all’area della cosiddetta sinistra, prenda di mira l’antipsichiatria, visto che “l’antipsichiatria” è stata sempre identificata con l’essere alternativi al sistema dominante. Questo blog, d’altro canto, vuole andare al di là dei luoghi comuni che vedono la cultura antagonista fatalmente legata a ideologie e ciarlatanerie varie. Ci interessa in altre parole snidare quelle forme di irrazionalità che rappresentano, purtroppo da tempo, il marchio di fabbrica di una certa sinistra, costringendola dentro la morsa di automatismi beceri e controproducenti, i quali hanno ben poco di alternativo.

L’antipsichiatria è un’ideologia che paradossalmente adopera le stesse armi che la propaganda di regime utilizza quando vuole screditare un gruppo politico o un orientamento di pensiero: prendono alcuni casi singoli, con evidenti connotazioni tragiche, vittime innocenti e inconsapevoli della crudeltà psichiatrica, e generalizzano a più non posso, dimostrando che la psichiatria fa solo del male: contemporaneamente affermano aprioristicamente che la psichiatria non ha alcuna base scientifica e il gioco è fatto.

In primo luogo, mettere in risalto gli aspetti negativi di qualsiasi disciplina è tanto facile quanto scorretto: se volessi dimostrare che la chirurgia fa solo del male potrei presentare milioni di casi di persone danneggiate o uccise dalla chirurgia, aggiungendo statistiche perlomeno azzardate, che dimostrano che se nessuno al mondo venisse operato alla fine il saldo fra quelli che si giovano della chirurgia e quelli che ne sono vittime sarebbe senz’altro a sfavore della chirurgia (un po’ difficile, per la verità, ma mai sottovalutare la propaganda).


In secondo luogo, dire, come fanno alcuni, che la psichiatria non ha basi scientifiche non significa nulla, specie se comprovato dal fatto che gli psichiatri intervistati si rifiutano di rispondere alla domanda: “Qual è secondo lei la base scientifica della psichiatria?”
Provate a pensare se una simile domanda fosse stata posta a freddo, che so, a dei cardiologi: cosa avrebbero risposto i malcapitati? Probabilmente avrebbero balbettato o avrebbero citato a memoria un manuale di cardiologia. Non c’è alcuna “base scientifica” di nessuna disciplina, se considerata in astratto, nemmeno nella fisica. Esistono teorie, ipotesi, leggi che costituiscono l’armamentario di tutte le scienze, e tali leggi, ipotesi e teorie sono utilizzate come strumenti per raggiungere degli obiettivi di ricerca. Esistono inoltre ipotesi di lavoro concernenti un particolare ambito, come può essere ad esempio l’ipotesi di alcuni deficit cognitivi specifici nella schizofrenia o particolari conformazioni anatomiche esaminate alla RNM tipiche di quest’ultima, ma è assurdo pretendere che ogni “disciplina medica” abbia una base scientifica propria, e men che meno, allo stato attuale della conoscenza scientifica,  che ciascuna malattia abbia una spiegazione chiaramente dimostrata in termini eziopatogenetici. Provate a dire, che siccome non esiste una dimostrazione “basata scientificamente” dell’ipertensione arteriosa essenziale - nessuno ne conosce la causa ed è per questo che si definisce essenziale - allora la terpia antiipertensiva non ha senso e di conseguenza nemmeno una buona fetta della Medicina Interna ha senso.
Sarebbe assurdo e causerebbe milioni di morti. Alle volte la cura delle malattie consiste nell'aggredirne i sintomi, nell'attesa che nuove scoperte  aprano nuovi orizzonti terapeutici. Allo stesso modo non si può pretendere che la schizofrenia abbia un’eziologia chiara e inequivocabile: per poter essere definita è sufficiente che determinate manifestazioni di essa, o se preferite sintomi, rientrino in un contesto che definiremmo patologico. Direi forse che dovremmo trovare un’intesa su cosa definire patologico e cosa no, inoltre dovremmo stabilire cosa rientra in un normale pattern di diversità fra gli individui, ma credo che non ci sia dubbio alcuno sul fatto che sofferenze atroci dovuti a deliri e allucinazioni e l’elevato grado di disabilità che ne consegue non possano non essere definiti eventi patologici. Il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder) serve proprio a questo: tramite il metodo deduttivo si stabilisce se il comportamento di un paziente sia inseribile in un quadro sindromico statisticamente rilevante, a prescindere dal substrato culturale dell'esaminatore.

Chi vorrebbe che la psichiatria sparisse dalla circolazione, dovrebbe dirci in primo luogo cosa intende fare con persone che in ragione del loro “diverso modo di stare la mondo” soffrono pene inaudite, come quegli schizofrenici che si sentono costantemente perseguitati da entità aliene o dalle copie dei loro familiari che altro non sono che malvage entità che tramano contro di loro. Che fare poi di quegli  psicotici che si sentono manovrati a distanza da persecutori ignoti, o addirittura violentati sessualmente da personaggi invisibili? E di quei maniacali che sfrecciano a 300 all’ora con le  loro automobili, mettendo a repentaglio la propria vita e quella altrui, per rincorrere missioni impossibili o per parlare con la Regina Elisabetta, o di quelli che regalano case e proprietà al primo venuto? Vogliamo parlare di coloro che improvvisamente, senza alcun motivo logico, sentono di essere caduti in un baratro di dolore senza speranza e che per essi e per i loro familiari non c’è altro rimedio che la morte? Vogliamo considerare queste persone parte di una gioiosa biodiversità? Pensate che gli psichiatri se la godano a torturare la gente e che si divertano a cercare col lanternino chi delira? Credete che coloro che soffrono di disturbi mentali vogliano solo essere lasciati in pace e godersi il loro delirio?
La psichiatria è un lavoro faticoso, che come tutte le attività ha i suoi lati oscuri, come quello di una criminale connivenza con le case farmaceutiche, le quali condizionano le scelte e gli orientamenti degli psichiatri. Affermare però, che gli psicofarmaci sono assolutamente dannosi, in base a teorie strampalate sulla non esistenza delle malattie mentali o sulla loro non “naturalità” o in base alla convinzione che sono l’arma diabolica in mano a sadici psichiatri, non ha alcun senso. Gli psicofarmaci servono eccome: sono indispensabili in caso di depressione severa (direi che in questo caso possono essere definiti un farmaco salvavita), sono indispensabili nei casi di mania, sia in fase acuta che nella profilassi (il litio è efficacissimo e per la gioia dei naturisti potrebbe essere definito un prodotto naturale: esistono le acque litiose). Gli psicofarmaci infine sono utilissimi  per alleviare l’angoscia psicotica e negli attacchi di panico. Certo, anche qui bisogna distinguere il buon uso dal cattivo uso. Imbottire un paziente di farmaci perché è la risposta più facile al suo disagio è quantomeno disonesto; molti sintomi sono facilmente controllabili attraverso una relazione terapeutica empatica e un’accurata analisi dei fattori ambientali. Fare cocktail farmacologici ardimentosi, senza alcun razionale, al solo scopo di soddisfare le aspettative delle case farmaceutiche è criminale, non c’è dubbio. Da qui, però, alla completa eliminazione degli psicofarmaci ce ne passa. Certo, c’è chi si arricchisce producendo psicofarmaci, ma c’è anche chi si arricchisce vendendo farina, ciò non significa che non sia necessaria. Non voglio, in questa circostanza, riproporre il vecchio discorso sulla esistenza o meno della malattia mentale, ma sento da più parti un tipo di critica secondo la quale non esistono malattie mentali, ma solo contesti sociali differenti in cui certi comportamenti etichettati come insani si collocano. Una critica che a me sembra infondata, poiché si preoccupa di tutelare una presunta diversità di coloro che sono giudicati malati, rispetto alla necessità di dare una risposta a chi sta male e ti chiede aiuto. L’equivoco spesso nasce dal fatto che alcuni malati non chiedono aiuto e dichiarano esplicitamente di essere vittime della psichiatria. In alcuni casi ciò è senz’altro vero, sebbene tali casi siano una minoranza, ma nella maggior parte di casi si tratta di assenza di consapevolezza di malattia o di difficoltà ad accettare di avere una malattia psichica.

