martedì 29 maggio 2018

La Crisi Organica dell'Italia

di Thomas Fazi (dall'American Affairs Journal)
traduzione di Domenico D'Amico

Se un paese rinuncia o perde il potere di emettere la propria moneta, acquisisce lo status o di autorità locale o di colonia.


Il marxista italiano Antonio Gramsci coniò il termine “crisi organica” per descrivere un genere di crisi che si differenzia dalle “normali” crisi, finanziarie, economiche o politiche. Una crisi organica è una “crisi onnicomprensiva” che coinvolge la totalità di un ordine (o sistema) che, quali che siano le ragioni, non è più in grado di generare consenso sociale (in termini ideologici o materiali). Le contraddizioni essenziali che tale genere di crisi insinua nel sistema non possono essere affrontate dalle classi dirigenti. Le crisi organiche sono allo stesso tempo economiche, politiche, sociali e ideologiche – in termini gramsciani, sono crisi di egemonia – e di solito conducono al rigetto nei confronti dei partiti politici istituzionali, delle politiche economiche e delle scale dei valori.
Tuttavia, esse non portano di necessità a un rapido collasso dell'ordine dominante. Gramsci ha definito queste situazioni come interregna in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere” e possono manifestarsi “i fenomeni morbosi più svariati” [Quaderno 3 (XX) § (34) ndt]
Gramsci parlava dell'Italia degli anni 10 del Novecento. A distanza di un secolo, il paese si trova di fronte a un'altra crisi organica. Più precisamente, si tratta di una crisi del modello dopo-Maastricht del capitalismo italiano, avviato nei primi anni 90.
Tale modello, a mio avviso, potrebbe essere descritto come un genere peculiare di capitalismo comprador – termine utilizzato di solito nel contesto del vecchio sistema coloniale per descrivere un regime nel quale le classi dominanti di un paese formano un'alleanza con gruppi di interesse stranieri in cambio di un ruolo subordinato all'interno della gerarchia di potere. Sebbene la crisi abbia covato per qualche tempo sotto la cenere, nelle ultime elezioni politiche, tenute il 4 marzo 2018, è venuta allo scoperto.
I risultati di queste elezioni sono noti. La classe politica che ha governato l'Italia nell'ultimo quarto di secolo, rappresentata dal Partito Democratico (PD) e da Forza Italia, ha subito un crollo senza precedenti, ricevendo, rispettivamente, il 18,7 e il 14% dei voti. A fronte di ciò, i due maggiori partiti “anti-establishment” - il Movimento Cinque Stelle (M5S) e la Lega Nord (Lega) – hanno visto uno spettacolare balzo in avanti, ottenendo, rispettivamente, il 32.7 e il 17,4% dei consensi. Nell'insieme, la coalizione di centro-destra – che include, oltre alla Lega Nord (ora il partito maggiore della coalizione), Forza Italia di Silvio Berlusconi e la piccola formazione post-fascista Fratelli d'Italia – ha ottenuto il 367% dei voti. Tutte le altre formazioni – dall'ultra-liberista ed europeista +Europa, coalizzato col PD, al partito di centro-sinistra Liberi e Uguali, una scheggia del PD che ha fatto campagna contro di esso, e infine alla sinistra radicale di Potere al Popolo – hanno fallito miseramente. Di questi, solo Liberi e Uguali ha superato la soglia minima del 3% necessaria per entrare in parlamento.
Chi siano i perdenti è evidente, mentre manca un indiscusso vincitore. La nuova legge elettorale – approvata nel 2017 da PD, Forza Italia e Lega Nord, con l'intento manifesto di ostacolare il Movimento Cinque Stelle – richiede che ogni partito, o coalizione di partiti, che voglia formare una maggioranza e quindi un governo, debba ottenere almeno il 40% dei voti (alle elezioni o con accordi post-elettorali). Negli ultimi due mesi e mezzo, M5S e Lega – i due candidati più ovvi per la formazione di una coalizione fattibile – sono stati impegnati in negoziati febbrili. Al momento della stesura di quest'articolo, sembrerebbe che si sia raggiunto un accordo tra i due partiti, anche se i dettagli non sono ancora di dominio pubblico. Il profilo del prossimo governo italiano, perciò, resta ancora indefinito. Non possiamo nemmeno escludere la possibilità che i due partiti non riescano a superare l'attuale impasse, il che porterebbe il presidente a nominare un esecutivo temporaneo “tecnocratico”, o addirittura a indire nuove elezioni. In ogni caso, qualsiasi sia l'esito dei negoziati, una cosa è chiara: queste elezioni hanno mutato per sempre il panorama politico italiano.

I Frutti dell'Austerità
Il crollo dei partiti istituzionali – e l'ascesa di quelli “populisti” – può essere compreso solo nel contesto della “recessione più grave e più lunga della storia italiana”, come afferma il governatore della banca centrale italiana, Ignazio Visco. A partire dalla crisi finanziaria del 2007-2009, il PIL italiano si è ridotto di un abbondante 10%, retrocedendo a livelli di più di dieci anni fa. Riguardo il PIL pro capite, la situazione è perfino peggiore: in questi termini la situazione italiana è regredita a quella di vent'anni fa, cioè a prima che il paese divenisse un membro fondatore della moneta unica. L'Italia e la Grecia sono i soli paesi industrializzati la cui economia non ha ancora recuperato sui livelli pre-crisi finanziaria. Il risultato è che circa il 20% delle capacità industriali dell'Italia sono andate distrutte, e il 30% delle imprese ha chiuso i battenti. Si tratta di una distruzione di ricchezza che, a sua volta, ha scosso le fondamenta del sistema bancario, che è stato (ed è tuttora) colpito dalle sofferenze delle piccole e medie imprese (PMI).
La crisi occupazionale italiana continua a essere una delle peggiori d'Europa. L'Italia ha un tasso ufficiale di disoccupazione dell'11% (12% al sud) e un tasso di disoccupazione giovanile del 35% (con picchi del 60% in alcune regioni meridionali). E non consideriamo nemmeno i sotto-occupati e i lavoratori scoraggiati (persone che hanno rinunciato alla ricerca di impiego, e che quindi non figurano nelle statistiche ufficiali). Se lo facessimo, arriveremmo a uno sbalorditivo tasso di disoccupazione del 30%, che sarebbe il più alto d'Europa. In anni recenti anche il tasso di povertà è cresciuto drammaticamente: il 23% della popolazione, circa un italiano su quattro, è oggi a rischio di povertà – il livello più alto dal 1989.
Queste cifre spaventose sono il risultato di cause sia strutturali sia congiunturali, anche se, è ovvio, collegate tra loro. Da un punto di vista congiunturale sono in larga parte la conseguenza della severa politica di austerità messa in atto tra il 2011 e il 2013 dal governo “tecnocratico” di Mario Monti. Monti stesso, in un'intervista alla CNN, ammetteva che l'obbiettivo della politica di austerity era quello di “distruggere la domanda interna mediante il consolidamento fiscale [i.e. Il risanamento di bilancio – ndt]”. Queste politiche proseguirono con tutti i governi successivi, incluso quello di Renzi (2014-2016) e quello uscente presieduto da Paolo Gentiloni.
Effettivamente, il “successo” della distruzione della domanda interna da parte di Monti viene ora confermato da uno studio nascosto nei recessi di un allegato all'ultimo documento programmatico di bilancio italiano, studio che arriva alla conclusione che le misure di consolidamento fiscale (tagli alle spese e aumento delle tasse) perseguite nel periodo 2012-2015 hanno ridotto il PIL italiano di quasi il 5% (circa 75 miliardi di euro l'anno, per un totale sbalorditivo di circa 300 miliardi), i consumi del 4%, gli investimenti del 10%, per via degli gli “effetti recessivi del consolidamento fiscale sia sul PIL sia sulle principali componenti della domanda (consumi e investimenti)”.
Sebbene lo studio in questione prenda in esame un periodo di tempo che giunge solo al 2015, negli ultimi anni la posizione fiscale restrittiva dei governi è rimasta pressoché immutata. Anzi, l'Italia è uno dei pochi paesi ad aver mantenuto un significativo avanzo primario di bilancio [cioè entrate superiori alle spese, al netto della spesa per interessi – ndt] – equivalente oggi a circa l'1,5% del PIL – per tutto il periodo della recessione post-crisi, ad onta di ogni buon senso economico (1). La conseguenza è stata una cruda riduzione dello stato sociale (particolarmente in campo sanitario). Allo stesso tempo, una serie sempre più folta di nuove imposte ha generato scontento sia nella piccola sia nella media impresa.
Il Partito Democratico (PD) è stato al governo sin dal 2013 e ha supervisionato per più di cinque anni l'austerity e le “riforme strutturali” imposte dalla UE. Dati gli effetti disastrosi di queste politiche, c'è poco da essere sorpresi se gli elettori si siano fatti beffe della retorica del governo uscente sulla “ripresa economica”. Il tanto pubblicizzato “milione di nuovi posti di lavoro” creato negli ultimi quattro anni è costituito in maggioranza da lavori temporanei e malpagati – grazie alla riforma neoliberista del mercato del lavoro di Matteo Renzi, il cosiddetto Jobs Act, che ha facilitato le procedure di licenziamento e ha abrogato l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori che in precedenza proteggeva i lavoratori dal licenziamento ingiustificato. Perfino il primo ministro uscente, Paolo Gentiloni, ha ammesso che “la crescita economica non ha ridotto le disuguaglianze, anzi in molto paesi, inclusa l'Italia, continuano ad aumentare, anche se c'è la crescita. Stanno raggiungendo livelli ancora più intollerabili”.
Questa polveriera sociale è stata resa ancora più pericolosa dall'esplosione della cosiddetta crisi migratoria. A partire dal 2014, più di 600.000 migranti e richiedenti asilo sono entrati illegalmente in Italia. Questi arrivi hanno alimentato malumori in molti italiani, che ritengono che gli immigrati ricevano dallo stato più assistenza di loro. Ha anche condotto a un crescente senso di insicurezza.
Secondo un sondaggio internazionale Ipsos del luglio 2017, il 66% degli italiani pensa che ci siano troppi immigrati nel paese, la seconda percentuale più alta tra i 25 paesi oggetto del sondaggio. Il Partito Democratico, nelle parole di Francesco Ronchi, “non ha tenuto conto di queste preoccupazioni e ha cercato di nascondere la gravità della questione”. Nel settembre del 2016 – al culmine della crisi migratoria, con migliaia di stranieri che entravano in Italia attraverso la Libia – l'allora primo ministro Renzi dichiarava: “Non c'è nessuna emergenza. C'è un po' di gente [There are some people]”. [non sono riuscito a trovare la fonte – ndt]

