venerdì 30 novembre 2012

Rodotà: “Libertà e diritti non sono negoziabili”

I casi Ilva e Fiat, i partiti e la politica, Berlinguer e Croce, libertà e democrazia. Di tutto questo e altro ancora parla Stefano Rodotà, di cui è appena uscito il nuovo saggio “Il diritto di avere diritti” (Laterza). Richiamandosi alla "straordinaria forza e attualità della Costituzione italiana", il giurista rifiuta l’emergenza permanente, perché i diritti – ci ricorda – a partire da quello alla salute, non possono essere sacrificati impunemente alla logica di mercato.

colloquio con Stefano Rodotà di Rossella Guadagnini da Micromega

In un Paese in cui “le disuguaglianze sono divenute ormai insopportabili” e dunque vige la legge del più forte o, a seconda, del più preminente, del più affluente, del più ammanicato, che significa garantire a tutti gli stessi diritti? Lo abbiamo chiesto a Stefano Rodotà, costituzionalista, professore emerito di Diritto civile all’università La Sapienza di Roma, tra gli autori della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali e del Gruppo europeo per la tutela della privacy, deputato indipendente nelle liste del Pci e Pds, vicepresidente della Camera, oggi autore di un saggio per Laterza, da poco in libreria, significativamente intitolato con un’espressione di Piero Calamandrei “Il diritto di avere diritti” (pagg. 433, euro 20). Richiamandosi alla Costituzione italiana, Rodotà ci risponde che “la libertà non è negoziabile, così come avviene per i diritti”. Sono, i nostri, anni di “grande riduzionismo” in cui si sente il bisogno diffuso di avere dei “grandi principi di riferimento”.

Professor Rodotà ritiene che oggi, passato il ventennio berlusconiano, ci sia un’opportunità in più per aprire una nuova stagione all’insegna dei diritti e dei beni comuni?
Dovrebbe esserci, ma non ne sono particolarmente sicuro. In questi anni in materia di diritti abbiamo vissuto una regressione politica e culturale molto forte, una distanza grandissima tra ceto politico e società. Se paragono gli Anni Settanta a oggi, il bilancio è magro. Allora ci fu una grande affermazione dei diritti civili: del 1970 e degli anni seguenti sono lo statuto dei lavoratori, la legge sul referendum, l’istituzione delle regioni, le nuove norme sulla tutela della libertà personale. Poi c’è stata la riforma del diritto di famiglia, la parità uomo-donna, l’interruzione di gravidanza, la legge Basaglia sui manicomi, la legge Gozzini sulle carceri.

E oggi?
Oggi siamo veramente in un altro clima, in un’altra dimensione. Allora la legislazione italiana su alcuni punti era la più avanzata d’Europa. Ora siamo non solo fanalino di coda, ma lontani culturalmente. La fine delle ideologie ha portato solo alla prevalenza assoluta del mercato. Di fronte a questo mondo ‘a una sola dimensione’ il contrappeso, il contropotere, è unicamente quello che viene dalla forza dei diritti. La più grande fabbrica del mondo si trova in questo momento in Cina, la Foxconn, che produce componenti della Apple: lì hanno scioperato per avere un miglioramento delle condizioni di lavoro, cosa impensabile fino a poco tempo fa in quel Paese. Segni di questo genere ce ne sono ovunque nel mondo: quindi abbiamo, da una parte, la prevalenza della logica di mercato, dall’altra parte, quella dei diritti. I diritti tuttavia non possono essere sacrificati senza avere ricadute sul terreno economico.

Ad esempio?Il caso dell’Ilva di Taranto è la dimostrazione, in casa nostra, di quanto dico: per anni sono stati trascurati i diritti di lavoratori e cittadini, come il diritto alla salute. Adesso tutto ciò sta portando a una crisi economica drammatica dell’azienda. Non si possono scindere diritti e governo dell’economia. Spero in una ripresa della politica dei diritti, ma non sono così ottimista. Anche perché la politica, per guadagnarsi un sostegno, si è fatta fortemente condizionare da un’idea di diritti e non diritti che proveniva dalla pressione delle gerarchie ecclesiastiche. Un’influenza esercitata non da tutto il mondo cattolico, beninteso, di cui una parte cospicua si è invece resa conto dell’importanza dei diritti, ma direi soprattutto dalle gerarchie vaticane, specie in materia di fine vita, procreazione assistita e rispetto dei diritti degli omosessuali. Mi auguro che questa fase sia ormai superata.

Lei parla, nel suo libro, di un possibile avvento di una democrazia su base “censitaria” in termini di rischio: che significa? Vuol dire che alcuni diritti non ci sono riconosciuti nella loro pienezza perché appartenenti a ognuno, ma sono accessibili soltanto a chi ha le risorse per poterli far diventare effettivi. Se, come ha lasciato intendere il premier Mario Monti pur correggendo in seguito l’affermazione, si dovesse andare in futuro verso forme di privatizzazione del servizio sanitario nazionale, è chiaro che il costo dei servizi crescerebbe per i cittadini, con la conseguenza che io avrò tanta salute quanto potrò comprarmene sul mercato. Questa direzione sarebbe all’opposto di quanto afferma l’articolo 32 della Costituzione, laddove si dice che la salute è un diritto fondamentale del cittadino. Si romperebbe lo schema indicato dal principio di uguaglianza. I miei diritti saranno misurati non dal riconoscimento della mia dignità, del mio essere persona uguale a tutte le altre, ma in base alle mie risorse. Cittadinanza censitaria è un’espressione che si usava nell’Ottocento, quando votavano solo gli uomini e, tra loro, soltanto quelli che avevano un reddito superiore a una certa cifra.

Come si stabiliscono i diritti?Se torniamo a misurare i diritti non sulla libertà e sull’uguaglianza, ma col censo e in base al denaro, noi torniamo alla democrazia censitaria appunto. E, così facendo, andremmo anche contro una tendenza globale. La campagna elettorale americana è stata fortemente giocata proprio intorno al tema della riforma sanitaria di Obama, che ha cercato di dare una tutela al diritto alla salute per milioni di persone, che ne erano rimaste – fino a quel momento – escluse. Il tema dei diritti è capitale ovunque esiste la necessità di far uscire le persone da una condizione di minorità.

Tempo di crisi. L’agenda Monti per affrontare l’emergenza è – a detta di molti – un’agenda di cose da fare, da affidare così com’è al prossimo governo. Se la cosiddetta ‘agenda Monti’ è null’altro che prosecuzione di quello che è stato fatto per superare l’emergenza, allora non credo che ci avviamo verso una stagione politica particolarmente promettente. Non possiamo vivere all’insegna dell’emergenza continua e dell’esistenza dei soli problemi economici. I diritti, come nel caso menzionato dell’Ilva, non possono essere sacrificati impunemente senza creare tensioni sociali molto pericolose. In questa situazione si dice continuamente che una delle vie d’uscita è “avere più Europa”, e sono assolutamente d’accordo. Tuttavia l’Europa non è soltanto l’economia. Dal 2009, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’Europa non è più fatta soltanto di norme che riguardano il mercato, ma ha – allo stesso titolo e col medesimo rango – una Carta dei diritti fondamentali.

Perché questa Carta è importante?
Nell’ultimo periodo, c’è stato un distacco e in alcuni casi un vero e proprio rifiuto dell’Europa. Per molti Paesi, infatti – l’Italia è tra questi – Bruxelles è diventata la ‘fonte dei sacrifici’. Ciò che arriva dall’Europa è percepito come obbedienza a una logica economica che restringe opportunità e diritti dei cittadini. In tal modo, il popolo europeo si allontana sempre più dalle sue istituzioni e si rischia non solo una crisi dal punto di vista economico, ma anche da quello della legittimità democratica. Un’Unione Europea può avere il consenso dei cittadini se i cittadini vedono che in essa c’è un valore aggiunto proveniente dai diritti. Lo testimoniano molte sentenze di corti europee e di corti costituzionali nazionali che hanno preso sul serio la Carta. Se i cittadini cominciassero a vedere che l’Europa porta loro nuove opportunità di tutela dei diritti, la spirale negativa cominciata in questi ultimi anni forse potrebbe essere interrotta.

Come mai si sente oggi la necessità di rimettere la Costituzione al centro dell’attenzione? La Costituzione ha, specie nella sua prima parte, una straordinaria forza, eloquenza e attualità, tanto più oggi di fronte al fatto che le nostre società sono diventate sempre più disuguali. Ai tempi di Vittorio Valletta, amministratore delegato della Fiat, la differenza tra il suo stipendio e quello di un operaio era di uno a quindici. Oggi il rapporto tra lo stipendio dell’operaio Fiat e quello di Sergio Marchionne è di uno a quattrocentotrentacinque. Quindi le disuguaglianze sono diventate enormi e insopportabili economicamente e socialmente. Ed ecco che ritorna il principio di dignità e uguaglianza. Il problema di sicurezza e dignità della persona sul lavoro dimostra che la Costituzione – come diceva Calamandrei – è ‘presbite’, ossia capace di guardare lontano. Si dice, ad esempio, che i partiti dovrebbero tornare a essere uno strumento nelle mani dei cittadini e non delle oligarchie: allora leggiamo l’articolo 49 dove si sostiene che tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente per partecipare con metodo democratico alla definizione della vita politica nazionale. Lì era scritta un’idea di partito che, in questi anni, è stata completamente stravolta.

Allora occorre tornare a leggere la Costituzione?Sì. Vi troveremo tutta una serie di indicazioni che ci aiutano ad affrontare con principi forti le difficoltà odierne. Parlando di lavoro, forse l’articolo più bello, che non dovremmo mai perdere di vista, è proprio l’articolo 36, laddove si dice che la retribuzione deve assicurare al lavoratore “un’esistenza libera e dignitosa”: sono parole bellissime. L’esistenza deve essere libera e dignitosa, non può essere sempre e soltanto subordinata alla logica economica, come quando si afferma “io ti do soltanto il minimo che ti fa sopravvivere biologicamente”: questo umilia le persone. Per tale ragione oggi il tema del lavoro è diventato capitale.

