venerdì 9 novembre 2018

Gli ex combattenti della Grande guerra e l’"orrido" sovranismo piccolo-borghese. Analogie ed errori a cent’anni di distanza

Domenico Moro da marxismo-oggi



“Coloro che non ricordano il passato sono costretti a ripeterlo”
George Santayana

Gli errori di cento anni fa
Cento anni fa aveva termine la Prima guerra mondiale. L’Italia ne uscì vittoriosa. Tuttavia, per assecondare le mire imperialiste del grande capitale industriale, pagò un prezzo molto superiore persino a quello della Seconda guerra mondiale: oltre 650mila caduti, centinaia di migliaia di feriti e mutilati e più di mezzo milione di vittime civili. Inoltre, la guerra provocò una crescita repentina ma squilibrata dell’industria, e, grazie agli enormi profitti e alle sovvenzioni statali, una fortissima centralizzazione del potere economico.
I quattro milioni di ex combattenti, dopo quattro anni di morte e sofferenza nelle trincee, ritornarono alle loro case ma non trovarono lavoro. Nelle città era difficilissimo riconvertire a scopi civili la ridondante industria bellica. Nelle campagne i proprietari avevano sostituito la forza lavoro partita per la guerra con moderni macchinari e non volevano espandere la produzione a causa della riduzione della domanda interna.
La guerra aveva scavato un solco tra le élite e le masse e l’Italia era attraversata da contraddizioni profonde che svilupparono ampie lotte sociali e democratiche. Il Partito socialista vinse le elezioni del 1919 con il 32,28% dei voti, seguito dai Popolari al 20,3% e dai Liberali al 15,9%. Inoltre, tra 1919 e 1920 il Paese fu attraversato da un imponente movimento di occupazione delle fabbriche. Eppure, nel giro di pochi anni la reazione capitalistica portò all’affermazione di una forza nuova, il fascismo, che la sinistra non riuscì a contrastare. Molti furono i fattori della vittoria fascista: le divisioni interne al Psi, il supporto degli apparati dello Stato, in particolare dello Stato maggiore dell’esercito e della monarchia. L’aspetto su cui crediamo valga la pena soffermarci è però un altro: l’incapacità dei socialisti e dei comunisti a entrare in contatto con i milioni di ex combattenti e con i settori intermedi della società, che finirono per diventare la massa di manovra del fascismo.
Contrariamente a quanto si può pensare, la massa gli ex combattenti era inizialmente tutt’altro che favorevole al fascismo[1], anzi molti ex combattenti saranno il nerbo della resistenza armata contro le squadre fasciste, come i pluridecorati Emilio Lussu e Ferruccio Parri, il quale successivamente sarà uno dei capi della Resistenza. Tuttavia, il partito socialista e poi il partito comunista fallirono nel compito di stabilire un rapporto con questo importantissimo settore della società dell’epoca, corteggiatissimo da Mussolini. Il partito comunista, guidato da Bordiga, rifiutò persino di collaborare con gli arditi del popolo. Una scelta criticata da Gramsci al Congresso di Lione del 1926: “Questa tattica [quella di Bordiga relativa agli arditi del popolo] (…) servì d’altra parte a squalificare un movimento di massa che partiva dal basso e che avrebbe potuto invece essere politicamente sfruttato da noi”[2]. Anche per queste ragioni i partiti operai non riuscirono a impedire la saldatura in un unico blocco sociale di piccola borghesia e grande capitale. Anni dopo, l’autocritica sarà molto severa. Così si esprime Palmiro Togliatti nelle famose Lezioni sul fascismo (1935).
“Nel periodo di sviluppo del fascismo italiano, prima della marcia su Roma, il partito ha ignorato questo importante problema: intralciare la conquista delle masse piccolo-borghesi malcontente da parte della grande borghesia. Questa massa era allora rappresentata dagli ex combattenti, da alcuni strati di contadini poveri in via di arricchimento, da tutta una massa di spostati creati dalla guerra. (…) Non abbiamo compreso che non si poteva semplicemente mandarli al diavolo. (…) Compito nostro era quello di conquistare una parte di questa massa, di neutralizzare l’altra parte onde impedire che diventasse una massa di manovra della borghesia. Questi compiti sono stati da noi ignorati.”[3]

Analogie con la critica al sovranismo piccolo-borghese
Ora, è possibile stabilire una qualche analogia tra la sinistra socialista e comunista di allora e quella di oggi? I periodi sono molto diversi. Come ho già spiegato altrove, non siamo davanti al fascismo, anche perché oggi sono altre le forme della neutralizzazione della democrazia rappresentativa[4]. Tuttavia, anche oggi, come allora, sebbene in modo apparentemente meno drammatico, l’Italia è attraversata da rivolgimenti economici e sociali non meno profondi di quelli che gli ex combattenti del 1918 si trovarono davanti. Di conseguenza, si è creata una spaccatura tra élite e masse, le une beneficiate e le altre impoverite allora dalla guerra mondiale, ora dalla mondializzazione e dalla integrazione economica e valutaria europea. Di fronte a questa situazione una parte consistente della sinistra (anche radicale e comunista) mostra una incomprensione del movimento sociale profondo, che conduce a una incomprensione del fenomeno sovranista e populista. Oggi come allora si regalano certi settori all’avversario politico e non ci si pone neanche il problema di neutralizzarli. Lascia, a questo proposito, un po’ perplessi sentir parlare di <> sovranismo piccolo-borghese[5]. Orrido, secondo il dizionario Treccani, significa “che mette nell’animo un senso di orrore, di ribrezzo e di spavento”. Insomma, un termine, mi pare, poco adatto a una oggettiva analisi sociale e politica. Inoltre, sembrerebbe esserci qualche confusione tra piccola borghesia - strato intermedio tra capitale e classe operaia (contenendo anche stipendiati e lavoratori autonomi senza o con qualche dipendente) - e il capitale vero e proprio. Infatti, il sovranismo, definito piccolo-borghese, viene però attribuito ai “capitali nazionali in affanno contro una devastante centralizzazione trainata dai capitali più forti e ramificati a livello globale”[6].
Ad ogni modo, a sinistra non pochi sembrano ritirarsi inorriditi dinanzi a un sovranismo giudicato con disprezzo espressione di un ceto bottegaio miserabile, evasore fiscale e fondamentalmente anticaglia del passato. Una visione che, in alcuni casi, si collega a una interpretazione deterministica del movimento del capitale, derivata da una lettura parziale e semplicistica di Marx. La centralizzazione dei capitali di cui Marx parla nel Capitale non significa che le classi intermedie spariscano d’incanto, togliendosi dalle scatole e semplificando, per farci un piacere, una realtà che semplice non è. Di certo, oltre cento anni di storia dimostrano che la centralizzazione non elimina le classi intermedie (anzi ne produce di altro tipo), né favorisce di per sé la presa del potere da parte del lavoro salariato, né tantomeno la sua ricomposizione economica o politica. Era, invece, questa la concezione meccanicistica di Rudolf Hilferding, autore del pur importante Il capitale finanziario, già ministro socialdemocratico della Repubblica di Weimar e convinto che la centralizzazione sarebbe andata avanti fino alla definitiva e automatica socializzazione di imprese e banche da parte di una disciplinata classe operaia unita nel partito socialdemocratico e nei suoi sindacati[7]. Sindacati la cui preziosa organizzazione andava preservata e non messa a rischio in uno sciopero generale contro Hitler, come ebbe a dire un Hilferding fiducioso nel sistema democratico, appena pochi giorni prima di darsi alla fuga braccato dalla Gestapo, dopo la vergognosa resa dei sindacati stessi[8].
L’importanza delle classi intermedie
La verità è che Marx in tutte le opere, dove analizza le formazioni economico-sociali concrete, segue attentamente il movimento di tutte le varie classi, comprese quelle intermedie fra capitale e lavoro salariato, indicando come strategica l’alleanza della classe operaia con i settori intermedi, a partire da quello allora principale, la classe contadina piccola proprietaria.[9] Lenin e dopo di lui Gramsci dedicarono molte energie alla teoria e alla pratica delle alleanze di classe, che per l’appunto presuppongono l’esistenza di una pluralità di classi subalterne. Del resto, la Rivoluzione d’Ottobre vinse anche grazie alla parola d’ordine, poco ortodossa secondo il metro di alcuni, della terra ai contadini. Anzi, per Lenin, che parla proprio a proposito della situazione creatasi nel primo dopo-guerra (1920):
“Il capitalismo non sarebbe capitalismo se il proletario <> non fosse circondato da una folla straordinariamente variopinta di tipi intermedi tra il proletariato e il semiproletario (colui che si procura da vivere solo a metà mediante la vendita della propria forza-lavoro), tra il semiproletario e il contadino (e il piccolo artigiano e il piccolo padrone in generale), tra il piccolo contadino e il contadino medio, ecc.; e se in seno la proletariato non vi fossero divisioni per regione, per mestiere, talvolta per religione, ecc. E da tutto ciò deriva la necessità, la necessità incondizionata, assoluta per l’avanguardia del proletariato, per la parte cosciente di esso, per il partito comunista di destreggiarsi, di stringere accordi, compromessi con i diversi gruppi di proletari, con i diversi partiti di operai e piccoli padroni. Tutto sta nel saper impiegare questa tattica allo scopo di elevare e non di abbassare il livello generale della coscienza proletaria, dello spirito rivoluzionario del proletariato, della sua capacità di lottare e vincere.”[10]
Gramsci, che indica come seconda forza motrice della rivoluzione italiana i contadini del Mezzogiorno e delle altre parti d’Italia[11], scrive:
“In nessun Paese il proletariato è in grado di conquistare il potere e di tenerlo con le sole sue forze: esso deve quindi procurarsi degli alleati, cioè deve condurre una tale politica che gli consenta di porsi a capo delle altre classi che hanno interessi anticapitalistici e guidarle nella lotta per l’abbattimento della società borghese.”[12]
Oggi, certamente i settori intermedi non sono quelli dell’epoca Marx e neanche di Lenin, ma esistono e sono particolarmente numerosi in Italia[13], così come la classe lavoratrice è divisa al suo interno per molti aspetti. La crisi e la concentrazione e centralizzazione dei capitali non li hanno eliminati, li hanno riempiti di paura e rabbia, allo stesso modo della classe operaia e del lavoro salariato tutto. Quello che viene definito sovranismo piccolo-borghese è l’espressione di questa paura e di questa rabbia. Definirlo “orrido”, di fronte alle conseguenze devastanti sulla società e sulle classi subalterne italiane ed europee prodotte dal trasferimento della sovranità sul bilancio pubblico e sulla valuta a organismi europei, acquista il sapore amaro della beffa. La mancata comprensione di questa situazione così come la sottovalutazione dei suddetti sentimenti di paura porta la sinistra (compresa in parte quella radicale e comunista) ad allontanarsi ancora di più dai settori popolari e a regalarli a chi sta costruendo il suo blocco sociale reazionario, come la Lega. Questa, ormai sempre più “nazionale”, sta mettendo insieme classe operaia del Nord, artigiani, lavoratori autonomi, partite iva, piccolissima, piccola e media impresa. Ma essa non parla solo a questi settori, parla anche a pezzi di capitale più importanti, grandi imprese e banche, con una forte base nazionale, ma non necessariamente non internazionalizzate, che nel mercato domestico sono state penalizzate dall’austerity europea e sui mercati europei e extraeuropei dalla concorrenza dei capitalismi francese e tedesco e dalla loro invadenza negli assetti proprietari delle imprese italiane. Bisogna, quindi, fare attenzione a individuare, tra tutte queste classi e settori, quelle che, per dirla con Gramsci, rappresentano la vera <> della Lega, distinguendole da quelle che ne sono la <>. Insomma, anche se non siamo davanti al fascismo, siamo davanti alla stessa capacità di formare un blocco che metta insieme piccola borghesia con grande borghesia, più pezzi importanti di lavoro salariato e classe operaia. Quest’ultima è una delle differenze maggiori con gli anni ’20. Ed è per questo che la situazione richiede ancora maggiori capacità di fare politica.
Conclusioni
Certe affermazioni sul sovranismo, invece, portano al rifiuto della politica, intesa come terreno pratico della costruzione e della modifica dei rapporti di forza fra le classi e i settori di classe. Rifugiarsi in astratte formule ideologiche rafforza proprio quelle tendenze, soprattutto il tatticismo elettoralista, che si vorrebbero eliminare e che ci hanno fatto perdere consensi. Dovremmo avere ormai capito che in un Paese con la storia e la struttura di classe dell’Italia va quantomeno neutralizzato, per usare le parole di Togliatti, il possibile ruolo reazionario di certi settori e classi sociali. Bisogna evitare di <> e individuare, all’interno della piccola borghesia e del lavoro indipendente, i settori con i quali, per le loro condizioni oggettive, si possano stabilire delle interlocuzioni sociali e politiche in funzione anticapitalistica. Anche per queste ragioni non ci si può permettere di lasciare il tema della sovranità e della lotta contro la Commissione europea e la Bce alla Lega e al Movimento cinque stelle, né si può restare sul vago sul ruolo dell’integrazione economica e valutaria europea e sulla posizione da assumere al riguardo. Bisogna, al contrario, avere la capacità di entrare nel cuore della battaglia politica, che è rappresentato dall’Europa, declinando la sovranità nell’unico modo in cui abbia senso, cioè in termini di sovranità democratica e popolare, come del resto recita la Costituzione, e dal punto di vista della classe lavoratrice. Quindi, non si tratta di un recupero della sovranità (genericamente nazionale) per rafforzare le posizioni del capitale “italiano”, ma del recupero e dell’allargamento democratico della sovranità popolare per modificare i rapporti di forza a favore del lavoro salariato e delle classi subalterne, bloccate nella gabbia del “vincolo esterno”. Ciò richiede, evidentemente, una maggiore capacità di lettura della composizione di classe della società italiana, una proposta economica nuova e organica, e soprattutto la volontà politica di porre le basi per la ricomposizione della classe lavoratrice e per la costruzione di un nuovo blocco sociale di alternativa al capitalismo, cioè di alleanze sociali e politiche tra il lavoro salariato e tutti i settori subalterni al grande capitale. Oggi l’integrazione europea – cioè la compressione della democrazia, della spesa pubblica, e del salario – è l’elemento non unico ma certamente centrale per la costruzione di un tale blocco sociale.