La Trasformazione della Sinistra Italiana
Odio e paura, disoccupazione, insicurezza e povertà: sono queste le cause del voto di svolta del 4 marzo. Il Movimento Cinque Stelle e la Lega si sono avvantaggiati della crescente insoddisfazione per lo status quo, rivolgendo la loro attenzione alla sicurezza sociale (specialmente il M5S), meno tasse (specialmente la Lega), e più controllo sull'immigrazione (entrambi). Al contempo, gli elettori hanno esplicitamente castigato il partito considerato il maggiore responsabile per la situazione: il PD. Si tratta senza dubbio del partito maggiormente penalizzato da queste elezioni, avendo visto la somma totale dei consensi crollare per più della metà in pochi anni (nelle elezioni europee del 2014 aveva ottenuto il 41% dei voti). Tale esito catastrofico è un ulteriore esempio di “pasokificazione”, nella quale partiti socialdemocratici, nominalmente di centro-sinistra, così come le loro controparti di centro-destra, vengono puniti dagli elettori per la loro adesione ad austerity e neoliberismo. (Il termine pasokificazione si riferisce al partito socialdemocratico greco PASOK, praticamente annientato nel 2014 come conseguenza del suo futile approccio alla crisi del debito greco, dopo aver dominato la scena politica per più di trent'anni). Tra gli altri partiti di centro-sinistra che hanno subito lo stesso destino ci sono il Partito Socialista Francese, il Partito Laburista Olandese (PvdA) – e adesso il PD.
Tuttavia, pasokificazione potrebbe essere un termine troppo tenero, nel caso del PD. Mentre il PASOK e altre simili formazioni si sono originate come genuini partiti socialdemocratici, e solo in seguito sono stati corrotti dall'ideologia neoliberista, il Partito Democratico è stato fondato nel 2007 come un partito della “terza via”, neoliberista e centrista, in opposizione alla tradizione storica (comunista e socialista) della sinistra italiana. Il PD sarebbe dovuto essere un partito finalmente libero dal peso morto delle politiche di massa della sinistra del XX Secolo, pronto ad abbracciare le magnifiche sorti e progressive della politica post-ideologica. Basta con le teorie totalizzanti, i conflitti di classe, l'interventismo statale e la redistribuzione della ricchezza; avanti col liberismo economico, il dominio del mercato, i diritti individuali (piuttosto che sociali), l'innovazione, la governance e la politica just-in-time [responsiveness]. La nascita del PD dovrebbe essere vista come il punto di arrivo della pluridecennale migrazione verso destra della sinistra post-comunista italiana. Il processo ebbe inizio nel 1991, con la trasformazione del Partito Comunista Italiano (PCI) nel Partito Democratico della Sinistra (PDS), già nel nome depurato di qualsiasi riferimento al socialismo. Il nome cambiò successivamente in Democratici di Sinistra (DS) e, alla fine, eliminando perfino ogni riferimento alla “sinistra”, in PD. Ogni volta il partito si è distanziato sempre di più dalla sua base d'origine, la classe lavoratrice, per reinventarsi come il partito della (in declino) classe medio-alta progressista.
Il PD è la perfetta incarnazione di questo perversa convergenza politica, comune ad altri partiti di centro-sinistra, tra il politicamente corretto da una parte (femminismo, antirazzismo, multiculturalismo, diritti LGBTQ, eccetera) e dall'altra l'economia ultra-liberista (anti-statalismo, austerity fiscale, deregolamentazione, deindustrializzazione, finanziarizzazione, eccetera), cosa che Nancy Fraser ha opportunamente etichettato come “neoliberismo progressista” (2) – un'ideologia che non ha nulla da offrire alle masse crescenti di disoccupati e lavoratori iper-sfruttati. Al riguardo, come osserva Nicola Melloni, colpisce il fatto che oggi il PD

...sia l'unico partito ad avere un'autentica natura di classe, il cui elettorato è per lo più composto da benestanti altamente istruiti. Solo l'8% dei disoccupati e il 12% dei lavoratori dipendenti hanno votato per il PD. Cosa ancora più interessante, secondo un sondaggio SWG meno di un terzo degli elettori che avevano scelto il PCI nel 1988 ha votato per il PD nel 2018.

Per farla breve, la sconfitta del PD si può comprendere solo nel contesto della più che decennale metamorfosi della sinistra italiana. E questa, a sua volta, può essere compresa solo nel contesto dei profondi mutamenti intervenuti nell'economia italiana dell'ultimo trentennio. Sotto questo aspetto, la crisi economica del paese è solo l'epifenomeno di una crisi “strutturale” del capitalismo italiano molto più profonda (anche se drammaticamente accelerata dalle politiche post-crisi).
In termini economici, l'Italia è stata de facto in crisi ben prima del crollo del 2008. Fino alla fine degli anni 80, il paese aveva conosciuto trent'anni di crescita relativamente solida; poi, tra i primi e la metà degli anni 90, tutti i maggiori indicatori economici – produttività, produzione industriale, crescita pro capite, eccetera – cominciarono a manifestare un costante declino, e da allora sono ristagnati. Si tratta, in gran parte, del risultato dell'adesione a una super-struttura economica – istituita dal trattato di Maastricht del 1992, che aprì la strada alla fondazione della Unione Monetaria Europea (UME) nel 1999 – che era (ed è) fondamentalmente incompatibile con la politica economica del paese.
Come osserva acutamente Fritz W. Scharpf, ex direttore del Max-Planck-Institut für Gesellschaftsforschung (MPIfG) [Istituto Max Planck per lo Studio delle Società], il regime dell'euro può essere descritto come un processo di “convergenza strutturale forzata”, finalizzato a imporre il modello economico dei paesi del nord (quali Germania e Paesi Bassi), basato sui profitti da esportazione, sulle economie profondamente diverse dei paesi meridionali, come l'Italia, che guardano più alla dinamica dei salari e domanda interna. Scharpf nota che “l'impatto economico dell'attuale regime dell'euro è fondamentalmente asimmetrico. È modellato sulle precondizioni strutturali e sugli interessi economici dei paesi del nord, ed è in conflitto con le condizioni strutturali delle politiche economiche meridionali – condannate così a lunghi periodi di declino economico, stagnazione o bassa crescita”.
Visti i risultati particolarmente disastrosi del regime dell'euro in Italia, la decisione di entrare nell'unione monetaria – e la persistente difesa di quel regime da parte della classe dirigente – potrebbe sembrare una forma di autolesionismo. Tuttavia, come scriviamo Bill Mitchell ed io nel nostro recente volume Reclaiming the State, l'Unione Monetaria Europea deve essere letta come progetto tanto economico, quanto politico. Nel corso degli anni 70 e 80, i salari in crescita, l'aumento dei costi e una maggiore competizione internazionale portarono a una stretta dei profitti, il che provocò le ire dei maggiori detentori di capitale. A livello ancora più radicale, il regime di piena occupazione “minacciava di porre le premesse per un superamento del capitalismo” stesso, visto che una classe operaia sempre più politicizzata stava iniziando a fare causa comune coi movimenti di controcultura, nel pretendere una radicale democratizzazione della società e dell'economia. Come aveva anticipato trent'anni prima l'economista polacco Michał Kalecki, per la classe dominante il pieno impiego non era diventato una semplice minaccia economica, ma anche politica. Comprensibilmente, la questione suscitava la preoccupazione delle élite, come illustrato dai molti documenti prodotti a suo tempo.