Però il dettato costituzionale, anche in tema di lavoro, viene spesso disatteso. Una diagnosi di perché questo accada non è facile. Certo è che organizzare l’economia intorno al riconoscimento dei diritti del lavoro, della considerazione che il lavoro non è una merce che debbo poter comprare sul mercato al prezzo più basso possibile, implica scelte di carattere generale molto impegnative. Nei momenti in cui c’è una reale difficoltà economica, come ora, si è sempre pensato che occorresse ridurre il costo del lavoro. Poi ci siamo accorti che c’era scarsa capacità imprenditoriale, che c’erano diseconomie molto forti, una corruzione che significava costi più elevati in quanto costituiva un aggravio per il sistema delle imprese. Allora abbiamo visto il lavoro come l’unica variabile che poteva essere ‘colpita’… Non l’evasione fiscale, non la corruzione. L’elevato costo del lavoro è anche il risultato di reperire risorse attraverso la tassazione di ciò che è più facile colpire, ossia il lavoro dipendente, invece di fare un’azione adeguata contro l’evasione fiscale e il lavoro nero. Entrambi i fenomeni sono stati – ormai lo sappiamo e ce lo ricordano di continuo le cifre della Corte dei Conti – una riserva oscura non per il benessere del Paese, ma per il profitto di pochi. Il lavoro ha finito per venire sacrificato in un quadro nel quale sono stati ritenuti prevalenti altri tipi di interesse.

Quanto conta oggi la società civile, che ascolto ha? Difficile dirlo. In alcuni momenti abbiamo l’impressione che conti molto. Adesso si dice “c’è un risveglio”, 3 milioni e mezzo di persone sono andate a votare per le primarie del centrosinistra, ci sono manifestazioni – che personalmente non mi piacciono affatto – e che hanno fatto capo a Beppe Grillo, c’è gente che si mobilita fuori dai canali tradizionali. C’è, insomma, una società capace di esprimersi. Questo in parte è vero. Ma prima non è che ci fosse una società civile opaca… Abbiamo vissuto una lunga fase in cui la società civile riusciva a esprimersi attraverso la mediazione non al ribasso fatta dai partiti. Non a caso si parlava di ‘partiti di massa’. Mentre oggi noi parliamo di ‘partiti oligarchici, di plastica, partiti-azienda e partiti leggeri’. Il che vuol dire che questi partiti sono più oligarchia, più organizzazione su modello manageriale (ricordo il caso del ‘marketing politico’). Tutto questo ha determinato l’esclusione dei cittadini, che poi magari imboccano strade non tra le più felici. Questo crea, da un lato, una distorsione e, dall’altro, reazioni della società civile che possono avere ‘effetti distorsivi’.

Che rapporto c’è tra società civile e politica? Un rapporto basato su un equivoco di fondo, secondo cui tutto quello che c’è nella società civile è bello e buono, e tutto quello che c’è nella società chiamiamola ‘politica’ è male. Questo ha determinato effetti negativi, perché in questi anni abbiamo avuto una caduta della cultura politica in senso proprio, cioè della capacità di fare politica al più alto livello. Sono arrivate in Parlamento troppe persone che non erano in grado di fare questo mestiere, un mestiere difficile che si deve imparare in maniera adeguata. Di fronte a questa incapacità sono venuti fuori i tecnici. Allora la società civile, che è stata esaltata – giustamente – come soggetto che deve avere voce in capitolo, ha finito per essere santificata anche nelle sue manifestazioni meno positive. Ogni cosa che proveniva dalla società civile era buona, salvo accorgersi poi che non era così, con i risultati che abbiamo sotto gli occhi.

A sinistra del Pd c’è spazio, a suo avviso, per una nuova formazione politica? In proposito ho un’opinione molto netta. Quando è stato avviato il movimento di Alba (acronimo per Alleanza per il Lavoro Beni comuni e Ambiente, ndr.), ho detto che c’era molto spazio per l’azione politica e molti rischi legati alla fretta di far diventare l’associazione una lista elettorale. Ritengo che ci sia stata, e spero che non sia del tutto perduta, una spinta – soprattutto dalla seconda metà 2010 alla prima metà del 2011– che ha portato a risultati importanti nella primavera 2011, con tutta una nuova generazione di sindaci, non espressione unica e diretta dei partiti, ma del grande dibattito della società civile. Stessa valutazione riguardo ai referendum del giugno del 2011, in particolare quello sull’acqua originato da un grande movimento sviluppatosi negli anni precedenti. Credo che esista, indipendente da dove la collochiamo rispetto al Pd, a sinistra a destra in alto o in basso, una grande capacità di elaborazione politica e culturale nella società italiana, perché quei movimenti sono riusciti a cambiare l’agenda politica. Se poi questo possa tradursi in un successo elettorale nelle elezioni del 2013 ho i miei dubbi.

E quindi? In questo momento penso che noi dovremmo – e mi rivolgo soprattutto a chi stimo e alle persone di Alba con cui continuo ad avere rapporti – piuttosto proseguire in quella direzione e insistere in quella linea di elaborazione di idee e cambiamento anche dei referenti, senza generiche contrapposizioni. Perché poi, per riprendere l’esempio dei nuovi sindaci, alcuni di loro sono venuti fuori dall’esperienza dei movimenti, altri invece dalle organizzazioni dei partiti. Quindi la contrapposizione frontale non è detto che dia sempre risultati positivi, dipende da cosa c’è dietro, dalla capacità di elaborazione e anche di trovare collegamenti. Questa non è una critica che rivolgo soltanto ai movimenti. Il Pd, ad esempio, non si è reso conto dell’importanza che i movimenti avevano avuto in quella stagione e non li ha presi sul serio. Mi pare sia stato un errore politico. Oggi vedo una situazione in movimento, una difficoltà a tradurre tutto questo in nuove forme organizzative che possano avere successo elettorale e vedo, nello stesso tempo, le difficoltà della sinistra tradizionale.

Si parla molto della costituzione di un quarto polo: sogno o realtà? Io non riesco a usare né l’uno, né l’altro termine. C’è un dato di realtà indubbio: tutto questo mondo ha avuto risultati politici che non si possono negare. Quei sindaci non sarebbero stati eletti senza quel tipo di movimento alle spalle. I referendum hanno mobilitato 27 milioni di persone, ma è un po’ un’illusione ritenere che quei 27 milioni di persone sposterebbero il loro consenso su formazioni minoritarie, a sinistra della sinistra, come quelle di cui stiamo parlando. Uno sbaglio commesso in passato dai Radicali, che hanno pensato che il consenso ottenuto nei referendum e nella raccolta delle firme si traducesse in consenso elettorale. E’ assai complicato riuscire a convertire l’azione di movimenti che hanno un obiettivo specifico, ben percepibile e ben al di là dei confini dei partiti, assegnare loro un obiettivo, raggiungerlo, e poi pensare che ciò si traduca in una lista elettorale sostenuta dalla medesime persone.

Quali sono, dunque, i suoi auspici?Mi augurerei che quanto c’è nella sinistra tradizionale, per così dire, venisse recepito con più attenzione e diventasse seriamente parte dell’agenda politica. Se si arrivasse ad avere alcune liste a sinistra della coalizione imperniata sul Pd e poi queste dovessero subire uno scacco, com’è avvenuto nelle ultime elezioni per le liste arcobaleno e verdi, quale sarebbe l’effetto? Di nuovo si direbbe: “voi politicamente non contate nulla”, un risultato che va evitato. Invece, sono convinto che proprio il cambiamento avvenuto in questi anni debba molto a un mondo che non è anchilosato come nella politica tradizionale. Un elemento emblematico è che il Pd ha come suo slogan “Italia. Bene Comune”; è successo in seguito al referendum sull’acqua, bene comune, e il Pd è stato l’unico partito a farne un programma. Se questo slogan viene usato strumentalmente non va bene, ma se dietro continua a esserci un lavoro costante, allora si possono cambiare molte cose.

Lei teme la mancanza di coesione? E’ un rischio effettivo, una questione che dovrebbe interessare chi è già soggetto politico strutturato, quindi il Pd. Finora quest’attenzione ai movimenti non c’è stata o non c’è stata in maniera adeguata. Secondo me, la società civile non è un indistinto generalizzato e dovrebbe costruirsi non per opposizione e invettiva (sul genere di “il Pd succube dell’agenda Monti”, “Vendola traditore”), ma dovrebbe lavorare molto sui temi che debbono riuscire a comporre una nuova agenda politica. Così questo mondo della sinistra potrebbe ritrovare, pur in una diversità difficile da cancellare, delle modalità di organizzazione e di presenza sociale e politica più forti delle odierne. In troppi casi, purtroppo, queste modalità riflettono la storia meno apprezzabile della sinistra, il litigio continuo. Un tempo, nelle vecchie logiche dei partiti comunisti, questo veniva chiamato ‘frazionismo’, ossia un’esasperata ricerca del dato differenziale. Anche se non bisogna andare a cercare spasmodicamente l’unità a qualsiasi prezzo, però che almeno non ci sia una sorta di disconoscimento preventivo dell’interlocutore, sul genere di “con quello io non parlo”, semplicemente perché è sbagliato.

Giovani/vecchi: una contrapposizione che oggi ha un senso? Dal momento che si era costituito un sistema di oligarchie, questa formula ha finito per giocare un ruolo e lo vediamo. Ma, nello stesso tempo, in astratto questa è una contrapposizione insensata, specie a generalizzarla. Personalmente ho fatto due esperienze dirette nel pubblico: come parlamentare e come presidente di un’autorità indipendente. In quest’ultimo caso, fissare un tetto di otto anni all’authority è un bene: serve un ricambio, scandito da regole precise, anche per evitare intrecci di interessi e il pericolo di burocratizzazione. Riguardo al Parlamento, invece, la cosa è diversa, dal momento che il lavoro parlamentare è anche un accumulo di esperienza. Ci sono stato immerso per 15 anni e poi me ne sono andato di mia spontanea volontà. Inoltre, il Parlamento è un luogo rappresentativo: se i cittadini vogliono affidarsi a persona che ha esperienza, perché impedirlo? Nella questione giovani/vecchi un ulteriore problema è rappresentato dal fatto che si vogliono trascinare le carriere al di là dei giusti limiti.