Rispetto al contesto, questo è sì determinante, ma non in relazione all’insorgenza della malattia (prescindendo ovviamente dalle grosse calamità o da eventi fortemente stressanti) bensì riguardo all’evoluzione del disturbo. Il primo rapporto OMS sulle malattie mentali, ad esempio, mette in rilevo che la prognosi è migliore nei cosiddetti PVS a causa di un minore stigma sociale e di un maggiore effetto protettivo della coesione dei gruppi sociali. Lo stesso studio dimostra che ciò che chiamiamo schizofrenia è una costante a tutte le latitudini e in tutti i contesti geografici esaminati, e si manifesta con i medesimi sintomi, fatte salve le peculiarità di carattere culturale.

In definitiva, quello che si può dire è che esiste una buona psichiatria e una cattiva psichiatria, gli antipsichiatri se ne facciano una ragione: la psichiatria esiste ed è meglio così. Il problema è migliorarla e dedicarle più fondi e allargare la sua base sociale il più possibile invece di cancellarla: solo così si potranno evitare gli abusi e le cattive pratiche. Un solo paziente richiede risorse ingenti, un trattamento individualizzato e molte persone che si dedichino ad esso, in un approccio multidisciplinare, psicoterapeutico, farmacologico, riabilitativo e anche umano. Bisogna evitare comportamenti irrazionali, basati solo sull’emotività: l’antipsichiatria è solo una delle tante ciarlatanerie che girano nel mondo occidentale, e non aiuta a conquistare nuovi diritti né a risolvere problemi seri, ma solo a diffondere la piaga dell’antiscientismo. A voler essere poco educati si può inoltre tranquillamente affermare che i padri dell’antipsichiatria non è che abbiano combinato un granchè: che io sappia le comunità di Laing sono state un vero fallimento e Cooper e Szasz hanno lasciato tracce solo sui libri. In quanto a Basaglia, considerato a torto il padre dell’antipsichiatria italiana, persona che per inciso io stimo molto, nessuno sa che la legge 180 (in realtà non esiste una legge 180: i suoi contenuti sono stati recepiti nella legge 833 del 1978) che porta il suo nome conteneva, insieme a molte indicazioni lodevoli sulla necessità di diffondere servizi territoriali e superare il manicomio, anche articoli  riguardanti il TSO. Tali articoli prevedono il ricovero in regime di trattamento obbligatorio per qui pazienti che mostrino “alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall'infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere”(art. 34). Perché una norma così apparentemente liberticida? La legge Basaglia  rappresenta in realtà il superamento dello spirito delle leggi precedenti in ambito psichiatrico (legge del Febbraio 1904 e legge Mariotti del 1968). Sebbene la legge Mariotti contenesse molte innovazioni riguardanti l’aspetto sociale della malattia  mentale e tentasse di recidere il cordone ombelicale che legava la psichiatria alla pubblica sicurezza, preservava ancora residui evidenti di  una concezione repressiva legata all’idea di pericolosità del malato psichiatrico (i manicomi, del resto, erano sotto la giurisdizione del Ministero dell’Interno). La 180 sposta l'asse del discorso sulla cura, legando l’obbligatorietà della cura stessa non alla pericolosità del malato, bensì al diritto di tutti, anche di coloro che sono temporaneamente privati della loro capacità critica a causa della malattia, ad avere cure adeguate.E' quindi una questione di maggiori diritti e non di negazione di questi. Il problema è: sono davvero adeguate queste cure? È qui che dovrebbe incentrarsi il discorso, e non su inutili romanticherie che invocano una sorta di stato di natura inesistente.
Ma questo è un altro discorso.
Franco Cilli

sabato 13 novembre 2010

Manganellatori democratici

 
di Franco Cilli 

Qualche poliziotto si ricorda del Capitano Margherito? Un poliziotto entrato in servizio nel '75 al 2° celere di Padova e che fu l'unico a denunciarne i metodi violenti, pagando un prezzo altissimo per il suo coraggio. Solo per aver detto una frase del tipo: "il nostro è un mestiere violento, ma non vogliamo più mettere a ferro e fuoco le città, ma inserirci nella realtà che ci circonda", fu accusato di “attività sediziosa”. Qualche poliziotto conosce per caso Franco Fedeli, il fondatore della rivista “Polizia e democrazia”? Un signore che pensava di potere coniugare efficienza e partecipazione democratica dei poliziotti alla vita sociale e politica, interpretando il ruolo del poliziotto come servizio per la collettività. Certo allora io e molti altri pensavamo che non potesse esistere una “riforma della polizia”, poiché uno strumento repressione a tutela degli interessi delle classi dominati, per riformato che fosse non poteva negare la sua natura intrinsecamente violenta e repressiva, ergo i poliziotti erano dei nemici. Oggi le cose sono cambiate, oggi il problema legalità si coniuga con il problema della tenuta di un tessuto democratico fortemente minacciato dagli stretti legami fra politica e criminalità mafiosa. Oggi è doveroso fare dei distinguo fra quei servitori dello stato che rischiano la vita ogni giorno e coloro che invece si comportano da teppisti. La violenza, lo sappiamo bene è insita nel ruolo stesso dell'istituzione polizia: solo loro è il monopolio della violenza, solo loro possono portare armi, solo loro sono autorizzati a usare la violenza contro i cittadini considerati riottosi e pericolosi per l'ordina pubblico. Vero, è inutile negarselo, non esiste un diritto che possa essere scolpito per sempre nella scorza dura della storia. Poliziotti e militari sono necessariamente attori di un conflitto che vede una parte della società violare i confini precostituiti del diritto per allargare i diritti e un'altra parte deputata a difendere l'esistente.
Eppure mi chiedo se i poliziotti debbano per forza continuare a fare tout court i difensori dell'ordine costituito in maniera totalmente acritica, e a tempo perso i mazzieri di regimi da operetta, con dittatorelli inceronati, insensibili a qualsiasi istanza di cambiamento e di “progresso civile”, come quello italiano. Dobbiamo per forza assistere alle “macellerie messicane”, agli studenti brutalmente malmenati, alle cariche della polizia contro gli operai di Pomigliano D'Arco, alle botte ai pastori sardi e per ultimo alla violenta repressione di cittadini che manifestavano la loro solidarietà con i lavoratori extracomunitari di Brescia accampati su una gru?
Esiste un spazio autonomo all'interno della polizia dove metter in discussione il loro ruolo di biechi strumenti di repressione? Esiste la possibilità di snidare quei boli infetti dove si annida la retorica machista e razzista, unita all'esibizione muscolare e all'ostentazione di simboli e pseudo culture fasciste dentro la polizia? Esiste l'idea di una Polizia Democratica? Me lo chiedo, ma non so dare una risposta.
Perlomeno adesso i poliziotti si sono stufasti di fare da autisti e accompagnatori delle escort di Berlusconi, è già qualcosa.

 