La Sovranità Nazionale e il Paradosso della Debolezza
Lo spesso citato rapporto del 1975 Crisi della Democrazia della Commissione Trilaterale, affermava, dal punto di vista dell'establishment, che erano necessarie contromisure a più livelli. Non solo era favorevole a una riduzione del potere contrattuale dei lavoratori, ma anche alla promozione di “un maggior grado di moderazione nella democrazia” e un maggior disimpegno (o “non coinvolgimento”) della società civile rispetto all'operare del sistema politico, da ottenersi per mezzo della diffusione dell'”apatia”. In questo contesto, si capisce meglio perché le élite europee abbiano abbracciato i “vincoli esterni” dell'UME come un sistema per depoliticizzare la politica economica, in modo da sottrarre al controllo democratico e parlamentare le politiche macroeconomiche, per mezzo di un auto-imposta riduzione della sovranità nazionale. Il loro obbiettivo non era semplicemente quello di mettere le politiche economiche fuori dalla portata delle sfide popolar-democratiche, ma anche quello di ridurre il costo politico della transizione neoliberista, che chiaramente implicava scelte impopolari, scaricando la responsabilità di tali misure su fattori e istituzioni esterne. Si può dire che questa sia l'incarnazione di quello che Edgar Grande chiama il “paradosso della debolezza”, per il quale le élite nazionali trasferiscono una parte del potere a un decisore sovranazionale (apparendo in tal modo più deboli) per essere in grado di sopportare meglio la pressione da parte degli attori sociali, asserendo che “lo vuole l'Europa” (e divenendo così più forti). Come dice Kevin Featherstone: “Gli impegni vincolanti della UE permettono ai governi di varare riforme impopolari nei loro paesi, e nel contempo darne la colpa alla UE, anche se essi stessi desideravano attuarle” (corsivo mio).
Nel caso dell'Italia questo è quantomai chiaro. Probabilmente lo si deve al fatto che l'economia mista, statocentrica, dell'Italia del dopoguerra è stata vista dalle classi dirigenti come decisamente incompatibile col paradigma neoliberista emerso negli anni 80. In questa prospettiva, l'Italia aveva bisogno di “riforme” energiche, anche in assenza di qualsiasi consenso popolare. Così, Maastricht venne vista da una gran parte dell'establishment italiano come lo strumento per realizzare la trasformazione radicale – o neoliberalizzazione – della politica economica del paese. Guido Carli, importante ministro dell'economia tra il 1989 e il 1992, non ne fa un segreto. Nelle sue memorie Carli scriveva:

L'Unione Europea implica (…) l'abbandono dell'economia mista, l'abbandono della pianificazione economica, la ridefinizione dei parametri della composizione della spesa pubblica, la restrizione dei poteri delle assemblee parlamentari a favore di quelli dei governi (…) la cancellazione del concetto di servizi sociali gratuiti (e la conseguente riforma del sistema sanitario e della sicurezza sociale) (…) la riduzione della presenza dello Stato nel sistema finanziario e industriale (…) l'abbandono di dazi e controllo dei prezzi.

È evidente che Carli concepiva l'Unione Europea soprattutto come un mezzo per imporre nientemeno che la trasformazione integrale dell'economia italiana – una trasformazione che non sarebbe stata possibile, o lo sarebbe stata con molta difficoltà, senza gli autoimposti vincoli esterni creati prima da Maastricht , quindi dall'euro. È così che, ad esempio, il governo Amato riuscì nel 1992 la CGIL a porre termine alla scala mobile, che collegava i salari all'inflazione, non confrontandosi direttamente coi lavoratori, ma essenzialmente richiamandosi al vincolo esterno del Sistema Monetario Europeo (SME), sistema di cambio semi-fisso che avrebbe spianato la strada all'euro. Carli stesso riconobbe che “l'Unione Europea rappresentava un percorso alternativo per la soluzione di problemi che non riuscivamo a gestire attraverso i normali canali di governo e parlamento”. Perciò, la decisione italiana di aderire allo SME e quindi all'UME non si può comprendere unicamente all'interno di interessi a carattere nazionale. Piuttosto, come ha sottolineato James Heartfield, la si dovrebbe vedere come lo strumento con cui una parte della “comunità nazionale” (l'élite politica ed economica) è riuscita a depotenziarne un'altra (i lavoratori).

Il Capitalismo Comprador in Italia
Dal punto di vista dell'establishment, il fatto che l'Unione Monetaria Europea comportasse anche la deindustrializzazione e “mezzogiornificazione” del paese – a beneficio delle imprese tedesche e francesi, che acquisirono un gran numero di attività (o comunque una loro quota importante) in Italia e in altri paesi periferici – e la sua retrocessione a un ruolo subordinato all'interno della gerarchia europea di potere, è stato un piccolo prezzo da pagare per la vittoria in patria contro le classi lavoratrici. In questo senso, il regime economico dell'Italia post-Maastricht può essere accostato a una forma di capitalismo comprador – un regime semi-coloniale in cui le classi dominanti di un paese in pratica si alleano con interessi stranieri in cambio di rapporti di classe più favorevoli in patria. Ironicamente, la sinistra post-comunista ha rivestito un ruolo cruciale nel dare legittimità alla narrazione del vincolo esterno; già nei primi anni 90, la sua sottomissione al neoliberismo era talmente profonda che i suoi maggiori rappresentanti si erano convinti che l'Unione Europea fosse davvero per l'Italia l'imperdibile occasione di unirsi finalmente alla famiglia delle nazioni “moderne” e “virtuose”. Non è una coincidenza che l'economica “terapia d'urto” degli anni 90 (in particolare lo smantellamento e la privatizzazione del settore, una volta imponente, delle industrie di stato) venne patrocinato in gran parte da governi di centro-sinistra.
La medesima logica del vincolo esterno la vediamo all'opera anche oggi. È sempre più evidente, ad esempio, che la cosiddetta crisi del debito sovrano del 2010-2011 non è stata una risposta “naturale” dei mercati all'“eccessivo” debito pubblico italiano, ma un'azione in larga parte “architettata” dalla Banca Centrale Europea (BCE) mirata a forzare gli stati a implementare l'austerity. Come ha osservato di recente Luigi Zingales, docente di finanza alla University of Chicago, alla fine la BCE è intervenuta sul mercato dei titoli italiani, ma solo dopo una lunga attesa:

Questo ritardo non era dovuto a incompetenza, ma al palese desiderio di imporre la 'disciplina del mercato' – cioè fare pressione sul governo perché migliorasse la situazione fiscale. È stata una forma di violenza economica che ha lasciato l'economia italiana in rovina e gli elettori italiani legittimamente furiosi nei confronti delle istituzioni europee”.