Di cosa è fatta la politica? Di simboli e visioni, come diceva Berlinguer, o di risposte concrete? Di tutte e due. Le risposte concrete che non sono capaci di guardare il contesto rischiano di essere drammaticamente inadeguate. Quanto sento Monti che a una domanda sui malati di Sla, costretti a manifestare esibendo la loro terribile condizione umana, risponde semplicemente che c’è stata una politica economica sbagliata e che pertanto le risorse sono ridotte, non va bene. Non si possono ignorare questi dati concreti. Se governo un Paese e voglio rispettare le persone non posso non distribuire le risorse ignorando simili situazioni. E’ sintomatico di una diversa visione della società: il governo come puro calcolo economico. Le due cose, visioni e azioni politiche devono essere tenute insieme: le grandi visioni politiche si sono poi tradotte in grandi programmi, realizzati almeno in parte.

Dunque che fare?Non mettere visioni e azioni politiche le une contro le altre, in quanto questo autorizza molte cose. Ad esempio dire “Ma quel signore le cose le fa, quindi apprezziamolo indipendentemente da…”: è la logica del “rubo ma faccio”, slogan di un noto senatore brasiliano. Zero visione e tutto fatti. Ridurre la politica a questo significa mortificare la democrazia. Io vorrei che la politica fosse sempre accompagnata da una visione. E’ la ragione per cui ritorna l’attenzione alla Costituzione. I nostri sono anni di grande riduzionismo. Tutto viene ridotto, nella peggiore delle ipotesi a interesse personale, nella migliore a calcolo economico. Mentre si sente il bisogno di avere dei grandi principii di riferimento. La nostra Carta costituzionale è molto eloquente in questa direzione: su alcuni punti come quelli dell’uguaglianza e della salute ha formulazioni ricche e precise. E’ un documento che guarda alla persona e alla sua dignità. Credo che questo bisogno di idealità e principii sia sentito molto fortemente.

Lei parla di una ‘religione della libertà’: di che si tratta? E’ una citazione che ho tratto da Benedetto Croce. Croce vedeva la storia come il risultato di un atteggiamento spirituale, che deve nutrire la politica e portare alla libertà. La libertà è quella che deve essere messa sugli altari da qualsiasi cittadino. Ecco perché mi sono sentito, da laico, di usare quest’espressione che oggi ci può aiutare. La libertà non è negoziabile da nessuno e per essa dobbiamo impegnarci. C’è una canzone partigiana francese che dice “viviamo nella notte ma la libertà ci ascolta”, un’affermazione molto fideistica, che si sposa bene con l’idea di religione della libertà. Ma anche un antidoto al pessimismo che si traduce in passività. E le democrazie muoiono di passività, non solo di aggressioni esterne.

giovedì 29 novembre 2012

Quando c'è la salute c'è tutto

 
di Alberto Bagnai da Informare per Resistere  
(Non vi sarà sfuggito, vero? L’hidalgo de la Sierra, proprio lui, il valvassino poco a suo agio con l’ aritmetica e con la dinamica del debito, ha avanzato ieri l’idea che il servizio sanitario nazionale potrebbe non essere sostenibile, e che, caso strano, potrebbero occorrere capitali privati, e in particolare, indovinate un po’… investimenti esteri, da generare attraverso investimenti in ricerca.

Un discorso sconclusionato del quale si capiva benissimo dove volesse andare a parare, tant’è che perfino la ‘zdora, nel solito macabro giochino delle parti, si è adontata: “Io sul tema di tenere un sistema universalistico nella sanità non mollo”… Ecco, brava, non mollare… Soprattutto, che la manica rimboccata non cali, non sia mai! La tua immagine di leader pragmatico ne riceverebbe un colpo immedicabile. E del resto, fra un po’ ti toccherà far la spesa con la carriola, utensile che, notoriamente, mal si sposa coi gemelli da polso…

Segue naturalmente smentita di Balduzzi: “ Abbiamo scherzato“.

Due considerazioni.

La prima è che, come ho cercato di far capire a “L’Ultima Parola” – ma forse sono stato poco efficace – questo tipo di gaffes, come quelle della Fornero, non sono manifestazione di spocchia o ingenuità comunicative, oh no no no, tutt’altro, tutt’altrissimo! Sono invece ben precise, scientifiche, strategie comunicative mirate. Si comincia a far entrare nella testa della gente l’idea che si vuole far attecchire, col principio della vaccinazione. C’è la prima dose, che magari fa venire una piccola reazione allergica – la ‘zdora si adonta – poi ce ne sarà una seconda, una terza, magari aiutate da un piccolo innalzamento dello spread… E la pillola va giù… ma a pagamento!

La seconda è che questo è l’ennesimo quod erat demonstrandum. Il valvassino vuole vendere il nostro paese pezzo per pezzo. E la sanità privatizzata offre ghiotte opportunità per i capitali esteri. Lui dice che sarebbero attirati, questi capitali, dalle nostre politiche di ricerca e di sviluppo – sottinteso: se faremo i bravi, se faremo le politiche giuste, saremo premiati… dalla vendita delle nostre aziende! Andate a dire a un imprenditore che se fa un brevetto deve vendere la sua azienda! Geniale, nemmeno il pezzo di Totò davanti alla fontana di Trevi raggiunge questa comicità. Il problema è un altro. Il problema è che all’estero la nostra sanità pubblica interessa perché molta ricerca, noi, l’abbiamo già fatta, e il nostro sistema non è così disastrato e insostenibile come il Governo vuole far credere. Anzi. Ci sono note eccellenze mondiali, strutture che funzionano, e che possono, se privatizzate, fare bei profitti, da rimpatriare all’estero aggravando la voce “redditi netti” delle partite correnti.

Siccome qualcuno che non ci crede in giro si trova, qualcuno che pensa che la nostra sanità sia da tagliare, da amputare in toto, per consentirvi una valutazione spassionata ed informata riposto qui un utilissimo lavoro di Stefania Gabriele. La ringrazio per avermi dato questa opportunità. Alcuni di voi lo conosceranno, perché è stato pubblicato in Oltre l’austerità. Ho pensato che un ripasso non fosse inutile. Enjoy irresponsibly!)
 

StefaniaGabriele – Politiche recessive e servizi universali: il caso dellasanità

Fonte: http://goofynomics.blogspot.it
Link: http://goofynomics.blogspot.it/2012/11/quando-ce-la-salute-ce-tutto.html

lunedì 26 novembre 2012

La tentazione di votare Renzi

Mi viene voglia di votare Renzi. E' la reazione più naturale ad una sceneggiata che ci ha presentato un Bersani come il garante della continuità di una politica di sinistra all'interno del Pd. Vai con Bersani, non sia mai che vinca quel liberista un po' inciucione e con la faccia da prete di Renzi.  Bersani sarebbe l'antitesi del liberismo. Il solito ricatto del voto utile, ma questa volta di utile c'è solo quello delle banche e dei banchieri. Ma quale  antitesi al liberismo, nemmeno un ebreo ortodosso segue la Torah come questa gente segue i dettami del liberismo! Cosa sarebbe la riforma delle pensioni, socialismo? Dimenticavo, la crisi, ce lo chiede l'Europa. Un alibi che non reggerebbe nemmeno se avessero ragione. Sono stufo di citare i misfatti di questo governo perpetrati come rimedio ad una crisi considerata non già come il prodotto proprio del liberismo, ma come un evento naturale, la furia degli elementi che chissà come si scatena solo contro i più deboli. Se Bersani è di sinistra allora chiunque è di sinistra. 
Ho rispetto per gli elettori del Pd, perché malgrado tutto sono fra le persone migliori di questo paese: hanno uno spirito genuinamente democratico e presi singolarmente parlano lingue affatto diverse da quelle dei loro leaders. Ma perché si comportano in modo totalmente illogico? Con che spirito un insegnante, un infermiere, un operaio, può votare gente che ha condannato a morte la sua categoria e bombardato lo stato sociale? Perché non si riesce ad essere un minimo conseguenti? Eppure non stiamo ragionando di principi dottrinari, non è il sesso degli angeli, è la tragica concretezza di gesti palesemente ostili a ciò che lo stesso slogan dei piddini,  " Italia bene comune", intende mettere al centro della politica. La risposta credo che sia nella preponderanza di scelte identitarie rispetto alla logica più elementare. Il bisogno di una casa comune e di una famiglia di appartenenza prevale, almeno in quelli di sinistra. Per i berluscones il discorso è diverso, quelli sono di un'altra pasta, non li smuovi, lì prevale l'interesse puramente contabile e il desiderio di impunità.
Ma nei “nostri”, almeno in una buona parte di questi, la paura di perdere le coordinate di riferimento in una realtà sempre più complessa e di essere assaliti dal panico è più forte persino degli istinti vitali. Fino a quando. Forse fino a quando i morsi della fame non diventeranno più forti e sarà sempre più evidente chi sono i responsabili di questo stato di cose. Forse, ma c'è dell'altro. Questa crisi ha distrutto ogni speranza. Non si riesce a vedere un'alternativa a questo stato di cose. Qualsiasi visione alternativa della politica, opposta a quella dei tecnici e dei Napolitani è considerata più una costruzione narrativa che una possibilità reale. Come si può costruire un senso diverso rispetto a quello di chi monopolizza l'intero ambito del reale? L'Europa, il mondo delle banche, dell'economia, della finanza, interi eserciti di dispensatori di verità con tutti i loro pifferai al seguito che diffondono il verbo. E' ovvio che buona parte dell'umanità di questo paese come in altri cerchi rifugio o in partiti di plastica o nell'individualismo del si salvi chi può.
La tentazione di votare Renzi con l'idea di far cadere questo castello di menzogne e di costruire qualcosa di diverso sulle sue macerie, c'è ed è forte. Alla fine ci resta davvero solo Grillo o un cumulo di macerie, o magari entrambi. 
Se vogliamo rimanere freddi e lucidi ci sarebbe anche una componente tattica nella scelta di Renzi: lui vince e si libera un bel po' di spazio a sinistra, tolto l'alibi di Bersani molti del Pd guarderebbero altrove, finalmente verso un'area autenticamente antiliberista. La tentazione è davvero forte.
Speriamo di riuscire a intravedere qualcosa aldilà del muro.