[1] Al primo congresso dei combattenti nel 1918 a Mussolini non fu neanche permesso di parlare.
[2] A. Gramsci, “Il Congresso di Lione”, in La costruzione del partito comunista, Einaudi, Torino 1971, p. 487.
[3] P. Togliatti, Corso sugli avversari, Einaudi, Torino 2010, pp. 8-9.
[4] D. Moro, “Quale antifascismo nell’epoca dell’euro e della democrazia oligarchica?”, Sinistra in rete, 26 settembre 2017. Vedi anche D. Moro, La gabbia dell’euro. Perché uscire dall’euro è internazionalista e di sinistra, Imprimatur, Reggio Emilia 2018.
[5] E. Brancaccio, “Classe (lotta di)”, in l’Espresso, 7 ottobre 2018.
[6] Ibidem.
[7] R. Hilferding, Il capitale finanziario, Mimesis edizioni, Milano 2011, p. 487.
[8] Episodio riferito all’economista Pietranera da un amico tedesco che parlò con Hilferding dopo la nomina di Hitler a cancelliere. Va ricordato che Hilferding pagò con la vita la sua militanza, morendo esule in Francia in circostanze ancora non chiarite. Sulla resa imbelle dei sindacati tedeschi e il rifiuto socialdemocratico di un fronte comune con i comunisti vedi F. Neumann, Behemot. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Bruno Mondadori, Milano 2000.
[9] K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, Editori riuniti, Roma 1973. K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Editori riuniti, Roma 1977, pp. 212-216.
[10] Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 115. Il corsivo è mio.
[11] Cfr. A. Gramsci, “Tesi di Lione”, in La costruzione del partito comunista, op. cit., p.499.
[12] A. Gramsci, “Il congresso di Lione”, in op. cit., p. 483.
[13] Senza considerare i settori superiori del lavoro “dipendente” (management, ecc.), solo i lavoratori autonomi o indipendenti (15-74 anni), sebbene fortemente diminuiti con la crisi, sono quasi 5 milioni, di cui quasi 3,6 senza dipendenti. In Germania, con forze di lavoro molto più numerose, i lavoratori autonomi sono quasi 4 milioni (Eurostat database, LFS main indicators). L’Istat considera anche i coadiuvanti e arriva a circa 5,4 milioni, ossia il 23,2% degli occupati contro il 15,7% della media Ue (Focus – I lavoratori indipendenti. II trimestre 2017, 5 novembre 2018). Bisogna tenere conto che si tratta di un universo molto differenziato dal punto di vista del reddito, di classe e del rapporto con il capitale. Gli imprenditori veri e propri sono 273mila, mentre i lavoratori in proprio e i professionisti con dipendenti sono 1,1 milioni. Rimangono quasi 4 milioni di autonomi senza dipendenti.