La crisi del debito, combinata con le ritardate reazioni della BCE, portò a invocazioni isteriche da parte dei media perché si mettesse freno al deficit per mezzo di misure di austerity d'emergenza, e portò al governo “tecnocratico” di Mario Monti. Ma la sola ragione per cui l'Italia aveva sperimentato una “crisi del debito sovrano” fu, in primo luogo, il fatto che, come tutti i paesi dell'eurozona, utilizzava di fatto una valuta straniera. Proprio come un singolo stato (ad esempio) degli Stati Uniti o dell'Australia, i paesi dell'eurozona accedono a prestiti in una valuta su cui non hanno alcun controllo (non possono né fissare i tassi di interesse né rinnovare il debito emettendo nuova moneta, e perciò, a differenza dei paesi che contraggono debiti nella loro propria valuta, sono a rischio di insolvenza [default]). Come testimonia un recente rapporto della BCE “sebbene l'euro sia una moneta a corso forzoso [fiat currency], le autorità fiscali degli stati che vi aderiscono hanno rinunciato alla capacità di contrarre un debito non passibile di default”.
Ciò conferisce un potere enorme alla BCE, che non è eletta da alcuno e non risponde ad alcuno, che può usare (e di fatto usa) il suo potere di emissione monetaria per imporre le proprie politiche sui governi recalcitranti (come ha fatto con la Grecia nel 2015, quando ha tagliato la liquidità d'emergenza alle banche greche per costringere il governo di Syriza a invertire la rotta e accettare il terzo memorandum di salvataggio), o addirittura ottenerne le dimissioni, com'è successo in Italia nel 2011. Come ha di recente riconosciuto il Financial Times, la BCE ha di fatto “costretto Silvio Berlusconi ad abbandonare la sua carica a favore del mai eletto Mario Monti”, ponendo le sue dimissioni come condizione per l'ulteriore sostegno da parte della BCE alle banche e ai titoli italiani. Questo esemplifica ciò che il grande economista britannico Wynne Godley† intendeva scrivendo, nel lontano 1992, che “se un paese rinuncia o perde [il potere di emettere la propria moneta], acquisisce lo status o di autorità locale o di colonia”.
Per l'establishment politico italiano quell'esperienza fu un efficace memento del patto faustiano che aveva firmato aderendo all'eurozona. Rinunciando alla sovranità economica del proprio paese, avevano messo la loro sopravvivenza politica nelle mani di tecnocrati che nessuno ha mai eletto. È una lezione che anche il PD ha imparato a proprie spese, dopo anni di infinite (e alla fine inutili) contrattazioni con la Commissione Europea al fine di ottenere un minimo grado di “flessibilità fiscale”. La potremmo chiamare la vendetta della depoliticizzazione: una strategia che si era mostrata positiva per gli obbiettivi interni delle élite locali fintanto che il regime dell'euro aveva potuto garantire un minimo di crescita ai paesi della periferia.
Ma adesso che le contraddizioni fondamentali del sistema Europa sono venute a galla, le élite politiche italiane si sono ritrovate prive degli strumenti economici per mantenere il consenso sociale. Come scrive Scharpf, nei paesi come l'Italia l'unione monetaria non ha comportato solo pesanti costi socioeconomici, ma ha anche avuto “l'effetto di distruggere la legittimità democratica dei governi”.
Uno dei corollari di questa perdita di legittimità democratica è che gli appelli alla logica del vincolo esterno non hanno più il peso che avevano in precedenza. I cittadini – non solo quelli italiani – sono disposti sempre di meno a giustificare lo status quo in base a norme arbitrarie e punitive e diktat esterni, la cui natura politica (cioè non neutrale) diventa sempre più evidente. Lo dimostra il fatto che i tentativi da parte dell'establishment italiano ed europeo di screditare le proposte “populiste” a causa della loro presunta insostenibilità fiscale, minaccia alla stabilità finanziaria o incompatibilità con la normativa europea, è clamorosamente fallito. Anzi, è stato controproducente. Come lo sono state, dal punto di vista dell'establishment, le affermazioni, da parte dei maggiori rappresentanti dellUE, che qualsiasi nuovo governo si debba adeguare alle decisioni prese da quelli precedenti. Dato che sempre più ci si rende conto della natura antidemocratica e neocoloniale dell'Unione Europea, simili tattiche intimidatorie non funzionano più. In questa chiave, il voto del 4 marzo non è stato tanto un voto “contro l'Europa” – anche se i partiti tradizionalmente europeisti sono stati severamente castigati – quanto un voto contro la depoliticizzazione, e a favore dio una ripoliticizzazione del processo decisionale nazionale. Cioè per un maggior grado di controllo collettivo sulla politica e la società, che di necessità può essere esercitato solo a livello nazionale.

Il Futuro dell'Italia
È possibile, per i partiti “anti establishment” che hanno dato voce a quest'esigenza di ripoliticizzazione – Movimento Cinque Stelle e Lega – soddisfare le aspettative? È improbabile. Alla fine dei conti, nessuno dei due partiti offre una alternativa praticabile allo status quo, almeno in termini di politica economica. Il programma economico della Lega è tuttora piuttosto neoliberista: la proposta economica principale del partito è una flat tax che sostituisca l'attuale tassazione (più o meno) progressiva, una proposta chiaramente regressiva, con l'aggiunta di qualche iniziativa di protezione sociale (abolizione della legge Fornero, che ha allungato l'età pensionabile). In modo analogo, il programma del M5S “non è nemmeno lontanamente il programma di una formazione progressista”, come scrive Nicola Melloni. Anche se la sua immagine, come quella di movimenti populisti di sinistra quali Podemos e Occupy, è costruita sulla contrapposizione tra popolo e oligarchia, il M5S riduce questa oligarchia “a una 'casta' politica corrotta” dice Melloni. “Fattori economici come la relazione tra capitale e lavoro, le disuguaglianze, o lo stesso capitalismo, sono assenti. Piuttosto, si tratta di una formazione populista ma di centro – abbastanza opportunista da cavalcare qualsiasi battaglia che possa riscuotere consensi, ma priva dell'ambizione di cambiare, o anche solo di riformare, il sistema”. In questo senso, essi sono l'esempio perfetto dei “fenomeni morbosi” di cui parlava Gramsci.
Cosa più importante, anche se il M5S e la Lega avessero davvero intenzione di cambiare il sistema, per farlo dovrebbero mettere in discussione il regime dell'euro, ma nessuno dei due sembra volerlo. Sebbene entrambi i partiti vengano descritti come euroscettici, o addirittura come anti-europeisti, sono stati prontissimi a giurare fedeltà all'Unione Europea, prima e dopo il voto. Finché manterranno questa posizione, il loro fallimento è una certezza. Come detto più sopra, le istituzioni europee hanno un nutrito arsenale di strumenti “per sottomettere, e all'occorrenza rendere impotente la funzionalità democratica dei governi del sud” come dice Scharpf. “Anche se l'Italia possiede un potere contrattuale maggiore di quello della Grecia, finanziariamente la si può ugualmente strangolare”, scrive Zingales, come è successo alla Grecia nel 2015, se venisse percepita come una minaccia al regime neocoloniale dell'Europa.
In conclusione, a prescindere dai risultati dei negoziati, o anche nella prospettiva di eventuali nuove elezioni, la crisi organica dell'Italia è qui, e qui resterà. E non avrà soluzione finché non se ne affronterà la causa essenziale: la fondamentale incompatibilità tra la politica economica italiana e la moneta unica.

Note
(1) Un governo con un avanzo primario sta spendendo nell'economia reale meno di quanto ne estragga attraverso la tassazione, e quindi sta sottraendo ricchezza all'economia, di solito per ridistribuirla ai titolari, interni ed esteri, di titoli di stato (in genere banche o individui affluenti). Il buon senso economico suggerirebbe che un governo coinvolto in una recessione dovrebbe comportarsi esattamente all'opposto: produrre deficit per stimolare l'attività economica.
(2) Vedi anche Nancy Fraser, “From Progressive Neoliberalism to Trump—and Beyond,” American Affairs 1, no. 2 (Winter 2017): 46–64.
Thomas Fazi è l'autore di The Battle for Europe (Pluto, 2014) e co-autore di Reclaiming the State (Pluto, 2017).

dello stesso autore: Per una Sinistra di Nuovo Grande



sabato 19 maggio 2018

Cronache feisbucchiane

Thomas Fazi
Sono più cazzoni i sinistrati che criticano il programma M5S-Lega perché non ci sono le coperture (come se l'aumento del deficit fosse un problema in sé) o M5S-Lega che ignorano (fanno finta di ignorare?) che sarà molto difficile se non impossibile ottenere dall'Europa il placet a un aumento del deficit? #quesitodelgiorno

Breve lezione di economia politica per i giornalisti: non si scrive "lo spread sale a..."; si scrive "la BCE lascia salire lo spread a...". Il tasso di interesse (lo spread), infatti, non lo decidono i mercati ma lo fissa la banca centrale.
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E niente. Uno passa due giorni a tirare fuori fonti su fonti - da Paul De Grauwe alla BCE alla banca centrale svizzera - che dicono senza mezzi termini che da un punto di vista operativo la cancellazione dei titoli di debito detenuti da una banca centrale (e la conseguente riduzione del valore degli attivi della bc) non comporta alcun problema in quanto "la banca centrale non ha bisogno di capitale (a differenza delle aziende private)" e dunque "può vivere perfettamente con capitale netto negativo", come scrive De Grauwe.
Poi arriva Tommaso Monacelli, un altro genio della Bocconi, che su Lavoce.info ti scrive che in caso di cancellazione "la perdita [della banca centrale] dovrebbe essere ripianata con maggiori entrate per ricapitalizzare la banca centrale stessa, che non potrebbero che venire dal bilancio dello stato attraverso maggiori tasse".
Insomma, nel meraviglioso mondo dei bocconiani, non solo le banche centrali non devono finanziare i governi; ma sono i governi a dover finanziare le banche centrali.
L'articolo è qui: http://www.lavoce.info/…/la-folle-illusione-di-un-falo-da-2…. Solo per stomaci forti.
Credo che il cosiddetto caso Montante in Sicilia stia facendo luce su quella che è la Democrazia che abbiamo vissuto negli ultimi 25 anni di Seconda Repubblica.
In sostanza una banda di spioni dei servizi segreti, dei carabinieri e della polizia svolgeva attività di dossieraggio in favore di un presunto paladino dell'antimafia, tale Montante Presidente di Confindustria Sicilia. Montante ovviamente grazie a questa attività e alla conseguente capacità di ricatto influenzava tutto, comprese le nomine negli assessorati della Regione Sicilia. Parrebbe addirittura che due assessori li abbia nominati lui.
Nell'attività di questo gruppo sono a vario titolo coinvolti ed indagati esponenti di primo piano della politica regionale e nazionale. Si va da Schifani (ex Presidente del Senato), fino a Rosario Crocetta, l'eroico Sindaco "comunista" paladino dell'Antimafia diventato presidente della Regione e il piddino Lumia anche lui paladino dell'antimafia che addirittura secondo gli inquirenti avrebbe chiesto ad un suo sodale di accusare un innocente di estorsione per farlo sbattere in galera.