sabato 24 novembre 2012

L'Età Oscura del Denaro

Milton Friedman e l'avvento del Fascismo Monetario

di James C. Kennedy (da Counterpunch)
traduzione di Domenico D'Amico


Traduciamo questo pezzo da Counterpunch perché è interessante leggere una critica (assai pesante) del cosiddetto neoliberismo non da un punto di vista anticapitalistico, bensì da una prospettiva di capitalismo “classico”.
Naturalmente, da parte nostra non consideriamo quello che l'autore chiama Fascismo Monetario come una “deviazione” dal “vero” libero mercato. Il “vero” libero mercato a cui si riferisce l'autore è la storia di un liberalismo “reale” fatto di colonialismo e imperialismo sanguinari. Ma la descrizione che troviamo qui è esatta. Il capitalismo è intrinsecamente predatorio, e il fatto che (senza che ci sia nessun comitato di Illuminati a deciderlo) si avvii spontaneamente ad aggredire la stessa sopravvivenza del genere umano non è un tradimento, una perversione. È la sua natura.
DD


Se vi capita spesso di chiedervi come mai il “capitalismo del libero mercato” sembri un fallimento nonostante che economisti e opinionisti politici assicurino che funziona a dovere, la vostra intuizione è azzeccata.
Il capitalismo del libero mercato ormai appartiene al passato. A dire il vero il capitalismo del libero mercato è stato sostituito da qualcosa che è sia contro il capitalismo sia contro il libero mercato. La deviazione avviene alla luce del sole.
A iniziare all'incirca dal 1970, gli Stati Uniti e la maggior parte del “mondo libero” si sono allontanati dal tradizionale “capitalismo del libero mercato”, imboccando una strada diversa. Al giorno d'oggi gli Stati Uniti e gran parte dell'economia mondiale operano sotto quello che io chiamo Fascismo Monetario: un sistema nel quale gli interessi finanziari controllano lo Stato a vantaggio della classe finanziaria. Si tratta di qualcosa di significativamente diverso dal Fascismo tradizionale, un sistema nel quale lo Stato e l'industria operano a vantaggio dello Stato.
Il Fascismo Monetario è stato concepito e diffuso tramite la Chicago School of Economics. Le opere collettive di Milton Friedman costituiscono le fondamenta del Fascismo Monetario. Consapevoli della universale impopolarità del termine “Fascismo”, Friedman e la Chicago School of Economics camuffarono le loro opere sotto l'etichetta di “Capitalismo” ed economia del “Libero Mercato”.

Il patto di stabilità? Serve a privatizzare!


di Fabrizio Tringali da byoblu

pubblico questa lettera di Fabrizio Tringali, al quale avevo fatto l'intervista che potete vedere qui sopra.

 Caro Claudio,
 questa mattina ho accompagnato come al solito mia figlia di quattro anni all'asilo. Ad accoglierci però c'era una persona mai vista prima: una maestra di sostegno di un nuovo bimbo disabile. Ha preso servizio da poco e nemmeno conosce ancora i nomi degli altri bambini della classe.
La maestra che avrebbe dovuto essere di turno stamattina è in malattia, ma non è stata sostituita, dato che ormai la carenza di fondi e di insegnanti fa sì che le scuole materne possano attivare le supplenze solo se i docenti comunicano un periodo di assenza superiore ai 5 giorni. Così l'intera classe, 24 bambini fra i 3 e i 5 anni, è rimasta con una sola maestra, per di più di sostegno e sconosciuta.
Non ti stupire. Non è affatto raro, oramai, che una sola maestra si debba occupare di tutti gli alunni, compresi quelli che avrebbero diritto ad un sostegno dedicato. Dopo gli ultimi feroci tagli, la maggioranza dei bimbi con disabilità si è vista ridurre drasticamente l'aiuto. Il che vuol dire che l'insegnante di appoggio è presente solo per alcuni giorni della settimana, spesso solo due su cinque. Gli altri giorni il bimbo disabile si deve arrangiare. Così come si deve arrangiare la maestra di turno (e ti ricordo che stiamo parlando di classi della scuola dell'infanzia, quindi con bimbi molto piccoli).

 Inutile che ti descriva le lacrime di mia figlia nel vedersi consegnare ad una persona mai vista. Ma ciò che è davvero disarmante è che di fronte a tutto questo si ha la sensazione di non poter fare nulla. Questa situazione non dipende dalla cattiva organizzazione della scuola, anzi è vero il contrario: maestre e responsabili fanno i salti mortali per cercare di offrire, comunque, un servizio decente. I tagli agli organici e ai fondi scolastici sono diretta conseguenza di quello che, nella neolingua dell'Unione Europea, si chiama “patto di stabilità interno”, il quale impone, per esempio, di non sostituire, con nuove assunzioni, il personale che va in pensione, se non in minima percentuale. Così, anche nei servizi scolastici, per ogni 10 operatori che vanno in pensione, vengono realizzate solo due o tre nuove assunzioni (è il cosiddetto “blocco del turnover”). Vedi come si fa presto a depauperare i servizi pubblici?

 Certo, qualcuno potrebbe dire: “Be' questo tipo tagli è sbagliato, ma almeno i vincoli europei ci impongono di risparmiare, dato che stiamo spendendo troppo!”. Ma gli estensori dei patti europei sanno benissimo che non è vero che stiamo spendendo troppo, così come sanno che i conti si stabilizzerebbero molto più facilmente con una politica espansiva, di sostegno ai redditi e all'occupazione. Cioè, per esempio, aumentando il numero di insegnanti nella scuola pubblica, non diminuendolo. Questo, però, comprimerebbe le possibilità di consegnare sfere di settori pubblici al profitto privato.

 Infatti, caro Claudio, pensa che il “patto di stabilità” non è stato pensato per far risparmiare, ma per far diminuire i costi relativi al personale interno. Il che spesso determina un aumento dei costi complessivi! Come? In questo modo: la diminuzione del personale interno costringe a ridurre i servizi. Il che, spesso, porta l'ente pubblico a sostituire con esternalizzazioni ciò che viene tagliato. Eh già, guarda caso, il “patto di stabilità” impone di ridurre i costi per il personale interno, ma non quelli per l'acquisto di servizi dai privati. Altro che “stabilità”. Lo scopo non è quello di stabilizzare i conti, bensì quello di rendere del tutto “instabili” i servizi pubblici, imponendo di fatto la loro privatizzazione.

 Vuoi un esempio concreto? Eccolo: nel corso degli ultimi anni il Comune di Genova ha progressivamente diminuito il servizio estivo per i bimbi che frequentano gli asili nido e le scuole dell'infanzia. Ciò è accaduto perché, per ovviare alla diminuzione del personale, è stato imposto a tutti i lavoratori del settore di godere delle ferie nel periodo estivo. L'ovvio risultato è stato quello di avere pochissimo personale a disposizione nei mesi di luglio e agosto. Così il Comune ha dovuto acquistare all'esterno, cioè privatizzare, il servizio estivo. Come membro del Comitato dei Genitori, ero personalmente presente in Consiglio Comunale, un paio di anni fa, quando l'Assessore spiegò che da quel momento il Comune avrebbe speso più di prima, ma che il patto di stabilità non lasciava altra strada: o chiudere il servizio estivo, o privatizzarlo.

 Ci fanno credere che abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità. Che abbiamo speso troppo. Ma i vincoli europei non hanno nessun fondamento economico. Perseguono, con grandissima efficacia, un duplice obiettivo politico: da un lato distruggere il ruolo pubblico nell'economia e spingere alla privatizzazione di ogni cosa, dall'altro proteggere la casta politica, che senza poter ripetere l'odioso mantra del “ce lo chiede l'Europa” non potrebbe realizzare una tale distruzione di tutto ciò che è stato costruito dalla fatica e dalle lotte delle generazioni precedenti. Quando parliamo del fiscal compact, del MES, dei vincoli che discendono dall'appartenenza all'eurozona e all'Unione Europea, dobbiamo fare lo sforzo di spiegare a chi ci legge o ascolta che sono proprio queste cose ad essere direttamente responsabili della concreta distruzione delle nostre condizioni di vita e di quelle dei nostri figli. Non è un compito facile, bisogna abbattere luoghi comuni e falsità che hanno attecchito non poco nell'opinione pubblica, a causa di decenni di disinformazione.

 Ma tu sei un papà, come me. E questa è una delle cose più importanti che possiamo fare per i nostri figli.

 di Fabrizio Tringali, leggi anche:
  - Il problema non è il Debito Pubblico, vi spiego perché.
  - Vi spiego i piani di chi vuole più Europa.

martedì 20 novembre 2012

Dieci volte peggio dei nazisti. Il post di Piergiorgio Odifreddi cancellato da Repubblica

Uno dei crimini più efferati dell’occupazione nazista in Italia fu la strage delle Fosse Ardeatine. Il 24 maggio 1944 i tedeschi “giustiziarono”, secondo il loro rudimentale concetto di giustizia, 335 italiani in rappresaglia per l’attentato di via Rasella compiuto dalla resistenza partigiana il 23 maggio, nel quale avevano perso la vita 32 militari delle truppe di occupazione. A istituire la versione moderna della “legge del taglione”, che sostituiva la proporzione uno a uno del motto “occhio per occhio, dente per dente” con una proporzione di dieci a uno, fu Hitler in persona.

Il feldmaresciallo Albert Kesselring trasmise l’ordine a Herbert Kappler, l’ufficiale delle SS che si era già messo in luce l’anno prima, nell’ottobre del 1943, con il rastrellamento del ghetto di Roma. E quest’ultimo lo eseguì con un eccesso di zelo, aggiungendo di sua sponte 15 vittime al numero di 320 stabilito dal Fuehrer. Dopo la guerra Kesselring fu condannato a morte per l’eccidio, ma la pena fu commutata in ergastolo e scontata fino al 1952, quando il detenuto fu scarcerato per “motivi di salute” (tra virgolette, perché sopravvisse altri otto anni). Anche Kappler e il suo aiutante Erich Priebke furono condannati all’ergastolo. Il primo riuscì a evadere nel 1977, e morì pochi mesi dopo in Germania. Il secondo, catturato ed estradato solo nel 1995 in Argentina, è tuttora detenuto in semilibertà a Roma, nonostante sia ormai quasi centenario.