Il ritorno del partito

di Paolo Gerbaudo da rifondazione.it



Perché sono tornati i partiti di massa? Perché sono ancora il modo migliore affinché coloro che non hanno potere, possano sfidare i potenti. Pubblichiamo la traduzione di un articolo dal sito della rivista americana Jacobin. 
E’ un luogo comune osservare come l’epoca post crisi sia definita dall’ascesa di movimenti populisti sia sul fronte della sinistra che su quello della destra, nel mezzo di una crescente polarizzazione politica. Tuttavia, non è stata sufficientemente sottolineata la centralità del partito nell’arena politica. In Occidente, e in Europa in particolare, stiamo assistendo ad una rinascita del partito politico. Sia i vecchi partiti, come quello Laburista in Gran Bretagna, che quelli nuovi, come Podemos in Spagna e la France Insoumise, hanno visto una crescita enorme nel corso degli anni, ponendosi tra l’altro al centro di importanti innovazioni organizzative. Dal momento che per molti anni sociologi e politologi hanno concordato nel preannunciare la perdita del primato del partito politico in una società digitale sempre più globalizzata e diversificata, questa rinascita della forma partitica è degna di nota. In effetti, l’attuale ritorno della sinistra ha di fatto smentito queste previsioni. La tecnologia digitale non ha rimpiazzato il partito. Gli attivisti l’hanno piuttosto utilizzata al fine di sviluppare meccanismi innovativi per fare appello ai cittadini, pur riaffermando la forma partitica quale strumento principale per la lotta politica.
Previsioni maldestre
Il fatto che i partiti politici stiano tornando nuovamente alla ribalta, è innanzitutto evidente dal crescente numero di membri all’interno dei partiti, una chiara svolta rispetto al progressivo calo di adesioni a cui hanno dovuto assistere molti partiti storici europei all’inizio degli anni Ottanta. In Gran Bretagna, il Partito Laburista sta per raggiungere i 600.000 membri, dopo aver raschiato il fondo nel 2007, alla fine del mandato di Tony Blair, con appena 176.891 adesioni. In Francia, la France Insoumise di Jean Luc Melenchon conta 580.000 sostenitori, rendendolo il più grande partito della Francia, dopo appena un anno e mezzo dalla sua fondazione. In Spagna, Podemos, fondata nel 2014, ha più di 500.000 membri, più del doppio rispetto al Partito socialista. Persino negli Stati Uniti, una nazione che per gran parte della sua storia non ha mai assistito alla nascita di partiti di massa nel senso europeo del termine, possiamo notare una tendenza simile, in quanto i Socialisti Democratici d’America (DSA), la più grande formazione socialista della nazione, ha raggiunto i 50.000 membri, all’indomani della candidatura di Bernie Sanders alle primarie del Partito Democratico, nel 2016. Questa spettacolare crescita delle adesioni ai partiti di sinistra – molti dei quali di nuova formazione – contrasta considerevolmente con le previsioni che sono state fatte, fino a poco tempo fa, da molti politologi. Nel bel mezzo della crescente apatia degli elettori, nonché del calo delle adesioni, a molti il partito politico sembrava una tipologia organizzativa ormai superata – una caparbia reliquia di un passato che fu. Nel 2000, rinomati politologi del calibro di Russell Dalton e Martin Wattenberg hanno affermato che “oggi vi sono prove sempre più numerose che evidenziano un declino del ruolo dei partiti in sede di assetto delle politiche delle progredite democrazie industriali. In molti hanno dimostrato che i partiti politici hanno assistito al calo delle adesioni e l’opinione pubblica attuale sembra divenire sempre più scettica di fronte ai partiti politici.” Lo studente irlandese Peter Mair ha sostenuto che noi siamo testimoni del tramonto dell’“era della democrazia partitica”, sottolineando il ruolo di alcuni fenomeni, come l’instabilità dell’elettorato e la crescita di un diffuso “sentimento anti-politico”, nel declino dei partiti politici.
Oltre ad essere un commento relativo al calo delle adesioni agli storici partiti di massa, tale diagnosi ha tratto la propria ispirazione dalle teorie postmoderne sulla “fine della storia”; una profezia che, per molti, prevedeva anche la fine del partito, attore storico decisivo in gran parte della teoria marxista tradizionale. Nel mezzo dell’estrema differenziazione e individualizzazione della “società delle reti” descritta dal sociologo Manuel Castells, in cui vi è sempre più spazio per l’autonomia e la flessibilità individuale, tutte le organizzazioni si accosterebbero alla morfologia orizzontale delle rete, a scapito della struttura verticale della piramide che ha sempre prevalso nelle organizzazioni dell’era industriale. Non si tratta di un buon auspicio per il futuro del partito politico, che, per sua natura, necessita della presenza di una struttura di comando centralizzata che imponga la disciplina e la sottomissione delle volontà individuali per un obiettivo comune. Oltre a ciò, si percepiva anche una crisi nell’identificazione dei partiti. Le identità di classe non erano più considerate capaci di mobilitare gli elettori, e i partiti diventavano sempre più organizzazioni “per tutti”, alla ricerca opportunistica di voti laddove vi fosse una falla nel “mercato elettorale”.
 Questa sociologia dalla complessità, personalizzazione e disintegrazione di classe estreme veniva accompagnata dalla persuasione che in un mondo globalizzato, il partito avrebbe perso importanza per la semplice ragione che lo stato-nazione – l’oggetto di conquista tradizionale nonché quadro dell’operazione del partito – diminuiva il suo potere a favore di istituzioni governative globali. Antonio Negri e Michael Hardt, autoproclamatisi “marxiani” maîtres à penser, celebravano la transizione dagli stati-nazione all’impero globale, non collocandosi lontano dal modo in cui l’editorialista del New York Times Thomas L. Friedman sviolinava sull’imminente vittoria della globalizzazione contro le nazioni. La situazione globale sembrava favorire altri tipi di organizzazione collettiva, operando a livello transnazionale e prestando attenzione alle “singole questioni”: proteste di rete, movimenti sociali, beneficenza, ONG. E’ significativo che il Forum sociale mondiale, il principale incontro dei movimenti contrari alla globalizzazione, abbiano esplicitamente escluso i partiti, come se questi non solo fossero obsoleti, ma persino moralmente riprovevoli.
 Il sospetto anti-partito

Questo forte sentimento anti-partito, che ha modellato la formazione politica degli attivisti di sinistra delle generazioni passate, ha caratterizzato le convinzioni alla base delle torsioni autoritarie.
Il nazismo e lo stalinismo hanno dimostrato fino a che punto il partito avrebbe potuto trasformarsi in una crudele macchina incline alla manipolazione dei suoi membri e all’obbligo dell’obbedienza incondizionata. Il cinema e la letteratura ci hanno tramandato vividi ritratti dell’effetto malevolo dell’obbedienza al partito, sia a livello psicologico che politico. Basti considerare, ad esempio, l’abominio del partito nazista di Hitler o i processi farsa e le persecuzioni condotte dai partiti comunisti del blocco sovietico, da cui trae ispirazione il romanzo di Arthur Koestler, Buio a mezzogiorno. I “partiti di massa” socialdemocratici più benigni hanno dato origine ad uno scontento diffuso. Ma il vero problema era il modo in cui questa critica giustificata era diventata alleata di un rancore liberale di vecchia data nei confronti del partito politico, sostenuto da una paura antidemocratica delle masse organizzate e delle loro rivendicazioni di controllo democratico e di ridistribuzione economica. Questo discorso liberale ha una storia molto lunga alle spalle, riconducibile alle origini della democrazia moderna. Personalità anche molto diverse tra loro come James Madison, Moisey Ostrogorski, John Stuart Mill, Ralph Waldo Emerson, e Simone Weil avevano criticato con forza il partito politico. Avevano attaccato i partiti politici per aver sottomesso l’individuo all’obbedienza e all’uniformità, asserendo che invece di porsi al servizio degli interessi generali della società civile, avevano finito per difendere gli interessi ristretti di una fazione. Emerson, ad esempio, come è noto, sosteneva che “una setta o una partito sono eleganti incognite volte a salvare l’uomo dal cruccio di dover pensare,” mentre l’anarchica cristiana Simone Weil aveva scritto che i partiti politici avevano creato una condizione in cui “invece di pensare, ci si schiera semplicemente: a favore o contro. Una tale scelta sostituisce l’attività della mente.”
In epoche neoliberali, questa preoccupazione per la libertà individuale è tornata ad essere attuale nella proclamata celebrazione dello spirito imprenditoriale e della spontaneità di forze di mercato deregolamentate, facendo sembrare qualsiasi forma di organizzazione collettiva come una sorta di impedimento illegittimo. Ne La società libera di Friedrich von Hayek, il più importante filosofo neoliberale del “pensée unique” (“pensiero unico”), è noto per aver espresso la sua sfiducia nei confronti dell’ordine costruito (taxis) e la sua fiducia verso l’ordine spontaneo (kosmos) della società, modellato sul presunto libero scambio del mercato. Il partito politico, come lo Stato, viene dunque rappresentato come una sorta di grigio e burocratico Leviatano che minaccia la libertà, l’espressione autentica, la tolleranza, e il dialogo. Purtroppo, questo pensiero unico è stato assorbito inconsapevolmente da molti movimenti antiautoritari emersi a seguito delle proteste studentesche del 1968, che hanno fatto proprie le denunce dei neoliberali nei confronti delle organizzazioni collettive e della loro burocrazia, nel nome dell’autonomia e della libera espressione personale. Ironicamente, oggi gran parte del disprezzo popolare nei confronti del partito politico è esso stesso il prodotto di un’ideologia neoliberale, nonché del modo in cui negli anni Novanta e Duemila questa ideologia ha facilitato la trasformazione dei vecchi partiti di massa dell’epoca industriale in nuovi “partiti liquidi”, progettati come i “partiti professionali/elettorali” americani. Questi partiti, il cui cinismo è ben chiaro nell’immaginario comune grazie a serie TV come House of Cards e The Thick of It, hanno sostituito i vecchi burocrati con giornalisti di regime, e i quadri del partito hanno lasciato spazio a consulenti di sondaggi e di comunicazione. Quindi, quando persone con convinzioni diverse si scagliano contro i partiti politici, possono anche avere concezioni di partito differenti. Tuttavia, sembra che per loro ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato nella forma partitica in sé.
Organizzare le masse popolari
Perché, dunque, il partito politico sta facendo il suo ritorno, nonostante tutte queste critiche?
Questa rinascita del partito, messa in luce negli ultimi anni da autori come Jodi Dean, è il riflesso del fondamentale bisogno politico della forma partitica, specialmente in tempi di crisi economica e di crescente disuguaglianza. Il partito politico è la struttura organizzativa attraverso la quale le classi popolari possono unirsi per sfidare la concentrazione di potere che caratterizza gli straricchi oligopoli economici; si tratta, quindi, di sfidare gli stessi attori che hanno sfruttato la crisi finanziaria per imporre un impressionante trasferimento di ricchezze nelle loro stesse mani. Anni di neoliberalismo hanno convinto molti che i loro bisogni materiali potevano essere soddisfatti grazie al proprio sforzo individuale, allo spirito imprenditoriale, alla competizione, all’interno di un presunto sistema meritocratico. Ma il fatto che il capitalismo finanziario abbia fallito nel creare benessere economico, ha indotto molti a pensare che l’unico modo per promuovere i propri interessi sia quello di unirsi ancora una volta in un’associazione politica organizzata. Questa reazione quasi istintiva alla difficoltà economica serve a dimostrare il ruolo permanente del partito, così come i mezzi attraverso cui un’unità di classe può realizzare una volontà collettiva per diventare una forza politica. Questa idea, infatti, è stata per lungo tempo discussa all’interno della tradizione marxista; dall’analisi di Karl Marx e Friedrich Engels del Manifesto del partito comunista al dibattito di Lenin sul partito di avanguardia, alle osservazioni di Antonio Gramsci sul “moderno principe” nei Quaderni del carcere, fino ad arrivare alle riflessioni di Nicos Poulantzas in Political Power and Social Classes. Il partito di avanguardia leninista e il partito di massa socialdemocratico hanno fornito diverse soluzioni per affrontare questa missione. Tuttavia, entrambi alla fine hanno innalzato un’immensa burocrazia per adempiere al compito descritto da Gramsci: “centralizzare, organizzare e disciplinare” la massa dei sostenitori. Robert Michels, uno dei pionieri della teoria del partito moderno, ha attaccato questa crescente burocrazia, considerandola la fonte della “legge ferrea dell’oligarchia”. Ma, ciononostante, riteneva che la sua progressiva affermazione riflettesse una necessità fondamentale dell’organizzazione di massa. “L’organizzazione, essendo basata sul principio del minimo sforzo, ossia sul massimo risparmio di energia, è l’arma del più debole contro il più forte.” Il partito quindi opera come un “aggregato strutturale” che fornisce ai suoi membri il modo per amalgamare le forze e sconfiggere l’isolamento – che, come ha sottolineato Nicos Poulantzas, altrimenti caratterizzerebbe la vita dei lavoratori, costantemente disorganizzati dalla politica del “divide et impera” portata avanti dal capitale e dallo Stato. Sebbene la classe media si sia ramificata in molte direzioni (ad esempio, le divisioni tra capitale commerciale, industriale e finanziario), è molto più agevolata ad unirsi perché, oltre ad essere poco numerosa, possiede zone chiave per l’aggregazione sociale, come porti, golf resort, logge massoniche, e club Rotary, per non parlare dei giuramenti di sangue che vengono celebrati durante i matrimoni misti. In risposta a questa intensa opposizione, i partiti politici costituirebbero sostanzialmente le “armi dei poveri”. Come ha scritto il sociologo americano Anson D. Morse, ci sono i mezzi per “unificare le moltitudini”, unendo forze che altrimenti andrebbero disperse e portandole ad avere il solo obiettivo di sfidare con credibilità la concentrazione del potere economico. È proprio questo il motivo per cui sono sempre stati disprezzati dalle élite liberali, ma è anche la ragione per cui sono stati avvicinati con sospetto dal piccolo borghese che, come affermava il sociologo francese Maurice Duverger, ha paura dell’encadrement [avere una struttura imposta] e di perdere la sua autonomia individuale. Oggi, siamo di fronte ad un’economia digitale che sta dividendo ed isolando i lavoratori tramite l’outsourcing, la riduzione del personale, la supervisione algoritmica da remoto – visibile, ad esempio, in aziende come Uber e Amazon. In questo nuovo contesto, la necessità che il partito operi come un “aggregato strutturale”, riunendo il potere di molti individui isolati, è di fondamentale importanza. Ciò è particolarmente vero dal momento che mentre i partiti sono chiaramente e nuovamente in crescita, come viene evidenziato dal moltiplicarsi delle adesioni, non si può dire di certo la stessa cosa per quanto riguarda i sindacati e altre forme tradizionali di organizzazione popolare. Nell’epoca post-crisi, i partiti politici devono sicuramente porsi l’obiettivo della rappresentanza politica, di cui si sente di nuovo evidentemente bisogno. Inoltre, devono anche compensare il fallimento comparativo di altre forme di rappresentanza sociale, per dar voce agli interessi dei lavoratori e richiedere concessioni ai datori di lavoro. Tutto sommato, non dovrebbe sorprendere che in tempi segnati da una grottesca disuguaglianza sociale e da un individualismo incontrollato, il partito politico stia tornando a vendicarsi. Evidentemente, il “principe ipermoderno” (per distinguerlo dal “moderno principe” descritto da Gramsci) è molto diverso dal partito burocratico dell’era industriale, sebbene abbia tentato in modo simile di costruire spazi di partecipazione di massa. Come si è notato bene nelle nuove formazioni come Podemos e France Insoumise, le organizzazioni politiche in ascesa spesso hanno una struttura centrale di comando molto minimale e rapida, paragonabile allo “slanciato” modello operativo delle imprese start-up dell’economia digitale. Queste formazioni potrebbero etichettarsi come “movimenti”, per via delle associazioni negative ancora evocate dal partito politico nella sinistra. Ma, in fin dei conti, sono a tutti gli effetti partiti politici. Si possono intendere come tentativi di innovare la forma partitica e renderla adatta alle circostanze attuali, in cui la vita sociale quotidiana è decisamente differente rispetto alle condizioni dell’epoca industriale in cui si era affermato il partito di massa. Questi nuovi partiti si stanno progressivamente affermando in un contesto in cui le filiali locali, i quadri, e il complesso sistema di delegazione tipica dei partiti socialisti tradizionali e comunisti, sono divenuti in gran parte inefficaci. Gli attivisti stanno tentando di indirizzare questa sfida utilizzando vari strumenti digitali, tra cui piattaforme online partecipative, basata sul sistema OMOV (“one man, one vote”), in cui tutti gli utenti registrati sono invitati a partecipare alle decisioni online. Come descrivo in The Digital Party: Political Organisation and Online Democracy, vi è un dibattito acceso per cui, all’interno e al di fuori di queste formazioni, ci si chiede se il passaggio dalla “democrazia delegata” ad una democrazia diretta online sia effettivamente un miglioramento. E, infatti, alcune di queste organizzazioni si stanno allontanando dalla “legge ferrea dell’oligarchia” denunciata da Michels, solo per poi scontrarsi con un “plebiscitarianismo” digitale ugualmente problematico, accompagnato da una guida carismatica – una sorta di iperleadership che sta al di sopra. Tuttavia, questa trasformazione a livello organizzativo dovrebbe essere accolta come un audace tentativo di far rivivere la forma partitica. Ciò è particolarmente vero in un’epoca in cui vi è una particolare urgenza di aggregare le classi popolari in un attore politico comune, se si vuole dare una scrollata all’equilibrio di forze che propende decisamente a favore delle élite economiche. Fare appello a questo obiettivo strategico farà sollevare domande spinose sul potere e sull’organizzazione interna a cui, per troppo tempo, gli attivisti di sinistra si sono sottratti. Contrariamente a ciò che alcuni hanno affermato all’alba del nuovo millennio, non c’è modo di “cambiare il mondo senza prendere il potere”. E non c’è modo di prendere il potere e cambiare il mondo senza ricostruire e trasformare i partiti politici.
traduzione di Daniele Iannello