lunedì 1 novembre 2010

Le luci di Tel Aviv e l'abbaglio di Saviano

di Franco Cilli
Lo confesso, sono rimasto deluso da Saviano, come molti del resto. Ho ascoltato il suo discorso alla manifestazioneee: “Verità per Israele”(potete ascoltare un'ampia parte del discorso di Saviano nel video di Arrigoni da Gaza), promosso da Fiamma Nirestein e ho provato un senso di sconforto, non tanto e non solo per l'atroce banalità delle sue parole, che con un'espressività elementare e quasi naive, riusciva a velare le terribili verità dell'oppressione israeliana verso un intero popolo, ma quanto per la sensazione di avere perso una risorsa che mi sembrava importantere per questo paese. Come può rappresentare una risorsa, mi sono chiesto, uno che vive una dissociazione così netta con la realtà? Non è l'unico d'altronde a vivere questo genere di dissociazione, anche Travaglio è affetto dalla stessa sindrome, che io vedo apparentata col fenomeno della religione. Anche lì si è preda di un fenomeno che tende a scindere l'elemento storico da quello del mito, sull'onda dell'emotività e e dell'emersione di un'identità inoculata come un virus.
Rimane il dubbio della cattiva fede e della cattiva coscienza, ma voglio persuadermi che Saviano sia in buona fede e che sia solo vittima di un allentamento delle sue capacità di riuscire a selezionare i fenomeni in base ad un criterio uniforme. Non si comprenderebbe altrimenti perché riesce ad analizzare così finemente il fenomeno della camorra, dissezionandolo in tutte le sue parti e sondandolo fin nei minimi recessi e a ignorare allo stesso tempo parti altrettanto importanti di realtà. Una forma di provincialismo percettivo? Difficile però a credersi in un mondo così disponibile ad essere svelato solo a volerlo.
Saviano cita più volte in maniera quasi cantilenante “ le luci di Tel Aviv”. Sono l'elemento che più di ogni altra cosa ha suscitato in lui emozione. Appunto, emozione e rischiaramento, un effetto artificiale di una luce artificiale. Le luci, la percezione di un'atmosfera calda, tollerate e accogliente sono gli elementi di un caleidoscopio ipnotico che hanno forse hanno indotto in Saviano un giudizio fondato sull'emotività piuttosto che sulla fredda considerazione dei fatti, quasi se con Gomorra lui avesse già dato, se la ragione fosse ormai consunta e abusata e volesse aprirsi a frontiere inesplorate della realtà, quella realtà che si coglie dilatando al massimo la percezione e identificando l'apparire dei fenomeni percettivi con la realtà stessa. Questo “illuminismo romantico” di Saviano è davvero pericoloso e induce in chi ascolta la paranoia del complotto.
Qual'è la causa che rende possibile questa dissociazione? La risposta come spesso avviene la troviamo nella storia, in quella storia che si intreccia con la natura e con il “destino dell'uomo”. La nostra stessa società e vittima di una dissociazione delle sue parti, una scissione intrinseca al sistema stesso. La civiltà occidentale si è evoluta grazie alla spinta della borghesia che nel rivendicare i propri diritti di classe in conflitto con l'aristocrazia, ha aperto le porte a rivendicazioni universali, che fondevano le libertà economiche con le libertà individuali e portavano all'emersione verso l'esterno della libertà di coscienza, una libertà fino ad allora relegata a forza nella sfera privata. Quando tale libertà è divenuta l'elemento propulsivo dei diritti delle moltitudini, con la lotta e con il sangue si sono conseguite conquiste storiche che paradossalmente mentre recavano più libertà e maggiori diritti per gli sfruttati, portavano allo stesso tempo ad una razionalizzazione del sistema capitalistico stesso, che utilizzava l'accresciuta libertà degli individui per incrementare il suo potenziale espansivo e il saggio di profitto, contraddicendo in questo le previsioni di Marx. Ecco spiegata la dissociazione, non è solo un puro elemento dispercettivo, ma è un fattore costitutivo della società capitalistica stessa, che da una parte conserva intatto il potere spietato del capitalismo, dall'altro genera inevitabilmente quelle “sovrastrutture” destinate teoricamente a soppiantarla, e che durante i secoli sono state portatrici di istanze di “progresso”, oscillando fra rivoluzione e riformismo.
Gli aspetti di democrazia interna e di libera circolazione, unitamente all'accesso ai consumi delle democrazie occidentali contribuiscono a creare un milieu dove una buona parte dei cittadini, borghesi o proletari, si trova a proprio agio. Siamo  così portati, se non teniamo ben desto il nostro spirito critico, a vivere gli elementi sovrastrutturali di una società come indipendenti dalla sua struttura economica e sociale. Questa è l'essenza delle democrazie occidentali: elementi di libertà (fatto salvo lo sfruttamento del lavoro) al proprio interno, con un sufficiente grado di soddisfazione di bisogni acquisiti della quasi maggioranza della popolazione, grazie all'abbondanza di plusvalore prodotto, e una politica estera affidata al realismo amorale della politica, una sfera autonoma e meno soggetta a condizionamenti e a normative giuridiche o etiche. Forse è una specie di istinto egoistico di conservazione che induce molti di noi a rimuovere la presenza di quelle istituzioni sovranazionali che servono e si servono delle democrazie o se preferite dell'impero, per mantenere un sistema di distribuzione delle risorse ineguale e che dettano le politiche verso i cosiddetti paesi emergenti.
Ha ragione Giuliano Ferrara quando afferma con l'agghiacciante cinismo del liberale che si è strappato la maschera: “volete i frigoriferi, le televisioni e le automobili? Questo è il prezzo”. Il prezzo è una competizione spietata per la conquista a tutti i costi delle risorse del pianeta, ci volesse una guerra con motivazioni inventate di sana pianta. Per alcuni sedicenti liberali non ha nessuna importanza la politica estera di una "grande democrazia", l'importante è che questa si conformi a determinati canoni, stabiliti non si sa da chi e che danno per scontato ad esempio che il bipolarismo delle democrazie anglosassoni sia l'unico vero modello di democrazia. Che importa poi una guerra e qualche milione di civili massacrati, vivaddio la democrazia non può essere perfetta, solo praticata e canonizzata, è una realtà che sfugge al desiderio e si conforma solo al volere della storia. Tutti gli stati che il mondo civilizzato esclude dall'albo dei paesi democratici, sono stati canaglia, perché è il canone quello che conta, comodo alibi per le porcherie del liberismo.
Forse sotto sotto nell'atteggiamento di quelli come Saviano c'è anche una sorta di malcelato storicismo, che vede nella politica coloniale un passaggio obbligato verso il progresso dell'umanità, un ponte fra la barbarie dello stato di natura e la civiltà. L'indigeno va represso e se necessario annientato, perché rappresenta forme residuali di società morenti e destinate ad essere soppiantate dal nuovo. L'ansia di compiere una missione storica induce i liberali di tutte le fatte a sorvolare anche su quegli aspetti negativi che si manifestano all'interno delle società capitalistiche stesse, considerati endemici di una democrazia e frutto di una dialettica sociale che richiede l'esistenza di una classe povera, di un ceto medio e di una classe borghese agiata,  quali elementi di un dinamismo sociale necessario e vitale. Nel caso di Israele poi questi aspetti solo a non voler chiudere gli occhi sono eclatanti: l'apartheid e le ingiustizie verso le popolazioni arabe sono tremendi, ma la luce delle vetrine, la libera circolazione delle merci e con esse della “cultura”, ci abbaglia e ci persuade che non c'è nulla di meglio delle democrazia borghese, anche quando questa smentisce se stessa.
Persino personaggi come Grillo sono vittime della stessa dissociazione. Grillo racconta un'Inghilterra delle meraviglie, dove lui, un comico, viene ricevuto e ascoltato nientemeno che dal Ministro della cultura in persona e dove i delfini nuotano del Tamigi. Gli aspetti di efficienza della macchina statale secondo i canoni di un concetto di civiltà che si misura con il rispetto delle leggi, il funzionamento delle metropolitane e la snellezza delle burocrazia, prevalgono sulle considerazioni in merito alla natura feroce della politica coloniale e guerriera di uno Stato “democratico”. Che importa se l'Africa è sotto il loro giogo e se l'Iraq è una groviera insanguinata?
Torna nuovamente l'inquietante interrogativo: la democrazia ha un prezzo? Se si chi lo paga?
È possibile separare ad esempio il benessere della Svizzera e la sua libertà interna dal riciclo di capitali da parte delle sue banche, derivanti dai proventi della mafia e dal traffico di droga? È possibile separare la politica coloniale dell'Inghilterra e della Francia dal loro modello di democrazia e dal loro livello di reddito pro capite?
Io credo di si, credo sia possibile ridurre i costi di una democrazia e soddisfare adeguatamente i nostri bisogni, basterebbe che ci mettessimo d'accordo su un prezzo equo da pagare, facessimo qualche rinuncia e non dessimo più credito a fantocci che urlano :”lo standard di vita del mio paese non si tocca”, o recitano litanie del tipo: “occorre rilanciare i consumi, aumentare la crescita, la produttività” ecc. ecc . Non sarebbe più necessario affamare un miliardo e mezzo di persone e distruggere l'ecosistema. Che ci vorrà mai, basterebbe ripensare integralmente il nostro sistema economico, abolendo per decreto il pensiero unico in economia. Ma questo è un discorso lungo.
Sono convinto che anche nel Tevere potrebbero nuotare i delfini, sarebbe sufficiente eliminare gli squali.
 

giovedì 28 ottobre 2010

Un Pd da rottamare 4

Non possiamo perdere tempo tra il lodo Alfano e questioni che portano al centro le singolari abitudini del premier. Il Paese non ha una guida politica. Io rivolgo un appello: andate a casa', afferma Bersani che chiede le dimissioni del premier e ipotizza un governo tecnico.