In questi giorni si sta compiendo in Israele l’ennesima replica della logica nazista delle Fosse Ardeatine. Con la scusa di contrastare gli “atti terroristici” della resistenza palestinese contro gli occupanti israeliani, il governo Netanyahu sta bombardando la striscia di Gaza e si appresta a invaderla con decine di migliaia di truppe. Il che d’altronde aveva già minacciato e deciso di fare a freddo, per punire l’Autorità Nazionale Palestinese di un crimine terribile: aver chiesto alle Nazioni Unite di esservi ammessa come membro osservatore! Cosa succederà durante l’invasione, è facilmente prevedibile. Durante l’operazione Piombo Fuso di fine 2008 e inizio 2009, infatti, compiuta con le stesse scuse e gli stessi fini, sono stati uccisi almeno 1400 palestinesi, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, a fronte dei 15 morti israeliani provocati in otto anni (!) dai razzi di Hamas. Un rapporto di circa 241 cento a uno, dunque: dieci volte superiore a quello della strage delle Fosse Ardeatine. Naturalmente, l’eccidio di quattro anni fa non è che uno dei tanti perpetrati dal governo e dall’esercito di occupazione israeliani nei territori palestinesi.

Ma a far condannare all’ergastolo Kesserling, Kappler e Priebke ne è bastato uno solo, e molto meno efferato: a quando dunque un tribunale internazionale per processare e condannare anche Netanyahu e i suoi generali?


lunedì 19 novembre 2012

Il cammino segnato dei napolitani

"Vedremo come si esprimeranno i cittadini e in base al risultato elettorale si troveranno le soluzioni per governare stabilmente il Paese, mettendo a frutto il lavoro del Governo Monti le cui decisioni hanno segnato il cammino dal quale l'Italia non potrà discostarsi".
"Il prossimo governo dovrà proseguire il cammino di Monti"
"Partiti con posizioni diverse potranno al massimo aggiungere qualcosa e non distruggere quello che ha fatto".
"Anche dopo il voto proseguiranno risanamento e riforme".

Napolitano dixit.
In pratica dovremo proseguire il cammino verso il baratro. Il senso è unico. L'economia non è un insieme di teorie e di scuole di pensiero differenti, l'economia è una scienza esatta. Insomma se ti si rompe il motore della macchina, che fai? Lo ripari no? Stessa cosa per l'economia: se si rompe l'economia la ripari e il conto va ai soliti fessi. Il problema è capire perché Napolitano e con lui tutta una classe politica e intellettuale, un think thank agguerrito, testardo e senza esitazioni, faccia di tutto per convincerci della bontà di massacrare lo stato sociale e spolpare i redditi per il nostro bene. Le possibili risposte sono almeno due: 1) sono in mala fede e ingannano volutamente i cittadini nell'intento come dicono certuni di perpetrare il più grande crimine della storia, cioè depredare il ceto medio basso, portarlo a livelli di servitù della gleba, e alimentare in questo modo una nuova classe di rentier o di signori feudali che dir si voglia. Tutto ciò allo scopo di ristabilire un equilibrio sociale basato sul predominio di "chi ha da spendere" come avrebbero detto i liberali col marchio doc alla Montesquieu per intenderci. 2) non sono in mala fede, almeno non del tutto, e agiscono così in ragione di una totale identificazione con un determinato credo economico, quale prodotto di una naturale inclinazione del mondo dell'economia ad orientare a prorpio vantaggio i meccanismi che la compongono, creando al contempo sovrastrutture che li sorreggano. Il vecchio Marx direbbe "l'ideologia". Credo fermamente nella seconda ipotesi, poiché sono persuaso che qualsiasi azione debba trovare in questa minoranza di dominatori pseudo illuminati una giustificazione filosofica e morale, non perché questa gente abbia una coscienza, ma perché anche le azioni peggiori hanno bisogno di congegni semantici con i quali costruire senso, così da dare un'apparenza di giustizia e di razionalità all'agire stesso. Ve li immaginate i padri dell'Europa che discutono su come fregare il popolo? Non si diranno certo fra di loro che la BCE è una colossale fregatura e che impedire agli stati di stampare moneta servirà a impoverire grandi masse di persone e arricchire una minoranza, ma dentro di loro lo sanno benissimo che è così e sono convinti che sia l'unica da fare. Le masse emancipate sono state da sempre il terrore dei liberali, soprattutto dei padri fondatori americani che consideravano il governo delle moltitudini l'anticamera dell'inferno. Se ci riflettiamo anche i neocons americani hanno pianificato cinicamente guerre agli stati (do you remember il Piano per il Nuovo Secolo Americano? Guerra all'Iraq, poi Siria, poi Iran?), ma la loro argomentazione poggiava su principi etici, che ponevano al centro la democrazia. L'euro è la sponda europea della strategia neocons. Un nuovo ordine mondiale che realizza nella mente di questa gente l'ideale platonico del governo universale dei saggi (leggasi aristocrazia politico-economico-finanziaria di marca anglosassone), un grande leviatano con la maschera affranta di una madre che castiga i suoi figli per il loro bene.
Il cammino è segnato dice Napolitano. Vedremo. La moltitudine ha cominciato a stufarsi e a non credere più alle favole. La si può convincere di tutto, ma mai che tagliarsi le gambe un giorno ci porterà a correre lontano.


domenica 18 novembre 2012

I conti del Grillo

Grillo ha una visione dell'economia a mio avviso sbagliata. Non sono un economista, ma il fallimento del liberismo e delle politiche di austerità è sotto gli occhi di tutti. Ciò che Grillo non capisce è la stretta connessione fra una visione “frugale” o se vogliamo falsamente etica dell'economia e il liberismo. Per Grillo, il problema sta nella virtù dell'amministratore della cosa pubblica, che come un buon padre di famiglia devesaggiamente amministrare le risorse evitando gli sprechi. Non a caso nei suoi scritti lui indica la Germania come modello di virtù, contrapposta al lassismo morale italiano, ma è proprio questo l'elemento chiave della questione. L'austerità, la razionalizzazione della spesa pubblica, “i conti in ordine”, sono la leva ideale per smantellare lo stato sociale e trasferire ingenti proporzioni di reddito dai ceti medi al capitale finanziario. E' ciò che sta accadendo in Grecia ed in Italia, con la promessa che dopo le lacrime e il sangue verrà finalmente la rinascita, un messaggio quasi messianico, il paradiso dopo un calvario purificatore. Austerità è un termine che nell'immaginario collettivo evoca attributi morali universali e pertanto difficilmente criticabili. Chi non sarebbe d'accordo con l'austerità, quando ci hanno sempre insegnato che virtù, soprattutto in tempi di crisi, significa frugalità, risparmio, sacrificio. Peccato che questo non valga per la quota sempre crescente di ricchi che si avvantaggia dell'austerità altrui. La trappola contenuta nel termine austerità è estremamente insidiosa perché cela il reale intento insito nella semantica.
Tutto ciò significa che dobbiamo darci alla dissipazione incontrollata delle risorse, senza badare alla quantità e alla qualità della spesa? No, non è questo il punto, si può spendere senza dissipare e salvaguardando l'ambiente, si può persino “decrescere” come vorrebbero alcuni, ma una cosa è certa, come molti economisti ci insegnano, senza una "spesa a deficit" dello stato che produce moneta e crea investimenti e circolazione di danaro, l'unica strada che ci rimane è quella della disoccupazione, della riduzione dei redditi e dello strangolamento dello stato sociale. Certo come ha detto la Fornero, abbiamo dovuto mettere mano a redditi e pensioni altrimenti il mercato ci avrebbero massacrato (sic). Qualcuno molto saggio potrebbe leggere le parole della ministra come l'imposizione forzata delle regole di un gioco al quale non potevano sottrarci, e credo che Bersani cerchi di lavarsi la coscienza con questa favola, ma allora a questo punto sono proprio le regole del gioco che contano e non come vogliono farci credere i conti in ordine. In altre parole abbiamo ceduto al realismo nefasto dei mercati finanziari, nella migliore delle ipotesi perché siamo succubi, nella peggiore perché abbiamo creduto che fosse la scelta migliore.
Criticare moralisticamente gli sprechi o anche credere che tutto si risolva combattendo l'evasione fiscale è da sciocchi. Occorre evidenziare con nettezza la contrapposizione fra una visione falsamente moralistica dell'economia, anche nella sua veste più accattivante di redistribuzione equa delle risorse, e una visione improntata alla generazione di reddito e ricchezza per la maggioranza della popolazione. L'unico assillo è forse la qualità della spesa. Non possiamo alimentare l'economia con i TAV o facendo buche da riempire, né tanto meno cementificando il territorio. Credo che su questo potremmo essere d'accordo con Grillo, ma non venitemi a dire che se risparmiamo i soldi dei contributi elettorali e facciamo pagare le tasse a tutti abbiamo risolto tutti i nostri problemi.

sabato 17 novembre 2012

Elsa Fornero ammette il Golpe Finanziario. Ora si apra un fascicolo d’inchiesta

dal blog di Paolo Barnard

Berlusconi non aveva ragione, poiché difendeva unicamente i suoi interessi privati, ma mi associo ad un appello ai magistrati (F.C,)

Voi milioni di italiani pestati a mazzate dalla riforma delle pensioni di Elsa Fornero, voi esodati, voi che avete subito, che sempre subite, voi senza voce, e voi giovani che non avete lavoro perché gli anziani sono oggi incatenati a lavorare dalle decisioni di questa lugubre sicaria dell’Economicidio italiano, voi…

Perché vi hanno fatto tutto questo? Cosa vi hanno detto? Vi hanno detto che era nell’interesse del Paese, che risparmiare attraverso i vostri sacrifici era la via dura, ma virtuosa, per ridare speranza all’Italia, che per voi ultra sessantenni significa i vostri figli, vero? Vi hanno detto questo, e voi, che a 17 anni vi riboccaste le maniche per tirarla su quest’Italia che viaggiava in 600 e aveva una sola tv in bianco e nero per condomino, anche questa volta lo farete, stringerete i denti, perché “è per i nostri figli”. Anziani, vi dicono che meno pensione è necessario per lo Stato, per tutti i cittadini, che è necessario…

Anziani, meno pensione è necessario per lo Stato, per tutti i cittadini, è necessario. Anziani, meno pensione è necessario per lo Stato, per tutti i cittadini, è necessario......