domenica 14 ottobre 2018

Il Diario di Spinoza: Il socialismo in 24 ore

Il Diario di Spinoza: Il socialismo in 24 ore: di Nicodemo Si potrebbe fare, in 24 ore. Si potrebbe mettere su un partito che raccolga tutti i socialisti, movimentisti, partitisti e ...

martedì 9 ottobre 2018

L’esplosione del debito pubblico senza un prestatore di ultima istanza

di Domenico Moro da economiaepolitica.it



I trattati europei e l’euro, imponendo austerità e inibendo l’implementazione di politiche economiche su misura per le necessità dei singoli Paesi, hanno ottenuto il risultato opposto a quello previsto dai decisori politici e dalla dirigenza della Banca d’Italia negli anni’80 e ’90: il debito pubblico italiano è aumentato.
Il debito pubblico è in Italia uno dei temi principali, se non il principale, attorno al quale ruotano il dibattito economico e le scelte politiche. Il debito pubblico, giudicato eccessivo, è stata una delle motivazioni per l’adesione all’euro e ai trattati europei, allo scopo di costringere governi e parlamenti a una maggiore disciplina di bilancio, incidendo anche oggi sulle scelte di spesa e di politica economica. La maggior parte del debito pubblico attuale si è formata tra l’inizio degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, raddoppiando dal 59,9% sul Pil del 1981 al 124,9% del 1994. Nonostante i vincoli europei alla spesa pubblica, oggi il debito risulta superiore ai livelli dei primi anni ’90, raggiungendo il 131,8% sul Pil contro il 75,7% della media Ue e il 79% della media dell’area euro, ed essendo inferiore in Europa al solo debito greco.
L’obiettivo del presente articolo è capire perché il debito è raddoppiato tra 1981 e 1994 e perché successivamente non si è riusciti a ridurlo in modo significativo e duraturo.
Fig. 1 – Andamento del debito pubblico di Italia, Francia, Regno Unito, Germania e Spagna (in % sul Pil; 1861-2017)

Fonti: Imf; Banca d’Italia; Direction de la statistique generale et de la documentation; Statistisches Jahrbuch für das Deutsche Reich, Wirtschaft und Statistik, cit. in O. Nathan, The nazi war economy; P. Jockstock, The long term growth of national income in Germany; Fisk, French Public Finance in the Great War and Today.
Bisogna premettere che l’Italia è caratterizzata storicamente, sin dai primi decenni dopo l’Unità,  da un debito pubblico relativamente alto rispetto al Pil, in conseguenza delle ingenti spese sostenute per lunghe guerre d’indipendenza, per la politica coloniale, l’organizzazione di una amministrazione nazionale e il sostegno pubblico dell’accumulazione autoctona di capitale. Tuttavia, il divario con gli altri grandi Paesi europei non è mai stato né così ampio né così completo come nell’ultima fase storica, compresa tra il 1982 e il 2017 (fig.1). Ad esempio, nell’ultimo ventennio del XIX secolo il debito pubblico italiano era in linea con quelli spagnolo e francese e, tra 1915 e 1945, nonostante le enormi spese dovute al continuo stato di guerra (Prima e Seconda guerra mondiale, Libia, Etiopia, Spagna) e la socializzazione delle perdite del capitale bancario e industriale durante la Grande crisi degli anni ‘30, rimase ben al di sotto di quello britannico e francese. Anche tra il 1945 e il 1975 il livello del debito rimase abbastanza basso e non troppo dissimile da quello degli altri Paesi.
L’interpretazione prevalente, ormai radicata nel senso comune, attribuisce il raddoppio del debito pubblico all’eccesso di spesa da parte dei governi socialisti e democristiani degli anni ‘80, dovuta in particolare alla corruzione e al clientelismo. Un’altra interpretazione riconduce l’accumulo del debito al saldo negativo del rapporto entrate/spese, quindi a un eccesso di spesa relativamente alla scarsità di entrate, dovuta alla bassa pressione fiscale e/o alla evasione ed elusione fiscale.
Fenomeni di corruzione e di clientelismo si sono verificati e hanno inciso sull’efficienza e sulla redistribuzione della spesa pubblica tra le classi sociali, ma non sono stati determinanti per la crescita del debito in rapporto al Pil. La spesa statale al netto degli interessi in rapporto al Pil – ossia la spesa per trasferimenti alle famiglie e alle imprese e per stipendi, beni, servizi acquistati dalla Pa, che include anche la corruzione e le spese inefficienti e clientelari  – risulta, tra 1982 e 1994, sempre al di sotto della media dei Paesi dell’area euro e della Ue. Viceversa la spesa per interessi in rapporto al Pil è sempre notevolmente al di sopra della media dei Paesi dell’area euro e della Ue e in crescita sostenuta tra 1982 e 1993. Nel 1993, quando la spesa pubblica italiana, al netto degli interessi, raggiunge il picco, rimane nettamente inferiore (45,7% sul Pil) a quella dell’area euro  (48,6%). Viceversa, nello stesso anno la spesa per interessi risulta di quasi tre volte superiore (12,1%) a quella dell’area euro (4,2%)[1]. Considerando tutto il periodo 1982-1994 La spesa media annua italiana, al netto degli interessi, raggiunge il 43,3% mentre quella per interessi tocca il 9%, contro rispettivamente il 46,4% e il 3,7% medi dell’area euro (fig.2).
Fig. 2 – Spese al netto degli interessi e spese per interessi di Italia e area euro (in % sul Pil; 1980-2017)