'Berlusconi 'statista' dovrebbe staccare la spina. Oppure lo faccia qualcun altro che ha senso di responsabilita'. C'è' la Costituzione, c'è' il Quirinale, il Parlamento, vedremo che cosa si può' fare per una fase nuova'.(da Ansa)
Va bene Bersani l'hai detto e siamo contenti, ti sei finalmente accorto che le tattiche del nemico funzionano e hai cominciato a cambiare linguaggio. “Mandiamoli a casa" era il mantra dei berluscones durante il governo Prodi e tanto fecero e tanto brigarono che ci riuscirono. Il gioco è complicato, perché pur non essendo  voi immacolati, non sapete giocare sporco come loro e chissà se ce la farete. Probabilmente Berlusconi cadrà, non per merito vostro, ma perché così è scritto, cadono tutti prima o poi. In ogni caso non pensate di farci ingoiare la polpetta avvelenata dell'UDC o di Fli, questa volta no, non ci caschiamo, vogliamo un vero cambiamento.
So che vi dispiace sentirvelo dire, ma Vendola, sta convincendo molti dei vostri e probabilmente vincerà le primarie. Nel qual caso preparate le valigie, la rottamazione è garantita.
Spero che Vendola non sia un prodotto confezionato da gente dello stampo di Soros, tipo un arancione ucraino. Spero insomma che non sia una fregatura, ma al momento in giro non c'è di meglio.
 

domenica 8 agosto 2010

 
di Franco Cilli

“Ci vuole una nuova narrazione”. In questo piccolo blog è un refrain ripetuto con paziente attesa da sempre, in modo quasi ossessivo, prima ancora che una frase del genere la pronunciasse Nichi Vendola.
Certo che ci vuole una nuova narrazione. Qualcuno crede davvero che bastino i tatticismi di D'Alema per battere Berlusconi? Il voto è anche il frutto di una sorta di istinto animale, non si può scegliere di ignorare la pancia, almeno quanto certe belle donne non possono scegliere di ignorare le rughe del proprio viso.
La scelta è spesso una accordo fra l'animo razionale e l'istinto animale, anche se alle volte in alcuni prevale il primo e in altri il secondo, ma per fare massa  dobbiamo confidare su entrambi.
Il problema più che Berlusconi è il PD. Non sono scemi quelli del PD, sanno benissimo che Vendola è l'uomo giusto per battere Berlusconi, ma sanno anche che se lo candidassero dovrebbero implicitamente ammettere il fallimento dell'intera classe dirigente del partito. Per loro è in gioco una questione di sopravvivenza. Meglio una rendita certa, lasciando intatti equilibri consolidati, sorretti da ferree logiche spartitorie, che tentare di salvare il paese dalla deriva con avventurose acrobazie, rischiando il suicidio politico.
Non sia mai che un dirigente locale si arrabbi e faccia saltare il tavolo. Meglio candidare un perdente come Pionati a Milano che irritare Bersani e con lui D'Alema, meglio lasciare un 60% dei voti in Veneto a Zaia, per favorire il pupazzo della nomenclatura, che candidare una come Laura Puppato, che avrebbe avuto qualche chance di rivalsa in futuro. Meglio perdere la Puglia, piuttosto che il vizio degli accordi tattici con “i moderati”, un esercizio che tiene vivo il gioco degli equilibrismi e delle poltrone.
L'ho detto, è questione di sopravvivenza di un ceto politico, ma non solo. I vari Marino, Serracchiani, Scalfarotto e compagnia hanno buona volontà e probabilmente sono brave persone, ma dovrebbero sapere che il ceto sociale che ancora costituisce lo zoccolo duro del PD è un ceto variegato, composto per buona parte da una grossa fetta della borghesia emiliana, umbra e toscana e questi ceti vanno tenuti buoni. Guai a smantellare il sistema politico-clientelare piddino in quelle regioni, vero collante che tiene insieme ceti medio bassi e borghesia produttiva, significherebbe aggredire i gangli vitali di un sistema di potere e di consensi che rappresenta l'unica cassaforte di voti di una certa consistenza del PD. Ci vuole poco per quella borghesia a trovare nuovi e più disinvolti referenti politici, così come è successo a Parma o a Lucca. Oltretutto il partito democratico non esprime solo interessi di partito, bensì interessi di ceto politico in senso lato. Troppa la contiguità con certi personaggi, troppi gli interessi comuni, troppi gli accordi sottobanco in ossequio al tatticismo e alla vecchia scuola del realismo politico, sinonimo di doppiezza e comodo alibi per ogni genere di porcata. E poi ci sono i cattolici, inopinatamente imbarcati nel carrozzone del nuovo partito dei democratici, e poi e poi e poi...Se davvero le persone di buona volontà vogliono il rinnovamento del ceto politico dirigente del Partito Democratico devono fare i conti con questa realtà, con la consapevolezza che il sistema reticolare che costituisce la spina dorsale dell'ex PCI si tiene insieme anche grazie alla capacità di soddisfare una clientela che è tradizionalmente legata al loro apparato, magari anche per storia e vocazione, ma che oggi non è disposta a rinunciare alle proprie rendite di posizione, e con il fatto che non c'è nessuna netta delimitazione fra loro e gli altri
.
C'è da augurarsi che si verifichi una deflagrazione interna a questo partito imbelle e paralizzato dalle sue logiche interne, e che la deriva delle sue parti crei nuove aggregazioni e possibilmente uno straccio di partito socialdemocratico, in grado perlomeno di farsi garante di un sistema di regole condiviso, oltre che portatore delle istanze di quel che rimane dell'idea di stato sociale. Potrebbe già bastare. Non si pretende certo che si affrontino i nodi del capitalismo, ma almeno di non affidare la gestione dello stato ad incappucciati e mafiosi.
Guardiamo l'altro fronte, quello della sinistra di Di Pietro e dei movimenti. Fortunatamente si sono fatti dei notevoli passi avanti. Da parte della sinistra si è passati dalle scomuniche a Di Pietro e all'accusa di qualunquismo di Grillo, all'ammissione della necessità di un dialogo con queste forze, consapevoli del fatto che costituiscono ormai la parte maggioritaria di un fronte sociale che si muove su posizioni critiche rispetto all'esistente e che la sinistra ha ormai perso ogni capacità di attrazione e persino un lessico con cui comporre nuove narrazioni. Si è dovuto fare i conti con una concezione apparentemente regressiva di stampo legalista espresso dal movimento Viola, da Grillo e da Di Pietro, per cercare punti di convergenza con tali forze perché la parola sinistra potesse avere ancora diritto di asilo, per quanto ormai relegata nel museo delle cere del nominalismo novecentesco.
Si profila una coalizione fra Di Pietro, Vendola, sinistra e forse Grillo, con l'intento dichiarato di rimorchiare il PD. A me sta bene e credo di non essere il solo. Non mi faccio illusioni, ma credo che alternative non esistano. Di sicuro è impensabile che io dia il voto ad una coalizione dove c'è Casini. Al massimo dell'emergenza potrei addirittura accettare Fini ma mai Casini, non fosse altro che per la sua devozione alla tonache vaticane e agli interessi di suo suocero. Credo che molti la pensino come me. Vogliamo tutti tirare un respiro di sollievo e svegliarci un giorno senza l'amara consapevolezza di essere governati da una cricca di mafiosi, para nazisti dementi mascherati di verde e delinquenti comuni, con un piazzista a capo. Tuttavia non penso che ci sia ancora qualcuno che crede ancora alla favola del voto utile. Il PD si può scordare il mio voto e quello di milioni di altre persone se si allea coi cosiddetti “moderati”. Alle ultime elezioni l'ho votato per totale mancanza di alternativa, ma non era un'apertura di credito era solo una scommessa fatta con la pistola puntata alla testa. Adesso basta.
 
Se vincerà di nuovo Berlusconi sarà solo ed esclusivamente colpa loro, dei Bersani dei D'Alema e compagnia cantando

martedì 13 aprile 2010

Un Pd da rottamare 2

"Adesso ci vuole un'azione decisa". Bersani dixit. E quale sarebbe l'azione decisa? Con un linguaggio attorcigliato nella retorica vischiosa e nulladicente della prima repubblica, Bersani lascia trapelare l'idea di un partito federale con la consegna a Chiamparino e a Cacciari di fare il verso ai leghisti e magari anche di allearcisi insieme se necessario. A Sud si vedrà, magari arruolano Lombardo e la Poli Bortone.
Idea geniale, figlia della convinzione delirante che per vincere le elezioni devi diventare una specie di iguana in grado di mimetizzarti col letame prodotto dall'avversario.
Ve lo dico io qual è l'idea forte: tre milioni di cassintegrati e altrettanti di precari e  di persone stufe delle menzogne e dell'arroganza fascista, che pianta le tende a Roma finché non sente il rumore di pale di elicotteri che  si portano via governo e opposizione.

Dottor Nicodemo

giovedì 18 marzo 2010

Un Pd da rottamare

C'è un'umanità dotata di slancio creativo, di competenze politiche e di entusiasmo, nelle società italiana, in grado di crearsela da sola l'alternativa.