Servizi segreti, apparati dello stato infedeli, confindustria e tutto l'arco costituzionale dei partiti responsabili e perbene: da Schifani (Forza Italia) a Lumia (PD) per finire con Crocetta (Sinistra Alternativa). Se credete che a Roma le cose funzionino diversamente credo che state sbagliando.

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Se si vuole avere la certezza che i cosiddetti tecnici dell'economia, sono solo dei lacchè in vendita al miglior offerente basta sfogliare i giornali in questi giorni. Per esempio il sedicente Osservatorio sui Conti Pubblici dell'UniCattolica guidato da quel Cottanelli (contiguo al PD come area politica tanto è vero che ha lavorato per Palazzo Chigi con ia carica di "commissario anti sprechi" o qualcosa del genere) ha fatto circolare una tabellina da quattro soldi dove si sostiene che il programma del governo gialloverde costerà allo stato un buco di bilancio di 108 miliardi di euro circa. A rincarare la dose provvede oggi sulle colonne de #LaRepubblica un altro tecnico, tale Perotti (Università Bocconi) che ipotizza come il programma dei gialloverdi verrà a costare un buco di 170 miliardi. Ora, siccome sull'asse dei Numeri Reali 108 miliardi è diverso da 170 miliardi almeno uno dei due ha sbagliato i conti (e non di poco). Probabilmente i conti li hanno sbagliati tutti e due. Ecco, questa non è economia e non è informazione. E' solo roba per ciarlatani e per lacchè a servizio. Altrimenti (e come minimo) avrebbero presentato il loro "studio" con la seguente dicitura: "questo studio è una mera ipotesi di lavoro al quale si è arrivati sulla base delle ipotesi xyz e utilizzando la metodologia yk". Invece presentano una mera ipotesi (nulla di più che un giochino) come una Verità inoppugnabile e peraltro certificata dalla loro competenza (sic) tecnica. Un pessimo lavoro per se stessi, per l'istituzione per la quale lavorano, per i giornali dove scrivono e per l'economia ridotta a materia di propaganda fatta da ciarlatani.


Giorgio Cremaschi

VENENEZUELA: LA VERGOGNA DELLA UE
Ho tante ragioni per essere contro la UE, ma ora c'è anche la vergogna. Mi sono vergognato in Venezuela di essere un cittadino UE, formalmente così siamo catalogati agli aeroporti, per le parole di Flavia Mogherini. La rappresentante dell'Unione per la politica estera è uscita dal mutismo che l'ha colpita durante la strage dei palestinesi, i bombardamenti in Siria, le violenze naziste in Ucraina e tanti altri crimini internazionali, per intervenire sulle elezioni in Venezuela. La UE non le riconoscerà, ha detto.
Come fa la UE a non riconoscere la validità di elezioni cui ha rifiutato di mandare suoi osservatori, nonostante l'invito formalmente ricevuto? In base a che cosa disconosce un voto prima che ci sia stato, solo per gli ordini di Trump?
Il passato capo del governo socialista in Spagna, il moderato Zapatero da anni mediatore del dialogo tra governo e opposizioni, presente in Venezuela per il voto, ha posto la stessa domanda. Come si fa a disconoscere un voto prima che sia effettutato? Soprattutto perché esso viene effettuato con le stesse regole delle elezioni precedenti, mai contestate per la loro regolarità, soprattutto la volta che le opposizioni vinsero.
Come gruppo di osservatori internazionali siamo stati in una scuola dove si stanno organizzando nove seggi e abbiamo seguito l'organizzazione di uno di loro. Prima di descrivere la procedura di voto, vorrei però soffermarmi parlare sugli scrutatori e sui presidenti di seggio. In base alla legge essi sono gente del quartiere in cui si vota, estratti dalle liste elettorali e chiamati ad un compito che è considerato dovere civico e che si può rifiutare solo per comprovati motivi. Essi sono quindi tutta gente del popolo, la più semplice e normale, il volto segnato dalle fatiche quotidiane.
Il voto è integralmente elettronico. Il riconoscimento dell'elettore avviene con il suo documento e poi con l'impronta digitale del pollice. Solo se questa corrisponde al nome contenuto nel registro degli elettori si attiva il computer per il voto. A questo punto l'elettore accede allo spazio isolato e coperto, un tavolo cabinato, nel quale si vota. Con il dito tocca il volto del candidato nella lista prescelta sullo schermo, e poi lo conferma al computer. La macchina emette la ricevuta con il voto , l'elettore la piega, esce dalla cabina, la intruduce in un'urna. Poi conferma che ha votato nell'apposito albo degli elettori del suo seggio.
Lo spoglio dei voti avverrà con le ricevute nelle urne e con il conteggio elettronico. I dati verranno inviati poi al centro calcolo nazionale, tutto per via elettronica, una via inattaccabile come hanno detto tanti esperti e ha ribadito lo stesso Zapatero nella conferenza stampa che ho sentito.
Ho voluto fare questo racconto della procedura di voto, perché sia chiaro che essa è una delle più democratiche oneste e trasparenti al mondo, confrontatela con quella di casa nostra...
Ma Maduro è un dittatore, scriveva ancora ieri Il Corriere della Sera, perché alle elezioni non ha avversari. Falso, ci sono due candidati di destra e uno di sinistra. Il principale di essi Falcon, di cui ho visto foto giganti e manifesti, faceva parte del coordinamento delle opposizioni di destra. Ha rotto con esse per partecipare al voto, con il suo programma ultra liberista molto simile a quello del presidente Macrì in Argentina. Le altre opposizioni invece hanno deciso di boicottare le elezioni presidenziali, nonostante le avessero più volte richiesto nel passato e nonostante si voti con le stesse identiche procedure che avevano sempre accettato. Perché? Evidentemente perché hanno pensato
di perdere e questo non possono permetterselo, loro e soprattutto il loro mandante USA. Dove vuole arrivare chi boicotta elezioni democratiche si è chiesto Zapatero? Lui non si è risposto, noi lo diciamo: alla guerra civile e all'intervento militare americano. A questo stanno lavorando le opposizioni che non vogliono le elezioni, gli stati reazionari e golpisti dell'America Latina e naturalmente Trump. La signora Mogherini sta con questa compagnia, con il Guatemala ed il Paraguay, dove ci sono vere dittature sanguinarie, che tra l'altro hanno seguito gli USA nella scelta assassina di trasferire le proprie ambasciate a Gerusalemme.
Ma perché verso il Venezuela c'è questa ossessione occidentale? Se lo è chiesto Maduro ricevendo gli osservatori internazionali di tutti i i continenti. Per la scelta socialista del governo bolivariano o per il petrolio, o per tutte e due? Su questo, su cosa i golpisti vogliono prendere e su cosa vogliono distruggere in Venezuela, torneremo. Intanto vergogniamoci dei mass media, della Mogherini e della UE che sul Venezuela adottano e diffondono le peggiori bugie di Caracas.