Fonte: Banca d’Italia, Statistiche di finanza pubblica nei Paesi europei (1999, 2006, 2018)
L’aumento dell’incidenza della spesa per gli interessi sul debito è dovuta alla crescita vertiginosa dei tassi d’interesse sui titoli di stato a partire proprio dal 1982 (fig.3). Tale fenomeno va osservato tenendo presente il tasso reale o effettivo, cioè al netto dell’inflazione, in quanto sulla formazione o sulla riduzione dell’accumulo di debito gioca un ruolo importante l’inflazione che, a seconda che cresca o diminuisca, porta proporzionalmente a una riduzione o a una crescita del debito. Infatti, nelle fasi di iperinflazione subito dopo la Prima e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale il debito è crollato verticalmente in tutti i Paesi coinvolti, a partire dall’Italia, che passò da un debito del 112,6% sul Pil nel 1943 al 28,7% nel 1948 (fig.1). Per quanto riguarda il nostro ragionamento sul raddoppio del debito, bisogna considerare che precedentemente al 1982 i tassi reali dei Buoni ordinari del tesoro (Bot)[2] erano fortemente negativi o intorno allo 0%, raggiungendo nel 1980 addirittura un tasso di -5,73%. Tra 1976 e 1981 il rendimento medio annuo reale fu del -2,6%, viceversa tra 1982 e 1994 raggiunse il 4,6% (fig. 3).
Fig. 3 – Tassi d’interesse effettivi e nominali dei Bot e tasso d’inflazione (in %; 1976-2016)

Fonte: Mediobanca, Indici e dati relativi ad investimenti in titoli quotati nelle borse italiane (1984- 2016)
La ragione della forte e progressiva crescita dei rendimenti reali dei Bot sta nel cosiddetto “divorzio” tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro, a seguito dell’invio nel 1981 da parte del ministro Andreatta al governatore Ciampi di una lettera con la quale si esentava la Banca centrale dall’obbligo di acquistare i titoli di debito emessi dal ministero e non assorbiti dal mercato. Ciò comportò due effetti: la riduzione della creazione di nuova liquidità, che abbassò l’inflazione, e la fine del ruolo svolto dalla Banca centrale di compratore di ultima istanza del debito pubblico, che rese necessario collocare tutto il debito sul mercato, con costi più elevati di quanto sarebbe stato possibile in precedenza.
Di conseguenza, l’inflazione si ridusse molto di più di quanto non calassero i tassi d’interesse nominali sul debito, portando così all’aumento dei tassi reali e quindi all’accumulo accelerato di debito. Più tardi, a partire dalla fine degli anni ’90, il problema si aggravò, a seguito della liberalizzazione dei mercati finanziari, che portarono all’aumento della quota del debito pubblico in mano ai non residenti, dal 6% del 1991 al 27% del 1998 al 42,7 del 2008[3]. In questo modo i rendimenti dei titoli furono assoggettati alla speculazione internazionale, senza la protezione offerta da un compratore di ultima istanza. Ad ogni modo, prima ancora che gli effetti della liberalizzazione internazionale si facessero sentire, fu tra ’92 e ’93 che i tassi d’interesse effettivi toccarono il picco del 6,81% e del 5,06%. È da notare che neanche l’introduzione dell’euro (1992-2002) ha riportato i tassi effettivi al livello pre “divorzio” (media annua dello 0,63% tra 1999 e 2016). Eppure l’obiettivo statutario della Bce è specificatamente il controllo dell’inflazione, che del resto è scesa molto più che negli anni ’80 e ‘90, arrivando intorno allo zero, a causa anche della maggiore recessione dal dopoguerra. Il punto è che il ruolo di compratore di ultima istanza dopo il 1981 non è stato più ricoperto da nessuna istituzione, nazionale o europea che fosse.
Per quanto riguarda il saldo negativo tra entrate e uscite, la sua importanza sulla formazione del debito, già prima del “divorzio” è molto inferiore rispetto a quella del servizio al debito. Soprattutto, a partire dal 1982 l’incidenza del disavanzo pubblico sulla formazione del debito si riduce progressivamente, assumendo un andamento esattamente opposto a quello dell’incidenza della spesa per interessi e annullandosi del tutto a partire dal 1991 (fig. 4). L’incidenza media della spesa per interessi sul Pil tra 1982 e 1994 è del 9,1%, mentre quella del disavanzo delle entrate è dell’1,6%. In sostanza il servizio al debito incide sul raddoppio del debito circa cinque volte di più del disavanzo, cioè in una misura di almeno il 75%.  Ciò vale ancor di più nel periodo successivo al 1994. Del resto, tra 1991 e 2017 non si registra alcun deficit del bilancio pubblico primario (al netto degli interessi), tranne che nel 2009.
Fig. 4  – Importanza relativa sulla formazione del debito della spesa per interessi e del saldo negativo di bilancio e pressione fiscale di Italia e area euro (in % su Pil; 1980-2017)

Fonte: Banca d’Italia, Statistiche di finanza pubblica nei Paesi europei (1999-2018)
Al contrario, la Germania, nello stesso periodo di tempo, presenta un deficit primario in ben otto anni. La ragione della riduzione e poi dell’annullamento del deficit primario sta nel fatto che in Italia la pressione fiscale prese ad aumentare ininterrottamente dal 31,3% sul Pil del 1980 fino a raggiungere la media europea nel 1992 e il picco proprio nel 1993 (44,4%), aumentando così di 13,1 punti percentuali in 13 anni, mentre nello stesso periodo l’area euro aumentava la pressione fiscale di soli 2,2 punti (fig.4). Dal 1993 al 2017, tranne che per quattro anni, la pressione fiscale italiana sul Pil (incidenza media annua 41,9%) risulterà sempre superiore o uguale a quella dell’area euro (40,8%).
L’errore dei governi italiani degli anni ‘80, se si può parlare di errore e non piuttosto di scelte politiche neoliberiste, sta nel fatto di aver eliminato il compratore di ultima istanza del debito pubblico proprio nel momento in cui se ne aveva più bisogno.  Infatti, in quel periodo si registra un indebolimento della crescita, dovuto alle crisi dei primi ’80 e dei primi anni ’90. A questo si aggiunge nel corso degli anni ’90 e 2000 un aumento della vulnerabilità a shock esterni, dovuta alla liberalizzazione dei mercati finanziari e quindi alla dipendenza dalla estrema mobilità degli investimenti internazionali. Non bisogna dimenticare, inoltre, che le privatizzazioni, parte del pacchetto neoliberista adottato dai governi italiani (come la separazione tra Banca centrale e Tesoro e la liberalizzazione dei flussi di capitale), hanno fornito un sollievo ridotto e solo momentaneo al debito, indebolendo sulla lunga distanza la crescita del prodotto interno e il ritorno per lo Stato in termini di dividendi incassati.
Come hanno rilevato Stefano Perri e Riccardo Realfonzo[4] e contrariamente a quanto tuttora si ritiene a livello di istituzioni europee e nell’establishment economico e statale nostrano, la questione decisiva per la gestione del debito pubblico italiano non è e non è mai stata il contenimento della spesa sociale. È invece la crescita dei tassi d’interesse sul debito a dover essere considerata come la causa più importante, anche se non l’unica, del raddoppio del debito degli anni 1982-1994, e della successiva difficoltà a ridurlo. Tuttavia, non bisogna dimenticare che, sottesa all’andamento del debito, c’è la tendenza al disequilibrio dell’economia capitalistica, che, in fase di crisi, riduce il Pil e quindi il denominatore, portando alla crescita del rapporto debito/Pil.
Ciò si è verificato soprattutto tra 2008 e 2017, quando, nella determinazione dell’incremento del debito,  alla spesa per interessi si è associata la grave recessione, tramutatasi in stagnazione permanente, i cui effetti, però, sono stati particolarmente pesanti a causa della ridotta possibilità dello Stato di spendere in funzione anticiclica, dovuta a sua volta anche alla inesistenza di un prestatore di ultima istanza, ormai sancita definitivamente dal trasferimento del controllo sulla emissione di moneta alla Bce.  In questo senso, i trattati europei e l’euro, imponendo una draconiana austerity e inibendo l’implementazione di politiche economiche su misura per le necessità dei singoli Paesi, hanno ottenuto il risultato opposto a quello previsto dai decisori politici e dalla dirigenza della Banca d’Italia negli anni’80 e ’90, vale a dire l’aumento del debito pubblico.  Nello stesso tempo, però, crescita, salari e occupazione sono stati depressi, in una inefficace rincorsa alla riduzione del debito.
[1] I dati relativi alle spese, alle entrate, alla pressione fiscale di Italia e area euro sono di fonte Banca d’Italia, Statistiche di finanza pubblica nei Paesi europei. I dati dell’area euro sono sempre al netto dell’Italia.
[2] Il rendimento reale o effettivo è il risultato della depurazione dall’inflazione del rendimento nominale dei Buoni ordinari del Tesoro a 12 mesi  (media delle aste di metà e fine mese). Il calcolo è basato sui dati dell’inflazione media annua e dei tassi d’interesse medi annui pubblicati da Mediobanca dal 1984, che si riferiscono a un periodo che parte dal 1976 e arriva al 2016.
[3] Banca d’Italia, database, Amministrazioni pubbliche: debito pubblico lordo detenuto da non residenti (quota).
[4] Si veda di Stefano Perri e Riccardo Realfonzo, “Tagli alla spesa pubblica? Una vecchia ricetta”, in Economia e politica, 1 Aprile 2014.

mercoledì 3 ottobre 2018

Un sovranismo democratico per un nuovo europeismo


di Alessandro Somma da Micromega
Un scontro tra europeisti e sovranisti, i primi raccolti attorno a Macron e i secondi guidati da Orbán e Salvini. È questa l’immagine più utilizzata per rappresentare lo scontro in atto, confezionata ad arte per nascondere la sostanziale convergenza di europeisti e sovranisti, fautori i primi di un neoliberalismo cosmopolita e i secondi di un neoliberalismo nazionale. E per impedire di riconoscere che il vero confronto è quello tra i fautori di un ritorno agli Stati per alimentare una guerra per la conquista dei mercati, e chi vuole invece ripristinare la dimensione statale per impiegarla in una guerra ai mercati: terreno sul quale si gioca il rilancio della sinistra.