Il Veneto come la Lombardia è dato per perso. Abbandonato.
Una sorta di fatalismo che sembra pregustare l'apocalisse prossima ventura, ha di fatto consegnato questa regione alla barbarie senza battere ciglio.
Certo Massimo Carlotto ha ragione nel dire che i Lanzichenecchi in Veneto sono arrivati già prima dell'arrivo di Bossi, con Galan e la sua banda, ma ora sembra doversi compiere una specie di parabola, che dalla Serenissima, passando per gli austriaci prima e l'unità d'Italia dopo, approdi finalmente allo stato padano-veneto di Zaia.
Siamo talmente dominati da questo fatalismo che nessuno ne parla, nessuno a parte rare eccezioni, tenta una reazione.
Non vorrei sembrare ripetitivo, ma la colpa di tutto ciò è in gran parte del Pd, degli eredi del fu Partito Comunista. Lasciamo stare le analisi delle cause che hanno portato il partito di Berlinguer a diventare una sorta di chimera politica democristiana socialista, molto democristiana e molto poco socialista. Stiamo ai fatti. Un’opposizione ridicola e direi persino dilettantesca al regime berlusconiano. Una tremenda smania autolesionistica che solo la reazione della società civile riesce a tratti a tamponare. Un apparato i cui gangli vitali e le cui fibre nervose si intrecciano in maniera inestricabile con quelli di un regime partitocratico di cui ormai volenti o nolenti sono diventati parte.
Guardiamo queste elezioni regionali. La Calabria e la Campania, che avrebbero potuto essere conquistate agevolmente con un candidato unitario decente, perse quasi sicuramente.  Lazio e la Puglia consegnate a candidati acefali e frutto di strategie politiche da bar dello sport, riprese per il rotto della cuffia dalla sfrontatezza della Bonino e dalla tenacia di Nichi Vendola.
In Veneto e Lombardia neanche a parlarne. A Formigoni si oppone un Penati, in accordo con la leggenda che per battere un tizio di destra, che gode di un enorme consenso anche fra i ceti popolari, devi opporgli uno che è la sua esatta fotocopia, ma soltanto un po' più basso. A Zaia, guai a opporgli una Laura Puppato, una tizia un pelo più agguerrita di uno sbiaditissimo Bortolussi. Si potrebbe rischiare di pestare i piedi a qualcuno. Duole, in questa circostanza, constatare che nemmeno la società civile e i movimenti hanno saputo proporre un candidato alternativo, non fosse altro che per inviare un segnale serio di volontà di cambiamento.
Le astute mosse del Pd sono dettate da una provvidenziale illuminazione, arrivata mentre D'Alema e Bersani giocavano col pallottoliere: non si vince senza i numeri dell'UDC e quindi se c'è da sacrificare qualcuno lo si fa per un bene superiore. Geniale. Mi rincresce che anche una persona intelligente come Cacciari si sia fatto prendere la mano da questo pragmatismo di bassa lega. Cosa si vince con l'UDC? Il ricatto costante che se non fai come dico io, tutti a casa? Il Vaticano? Cuffaro? Qualche carrozzone clientelare che prima o poi creerà problemi giudiziari?
La morale della storia è che non dobbiamo più permettere al Pd di dettare alcuna strategia politica per un'alternativa al regime, alla quale accodarsi per amor di patria. C'è un'umanità dotata di slancio creativo, di competenze politiche e di entusiasmo, nelle società italiana, in grado di crearsela da sola l'alternativa. Al Pd deve essere permesso unicamente di assecondare l'impulso che viene dalla società civile, e non certo per la considerazione verso i suoi dirigenti, ma per rispetto verso i suoi militanti, che meriterebbero un partito migliore.
Se non fosse per loro, il Pd sarebbe un partito da rottamare all'istante.

sabato 6 marzo 2010

Economia criminale

Normalmente c'è un abisso, diciamo pure un cumulo di abissi, che ci separa da Maurizio Blondet, il suo fondamentalismo cattolico, l'antisemitismo, l'antievoluzionismo... Ma scambi di opinioni come quello che segue (le opinioni di un lettore e la risposta di Blondet) sono troppo limpide e chiarificatrici per non riportarle.

«Gentile Direttore,

sono felice di aver trovato questo articolo sui contenuti accessibili pubblicamente. Vorrei avanzare alcune osservazioni. Mi perdonerà la lunghezza della lettera; avrei piacere di saperla letta, non ho interesse alla pubblicazione.

Innanzitutto, se per ‘crisi’ prevista da Allais si intende la crisi del 2007-2009, beh, quella non è stata prevista (nemmeno) da lui. Nelle pagine riportate, Allais parla delle conseguenze del commercio internazionale. La crisi economica attuale è stata causata da - mi perdonerà se semplifico, ma è sufficiente per il mio punto - una serie di interferenze politiche nel mercato dei mutui americani, ed alcune altre concause nella regolamentazione dei mercati finanziari. La crisi è stata prolungata dalla politica della nuova Amministrazione americana. Il dibattito accademico sui dettagli di questa crisi prosegue mentre scriviamo: può facilmente trovare molti contributi scientifici on-line.

La ‘crisi’, intesa come crollo dei mercati azionari, non è prevedibile per definizione. Se io sapessi che domani il mercato crollerà, venderei subito; se tutti lo sapessero, il crollo sarebbe di oggi, e non di domani. Quando porta questo discorso alle estreme conseguenze, conclude che i prezzi di oggi riflettono già tutta l’informazione disponibile. Non è difficile, naturalmente, trovare persone che predicano crolli repentini dei mercati azionari: ma queste previsioni vengono celebrate solo quando si realizzano, mentre non vengono  criticate quando non si realizzano. Non mi dica, la prego, che sto cercando di difendere qualcuno: avrei scritto la stessa cosa se i nomi che menziona avessero sostenuto di aver previsto la crisi. Le sto solo riportando lo stato dell’arte nella scienza economica su questo punto.

Sul contenuto dell’articolo, che parla principalmente della relazione tra disoccupazione e integrazione internazionale, vorrei parlare un po’ più estensivamente. Credo di capire che Allais auspichi la creazione di zone con livelli di sviluppo economico omogenei, all’interno delle quali avere scambi liberi, e tra le quali avere scambi protetti. Mi pare che questa soluzione non convenga a nessuno. Non conviene certo ai Paesi in via  di sviluppo, chiamiamoli ‘Cina’. Questi Paesi hanno ottenuto enormi progressi nel tenore  di vita dei loro abitanti esattamente perché sono in grado di produrre merci di qualità comparabile a prezzi più bassi. Non conviene neppure ai Paesi sviluppati, chiamiamoli ‘USA’, o Francia, per Allais, o anche Italia, per noi. Il computer su cui io e lei scriviamo, per esempio, ci sarebbe costato molte volte di più. Va bene, dirà, ma qui stiamo guardando a noi come consumatori. Che succede al mercato del lavoro? Non c’è evidenza empirica di una relazione positiva tra livelli di disoccupazione di un Paese e livelli di integrazione commerciale su orizzonti di lungo periodo, 20-30 anni per esempio. Il motivo è che quando i lavori vengono distrutti in un settore particolare, i lavoratori si riallocano in settori diversi con occupazioni simili; se sono giovani, anche in occupazioni diverse - i lavori insegnano qualcosa anche ai lavoratori stessi. Su orizzonti più brevi non c’è molta ricerca empirica, ed il motivo è che - fino ad un periodo relativamente recente - non c’erano molti dati, e gli avanzamenti teorici sono stati limitati dalla complessità dei modelli necessari a studiare questi fenomeni. Noti che in ogni caso, se voglio sostenere che questi costi di breve termine sono ‘importanti’, devo dare un peso relativo a presente e futuro da un lato, nuove e vecchie generazioni dall’altro. Qual è il peso giusto? Non lo so. Ma non lo sa neppure Allais (torno sotto su questo punto).

La disoccupazione in Francia - cosi come in Italia - è causata da un mercato del lavoro estremamente rigido (mi perdoni, ma non capisco come leggere il suo grafico: cosa sono i numeri negativi?). Su questo sì, ci sono assodate ragioni teoriche ed evidenze empiriche. Le faccio un solo esempio: se fa un istogramma della dimensione delle imprese italiane in termini di numero di dipendenti, c’è un picco abnorme al numero 14. Il motivo è che il 15esimo dipendente è estremamente costoso (si applica lo Statuto dei Lavoratori su tutti e 15). Certo, saremmo tutti contenti di avere la stabilità del posto di lavoro: ma non la otteniamo per legge. Per legge, otteniamo che molte imprese si fermano a 14 dipendenti.