Franco Cilli

Pensatela come vi pare, ma c'è un fuoco di fila e uno schiumare fetente contro qualsiasi minima possibilità di uscire dalla miseria dell'austerità e spendere qualche soldo in più. Si può percepire chiaramente l'ansimare dei tanti economisti ortodossi (per non dire di peggio), che non sanno come fare a convincere il popolo che quanto fatto sinora, cioè affamarlo, è giusto e sacrosanto, testi di economia alla mano. Un vero schifo. Se non riusciamo a soffocare questo rumore di fondo e zittire questi chierici dei conti in ordine, Salvini lieviterà fino a tracimare nei nostri cervelli.
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No cari compagni il problema è uno solo: riuscire a fare opposizione sociale ad un governo che a quanto pare gode di un vasto consenso popolare e allo stesso tempo riuscire a offrire un progetto di società alternativa alla loro. Ancora mi tocca leggere da parte di certa sinistra obiezioni basate sulla logica della partita doppia e dell'oggettivita delle leggi di mercato. Senza parlare del disgusto al minimo accenno al recupero della sovranità.

mercoledì 9 maggio 2018

La costruzione di un popolo rivoluzionario non è un pranzo di gala. Intervista a Jean Luc Mélenchon

da Senso Comune



Martedì 10 aprile 2018 abbiamo incontrato J. L. Mélenchon nel suo ufficio all’Assemblea Nazionale. Nel corso della discussione, il deputato del dipartimento delle Bocche del Reno ripercorre il cammino che l’ha portato a costruire il movimento che gli ha permesso di ottenere il 19,58% dei voti al primo turno delle Presidenziali, lo scorso aprile 2017. Il leader della France Insoumise ci parla delle influenze intellettuali che l’hanno segnato, del suo rapporto, spesso contestato, con l’America Latina e con la Spagna di Podemos, passando per il Materialismo Storico e la Rivoluzione Francese, il cui ruolo è per JLM centralissimo. Questa intervista è anche l’occasione per conoscere il punto di vista di JLM sulle esternazioni di Emmanuel Macron, a dire il vero piuttosto contestate, sul tema del rapporto tra Stato e Chiesa Cattolica al collegio dei Bernardini. “La legge di separazione tra Chiesa Cattolica e Stato [che ebbe a sancire nel 1905 il carattere puramente laico di quest’ultimo, ndr] non è il frutto di una chiacchierata, quanto piuttosto il compimento di tre secoli di guerra civile aperta o latente”, sostiene JML; “porre l’accento sulla questione significa concentrarsi sulla Repubblica in quanto tale”. Sul finale, JLM sviluppa la sua sua visione sul concetto di Stato e del ruolo dei tribuni, sul maggio ’68 e sul rapporto con le giovani generazioni, senza dimenticare le recenti mobilitazioni: “vi è un fattore che nessuno può prevedere e mai potrà: l’iniziativa popolare. Essa può sovrastare tutto e tutti”.
LVSL: il suo impegno politico è profondamente segnato dalla storia della Rivoluzione Francese e dal giacobinismo. Detto questo, da qualche anno, sembra ispirarsi al populismo così come teorizzato da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe e, alla fine, messo in pratica da Podemos in Spagna. La campagna della France Insoumise, allo stesso tempo orizzontale e verticale, è parsa un tentativo di sintesi tra queste ispirazioni. Si può quindi parlare di populismo giacobino?
Partirei col dire che il riferimento a Laclau, per quanto mi riguarda, è più che altro un espediente. Certo, in riferimento al mio cammino politico, le mie conclusioni tendono ad essere vicine e non di rado identiche a quelle di Ernesto. E il suo contributo scientifico, così come quello di Chantal Mouffe, illumina il nostro lavoro. Quest’ultimo, tuttavia, ha origini più lontane. Il nostro interesse per Laclau veniva dall’incontro con un pensatore latino-americano e dal fatto che la fonte del nostro ragionamento proveniva dalle rivoluzioni democratiche dell’America Latina, del tutto antitetiche rispetto a ciò che esisteva nel momento stesso in cui ci apprestavamo a intraprendere le nostre azioni politiche dall’altro capo del mondo. Uso il “noi” in riferimento al sottoscritto e a François Delapierre, con il quale pubblicai il libro L’ère du peuple, un compendio del nostro modo di pensare. Quanto andavamo dicendo era talmente nuovo che nessun osservatore era in grado né di comprendere né di cogliere l’essenza innovativa delle nostre intuizioni. Non smettevano di maltrattarci cercando a tutti i costi di incasellare il nostro pensiero. Da lì il termine “populista”, tramite il quale venivamo assimilati all’estrema destra. Gli stessi dirigenti del PCF parteciparono al gioco. Dimenticando i loro padri nobili – che avevano inventato il premio del romanzo populista e preconizzato il progetto “di un’unione dei popoli di Francia” -, non esitarono a puntarci il dito contro. Il riferimento a Laclau soddisfaceva lo snobismo mediatico e consentiva di provare l’esistenza di un “populismo di sinistra” senza il bisogno che a sostenerlo fossimo noi.
Il nostro nuovo cammino era avviato. La nostra evoluzione partiva dall’America Latina e, a mano a mano che avanzavamo, i nostri contributi diventavano per noi delle tappe cui far riferimento. Per fare un esempio, nel numero 3 della rivista PRS (Pour la République Sociale), lavorammo sulla cultura come causa dell’azione civile. Ritenevamo fosse un modo decisivo per mettere a giusta distanza la teoria sterilizzante del riflesso, secondo la quale le idee sono il semplice riflesso delle infrastrutture materiali e dei rapporti sociali in essere. Allo stesso tempo, giravamo pagina rispetto al disvelamento del reale e altre questioni in materia di avanguardismo illuminato. Il giacobinismo è un repubblicanesimo globale. Presuppone un popolo avido di libertà e uguaglianza. La sua azione rivoluzionaria investe la dinamica delle sue rappresentazioni simboliche. Di certo v’è che tutto ciò vale per un Paese il cui motto nazionale recita Liberté-Egalité-Fraternité. Nessun “onore e patria”, “il mio diritto, il mio re”, “ordine e progresso” e altre formule al tempo in voga. In sintesi, non bisogna mai dimenticare nella formazione di una coscienza le condizioni iniziali del suo ambiente culturale sul piano nazionale. Respingiamo quindi la tesi delle sovrastrutture come riflesso. Al contrario, le condizioni sociali sono tali perché rese culturalmente desiderabili dall’insieme dei codici dominanti. D’altro canto, l’insurrezione contro certe condizioni sociali non deriva tanto dalla loro condizione oggettiva quanto dall’idea morale o culturale che ci si fa della propria dignità, dei diritti, del rapporto con gli altri. Una traiettoria che muove il nostro pensiero così come il quadro d’insieme, il materialismo filosofico. Non era la prima volta che ce ne occupavamo. Quanto a me, da tempo lavoravo al ripensamento delle premesse scientifiche del marxismo. Marx lavorava a partire dal pensiero frutto del suo tempo. Ne trasse quindi una visione del determinismo analoga a quella di Simon Laplace: quando si conosce la posizione e la velocità di un corpo in un dato momento, se ne possono dedurre le posizioni che lo stesso corpo occupava prima e tutte quelle che occuperà in seguito. Tutto ciò è legato al principio d’incertezza che non è l’impossibilità di accedere alla conoscenza, quanto una proprietà dell’universo materiale. Dal 1905, in seguito alla discussione tra Niels Bohr e Albert Einstein, la questione può dirsi risolta. Tuttavia, colpisce che di questa discussione scientifica non vi sia traccia tra i ranghi marxisti dell’epoca. Al tempo, accanto a tutto ciò, Lenin continua miserabilmente a scrivere Materialismo e empiriocriticismo. Per quanto mi riguarda, influenzato dal filosofo marxista Denis Colin, presi le distanze da questa visione del materialismo includendo il principio d’incertezza. Tratto la questione nel mio libro Alla conquista del caos nel 1991. A quel tempo, capivamo che il determinismo non poteva che essere probabilista. Ciò significa che gli sviluppi lineari nelle situazioni umane non sono affatto i più probabili. Si trattava di un rinnovamento della nostra base filosofica fondamentale. Modificando il nostro immaginario, ciò modificò anche la nostra visione tattica. L’evento intellettuale fu per noi considerevole. Dagli anni 2000, abbiamo lavorato sulle rivoluzioni concrete che hanno avuto luogo in seguito alla caduta del Muro. Un contesto in cui – ci spiegavano, “la fine della Storia” – avremmo dovuto rinunciare ai nostri progetti politici. Assumeva allora carattere decisivo l’osservazione diretta del flusso della Storia nel momento in cui mostrava, di nuovo, la possibilità di rottura dello status quo sul piano globale.