È dunque un rilancio che passa da un diverso sovranismo. Non quello incentrato su valori premoderni buoni solo a reprimere i conflitti causati dalla modernità capitalistica, bensì quello democratico: volto a ripristinare la sovranità popolare in quanto fondamento della democrazia economica, oltre che della democrazia politica.

Il momento Polanyi

La società, rilevava Polanyi nel corso degli anni Quaranta, è naturalmente portata a difendersi dal mercato autoregolato, a opporre al movimento verso “l’allargamento del sistema di mercato” un “opposto movimento protezionistico”. Si assiste così a un “doppio movimento”, il primo volto ad affermare “il principio del liberalismo economico”, e il secondo quello “della protezione sociale”. Quest’ultimo movimento, verso la ripoliticizzazione e risocializzazione del mercato, può avvenire nel rispetto dell’ordine politico democratico, come è successo con il New Deal statunitense, ma anche attraverso il suo affossamento, come si è verificato nel Ventennio fascista[1].

L’epoca attuale è indubbiamente caratterizzata dal rigetto del mercato autoregolato e dal processo di denazionalizzazione che ha accompagnato la sua affermazione. Lo è naturalmente, dal momento che il neoliberalismo si fonda sul cosmopolitismo, come si ricava da quanto auspicato da von Hayek decenni or sono. Quest’ultimo voleva creare una federazione interstatale e delegarle la costruzione e lo sviluppo dell’ordine economico. Avrebbe rappresentato un vincolo esterno con cui rende agli Stati “chiaramente impossibile influenzare i prezzi dei diversi prodotti”, e dunque ostacolare l’edificazione e lo sviluppo di un mercato autoregolato: tanto che “sarà difficile produrre persino le discipline concernenti i limiti al lavoro dei fanciulli o all’orario di lavoro”[2].

Anche il rigetto del mercato a cui assistiamo ora non sta avvenendo nel rispetto della democrazia. Lo schema seguito è quello del nazionalismo economico: si sta profilando una lotta tra Stati per la conquista dei mercati, unita allo sviluppo di un sistema di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti. Ci sarebbe invece bisogno di una lotta degli Stati contro i mercati, che tuttavia non prende corpo anche per un erroneo convincimento diffuso a sinistra: che il contrasto del cosmopolitismo implichi un ripudio dell’internazionalismo.

Eppure i due termini non sono affatto coincidenti. Se infatti il cosmopolitismo combatte la dimensione nazionale per promuovere la libera circolazione dei fattori produttivi e con essa il mercato autoregolato, l’internazionalismo valorizza la dimensione nazionale.

Questi concetti sono stati esposti in modo esemplare durante il dibattito parlamentare dedicato all’adesione italiana al Consiglio d’Europa. Allora Lelio Basso ebbe a stigmatizzare il comportamento della borghesia, storicamente espressiva di una “coscienza nazionale”, che aveva abbandonato il “vecchio esasperato nazionalismo” e assunto come sua bandiera il “cosmopolitismo”. E che lo aveva fatto per motivi non certo nobili: voleva resistere alla “pressione di classi che hanno acquistato la coscienza dei propri diritti e che, non potendoli soddisfare nel quadro delle antiquate strutture, minacciano di farle saltare”. Di qui la conclusione che l’emancipazione delle classi subalterne passa dalla loro capacità di togliere “alla nazione il carattere di espressione esclusiva della classe dominate”, ma non anche di abbandonarla come terreno di lotta politica. E ciò equivale a dire che il proletariato deve acquisire “contemporaneamente la coscienza di classe e la coscienza nazionale, ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi”[3].

Nella sinistra storica queste tesi resistono sino alla dissoluzione del Blocco socialista. La ratifica del Trattato di Maastricht è l’occasione per formalizzare il cambio di rotta e affermare che la precedente impostazione era figlia della Guerra fredda. Questa aveva impedito di riconoscere come “l’idea di Europa” fosse “implicita non solo nelle origini internazionaliste, ma anche nella coscienza dell’antifascismo e della Resistenza” [4]: una ricostruzione molto approssimativa e con il senno di poi, da cui trae conferma la sensazione che l’europeismo di oggi costituisca il rimpiazzo, davvero poco meditato sebbene rassicurante come solo sanno essere i dogmi, dell’internazionalismo di ieri, e più in generale della crisi delle idealità ereditate dal passato[5].

Anche per questo si stenta a riconoscere che siamo immersi nel momento Polanyi[6], che occorre pertanto prendere atto del moto verso il recupero della dimensione nazionale, accettarlo in quanto inevitabile reazione della società contro la tirannia dei mercati. E operare affinché tutto ciò si combini con la riaffermazione delle ragioni di una sinistra internazionalista, in quanto tale non anche cosmopolita: le ragioni della sovranità popolare e a monte, nella misura necessaria e sufficiente affinché questa possa esprimersi, della sovranità statale. È l’unico modo per opporre al rinato conflitto tra Stati per la conquista dei mercati una lotta degli Stati contro l’invadenza dei mercati.

Sovranità popolare

Le costituzioni moderne si occupano tutte di sovranità nello Stato, o sovranità popolare, distinguendola dalla sovranità dello Stato o statale: la prima rilevante per i rapporti interni, tra governanti e governati, e la seconda per i rapporti esterni, tra Stati. Per molto tempo ha ciò nonostante resistito il dogma ottocentesco della esclusiva sovranità statale, per cui la sovranità popolare costituiva una mera formula politica, priva di valore giuridico. Le cose cambiano solo nel corso degli anni Cinquanta, quando si afferma la distinzione tra Stato-governo e Stato-società, e si precisa che il primo costituisce un’entità al servizio del secondo: è dunque il popolo il titolare della sovranità anche in senso giuridico, mentre l’apparato statale si limita ad attuare gli intendimenti maturati entro la comunità dei governati.

In altre parole, quando la Costituzione afferma che “la sovranità appartiene al popolo” (art. 1), intende dire che “il popolo resta titolare della potestà di governo, costituente e costituita, dell’una e dell’altra conservando altresì l’esercizio”, mentre lo Stato semplicemente “sostituisce il popolo nel solo esercizio di una parte di tale potestà”[7]. Tanto che, se lo Stato-governo non rispetta la volontà popolare, lo Stato-società ben può esercitare il diritto di resistenza, implicito nel caso non vi sia un’espressa previsione costituzionale in tal senso: come si è sostenuto all’epoca del governo Tambroni per legittimare lo sciopero politico, allora ancora punito dal Codice penale[8].

Alla contrapposizione di governanti e governati occorre però aggiungere quelle tra componenti del popolo in conflitto con riferimento a specifici interessi, come quelli riconducibili al ruolo ricoperto entro il sistema produttivo: gli interessi di classe. La sovranità popolare è cioè radicata in una comunità comprendente entità distinte e contrapposte, come i partiti e le formazioni sorte o emerse dalla loro crisi, tutte investite del diritto di concorrere alla formazione dell’indirizzo politico ben oltre il momento elettorale. E ciò equivale a dire che l’esercizio della sovranità popolare implica forme di rappresentanza dei cittadini destinate a correggere l’ambiguità di fondo della democrazia borghese, incapace di fornire gli strumenti indispensabili a realizzare una “partecipazione continua”[9].

E non è tutto. Siccome l’esito della contrapposizione tra componenti del popolo dipende dalla loro forza sociale, l’esercizio della sovranità richiede l’uguaglianza sostanziale dei cittadini, collegata cioè a un ruolo attivo dei pubblici poteri, chiamati a rimuovere gli ostacoli alla realizzazione della parità. E ciò equivale a dire che l’esercizio della sovranità presuppone, oltre alla libertà e all’uguaglianza, anche la solidarietà: fuori dal mercato, da esprimere con gli strumenti dello Stato sociale, ma anche nel mercato, dove la debolezza sociale deve essere bilanciata dalla forza giuridica. Anche per questo l’esercizio della sovranità popolare passa dalla valorizzazione del lavoro in quanto fonte di uguaglianza e libertà, e dunque dallo sviluppo della democrazia economica. Passa cioè dalla partecipazione diffusa alla vita economica attraverso la programmazione realizzata a livello parlamentare, ma anche con il coinvolgimento dei lavoratori, e non solo di essi, nelle scelte aziendali.

Se così stanno le cose, l’affermazione del principio della sovranità popolare richiede che siano assicurati i diritti della tradizione liberale, ovvero i diritti di libertà: alla libera manifestazione del pensiero, alla libertà personale, alla libertà di associazione, alla libertà di movimento, alla libertà di religione, e così via. È però altrettanto indispensabile la garanzia dei diritti sociali, ovvero la promozione, tra gli altri, del diritto alla salute con la garanzia di “cure gratuite agli indigenti” (art. 32), del diritto all’istruzione inferiore gratuita e superiore assicurata a chi è “privo di mezzi” (art. 34), del diritto al mantenimento e all’assistenza sociale per chi è “inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, e del diritto a mezzi adeguati alle esigenze di vita per i lavoratori colpiti da infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria (art. 38).