La storia che ho raccontato sul commercio è estremamente semplificata. Sono tutte rose e fiori? No, ovviamente. Ci sono moltissimi studi, pubblicati in tempi recenti e lontani, che parlano delle conseguenze della globalizzazione. Non li sto riassumendo, e non vorrei essere criticato per avere punti di vista ‘parziali’. Il campo di ricerca è estremamente attivo, e si è rinvigorito negli ultimi 10-15 anni per via di notevoli progressi teorici e maggiore disponibilità di microdati (dati a livello individuale, di impresa e di lavoratori). Molti studiosi hanno versioni non pubblicate dei loro lavori, molto vicine a quella finale, sulle loro homepage. Lo dico perché credo che un approccio scientifico a queste questioni aiuterebbe tutti. E vorrei assicurare che l’ideologia conta molto meno della reputazione: quando uno studioso va in una università a presentare una ricerca, viene facilmente ridicolizzato quando dice cose sbagliate.

Questo mi porta ad una ultimissima considerazione. L’argomento per il quale Allais è un premio Nobel, ergo Allais ha ragione (ma viene ignorato da tutti gli ideologi ufficiali), non è un argomento solido. Allais ha vinto il premio Nobel per importantissimi contributi alla formalizzazione matematica della scienza economica, il che non garantisce che sappia parlare di tutta l’economia in generale, e di integrazione internazionale in particolare. Tutti possono parlare di tutto, per carità. Il punto di vista di Allais è legittimo come quello di chiunque altro. Ma l’economia è specialistica (oggi molto più di 50-60 anni fa): se volessi curarmi l’ulcera, non andrei da un otorino.

Direttore, la rigrazio se avrà voluto leggere questa lettera fino in fondo. Ho scritto senza animosità, per darle il punto di vista di una persona che studia queste cose quotidianamente, e con il solo interesse ad avvicinarsi alla verità.

La saluto cordialmente.

Ferdinando»


Caro Ferdinando di Trieste,

non sono d’accordo con le sue osservazioni. Né Allais né (molto più modestamente) io intendiamo per «crisi» il crollo dei mercati azionari, imprevedibile per definizione. Intendiamo la grande depressione  che abbiamo sotto gli occhi, col crollo epocale del commercio, del credito, delle produzioni industriali, e le decine di milioni di disoccupati nei Paesi (ex) sviluppati. E questa crisi è provocata proprio e direttamente, come dice Allais, dal «commercio internazionale». Ossia dalla globalizzazione, che a sua volta consiste nell’eliminazione obbligatoria dei dazi sulle importazioni, e nel «libero movimento di capitali».

Provo ad illustrarle il perché.

Con la globalizzazione, il salario dell’operaio italiano, 1.200 euro mensili, viene messo in concorrenza diretta con il salario cinese, diciamo 70 euro mensili. Il calcolo delle multinazionali fautrici della globalizzazione era questo: produciamo i beni in Cina, dove la manodopera costa 70 euro, e li vendiamo in Europa e in USA, i Paesi ad alto potere d’acquisto.

Il guaio è che l’alto potere d’acquisto tende a sparire da Europa ed USA, perché i posti di lavoro per gli operai a 1.200 euro sono emigrati in Cina. Infatti, da noi, i salari stagnano o calano, e i lavori diventano sempre più precari, e la disoccupazione giovanile aumenta.

Come vendere le merci prodotto a buon prezzo in Asia?

Ecco la «soluzione» trovata dai globalizzatori: l’espansione del credito al consumo. Tu, lavoratore occidentale, con la tua paga non puoi permetterti il televisore Sony, il telefonino Nokia, l’auto coreana? Noi, banche, ti facciamo credito. Quel che il salario ti nega in potere d’acquisto stagnante o calante, le banche ti offrono facendoti prestiti facili. Ciò che perdi in busta paga, ti viene compensato dal credito. Su cui s’intende pagherai gli interessi.

Il trucco è stato applicato col massimo rigore teorico in USA e in Gran Bretagna, che non a caso sono i Paesi del massimo indebitamento privato. Il rischio che americani ed inglesi consumatori alla fine non riuscissero a pagare i ratei del mutuo o della carta di credito perché sovra-indebitati su salari calanti, non preoccupava le banche, perché avevano trovato un altro trucco: la cartolarizzazione, la securitisation. Le banche hanno trasformato i debiti dei consumatori in «titoli ad interesse», e li hanno rifilati a risparmiatori e fondi, che cercano appunto titoli che rendano interessi. Insomma, le banche si sono liberate dal rischio del prestare, e l’hanno passato ad altri.

Da qui la crisi dei mutui subprime. Una ragazza-madre negra, cameriera in un bar, 800 dollari al mese di reddito, viene attratta a contrarre un mutuo per una casa da 400 mila dollari. Ovviamente, la ragazza-madre finisce per non poter pagare, e tutto va a pallino. Lo stesso con le auto: in USA, i concessionari offrivano non solo la copertura al credito al 100%, ma persino 3 mila dollari in contanti a chi comprava l’auto nuova: torme di clandestini messicani si sono precipitati, non foss’altro per quei 3 mila dollari in contanti mai visti. Ovviamente, poi, non pagavano.

Che importa? Il loro debito era già in mano di decine di ignari «investitori», che volevano titoli per lucrare interessi.

Così l’insolvenza delle ragazze-madri e dei messicani clandestini, o la prodigalità dei detentori di cinque o dieci carte di credito, ha determinato il crollo dei mercati finanziari, dei titoli ad alto e sicuro rendimento.

Da dove trae, caro amico, l’idea che la crisi economica «è stata causata da una serie di interferenze politiche nel mercato dei mutui americani, ed alcune altre concause nella regolamentazione dei mercati finanziari»?

Queste sono giustificazioni alla Giavazzi, che accusa «lo Stato» e le supposte interferenze politiche per assolvere i «mercati» finanziari. Lei legge troppo i libri di Giavazzi. La vera causa, la causa di fondo della grande crisi in corso, è la perdita del potere d’acquisto dei consumatori-lavoratori occidentali, causata a sua volta dalla concorrenza asiatica sui salari, e «compensata» con l’espansione inverosimile, e irresponsabile, del credito facile.

Un insieme di trucchi che non era sostenibile. E la cui insostenibilità era perfettamente prevedibile a menti intellettualmente oneste come Allais.

Oggi viviamo la distruzione di intere economie reali avanzate che finisce per nuocere alle banche stesse. Oggi, per esempio, in Italia, i giovani entrano tardissimo nel mondo del lavoro o non ci entrano mai (perché i lavori sono emigrati in Asia), e restano precari a vita: e a dei precari permanenti le banche non possono accendere mutui, nè fare prestiti al consumo. Del resto, anche la richiesta di credito si è ridotta al lumicino, nella grande depressione in corso.

Allais propone zone di libero commercio solo tra Paesi a tenore di vita comparabile, come sarebbe l’Europa occidentale. Lei obietta: «Mi pare che questa soluzione non convenga a nessuno. Non conviene certo ai Paesi in via di sviluppo, chiamiamoli ‘Cina’. Questi Paesi hanno ottenuto enormi progressi nel tenore di vita dei loro abitanti esattamente perché sono in grado di produrre merci di qualità comparabile a prezzi più bassi. Non conviene neppure ai Paesi sviluppati, chiamiamoli ‘USA’, o Francia, per Allais, o anche Italia, per noi. Il computer su cui io e lei scriviamo, per esempio, ci sarebbe costato molte volte di più».

Ancora una volta, lei fa il ventriloquo di Giavazzi. E’ il robot Giavazzi che, di fronte ai disoccupati nazionali, che hanno perso i posti di lavoro andati in Cina e in Romania, replica: «Ma i cinesi, i romeni  stanno meglio». E chi se ne frega dei cinesi, se qui i nostri figli non trovano lavori qualificati. L’economia politica non è la stessa cosa che l’economia aziendale. Le aziende possono «esternalizzare» i costi, licenziare i lavoratori poco produttivi o in sovrappiù. Uno Stato non può esternalizzare i suoi lavoratori, i suoi vecchi, i suoi disoccupati, i suoi bambini in età pre-lavorativa: sono «costi» che deve continuare ad accollarsi.