Pomeriggio del 15 novembre 2012, WorldPensionSummit ad Amsterdam, la conferenza che riunisce i colossi mondiali delle pensioni private, gente con interessi finanziari per 1.925 miliardi di dollari, millenovecentoventicinque miliardi. Cioè: solo in quella sala erano presenti una decina di gruppi privati con interessi quasi pari all'intero Prodotto Interno Lordo italiano. Sono quelli che aspettano a bocca spalancata come lo squalo bianco sotto la barca, che la barca affondi, l’Inps. Sulla barca ci siete voi, vogliono i vostri soldi, la vostra pensione, i contributi di chi lavora. E voi, torturati dalla Fornero e da quelli che a lei seguiranno, glieli darete, farete le pensioni integrative costretti a mazzate, e loro ci speculeranno sopra cifre inimmaginabili. Poi, quando uno o cento di questi gruppi esploderanno come accaduto negli USA nel 2007, milioni di voi perderanno la pensione per sempre. Ma chissenefrega, voi siete la gente, quelli che non contano.

Ok, è il pomeriggio del 15 novembre, al WorldPensionSummit prende la parola Elsa Fornero e dice che

I cambiamenti portati dalla riforma delle pensioni del governo Monti erano necessari per compiacere i mercati finanziari, altrimenti i mercati avrebbero devastato l’Italia.

Fermi, fate un lungo respiro, per favore. La capite la gravità di questa cosa detta e firmato da un Ministro della Repubblica?

Un Ministro di un Paese, che risponde allo Stato, alla Costituzione, e al popolo sovrano, il cui dovere costituzionalmente sancito è l’interesse pubblico nello Stato, ha fatto una riforma delle pensioni per compiacere le banche, le assicurazioni, i fondi monetari, gli hedge funds, cioè i gruppi privati di speculatori dediti al profitto che, altrimenti, ci avrebbero distrutti, distrutto l’intero Paese.
Un Ministro di un Paese, che risponde allo Stato, alla Costituzione, e al popolo sovrano, il cui dovere costituzionalmente sancito è l’interesse pubblico nello Stato, NON HA FATTO un riforma delle pensioni per motivi legati all’interesse del popolo sovrano. Non è vero che la riforma Fornero è la cura economica giusta per l’Italia. Poteva essere l’abolizione nazionale del diritto di allattare i figli, non importa un accidenti, ma se la ordinavano i mercati il Ministro della Salute era costretto a sancirla.
Viviamo in un golpe finanziario. Lo Stato non esiste più, Monti e la Fornero lavorano per i mercati violando la Costituzione. Il presidente Napolitano è in coma. In centinaia di procure italiane sono state depositate denunce di cittadini esattamente su questo. Esiste un giudice degno in questo Paese? Apra un fascicolo d’inchiesta, altrimenti Silvio Berlusconi aveva ragione. Magistrati siete servi di chi?

venerdì 16 novembre 2012

Damasco sopravviverà all’ultimo tentativo di Washington di imporre un governo fantoccio alla Siria?

 di Stephen Gowans da voltairnet.org


La segretaria di Stato degli USA Hillary Clinton dice che Washington ha bisogno di “un’opposizione che sappia resistere decisamente agli sforzi degli estremisti di dirottare la rivoluzione siriana” [1] ma non riesce ad aggiungere che anche gli Stati Uniti devono essere disposti a fare la stessa cosa.

Le rivolte per rovesciare dei governi vengono spesso divise tra i militanti che fanno il lavoro sporco sul terreno e i politici che guidano la lotta nella sfera politica. Secondo le regole, le potenze straniere preparano un politico accettabile come leader da inserire nel vuoto creato, se e quando l’attuale governo venisse rovesciato.
Il leader deve essere gradito sia ai suoi sostenitori stranieri che ai militanti sul terreno. Washington ha deciso che il Consiglio nazionale siriano, che aveva “inizialmente sostenuto” nel “galvanizzare l’opposizione” [2] al governo baasista della Siria, è inaccettabile per i ribelli siriani e, quindi, non ha alcuna speranza di guidare un governo successore. In alternativa al consiglio fallimentare, ha recuperato i leader di un nuovo governo in esilio, che sarà presentato a Doha il 7 novembre, e subito dopo riceverà la preorganizzata benedizione della Lega Araba e degli amici della Siria. Non si commetteranno errori. Ciò che emergerà a Doha sarà una creazione degli Stati Uniti, destinata a rappresentare gli interessi degli Stati Uniti in Siria e Medio Oriente.
In una conferenza stampa dopo la riunione del 30 ottobre con il presidente della Croazia, la segretaria di Stato degli USA Hillary Clinton ha rivelato che il Consiglio nazionale siriano, scelto inizialmente da Washington nel condurre l’opposizione al governo di Assad, non aveva più il sostegno di Washington. Il CNS, secondo Washington, è diventato irrilevante. L’opposizione armata al governo Assad è guidata dall’esterno della dirigenza del CNS, un’organizzazione di esuli senza legittimità in Siria e divisa al suo interno da litigi incessanti tra le fazioni islamiste e laiciste. Il CNS, ha commentato uno ribelle armato, “è superato da molto tempo, i combattenti ne parlano solo con sarcasmo.” [3]
Altrettanto problematico per Washington è la ristretta base politica del CNS. “Fin dall’inizio, il consiglio è stato visto come un veicolo dei Fratelli musulmani, da molto tempo in esilio” [4] e quindi “non è riuscito ad attrarre una significativa rappresentanza delle minoranze”, [5] tra cui alawiti, cristiani e curdi. Data la sua incapacità di avere il sostegno dei combattenti e di espandersi al di là di una stretta base settaria, è difficilmente consigliabile per poter avere un valido governo in esilio. Ciò suona come una campana a morto per il consiglio, Clinton ha decretato “che il CNS non può più essere visto come la direzione visibile della opposizione.” [6]
Per settimane, Robert Ford, l’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Siria, ha messo insieme un piano per promuovere un nuovo governo in esilio approvato dagli USA. L’iniziativa è conosciuta come “piano di Riad Seif” [7] dal nome di un ricco uomo d’affari di Damasco ed ex parlamentare siriano che ha svolto a lungo un ruolo attivo nell’opposizione al governo Assad. Accettabile per Washington a causa del suo liberismo (contrario all’impegno ideologico ba’athista nel dominare tramite lo stato l’economia, nella marginalizzazione del settore privato e nei controlli sugli investimenti esteri [8]), Seif è gradito da Washington per poter guidare un governo post-baathista. Sperano che le sue credenziali, essendo stato imprigionato dal governo siriano per le sue attività di opposizione, lo mettano sotto una buona luce presso i ribelli armati.
Il piano prevede la creazione di un “proto-parlamento” composto da 50 membri, 20 dell’opposizione interna, 15 del CNS (vale a dire, l’opposizione esilio) e 15 da altre organizzazioni dell’opposizione siriana. Un organo esecutivo composto da 8 a 10 membri, approvati dal Dipartimento di Stato degli USA [9] — lavorerà direttamente con gli Stati Uniti ed i loro alleati. [10] Washington e i suoi subordinati, la Lega Araba e i malnominati Amici della Siria, appartengono al club dei nemici della democrazia delle plutocrazie e delle petro-monarchie, e cercheranno di rendere l’entità accettabile ai siriani riconoscendola come legittimo rappresentante del popolo siriano. Non c’è garanzia che il piano funzioni. Uno dei suoi obiettivi è emarginare l’influenza dei jihadisti, molti, se non tutti, si sono riversati in Siria provenienti da altri paesi, decisi a rovesciare un regime laico guidato da un presidente la cui fede Alawi insultano come eretica. Se i jihadisti potranno essere messi da parte, Washington potrebbe essere in grado di incanalare armi ai gruppi militanti “accettabili”, senza paura che li utilizzino in seguito contro obiettivi statunitensi.

Adnan al Arour the spiritual leader of the FSA and the manager of the funds sent by Saudi Arabia to the jihadists
Ma c’è un punto interrogativo che incombe sull’appello di Seif ai militanti d’ispirazione religiosa, soprattutto quando le mani del puparo, il Dipartimento di Stato degli USA, sono così visibili. Lo stesso vale per l’appello antimperialista del nuovo consiglio dell’opposizione laica, “contro ogni nuovo soggetto politico che diventi oggetto delle agende di paesi stranieri.” [11] And there’s no mistaking that the new ‘Made-in-the-USA’ council will be subject to the political agenda of the United States.
E non ci sono dubbi che il nuovo Consiglio ‘Made-in-USA’ sarà oggetto dell’agenda politica degli Stati Uniti. Non abbiamo bisogno di indugiare a lungo per sfatare l’ingenua convinzione che l’intervento di Washington negli affari siriani abbia una minima connessione con la promozione della democrazia. Se la promozione della democrazia motiva la politica estera statunitense, le monarchie assolutiste con i loro esecrabili record sui diritti umani e la repressione violenta delle rivolte popolari contro i loro governi dittatoriali, non costituirebbero la maggior parte degli alleati arabi degli Stati Uniti. L’ultima cosa che i ricchi investitori, i banchieri e i pesi massimi aziendali che compongono la classe dirigente degli Stati Uniti vogliono è la democrazia, sia a casa che all’estero.