Tutti i diritti richiamati sono strettamente legati alla sovranità popolare, se non altro in quanto dalla loro previsione essa emerge come vicenda non solamente unitaria: l’esercizio dei diritti sociali, esattamente come dei diritti di libertà, costituisce “espressione permanente di sovranità popolare”, fondamento per la trasformazione del cittadino in “sovrano di se stesso”[10].

Sovranità limitata

Lo Stato moderno nasce come Stato assoluto, del quale il popolo rappresenta semplicemente un elemento costitutivo, essendo l’esercizio della sua sovranità ridotto a una mera funzione: quella concernente l’elezione del parlamento, a cui si riconoscono poteri in quanto organo statale. Le cose cambiano solo in parte con l’affermazione dello Stato di diritto, che mira a istituire un governo degli uomini in luogo del governo delle leggi, e quindi a porre primi condizionamenti all’esercizio della sovranità: non ancora riconosciuta al popolo, ma se non altro limitata a suo favore.

Lo Stato di diritto non rappresenta però un argine contro gli arbitri delle maggioranze contingenti. Questo è l’obiettivo dello Stato costituzionale, nel quale occorrono maggioranze qualificate per modificare le regole relative all’esercizio della sovranità, che oltretutto ha nel frattempo cessato di essere solo statale: la sovranità popolare è tale anche dal punto di vista giuridico e non solo meramente politico. Lo Stato costituzionale arricchisce il catalogo delle limitazioni concernenti l’esercizio della sovranità popolare, efficacemente vincolata a realizzare la parità sostanziale fuori e dentro il mercato, anche e soprattutto per confermare che il suo fondamento risiede nella promozione dell’uguaglianza.

Con lo Stato costituzionale i diritti fondamentali diventano inviolabili. E compongono la cornice entro cui si sviluppa il pluralismo cui rinvia il riconoscimento che il popolo comprende centri di interessi in contrasto tra loro[11], tutti chiamati a concorrere all’esercizio della sovranità popolare. Anche per questo lo Stato costituzionale è tale in quanto identifica la cornice entro cui iscrivere il conflitto democratico: “il pluralismo non degenera in anarchia normativa a condizione che, malgrado la divisione sulle strategie particolari dei gruppi sociali, vi sia una convergenza generale su alcuni aspetti strutturali della convivenza politica e sociale, che si possono così mettere fuori discussione e consacrare in un testo non disponibile da parte degli occasionali signori della legge”[12].

Non vi è pertanto motivo di sostenere che la sovranità popolare si risolva in una sorta di dittatura della maggioranza. Questo sosteneva al principio del Novecento chi voleva denigrare la democrazia per aprire la strada all’involuzione fascista, ma è in fin dei conti quanto affermano coloro i quali considerano il neoliberalismo incompatibile con la democrazia.

Semmai è di dittatura del mercato che occorre parlare: quella indotta dal neoliberalismo che promuove lo scioglimento dell’individuo nell’ordine proprietario, e la funzionalizzazione delle sue condotte al mantenimento del principio di concorrenza. A dimostrazione di come la normalità capitalistica possieda una forza attrattiva tale da impedire la costruzione di un capitalismo dal volto umano: esito inevitabile se la sovranità popolare non viene riconosciuta e alimentata come forza emancipatoria da opporre all’ordine proprietario e al principio di concorrenza.

Sovranità condizionata

Che la sovranità nello Stato presupponga la sovranità dello Stato, era ben presente ai Costituenti, i quali ammisero limitazioni di quest’ultima solo per promuovere un ordine politico incentrato sulla pace e sulla giustizia fra le nazioni, e solo in condizioni di parità con gli altri Stati. Di qui la previsione costituzionale per cui l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni” (art. 11). Il tutto per legittimare l’adesione all’Onu[13], il cui statuto così sintetizza i fini dell’organizzazione: “mantenere la pace e la sicurezza internazionale”, nonché “sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-decisione dei popoli” (art. 1).

Erano circoscritte anche le limitazioni della sovranità relativa al funzionamento dell’ordine economico, che a livello internazionale si volle incentrare sulla libera circolazione delle merci, ma non anche dei capitali: era questo il senso del compromesso raggiunto a Bretton Woods, sostenuto anche in quanto fondamento del compromesso keynesiano. Se infatti i capitali circolano liberamente, i governi sono costretti a competere per attirarli comprimendo i salari e la pressione fiscale sulle imprese, e questo contrastava con la volontà di edificare un ordine economico internazionale incentrato sull’economia reale. Il tutto esplicitato durante la conferenza di Bretton Woods, e soprattutto nello statuto del Fondo monetario internazionale[14], dove si legge tutt’ora che “gli Stati membri possono esercitare gli opportuni controlli per regolamentare i movimenti di capitali” (art. 6).

Ma non è tutto: l’intento di promuovere la prosperità richiede talvolta di controllare anche la circolazione delle merci, di ricorrervi come strumento di politiche anticicliche direttamente votate a produrre la piena occupazione. È lo stesso Keynes a mettere in luce questo aspetto in un contributo significativamente intitolato “autosufficienza nazionale”, nel quale si dichiara il definito tramonto dell’internazionalismo economico di matrice ottocentesca: possono circolare “le idee, la conoscenza, la scienza… ma lasciamo che le merci siano prodotte in casa quando è ragionevole e possibile in modo conveniente, e specialmente che la finanza sia soprattutto nazionale”[15].

La costruzione europea ha rappresentato e rappresenta il principale dispositivo utilizzato per rovesciare il compromesso keynesiano e a monte per scardinare la disciplina costituzionale della sovranità[16]: per condizionarla al rispetto dell’ortodossia neoliberale.

L’Europa unita non promuove infatti la pace e la giustizia, né tantomeno rispetta la parità tra Stati: alimentato la circolazione di tutti i fattori produttivi per rovesciare il compromesso di Bretton Woods. Lo ricaviamo in modo esemplare considerando le riflessioni di Guido Carli, Ministro del tesoro che rappresentò l’Italia nei negoziati per la definizione dei contenuti del Trattato di Maastricht. Il banchiere era consapevole che il Trattato avrebbe condotto ad “allargare all’Europa la Costituzione monetaria della Repubblica federale di Germania”. E lo apprezzava proprio per questo, perché avrebbe implicato “la concezione dello Stato minimo” e dunque un “mutamento di carattere costituzionale”, per cui si sarebbero ristrette le libertà politiche e riformate quelle economiche: realizzando in particolare “una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari ed aumenti quelle dei governi”, e un ripensamento complessivo delle “leggi con le quali si è realizzato in Italia il cosiddetto Stato sociale”[17].

Proprio questo assetto viene presidiato dal principio della superiorità del diritto europeo sul diritto nazionale. Un principio che a ben vedere non ha un fondamento costituzionale: se come abbiamo detto la partecipazione italiana all’Europa unita non è coperta dalla Costituzione (art. 11), essa si fonda unicamente sugli atti di recepimento dei Trattati, ovvero su leggi ordinarie, il che è “semplicemente illegale”[18].

Ma non è questo, evidentemente, l’orientamento dell’Unione europea, secondo cui il diritto europeo prevale persino sul diritto costituzionale nazionale (Corte di giustizia Cee, Sent. 17 dicembre 1970, 11/70). La Corte costituzionale afferma che ci sono limiti a questo principio: per la precisione “controlimiti all’ingresso delle norme dell’Unione europea”. Questi sono però attivabili solo se sono chiamati in causa precetti “irrinunciabili… per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale” (sent. 22 ottobre 2014 n. 238): ad esempio quelli relativi alla forma repubblicana, intangibile per espressa previsione (art. 139). A queste condizioni la riaffermazione della sovranità non si potrà invocare per contrastare la pervasività dell’ortodossia neoliberale. I controlimiti sono cioè “riserve di sovranità” solo “potenziali”, buone solo per legittimare la costruzione europea nei confronti del popolo sovrano: per fungere da “oppiacei”[19].

Questo vale però per l’Italia, ma non per altri Paesi europei più vigili rispetto alle conseguenze di una cessione di sovranità statale al livello sovranazionale. Primo fra tutti la Germania, la cui Corte costituzionale afferma che il parlamento tedesco “in quanto rappresentante del popolo” deve mantenere “un influsso costitutivo sullo sviluppo politico della Germania”. Anche e soprattutto per assolvere al “dovere dello Stato di garantire un giusto ordine sociale”, ovvero per “creare le condizioni minime per un’esistenza dignitosa dei suoi cittadini” (sent. 30 giugno 2009, 2 BvE 2/08).

Il tutto mentre la Legge fondamentale tedesca è stata modificata per chiarire che la Germania aderisce all’Unione economica e monetaria solo nella misura in cui questa si fonda sull’ortodossia neoliberale (art. 88). Con il risultato che l’Unione si potrà modificare solo cambiando la Legge fondamentale tedesca, a riprova di come essa sia oramai radicalmente immodificabile.

Sovranismo democratico

Da tempo si discute di un nuovo costituzionalismo, capace di promuovere e tutelare i diritti fondamentali in assenza dello Stato[20]. È un’opzione suggestiva ma criticabile da diversi punti di vista, innanzi tutto perché prefigura un progetto emancipatorio privo di dimensione politica, con ciò condannato all’inefficacia[21]. Inoltre alimenta l’idea secondo cui, in tempi di globalizzazione, i poteri statuali sono volatili: idea fuorviante in quanto trascura il loro fondamentale contributo al funzionamento del mercato autoregolato. Il nuovo costituzionalismo impedisce cioè di riconoscere la centralità di una lotta per riorientare l’azione dei poteri statuali, e a monte la necessità di recuperare la dimensione nazionale in quanto arena democratica entro cui il conflitto redistributivo si sviluppa in modo equilibrato, e il suo esito viene tradotto in pratica politica. È questo il senso del sovranismo democratico.