Lei si rallegra: «Il computer su cui scriviamo, senza la globalizzazione, ci sarebbe costato molto di più». Anche i telefonini, se è per questo. Magari non tanto di più, visto che avevamo industrie di questo settore, devastate dalla competizione asiatica. Mettiamo il 10% in più. Un telefonino da 100 euro, Made in Europe, 110 euro. Ma per risparmiare 10 euro su un telefonino, abbiamo sacrificato generazioni di giovani ingegneri che non trovano lavoro qualificato per il quale hanno studiato. Per risparmi sui consumi elettronici, abbiamo  ceduto competenze umane e professionali, necessarie ad una nazione e all’Europa, e che sarà molto difficile ricostruire, e forse non ricostruiremo mai più. Perché oggi solo i taiwanesi e i cinesi o gli indiani sanno ancora fabbricare computers, TV hd a cristalli liquidi, software e microchip, mentre noi non li sappiamo più fare. Ma li sapevamo fare, anzi in gran parte erano invenzioni europee o americane.

Questo è il «costo» che i Giavazzi non calcolano mai, caro lettore: l’impoverimento delle risorse umane, delle intelligenze e delle competenze professionali, tecniche e scientifiche, che l’Europa (e l’America) hanno perso cedendo le produzioni industriali ai Paesi a basso salario. Una perdita irreversibile dopo due o tre generazioni che si abituano ad non aspettarsi nessun altro lavoro se non i call center o le veline in discoteca.

In Italia, l’ignoranza dei giovani diventa ogni giorno più abissale – lo constato dalla lettere che ricevo – ma il motivo di fondo è sempre  quello: la globalizzazione. Perché dovrebbero studiare ingegneria elettronica, faticare a imparare la chimica fine, l’ingegneria nucleare o la matematica avanzata, o anche il latino e il greco antico, se poi i posti di lavoro per queste competenze rare non si trovano più? Se gli sbocchi sono solo lavori precari nel «terziario»?

Questa perdita è immensa, perchè porta gli europei a ridursi al livello degli indios peruviani, a vivere di stracci e di pannocchie, da residuati di una civiltà migliore e superata.

Se l’Europa avesse messo i dazi sui televisori hd, sui telefonini e i laptop, caro amico, per un po’ li avremmo pagati di più, ma avremmo sviluppato e lasciato crescere le nostre industrie in questo settore. Avremmo impiegato competenze e professionalità e creatività; e col tempo, anche i nostri computer sarebbero diventati competitivi. E avremmo dato dignità e fiducia in sè a generazioni che oggi si sentono prive di futuro, senza scopi nella vita, e invecchiano da bamboccioni senza spina dorsale e senza carattere: perché è il lavoro che dà dignità e carattere, è la coscienza del senso della propria fatica che fa maturare e diventare adulti.

I Giavazzi non tengono conto di questi costi – i costi della distruzione delle speranze e prospettive di intere generazioni – perché non sono monetizzabili, e non vengono quotati in Borsa. Ma sono proprio i valori non quotati quelli più inestimabili.

E’ per questo che non sono d’accordo quando mi dice che «l’economia è specialistica» e «ha fatto grandi progressi» da quando Allais ha preso il Nobel. Negli ultimi decenni, gli «economisti» che hanno preso i Nobel erano tutti matematici, specialisti in sistemi per vincere in Borsa, praticamente di sistemi per vincere nel gioco d’azzardo; privi dell’esperienza umana, umanistica, che richiede l’economia politica, l’economia a cui deve guardare lo Stato, inteso come il garante nei secoli di una comunità. A questi Nobel non importava nulla se l’America e l’Europa si impoverivano di competenze e di dignità e di intelligenze. Inoltre, per loro, il «rischio» di credito era solo un parametro, utile a chiedere maggior interessi: tutta una «scienza» economica, dei derivati e dei CDS (Credi Default Swaps), è nata per valutare questo «rischio» inteso come occasione di maggiori interessi.

Piccolo particolare: questi genii ignoravano che nell’economia reale, un «rischio di credito» che si avvera significa la chiusura di aziende per fallimento, il licenziamento di lavoratori, il collasso del potere d’acquisto e alla fine, anche la bancarotta degli «operatori finanziari» che avevano assicurato il «rischio».

Ed oggi, a che si riduce tutta la scienza di questi genii dei mercati?

In USA, si riduce a prendere a prestito dalla Federal Reserve denaro a tassi dello 0,5%, e a investire questo denaro in Buoni del Tesoro americani al 3,75%. Capirai. Ovviamente, questa operazione non porta alcun valore aggiunto all’economia, anzi avviene a spese dei contribuenti. E’ un comportamento criminale, ancorché «scientifico».

Studi anche un po’ di economia politica, caro giovane lettore Ferdinando. Studi i testi di Friedrich List, il grande avversario di Adam Smith, che insegnò a tutti gli Stati europei a creare ricchezza, modulando i dazi.

Lo dico a lei: perchè temo molto che le «competenze» che lei sta acquistando con lo studio quotidiano dell’economia liberista «scientifica», presto non varranno più molto sui «mercati».

Maurizio Blondet

mercoledì 3 marzo 2010

Il braccio violento della psichiatria


da il Manifesto

In una stanza al primo piano della clinica universitaria di Roma, l'11 aprile del 1938, un uomo sulla quarantina canta a squarciagola e urla che lo stanno uccidendo. L'uomo è stato fermato qualche giorno prima alla stazione ferroviaria da un paio di agenti, che lo hanno trovato abbastanza stravagante da sottoporlo all'esame dei medici. I medici, a loro volta, gli hanno diagnosticato una schizofrenia. La stanza in cui ora è disteso sul lettino viene sorvegliata dagli infermieri, mentre all'interno il dottor Ugo Cerletti gli strofina le tempie con un tampone e gli dice di stare tranquillo. Sono le undici e un quarto del mattino. Dopo tre scosse di corrente alternata l'uomo non muore, in effetti, ma non manifesta neppure le convulsioni epilettiche che Cerletti confidava di procurargli. A farsi venire in mente di curare la schizofrenia con quelle convulsioni era stato, solo due anni prima, l'ungherese Ladislas von Meduna, ma sembra che sia l'intero decennio a credere nella possibilità di sconfiggere le patologie nervose con la somministrazione di una dose scientifica e sperimentale di distruzione. Se le terapie di shock erano già inscritte nel corredo cromosomico della scienza psichiatrica e nel passaggio, operato da Esquirol, dal trattamento morale di Pinel al metodo della perturbazione, sono proprio gli anni '30 del '900 a decretarne il successo. Ci ha già provato con l'insulina il viennese Manfred Joshua Sakel, nel 1933, opponendo alla schizofrenia l'induzione di un ciclo di novanta stati di coma ipoglicemico. Poi è stata la volta di Meduna, con l'iniezione per via endovenosa di un succedaneo della canfora, il cardiazol, che un momento prima di scatenare la crisi epilettica procurava all'alienato una vera e propria esperienza del trapasso.