 
 Using violence against protests in Bahrain.
Vogliono il suo opposto plutocratico, il governo dei ricchi allo scopo di accumulare sempre più ricchezze attraverso lo sfruttamento del lavoro degli altri popoli e della terra, delle risorse e dei mercati degli altri paesi. Quando l’Arabia Saudita ha inviato carri armati e truppe in Bahrain, il 14 marzo 2011, per schiacciare la locale primavera araba, gli Stati Uniti non fecero nulla per impedire assalto del loro alleato aborra-democrazia alla rivolta popolare, se non pubblicando un invito al “dialogo politico”; come il New York Times ha spiegato, “Le ragioni della reticenza di Obama erano chiare: il Bahrain si trova al largo delle coste saudite, ed i sauditi non avrebbero mai permesso l’improvvisa fioritura della democrazia nel vicino… Inoltre, gli Stati Uniti mantengono una base navale in Bahrain… fondamentale per il controllo del flusso di petrolio dalla regione. ‘Ci siamo resi conto che la possibilità di tutto ciò che accade in Arabia Saudita, è che non dovrebbe diventare realtà’, ha dichiarato William M. Daley, capo del staff del Presidente Obama. “Per l’economia globale, questo non dovrebbe accadere.” In Arab Sprint, Obama finds a sharp test”, The New York Times, September 24, 2012.]]
Considerando che William Daley è un banchiere d’investimento di una famiglia politicamente ben collegata, “mantenere il flusso di petrolio” significa “mantenere il flusso di proventi del petrolio per i giganti del petrolio degli Stati Uniti“, e che per “l’economia globale”, i “rendimenti degli investitori”, è chiaro perché la plutocrazia condoni la repressione da parte del loro alleato della rivolta in Bahrain. Sotto il dominio plutocratico, i passi verso la democrazia, anche i bambini lo sanno, non sono permessi che dai profitti.
Né è necessario indugiare sulla convinzione ingenua che il governo scelto da Washington, di cui il Dipartimento di Stato ha “raccomandato nomi e organizzazioni che …. dovrebbero essere inclusi in qualsiasi struttura della leadership” divulgata dalla Clinton [12]—rappresenterà gli interessi siriani contro quelli del suo sponsor.
Gli interessi degli Stati Uniti in Siria non hanno alcun rapporto intrinseco nella protezione di Israele, che con il suo esercito formidabile, finanziato ogni anno con 3 miliardi di dollari di aiuti militari dagli USA e un arsenale di 200 armi nucleari, difficilmente ha bisogno di ulteriore assistenza nel difendersi contro Iran, Hezbollah e Hamas, nessuno dei quali è una grave minaccia per Israele, in ogni caso, ma che anzi sono minacciati da esso. Indebolire l’Iran, alleato della Siria, potrebbe essere uno degli obiettivi di Washington nel tentativo di orchestrare la cacciata di Assad, ma non perché l’Iran possa acquisire lo status nucleare e quindi minacciare Israele (cosa che non poteva fare in ogni caso, visto che è fortemente surclassato militarmente [13]), ma perché, come la Siria, salvaguarda gelosamente il proprio territorio economico dai disegni della plutocrazia degli Stati Uniti, consentendo allo Stato di dominare l’economia e proteggere le sue imprese nazionali, la terra e le risorse dal dominio estero. La vera ragione della plutocrazia degli Stati Uniti nel voler rovesciare i governi siriano e iraniano, è perché danneggiano gli interessi commerciali della plutocrazia. La democrazia, le minacce all’esistenza di Israele e la non proliferazione nucleare, non hanno nulla a che fare con tutto ciò.
Il governo siriano non è estraneo a sfide formidabili. Ha condotto una lunga guerra contro gli islamisti che rifiutarono l’orientamento secolare baathista fin dall’inizio. La guerra contro la pulizia etnica del regime dei coloni di Tel Aviv oscilla tra il caldo e il freddo. Gli Stati Uniti hanno intrapreso una guerra economica contro la Siria per anni, e furono conniventi nel rovesciamento del suo primo governo. Eppure, Damasco si trova in un punto particolarmente difficile ora. Le plutocrazie più forti del mondo hanno intensificato le loro ostilità. I terroristi jihadisti provenienti dall’estero, per non parlare di quelli interni, stanno facendo del loro meglio per sconvolgere il governo baathista. Ma il sostegno dei militari siriani e di una parte consistente della popolazione siriana, più l’assistenza di Russia e Iran, hanno permesso di resistere. Di fronte all’opposizione imperialista e islamista, il suo futuro appare fosco, ma i suoi governi hanno affrontato prospettive più buie prima e sono sopravvissuti, alcuni hanno anche prosperato.
A dire il vero, ci sono profonde differenze tra il governo Assad e il primo regime bolscevico, ma il governo siriano e i suoi sostenitori possono rincuorarsi sapendo che, a un certo punto, sembrava quasi certo che il governo nascente di Lenin stesse per cadere. La carestia aveva colpito le città. Una guerra imperialista aveva gettato l’industria della Russia nel caos e rovinato tutto il suo sistema dei trasporti. La guerra civile era scoppiata e gli stati predatori ostili avevano lanciato delle invasioni militari per soffocare nella culla il neonato governo.
Eppure, di fronte a queste sfide enormi, i bolscevichi sopravvissero e nel corso dei settantanni successivi continuarono a costruire una grande potenza industriale eliminando disoccupazione, superlavoro, insicurezza economica, l’estrema disuguaglianza e crisi economiche, mentre pressoché da soli sradicarono il flagello del nazismo. E lo hanno fatto senza sfruttare altri paesi, ma aiutandoli a sviluppare le loro economie e a sfuggire al dominio del colonialismo imperialista, spesso a caro prezzo.
Allo stesso modo, il governo siriano può superare le sue sfide, sia interne che esterne, e portare avanti una via indipendente di auto-sviluppo, senza il ritardo del fondamentalismo islamico, del settarismo e del dominio delle più grandi plutocrazie del mondo. Speriamo bene.

giovedì 15 novembre 2012

Dai loro frutti li riconosceremo - Il significato della vittoria di Obama -

 



di Michael Hudson da ComeDonChisciotte

Il significato della vittoria di Obama
I democratici non avrebbero potuto vincere così facilmente senza la sentenza Citizens United.
È quella che ha permesso ai fratelli Koch di spendere i loro miliardi per sostenere candidati di destra che abbaiavano e ringhiavano come cani da pastore dando ai votanti nessun’altra opzione ragionevole se non votare per “il male minore.” Per gli storici del futuro sarà questo l’epitaffio del presidente Obama.

Orchestrando l’elezione come un melodramma della World Wrestling Federation, gli sponsor del Tea Party hanno buttato miliardi di dollari nella campagna per dare al partito del presidente il ruolo del “poliziotto buono” contro oppositori stereotipati che attaccavano i diritti delle donne, degli ispanici e praticamente di ogni altro gruppo d’interesse in America.

Nel Connecticut la candidata al Senato Linda McMahon ha speso, si dice, 97 milioni di dollari (compreso il suo capriccio precedente) per far sembrare a posto il suo sfidante democratico. E così è stato in tutto il paese. I repubblicani fanno finta di dolersi della loro sconfitta, lasciando che siano i democratici a bastonare gli elettori e prendersi la colpa fra quattro anni.

Le due vittorie di Obama rappresentano una lezione oggettiva su come l’1% è riuscito ad evitare il salvataggio dell’economia – e soprattutto dei suoi elementi costitutivi – dall’attuale flusso del denaro verso l’alto. Gli analisti politici del futuro vedranno questa consegna dei suoi elettori al controllo dei suoi finanziatori elettorali di Wall Street come il suo ruolo nella storia. Di fronte a una opposizione maggioritaria dei votanti alle politiche di Bush e Cheney, il presidente ha messo da parte la richiesta popolare di salvare l’economia da quell’1%. Invece di sostenere la speranza e il cambiamento che aveva promesso affrontando Wall Street, l’industria farmaceutica e i monopoli sanitari, il complesso militare-industriale e i petrolieri, li ha favoriti Come Se Non Ci Fosse Alternativa.

Se le accuse repubblicane che il presidente Obama sta guidando l’America sulla rotta “dell’Europa” sono giuste, non è in effetti socialismo, è l’austerità finanziaria neo-liberista, stile Grecia. Nei prossimi due mesi il suo compito è di evitare di usare la spesa a deficit per far rivivere l’economia.

I neo-liberisti che ha nominato come maggioranza nella Commissione Simpson-Bowles hanno già lanciato i loro ballon d’essai sostenendo che il governo deve riequilibrare il bilancio tagliando Social Security, Medicare e Medicaid, non reintroducendo la tassazione progressiva. Il mio collega alla UMKC Bill Black definisce questo il Grande Tradimento. “Solo un democratico può consentire ai repubblicani che odiano la rete di sicurezza, di farla a pezzi” .[1]

Avendo nominato alla commissione Bowles-Simpson dei membri che cercano scaricare l’onere dalle tasse dal business ai consumatori, il presidente aprirà la strada a privatizzazioni stile Bush. Nel suo primo dibattito con Romney, Obama ha assicurato il pubblico che i due erano d’accordo sulla necessità di pareggiare il bilancio (il suo eufemismo per ridurre Social Security, Medicare e Medicaid). Chiamando ciò “il grande affare”, il presidente Obama ha affinato il bipensiero orwelliano: è come se George Orwell fosse andato a lavorare dai pubblicitari. Quattro anni fa l’economia era a un punto di svolta potenziale nella guerra della finanza contro il lavoro e l’industria, e il presidente Obama avrebbe potuto mobilitare il sostegno pubblico ai politici che volessero salvare le speranze di prosperità. Avrebbe potuto nominare un segretario al tesoro e un presidente della Federal Reserve che potevano usare il controllo di maggioranza del governo di Citibank, Bank of America e altri detentori di “assetti in sofferenza” per portarli nel settore governativo per fornire un’alternativa al pubblico. Avrebbe potuto riportare i debiti a livelli sostenibili ad una mera frazione del costo che è stato pagato per salvare Wall Street. Il genio politico di Obama è stato di non farlo e tuttavia mantenere la sua “credibilità” di paladino che difende il 99%, e non l’1%.