La liberazione dal vincolo esterno è insomma indispensabile alla ripoliticizzazione del mercato, per la quale la democrazia deve però svilupparsi in forme ulteriori rispetto a quelle contemplate dalla tradizione borghese. Deve cioè affermarsi in quanto espressione di sovranismo politico, da intendersi però come condizione per consentire lo sviluppo del sovranismo sociale, strumento attraverso cui dar seguito all’esito del conflitto redistributivo. È questo il fondamento del compromesso keynesiano, alimentato dalle mediazioni tra capitale e lavoro in qualche modo presidiate dallo Stato, anche ricorrendo al sistema della sicurezza sociale come forma di salario differito, e più in generale come componente di una politica di piena occupazione[22]. Tutto l’opposto di quanto preteso invece dall’ortodossia neoliberale, che al confronto tra centri di potere economico riequilibrato secondo lo schema della parità sostanziale oppone la polverizzazione di quel potere, funzionale a ridurre i comportamenti degli operatori del mercato a reazioni automatiche ai suoi stimoli, per sterilizzare così il conflitto sociale.

Il vincolo esterno da combattere non è solo quello derivante dalla cessione di sovranità in materia di politica monetaria e a monte di politica fiscale e di bilancio, la prima prevista esplicitamente nei Trattati e la seconda in qualche modo coartata attraverso il meccanismo della governance[23]. Occorre anche contrastare il mercato unico ripristinando i controlli sulla circolazione dei fattori produttivi: soprattutto dei capitali, pena l’insostenibilità del compromesso keynesiano. La circolazione delle imprese e dei lavoratori deve essere limitata in quanto alla base di pratiche odiose di dumping salariale e sociale.

Rispetto alla circolazione dei capitali e dei lavoratori, quella delle merci necessita di minori controlli, che sono tuttavia fondamentali per porre rimedio agli squilibri della bilancia dei pagamenti. La situazione sarebbe in parte diversa, ove nell’Eurozona fossero rispettate le regole relative al buon funzionamento di un’area monetaria ottimale, e in particolare quella per cui i Paesi in surplus devono sostenere la domanda dei loro cittadini e contribuire così, attraverso l’importazione, a riequilibrare la bilancia dei pagamenti dei Paesi in deficit. Accade invece l’opposto, giacché la Germania supera da troppo tempo e in modo esorbitante il limite, peraltro molto generoso, ammesso dalle regole: un surplus delle partire correnti entro una media del 6% del prodotto interno lordo calcolato nel triennio[24].

Il ripristino dei controlli sulla circolazione dei fattori produttivi consente di tutelare l’identità nazionale intesa quale modalità condivisa da una “comunità solidale che stabilisce come distribuire la ricchezza prodotta”[25], ovvero come promuovere la democrazia economica nel rispetto dei principi di uguaglianza, libertà e solidarietà. Nulla a che vedere con il riferimento a ontologie premoderne[26], buone solo ad alimentare il conflitto tra Stati per la conquista dei mercati e a ricomporre il conflitto redistributivo provocato dalla modernità capitalistica.

Un nuovo europeismo

Il sovranismo democratico non ha alternative: l’Europa unita in quanto dispositivo neoliberale è irriformabile ed è pertanto illusorio pensare di democratizzarla, magari nell’ambito di un ampliamento dell’Unione economica e monetaria. Occorre al contrario rinazionalizzare le politiche economiche, presupposto irrinunciabile per riattivare la sovranità popolare e il conflitto sociale quali fondamenti della democrazia economica. E ciò significa recuperare innanzi tutto la sovranità monetaria: non solo per riequilibrare i differenziali di competitività, ma anche perché l’Eurozona in quanto area monetaria non ottimale è inesorabilmente destinata a beneficiare il centro della costruzione europea e a danneggiare la sua periferia.

Peraltro l’enfasi sulla sovranità monetaria può essere fuorviante. In fondo sono le politiche monetarie a plasmare il rapporto tra economia e società, sicché il mero ritorno della moneta nazionale potrebbe creare l’illusione infondata che esso comporti di per sé un recupero del compromesso keynesiano. Mentre è evidente che le politiche realizzate con il ritorno della Lira ben potrebbero essere le stesse di quelle realizzate con l’Euro, soprattutto se le prime sono realizzate dalla stessa classe dirigente a cui si devono le seconde. Di qui l’importanza del conflitto sociale in quanto vicenda capace di riattivare la sovranità popolare e produrre, oltre al ricambio della classe dirigente, un ampliamento delle decisioni affidate alla partecipazione democratica, e dunque sottratte all’impero degli automatismi concepiti dall’ortodossia neoliberale.

Si badi però che il sovranismo democratico non mira alla chiusura nazionalista. Al contrario è il presupposto per rilanciare una diversa forma di europeismo, incentrato sulla democrazia economica oltre che politica, in quanto tale strumento di emancipazione sociale e individuale.

La stessa costruzione europea, sorta nei Trenta gloriosi, è stata inizialmente concepita in modo tale da lasciare spazio a qualche forma di resistenza alle istanze del mercato: i Trattati menzionano la piena occupazione accanto al controllo dell’inflazione come finalità delle politiche economiche, che dunque avrebbero potuto alimentare il compromesso keynesiano. Proprio per rovesciarlo si sono definite politiche economiche ossessionate dalla stabilità dei prezzi, per poi imporre politiche fiscali e di bilancio incentrate sul controllo del deficit e del debito. Il recupero della sovranità popolare ben potrebbe consentire di riavvolgere il nastro di questa storia e alimentare un “patriottismo costituzionale”[27]: potrebbe riportare in auge politiche nazionali di piena occupazione da porre alla base di una diversa costruzione europea, entro cui sviluppare politiche aperte al sostegno della domanda e dunque alla redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso.


Detto questo, riflettere sul sovranismo democratico è indispensabile a prescindere dai sentimenti suscitati dal ritorno dei confini: i processi di rinazionalizzazione sono inevitabili in quanto reazione alla pervasività del mercato autoregolato. Non riconoscerlo nel nome di un europeismo ideologico e scollato dalla realtà non eviterà l’involuzione e infine il crollo dell’Europa unita, ma semplicemente, quando questo avverrà, consentirà al sovranismo identitario di affermarsi incontrastato.

(l'articolo anticipa e sintetizza i temi del volume di Alessandro Somma "Sovranismi. Stato popolo e conflitto sociale" in uscita per DeriveApprodi)

NOTE

[1] K. Polanyi, La grande trasformazione (1944), Torino, 1974.

[2] F. von Hayek, The Economic Conditions of Interstate Federalism, in 5 New Commonwealth Quarterly, 1939, p. 131 ss.

[3] AC 13 luglio 1949, 10292 ss.

[4] Così Caludio Petruccioli, in AC 28 ottobre 1992, 5251 ss.

[5] A. D’Attorre, Sovranità non è una parola maledetta (14 giugno 2018), https://www.italianieuropei.it/it/italianieuropei-3-2018/item/4049-sovranità-non-è-una-parola-maledetta.html.

[6] S. Cesaratto, Polanyi moment (22 settembre 2017), http://sollevazione.blogspot.com/2016/09/polany-moment-quale-strategia-di.html.

[7] V. Crisafulli, La sovranità popolare nella Costituzione italiana (1954), in Id., Stato, Popolo, Governo, Milano, 1985, p. 91 ss.

[8] G. Amato, I fatti di luglio, il diritto alla resistenza e l’incriminazione dello sciopero politico, in Democrazia e diritto, 1961, p. 124 ss.

[9] L. Carlassare, La sovranità del popolo nel pluralismo della democrazia liberale, in Id. (a cura di), La sovranità popolare nel pensiero di Esposito, Crisafulli, Paladin, Padova, 2004, p. 7.

[10] T.E. Frosini, Sovranità popolare e costituzionalismo, Milano, 1997, p. 214.

[11] E. Cheli, Intorno ai fondamenti dello Stato costituzionale, in Quaderni costituzionali, 2006, p. 263.

[12] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, p. 48.

[13] G. Bascheri, L. Bianchi d’Espinosa e C. Giannattasio, La Costituzione italiana, Firenze, 1949, p. 41.

[14] H. Morgenthau, Closing Address to the Conference, in International Monetary Fund and International Bank for Reconstruction and Development, Washington, 1944, p. iv.

[15] J.M. Keynes, National Self-Sufficiency, in 22 Yale Review, 1933, p. 755 ss.

[16] V. Giacché, Costituzione italiana contro Trattati europei, Reggio Emilia, 2015.

[17] G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana (1993), Roma e Bari, 1996, p. 432 ss.

[18] G. Itzcovich, Teorie e ideologie del diritto comunitario, Torino, 2006, p. 422.

[19] A. Guazzarotti, Sovranità e integrazione europea, in Rivista AIC, 2017, 3, p. 7.

[20] Ad es. L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, Roma e Bari, 1997, p. 39 ss.
[21] G. Preterossi, Residui, persistenze, illusioni: il fallimento politico del globalismo, in Scienza e politica, 2017, p. 106.
[22] W. Streeck, Tempo guadagnato (2012), Milano, 2013, p. 133.

[23] Cfr. A. Somma, Maastricht, l’Europa della moneta e la cultura ordoliberale, in A. Barba et al., Rottamare Maastricht, Roma, 2016, p. 70 ss.

[24] S. Cesaratto, Chi non rispetta le regole?, Reggio Emilia, 2018.
[25] C. Formenti, Quelle sinistre che odiano il popolo (29 gennaio 2018), http://temi.repubblica.it/micromega-online/quelle-sinistre-che-odiano-il-popolo-contro-lideologia-del-politicamente-corretto.
[26] C. Galli, Sulla sinistra rossobruna (29 giugno 2018), https://ragionipolitiche.wordpress.com/2018/06/29/sulla-sinistra-rossobruna.

[27] S. Fassina, La bussola del patriottismo costituzionale per ricostruire la sinistra, in Id. (a cura di), Controvento, Reggio Emilia, 2017, p. 1 ss.

(1 ottobre 2018)
 



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