Mario Fiamberti, nel 1937, riformava il recentissimo sistema di trapanazioni e lobotomie messo a punto dalla psicochirurgia portoghese per praticare una iniezione di alcol direttamente nel lobo prefrontale, al quale accedeva perforando le orbite dei pazienti con ago e martello. Dunque, quando l'uomo sorpreso in sintomatologia di reato alla stazione di Roma si distende sul lettino, il dottor Cerletti sta semplicemente sperimentando un trattamento più umano di quanto non lo siano quelli predisposti dal paradigma terapeutico dell'epoca, connaturato - si direbbe - al valore della guerra come unica igiene del mondo. Se l'ipotesi di mobilitare l'epilessia contro l'insensatezza gliel'ha suggerita Meduna, in una genealogia della cura quantomeno equivoca ma confortata dal precedente dei malati di paralisi progressiva guariti in seguito all'inoculazione della malaria (un precedente che nel 1927 è valso il Premio Nobel al neurologo austriaco Julius Wagner von Jauregg), ora un'idea assolutamente originale lo coglie nel corso di una visita al mattatoio di Roma. Nei maiali elettrizzati prima di venire uccisi, infatti, Cerletti riconosce le stesse convulsioni che da tempo andava cercando nei suoi esperimenti sui cani ed è solo così, grazie ai maiali, come lui stesso preciserà dieci anni dopo, che nell'autunno del 1938 la ditta Arcioni di Milano può mettere in commercio una valigetta che contiene il contributo dell'Italia fascista allo sviluppo della psichiatria mondiale: l'elettroshock.
Ma il 1938 è soprattutto l'anno delle leggi razziali, che si abbattono come una mannaia sui maggiori centri di diffusione della psicoanalisi, la più avanzata e combattiva tra le possibilità di interferenza al programma di assoggettamento della malattia mentale al controllo tanto assoluto quanto ingiustificato della medicina. Un programma, questo, che molti anni prima di trovare nell'elettroshock lo strumento più adatto a rimuovere qualsiasi implicazione soggettiva dal rapporto tra medico e paziente, si era già imposto nella storia della scienza unitaria al momento della costituzione della Società italiana di freniatria, nel 1873. Freniatria, appunto, che della psichiatria cambiava solo il nome per rimarcare il proprio distacco da una radice etimologica che si era coniugata nella tradizione dei poeti, dei santi e dei filosofi. Perché adesso l'origine di tutto ciò che si manifestava alla superficie dei comportamenti e delle curvature esistenziali andava scovata «nella trama intima dei tessuti», vincolando la ricerca all'ambito delle localizzazioni e delle lesioni della corteccia cerebrale. Con l'affermazione dell'organicismo, però, mentre i compiti che si era assunto in sede congressuale si trasferivano progressivamente nel campo d'azione della neurologia, allo psichiatra non rimaneva molto altro da fare che governare la vita dei manicomi. Un governo nobilitato dalle aperture esclusivamente teoriche ai modelli dell'open-door e del no-restraint, ma che di fatto si riduceva all'impiego di un armamentario ottocentesco che anche i giornali, all'inizio del '900, cominciano a denunciare.
Da qui, dalla paradossale contemporaneità di una impostazione teorica integralmente organicista e di una legge che nel 1904 riconosce alla psichiatria un potere assoluto nella somministrazione di sbarre, catene, «camiciole», bagni terapeutici e punizioni corporali, parte la storia che Valeria Babini ha ricostruito in Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento. Una contemporaneità, questa, che rimarrà inalterata fino al 10 maggio del 1978, quando la Commissione igiene e sanità del Senato presieduta da Adriano Ossicini approverà la legge n. 180 in materia di trattamenti sanitari obbligatori. Così, il lavoro di Babini si può leggere anche come una rassegna di appuntamenti mancati e di ritardi endemici, legittimati ogni volta dalla riaffermazione di una fede nel modello anatomo-patologico che proprio in mancanza di una applicazione diretta sulla cura degli internati ne perpetua l'esclusione. Anche quando i due conflitti mondiali e l'emergenza delle «nevrosi di guerra» non lasciano più dubbi sul fatto che le emozioni possano essere altrettanto devastanti delle alterazioni morfologiche, la psichiatria italiana resta indifferente al vento di riforme che pure attraversa il Portogallo, l'Inghilterra, la Norvegia, la Svezia, gli Stati Uniti, la Francia e la Germania. Per modificarne gli assetti, allora, bisognerà attendere che il manicomio finisca nelle mani di uno psichiatra detto «il filosofo» e estraneo alla vita accademica, a ulteriore conferma di una verità che - anche in questi giorni di celebrazioni - rischia di non risultare abbastanza clamorosa. Perché uno dei meriti principali della ricerca di Valeria Babini consiste proprio nell'aver documentato come le condizioni disumane in cui sono stati tenuti i pazzi, prima di Franco Basaglia, non abbiano solo a che fare con un generico meccanismo di controllo sociale, ma chiamino direttamente in causa le responsabilità, la legge e i criteri di promozione del luogo in cui venivano mistificate: l'università italiana.

La violenza della malattia

hand on fire

Tempo fa ho visto un episodio del Dr House, che in preda ad allucinazioni visive terrificanti (vedeva la ragazza morta del suo migliore amico), credendo di essere diventato schizofrenico, malgrado la consapevolezza di malattia non si associ alla schizofrenia, si provoca un coma insulinico per scacciare il fantasma che lo perseguita e guarire così dai sintomi di quella malattia così come si guarisce da una polmonite.
House è l’esempio perfetto del pragmatismo che utilizza tutti i mezzi a disposizione per risolvere un problema nella maniera più efficace senza troppe complicazioni di tipo ideologico o deontologico.
Il gesto di House, al di là dell’aspetto fantasioso e troppo rigidamente consequenziale delle sue deduzioni, da l’idea di come sia impossibile considerare determinati fenomeni in campo medico, al di fuori di un contesto sociale e culturale che ne definiscono non tanto l’attendibilità in termini scientifici, quanto l’alone emotivo e i contenuti di potere che essi esprimono.
Il ruolo dei medici e degli psichiatri dei primi del novecento riflette un’asimmetria all’interno del corpo sociale, dove il “tecnico” deputato alla cura, nella fattispecie il medico alienista, era anche depositario di un potere assoluto sui malati delle classi inferiori. Un potere che si esercitava col diritto di abusare del malato e sperimentare su di lui qualsiasi cura. Il primato della medicina era anche il predominio sulle vite dei matti appartenenti ai ceti bassi, che rivestivano il ruolo ambivalente di malati e perturbatori sociali al tempo stesso. Elementi infetti da tenere isolati dal resto della società.
L’errore più grande è quello di associare le pratiche che i medici usavano ai ruoli e alle finalità di una società classista e razzista ed anche a un milieu intriso di terrore e di intimidazioni. Presi di per sé le terapie somatiche quando non sono eccessivamente brutali rivestono un ruolo neutrale. Certo il coma insulinico è brutale, ma anche gli interventi chirurgici o la chemioterapia lo sono, eppure nessuno si sognerebbe di proibire né gli uni né l’altra.
Intendiamoci non voglio affermare l’idea che bisognerebbe rivalutare il coma insulinico o l’ETC, voglio solo affermare che la violenza della psichiatria è stata e continua ancora oggi a essere principalmente una violenza istituzionale e sociale, che deve essere disgiunta dalle pratiche da essa adottate, almeno da quelle che non hanno un valore punitivo ma esclusivamente terapeutico. Per queste ultime vale il principio dell’efficacia provata con i criteri della scienza e non quello della ripulsa scatenata dalle immagini cruente che essi evocano. Il loro contenuto di violenza e di abuso è commisurato unicamente alla loro inutilità e all’arbitrarietà con cui vengono usate.
Purtroppo quando si parla di psichiatria si finisce per considerare un solo aspetto di questa, ed è quello riguardante la seconda parte della biografia di chi è affetto da malattie mentali, quello cioè inerente alla stratificazione della malattia e alle modificazioni irreversibili che essa provoca nella personalità dell’individuo.
Basaglia si è occupato di questo secondo tempo, ed ha ritenuto giustamente che nella fase di cronicità della malattia mentale, l’aspetto preponderante è il recupero della libertà e della dignità dell’individuo, poiché il problema a quel punto è unicamente quello di fare in modo che il malato e la società in cui egli è cresciuto, riescano a convivere nella maniera migliore possibile con ciò che l’individuo stesso è diventato. Lo stigma sociale e l’istituzionalizzazione inoltre, erano considerati essi stessi fattori favorenti l’instaurarsi di processi di cronicizzazione della malattia, da qui l'abolizione dei manicomi.
Si dirà che ciò che uno diventa è anche il frutto del contesto sociale in cui vive, e quindi diventa prioritario cambiare alla radice quello stesso contesto, ma tutto ciò è riduttivo e ci riporta alle sciagurate tesi della malattia mentale come prodotto della divisione in classi della società. L’atteggiamento della società nei confronti della malattia mentale e l'ordinamento sociale su cui essa si regge, condizionano il destino delle persone in maniera decisiva, ma raramente  sono causa diretta di malattia.
I basagliani odierni sono in larga parte ignari dei progressi della ricerca in campo medico-scientifico e sono tremendamente sospettosi verso qualsiasi fenomeno o atteggiamento in odore di organicismo. Se consideriamo la psichiatria come in ogni altra branca medica, non possiamo non tener conto che esiste una fase acuta della malattia e una fase cronica. L’aspetto terziario della malattia coinvolge processi di natura sociale e politica, e qui occorre certamente intervenire, ma l’aspetto primario richiama principalmente l’essenza biologica dell’umano, un’essenza che contiene in fieri la possibilità di ammalarsi a prescindere dalle appartenenze di classe e dal contesto sociale in cui vivi. Non possiamo ignorare quest’aspetto a meno di non voler considerare la cura del malato psichiatrico una ritualità che potrà essere addolcita dall’umanità di psichiatri democratici, ma non porterà mai a nessun reale progresso.
La violenza della malattia non è inferiore alla violenza delle istituzioni, anche se è una violenza neutrale. 

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...