Dopo essere stato eletto con un enorme mandato, Obama avrebbe potuto fermare la polarizzazione dei creditori che spingono il 99%, industria e immobiliari, città e comuni, sempre più nella disperazione economica, invece le sue politiche hanno permesso a quel 1% di monopolizzare il 93% delle maggiori entrate dell’America dopo la crisi del 2008.
In quel potenziale punto di svolta nella direzione dell’economia americana, il salvataggio e il cambiamento sono stati evitati. Abbiamo visto un esempio classico di cinico doppio pensiero orwelliano. Promettendo speranza e cambiamento quattro anni fa, il ruolo del presidente Obama era di fermare la marea e di disperdere la richiesta di cambiamento dei votanti. Ha salvato il settore finanziario e l’1%, e ha sponsorizzato la privatizzazione dei repubblicani della sanità, a spese dell’opzione pubblica, e ha messo 13 trilioni nei conti del governo sotto forma di mutui spazzatura, prestiti in gran parte fraudolenti di Fannie Mae e Freddie Mac ($5.2 trilioni solo loro) e altri investimenti capitalistici da casinò andati male. Mr. Obama è stato il paladino di Wall Street.

Il trucco era di farsi rieleggere come democratico piuttosto che come repubblicano che sponsorizza un piano sanitario scritto dal Cato Institute dei fratelli Koch, e mettere i lobbisti di Wall Street a capo del tesoro e delle agenzie (de)regolatrici. Come democratico solo di nome, come si è fatto a rendere Obama migliore del suo avversario?

La risposta è nell’alternativa che veniva offerta. I repubblicani sono stati al gioco. Lo hanno chiamato un socialista (nemmeno sbagliato, se guardiano a come i partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti d’Europa sostengono l’austerità e le politiche contro i lavoratori, le privatizzazioni, le rendite e le altre politiche neo-oligarchiche).
Al giorno d’oggi questo sembra essere il socialismo.

Mentre i profitti aziendali recuperano alla grande, i risparmi di quasi tutta la gente e il valore delle loro case scendono. Ciò non è sostenibile economicamente. Qualcosa deve cedere – e gli elettori temono che saranno i loro salari e risparmi. Mentre i piani pensionistici aziendali sono tagliati o ridotti in bancarotta, il loro finanziamento inadeguato suggerisce che il debito ai pensionati non sarà onorato – solo i debiti a Wall Street. Pesce grande mangia pesce piccolo, e quelli dell’1% stanno divorando quelli del 99%. Quelli che descrivono come ciò stia succedendo sono accusati di lotta di classe.

Non è la lotta di classe vecchio stile dell’industria contro i dipendenti. È la guerra della finanza contro l’intera economia,e, come ha notato Warren Buffett, la classe finanziaria sta vincendo. Invece di spezzettare le banche, le cinque banche più grandi “troppo grosse per fallire” sono diventate ancora più grandi. Con il sostegno della Casa Bianca, hanno usato i loro fondi TARP (Trouble Asset Relief Program) per comprare banche più piccole, traformando il settore finanziario un un vasto monopolio che è impegnato a privatizzare il processo elettorale in modo da tenere il governo in ostaggio.

Sta crollando l’idea di equità e giustizia nell’economia, e nei politici che stanno riformando il mercato a beneficio di quell’1%. La maggior parte degli elettori si opponeva ai salvataggi delle banche nel 2008. I repubblicani erano abbastanza furbi politicamente da non votare a favore, in modo da poter assumere un’apparenza populista. Ma Romney non ha seguito questa linea di attacco, anche se avrebbe potuto consentirgli di sconfiggere un presidente nel quale la maggior parte dell’elettorato aveva perso fiducia.

C’è disillusione, e molti giovani, minoranze e “l’ala democratica del partito democratico” hanno scritto editoriali e blog dicendo che questa volta avrebbero “votato con la schiena” standosene a casa. I risultati hanno dimostrato essenzialmente questo. La lamentela è che il presidente Obama non ha mantenuto quasi nessuna promessa che in campagna elettorale aveva fatto agli elettori, ma ha mantenuto tutte quelle che aveva fatto ai suoi grossi finanziatori.

Questa è l’essenza di un uomo politico oggi: consegnare il proprio bacino di elettori ai finanziatori della campagna elettorale. In questo senso Barack Obama è la versione americana di Tony Blair, o, magari, una fusione di Margaret Thatcher e Neville Chamberlain. Per descriverlo serve una parola nuova, non basta dire ”ironia”.

Non si tratta solo di Obama, naturalmente, ma della gerarchia del partito democratico. Questa è la cartina di tornasole: in quale commissione e a quale livello il Senato metterà Elizabeth Warren?
Sarà nominata capo del Senate Banking Committee? Ne farà almeno parte? Lei è un imbarazzo per i democratici che cercano soldi a Wall Street, oppure è un manichino per dare l’impressione che il partito non è solo cripto-repubblicano?

Ciò che un anno fa ispirò il movimento di piazza Occupy Wall Street era una protesta spontanea contro non solo il presidente Obama ma contro il partito democratico per la sua mancanza di impegno a fermare la marea della destra. I democratici non si sono mossi a difendere il movimento, anche se dei professionisti hanno cercato di mettersi alla testa della parata e guidarla nel solito vicolo cieco liberista (senza riuscirci). I votanti hanno espresso il desiderio di una politica esattamente opposta alla volata a destra dei democratici, ma il sistema politico americano esclude un terzo partito, non essendo basato sulla rappresentanza proporzionale come in Europa.

“Dai frutti li riconoscerete.” I democratici hanno dato per scontati i votanti dei sindacati, delle minoranze e della classe media, perché non avevano altro luogo dove andare, grazie a Mitt Romney che ha dato a Obama tutto lo spazio per muoversi verso destra. Questo è l’incontro di lotta politica per il quale è stato scritto il copione.

Possiamo vedere la dimostrazione. Come in Gran Bretagna, la forza lavoro sindacalizzata dell’impiego pubblico è sotto tiro. Il sindaco di Chicago Rahm Emanuel, già capo dello staff della Casa Bianca, ha mostrato la sua natura (e fatto arrabbiare i democratici progressisti) la settimana scorsa firmando un contratto con un fornitore di manodopera alla manutenzione aeroportuale tagliando la loro paga fino a 5 dollari l’ora (da $15 a $10).
Come risponderanno i democratici veri? Elizabeth Warren, Bernie Sanders, Sherrod Brown, Tammy Baldwin e Alan Grayson al Senato e alla Camera andranno contro il presidente opponendosi all’austerità e alla nomina di ulteriori lobbisti di Wall Street nel suo governo?

Ecco il dilemma per il presidente americano: i mercati si stanno riducendo e i consumatori devono ripagare i debiti che si erano assunti durante l’eccitante bolla economica che è esplosa nel 2008. Ripagare questi debiti lascia meno da spendere in beni e servizi. La produttività del lavoro si sta impennando, ma non i salari. Mentre i frutti dell’economia del salvataggio vanno ai profitti, e sono pagati come interessi e dividendi, i neoliberisti chiedono che si innalzi, non si abbassi, l’età del pensionamento, che si aumentino, non si accorcino, gli orari di lavoro. L’elicottero di Ben Barnanke, capo della Federal Reserve, volteggia solo su Wall Street, non sul resto dell’economia.

La classe media che ha votato compatta per Obama quattro anni fa viene schiacciata. Per descrivere la sua condizione, mi aspetto che nei prossimi anni si diffonderanno nuovi vovaboli per descrivere quello che sta succedendo: deflazione del debito e neofeudalesimo, mentre potrebbero tornare in uso i classici termini rentier e oligarchia.

Ma nessuno dei due partiti userà queste parole, solo un terzo partito potrà farlo. Ora i suoi membri potenziali sono chiamati Indipendenti. Serve un nuovo nome per una nuova coalizione pro-lavoro, anti-militarista che ripristini lo spirito della vera riforma, la tassazione progressiva e la regola della legge (ossia, buttare i delinquenti della finanza in galera). Il problema che fronteggia l’economia è come far riprendere i salari e la domanda al consumo, e come abbattere i debiti privati, non il debito pubblico. Obama si è unito ai repubblicani nel pervertire il vocabolario per fingere che il problema sia il governo, non i finanziatori di Wall Street della sua campagna elettorale.

Michael Hudson
“The Bubble and Beyond”, il nuovo libro di Michael Hudson, che riassume le sue teorie economiche, è disponibile su Amazon. Ha contribuito a Hopeless: Barack Obama and the Politics of Illusion, pubblicato da AK Press. Per contatti: mh@michael-hudson.com

Fonte: www.counterpunch.org
Link: http://www.counterpunch.org/2012/11/09/by-their-fruits-ye-shall-know-them/ 

mercoledì 14 novembre 2012

La violenza e così sia

E adesso? Si ricomincerà coi soliti discorsi sulla violenza, su chi ne detiene il monopolio, sul suo essere levatrice della storia, sul suo ruolo di ineluttabile componenete del conflitto? Ci dilungheremo ancora sull'intrinseca violenza dello stato, sulla cattiveria indomita delle forze dell'ordine, strumenti biechi del regime, nonché prodotti di un'antropologia deviata? Non ci siamo. Ricadere nella logica del noi contro di loro è fuorviante. Persino concentrarsi sulle violenze poliziesche, che pure devonbo essere denunciate a gran voce, è fuorviante perché trasforma il male in sostanza e non in strumento di dominio. I poliziotti cattivi sono dei cattivi strumenti e non rappresentano la cattiveria in sè, sono il frutto malato di una società che si alimentà di miseria e di prevaricazione. Noi continueremo a fare il nostro mestiere e loro il loro, perché non possono fare altro. Se qualcosa cambierà questo avverrà in virtù della nostra capacità di rendere inutile la loro violenza e di non accettare l'idea del nemico come parte del progetto della politica. Se qualcosa cambierà, sarà perché cambierà il modo di governare e di decidere per il bene comune, non perché avremo vinto la nostra guerra contro i celerini. 
Se necessario ci difenderemo e reclameremo il diritto a farlo, ma la nostra priorità non è combattere contro i poliziotti, che si sappia. 
Abbiamo altro a cui pensare.

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...