A quel tempo, la nostra attenzione ricadeva sull’America Latina, attirati dal Partito dei Lavoratori (PT) del Brasiliano Lula, la cui ideologia propendeva per le fasce più povere della società. Un’ideologia che non ha nulla a che vedere col socialismo storico. Piuttosto, un prodotto d’importazione declinato in “teologia della liberazione”, concetto che muove storicamente dai seminari sparsi in tutto il Brasile. Osservavamo il PT di Lula, ma tendevamo a non occuparci di quel che avveniva nel resto del continente. Solo in seguito le circostanze ci condussero alla scoperta della rivoluzione bolivariana in Venezuela. Di primo acchito la cosa ci destabilizzò. Un militare a capo di un rivolta dai contorni sociali, non certo un fatto ordinario in America Latina. Laggiù i militari, non a torto, sono i primi sospettati! Secondo l’ideologia dominante in Sud-America, il posto dei militari nel quadro dell’azione politica è quella assegnata da Samuel Huntington ne Il soldato e la nazione, testo chiave che precede Lo scontro delle civiltà. Il modello? Augusto Pinochet.
La rivoluzione bolivariana ha generato in noi un vero e proprio cambio di prospettiva, al punto che le questioni riguardanti il PT e l’esperienza brasiliana perdevano di significato. Per me, l’esperienza del Chavismo differiva in maniera radicale rispetto a quella brasiliana. Un’esperienza, si badi bene, descrivibile nell’ambito del populismo. Sul piano metodologico, il populismo rimanda a codici narrativi chiari, in una formula “disponibili”, capaci di significare la terminologia politica. Per questo, non serve a nulla, in Europa, lottare per appropriarsi del termine “populismo”, così come è stupido battersi per quello di “sinistra”. Le puntigliosità sulla “vera sinistra”, “la falsa sinistra”, “sinistra al 100%”, sono per noi superate. Tutto ciò non ha alcun senso. Al contrario, tutto ciò rende indecifrabile il campo politico che s’intende occupare. La battaglia delle idee è al tempo stesso una battaglia di movimento. Le guerre di posizione non fanno per noi.
Il cambio di prospettiva cui ci si riferiva ci ha esortati a considerare degli aspetti mai del tutto esplorati. A dire il vero, fu Chavez ad esortarci. Quella fu un’esperienza personale devo dire emozionante. L’ultima cosa che feci con lui fu uno stralcio di campagna elettorale nel 2012. Lo raggiunsi con l’obiettivo di staccare un po’ dopo le Presidenziali e le Legislative del 2012. Il risultato? L’esatto opposto. Mi misi a fare campagna con lui. Quanto imparai! In molti campi. Ebbi modo di saggiare, per esempio, il modo in cui Chavez era solito approcciarsi all’esercito. La mia idea dello strumento militare corrispondeva a quella dettagliata da Chavez in occasione di una parata a cui ebbi modo di assistere. Ho sempre ragionato in maniera diversa rispetto agli ambienti politici in cui mi sono formato. Devo al mio impegno politico giovanile al fianco del fondatore dell’Armée rouge la visione che ho oggi dell’esercito. Faccio menzione del tema a titolo puramente esemplificativo. In ogni circostanza, Chavez non tradiva la propria linea di nazionalismo di sinistra. I rapporti che intrattenni con Chavez mi diedero molti spunti, tanto teorici quanto pratici. Posso dire che feci della sua linea generale la mia. Non si tratta più di costruire un’avanguardia rivoluzionaria ma far di un popolo in subbuglio un popolo rivoluzionario. La strategia della conflittualità è il mezzo di orientamento. Chavez partiva dall’interesse generale in antitesi rispetto agli interessi particolari.
Forti dell’esperienza Chavista e del rinnovamento teorico cui avevamo sottoposto la nostra forma mentis, eravamo finalmente in grado di costruire il nostro corpus dottrinale, declinato nella quarta edizione de “L’era del popolo”. Niente Laclau, niente Podemos. Siamo partiti dalla nostra storia politica, dalla nostra cultura politica nazionale. Mai come oggi, il mio modo di vedere è stato tanto radicato nell’insegnamento della Rivoluzione francese e della Comune di Parigi. Al tempo l’auto-organizzazione delle masse e la federazione delle lotte erano onnipresenti nella società. Per meglio comprendere la nostra traiettoria politica, è necessario osservare esperienze come quella di Die Linke in Germania, Syriza in Grecia, Izquierda Unida in Spagna e il Bloco di esquerda in Portagallo. In origine, l’influenza maggiore derivava dal PT brasiliano. Di lì, la formula tramite la quale una coalizione di piccoli partiti tende a raggrupparsi in un unico fronte prima di procedere alla fusione in un’unica compagine. A seguire Podemos e la France Insoumise. Un processo che inizia dunque con l’esperienza brasiliana, al quale si sono aggiunte nel tempo tutta una serie di innovazioni tanto sul piano concettuale che pratico. In Francia, la rottura arriva al termine dell’esperienza nota come “Front de gauche”, conclusasi in seguito all’impasse politica causata dalla natura “particolare” delle istanze proprie dei vari gruppi della sinistra. Per quanto mi riguarda, la rottura s’è consumata durante la campagna delle elezioni comunali, regionali e dipartimentali. Una vera e propria agonia. Il Front de gauche è caduto sotto il fuoco delle logiche di coalizione, e dell’opportunismo, al punto da renderne l’essenza indecifrabile dai più. Tuttavia, non parve propizio rompere l’ingranaggio che muoveva il Front de gauche, non in quel momento almeno. Di lì a poco ci sarebbero state le Elezioni europee. Non avevamo tempo per ridefinire i posizionamenti, tantomeno i mezzi per sollecitare la militanza. Per questa ragione, abbiamo concorso alle Europee sotto il vessillo del Front de gauche, sommersi da un caos identitario di proporzioni indescrivibili. Per concludere, la direzione comunista, nostra alleata, non ha rispettato né l’accordo né il disegno strategico, liquidando l’elezione come fosse una corvée burocratica, col risultato di minare la fiducia tra alleati. In Spagna, l’ascesa di Podemos è dipesa da una scissione avvenuta in seno a Izquierda unida. Fu quello il momento della svolta. In Francia, la direzione comunista rifiutò senz’appello la costruzione di un fronte a partire dalla base, quindi del superamento delle strutture tradizionali.
LVSL – Qual è stata, quindi, l’influenza di Podemos?
Diversamente dalle tendenze al tempo in voga, Podemos nacque da una logica di rottura con Izquierda unida. Delapierre seguiva da vicino il gruppo costituente di Podemos – i suoi dirigenti – osservandone attentamente l’evoluzione. A partire dal 2011, Inigo Erréjon è relatore fisso presso la scuola estiva del Parti de Gauche. Non ci siamo più persi di vista. Un rapporto fatto di reciproca intesa: noi partecipiamo alla chiusura delle loro campagne elettorali e loro alle nostre. Nel frattempo, andava consumandosi il tradimento di Syriza e il riavvicinamento del PT al PS brasiliano, episodi che sancivano l’allontanamento di quelle esperienza dalla nostra. Come espressione del ciclo bolivariano interpretato in America-Latina dal PT brasiliano, Podemos e la France Insoumise, entrambi emersi dalla rottura consumata rispettivamente con lzquierda unida e il Front de gauche, rappresentano forme innovative nel panorama politico europeo.
Oggi, il forum del piano B in Europa raggruppa circa una trentina tra partiti e movimenti. In un certo senso ricalca la funzione federatrice del forum di San Paolo in America Latina negli anni precedenti le varie prese di potere. Ciò che ci lega a Podemos è una radice comune. Il mio primo incontro con Inigo Erréjon, è avvenuto a Caracas, non a Madrid. Fine pensatore, Erréjon non ha esitato a mettermi in guardia dalla narrativa anti-imperialista di Chavez, di cui percepiva il decadimento. Una narrativa – sosteneva – totalmente avulsa dalla realtà delle giovani generazioni, mai confrontatesi con la fame. Per Erréjon, una simile prospettiva strategica e culturale appariva sterile e quindi insufficiente per mobilitare la società. Ho spudoratamente plaudito alla provocazione di Chavez in riguardo alla necessità di un orizzonte positivo che testimoni l’ambizione culturale del progetto bolivariano.
Come ho già detto, il contributo di Chavez è tutto da intendersi nell’idea che la nostra azione ha come obiettivo quello di costruire un popolo rivoluzionario. Una battaglia culturale di respiro globale, dunque. Tuttavia, non v’è stata alcuna battaglia culturale a Caracas. Il programma bolivariano in salsa Chavista ha a che fare con una sorta di social-democrazia radicalizzata: prima di tutto la condivisione delle ricchezze. Principio encomiabile, specie in riferimento ad una società in cui povertà e disuguaglianza dilagano. Tuttavia, molti interrogativi restano inesplorati nel quadro di quest’approccio, come ad esempio l’entità delle ricchezze, le motivazioni culturali del popolo e via discorrendo. Rinneghiamo gli Stati Uniti ma mangiamo, viviamo, beviamo e ci svaghiamo come loro. Per questo è vitale una rivoluzione culturale, tesa a mettere in discussione le abitudini di consumo che caratterizzano il paradigma produttivista. Questo è il mio modo di concepire il populismo di sinistra, supponendo che il concetto in sé abbia una significato chiaro. Non è l’aspetto semantico che conta, quanto piuttosto l’essenza implicita del concetto. Ho trattato la questione ne L’ère du peuple.
Si tratta d’includere nel discorso un nuovo attore: il popolo, che comprende la classe operaia, la quale si ascrive al concetto di popolo senza esaurirne il significato. Il mio pensiero diverge da quello di Laclau e Mouffe, che tendono ad identificare la formazione di un popolo nell’atto puramente soggettivo d’individuazione di un “noi” e un “loro”. Rifuggo pertanto dalla spirale in cui conduce la filosofia idealista. Ciò che per me definisce il “popolo” è il suo ancoraggio sociale. Si tratta, in primo luogo, del legame tra la rete sociale urbanizzata e la sopravvivenza del singolo. Ciò che intendo riguarda i servizi pubblici i quali incidono sulle rappresentanze politiche collettive.
Ancora, il popolo è il cardine di una dinamica specifica: quella che concerne 7 miliardi di esseri umani tra loro connessi come mai s’era visto nel corso della Storia. La Storia insegna che ogni volta che l’umanità raddoppia (in termini numerici), essa oltrepassa un limite tecnico e di civilizzazione. Io stesso sono nato in un mondo abitato da 2 miliardi di esseri umani. La popolazione è triplicata nel corso di una generazione quando invece, per raggiungere il miliardo nel XIX Secolo, aveva impiegato 2/300.000 anni. Un nuovo limite è stato bellamente superato, constatabile in mille modi. Uno di questi, tuttavia, risulta decisivo: il livello di sfruttamento ambientale è tale da minacciare la distruzione dell’ecosistema. Da qui, un interesse generale umano che sarà il fondamento ideologico su cui si si baserà l’esistenza del popolo come soggetto politico. La definizione di popolo dipende quindi dalle sue aspirazioni, dal bisogno di padroneggiare le questioni sulle quali costruisce se stesso: la salute, la scuola ecc. Il motore della rivoluzione civile è il frutto dell’incontro di queste dinamiche. È al cuore della dottrina de L’ère du peuple.
LVSL – Emmanuel Macron ha dichiarato che “il legame tra la Chiesa e lo Stato è stato incrinato, a noi il compito di ripararlo” e che “la laicità non ha come funzione quella di negare la dimensione spirituale, né quella di estirpare dalla nostra società la religiosità che nutre tanti nostri concittadini”. Qual è il suo punto di vista in virtù di simili (e non abituali) dichiarazioni da parte di un Presidente della Repubblica francese?
Per cominciare, lo scopo di Macron è politico: recuperare i voti della destra cattolica. Tuttavia, agisce al prezzo dei nostri principi fondamentali. Macron dimentica di essere il Presidente di una Repubblica forte di una Storia ben precisa. Quando egli sostiene che “il legame tra la Chiesa e lo Stato è stato incrinato, a noi il compito di ripararlo”, il senso è chiaro. Vi è però un malinteso. Il legame non è stato incrinato; è stato volontariamente rotto nel 1905. Fu un atto storico. Non si tratta di riparare alcunché. A impedirlo, l’attualità della lotta, tale in tutto il mondo, contro l’irruzione della religione in politica. Ora più che mai, è bene che politica e religione restino separate. Ora più mai, il nostro adagio dev’essere: la Chiesa chez elles, lo Stato chez lui. Ancora, la politica e la cittadinanza non appartengono allo stesso paradigma della pratica religiosa. La religione è per sua natura chiusa, dogmatica. Per converso, la Repubblica è aperta. Per natura tende a muoversi per mezzo di delibere liberamente discusse. In alcun modo pretende d’associare le sue conclusioni alla verità. Cosa che invece il dogmatismo religioso contesta. Nell’Enciclica del 1906, si taccia il suffragio universale di peccaminosità in quanto norma del tutto indifferente alle prescrizioni di Dio. La reversibilità della legge – la sua evoluzione – sintetizza al meglio ciò che la Chiesa combatte: la sovranità e la volontà generale, la ragione, lo spirito umano come sede della verità, così come il carattere provvisorio di quest’ultimo. Le Chiese incarnano l’incapacità al cambiamento. Lo si vede da come praticano la carità, sempre la stessa da Secoli. Quanto alla Repubblica, di statico – non soggetto a cambiamento – ha solo il rispetto di alcuni principi universali, come i diritti dell’uomo. I diritti dell’essere umano sono non-negoziabili e superiori a tutti gli altri.
Alla luce della situazione attuale, né lo Stato né la religione sono interessati a discutere la divisione dei poteri. Le Chiese non possono rinunciare alle loro pretese in quanto direttamente riconducibili al verbo divino. La loro, infatti, è una tendenza spontanea all’abuso di potere. Una questione da non sottovalutare. Il legame cui sopra non va dunque ricostruito. Aggiungo: v’è qualcosa di sospetto nel reclamare la ricostruzione di un simile legame, specie con le gerarchie cattoliche. La centralità ricoperta dal cattolicesimo nel quadro delle prerogative di Macron è deleteria. Il Presidente riproporrà lo stesso discorso innanzi un’assemblea di ebrei, musulmani o buddisti?
Fondamentalmente, Le asserzioni di Macron appaiono quindi contrarie a certi principi repubblicani. Ciò non è dovuto solo al fatto che egli in buona sostanza contesta la legge del 1905. Piuttosto, Macron sembra ignorare la Storia che ha reso necessaria la legge del 1905. La Storia è materia viva e attuale. La Storia non è un passato. È il presente nella vita di una nazione lungo le onde del tempo. La comprensione dei motivi che portarono alla separazione tra Chiesa e Stato cominciano prima 1905. Le radici della questione affondano nello disputa tra Filippo il Bello e Papa Bonifacio VIII per la spartizione dei poteri. Il vicario di Cristo esigeva una giurisdizione totale, tanto sul piano spirituale che su quello temporale. Dopo il Rinascimento, fino alle soglie della Rivoluzione francese, la laicità va facendosi strada non nei salotti ma sul campo di battaglia, col nemico sempre pronto alla mobilitazione. La Chiesa Cattolica ha atteso il 1920 per riconoscere la Repubblica! Fino al 1906 condannava ancora il suffragio universale. Di fronte al dogmatismo religioso siamo costantemente opposti a delle forze materiali. La legge di separazione tra Chiesa Cattolica e Stato è il compimento di tre secoli di guerra civile aperta o latente. Porre l’accento sulla questione significa concentrarsi sulla Repubblica in quanto tale.
LVSL: Secondo Lei, quali sono le motivazioni celate dietro a tale retorica?
Non mi faccio di certo ingannare. Macron veste i panni del leader dei conservatori nostrano. La sua politica è degna di un qualunque politico liberale esaltato, anche se ha capito che finché la promuoverà nel quadro delle start-up [si fa riferimento all’inaugurazione della “Station F” a Parigi, il più grande campus di start-up nel mondo] non potrà che ottenere l’appoggio di una ristretta minoranza della società. Inoltre, nel mondo delle start-up, non sono tutti avari come lui pensa! Cercherà di sedurre, come cerca di fare sin dall’inizio, una larga fetta di reazionari. Dopo gli insulti gratuiti lanciati contro i cosiddetti “fannulloni”, i “cinici” e gli “insignificanti”, ecco arrivato il momento delle azioni pratiche: i ragazzi e le ragazze che occupano le facoltà sarebbero, dunque, dei buoni a nulla da sgomberare come dei delinquenti. Vale lo stesso per i fatti accaduti a Notre-Dame-des-Landes [sgombero del sit-in promosso dagli “zadisti” battutosi contro la costruzione del contestato aeroporto], e così via. Allo stesso modo, la criminalizzazione dell’attività sindacale è sul buon cammino. Cerca, in altre parole, di identificarsi con la Francia più cattolica e conservatrice. Ma non sono sicuro che anch’essa si farà ingannare.
Qual è la forza di legittimazione di un tale discorso? Credo che cerchi di offrire anche una particolare visione dell’essere umano. Macron cita Emmanuel Mounier, il teorico del “personalismo comunitario”. Per quanto ci riguarda, noi sosteniamo il personalismo repubblicano, facciamo nostro il concetto di persona come soggetto della propria esistenza. Una identità aperta che si costruisce nell’arco di una vita e che non esiste solo come risultato di diversi servizi a cui ha diritto come effetto del dover convivere in una società. Secondo noi, ci si può formare rifacendosi pienamente all’ideale repubblicano, che mette in primo luogo la pratica dell’altruismo e, più in generale, la realizzazione dei valori di libertà, uguaglianza e fraternità. Al contrario, secondo il personalismo comunitario di Mounier, la persona trova il proprio collante nella fede che costituisce la propria comunità. Non si tratta di speculazione astratta, non dimentico ciò di cui stiamo parlando fin dall’inizio. La visione macroniana tenta di ingannare la realtà proposta dalla “religione” repubblicana. Ecco, quindi, un’altra maniera di negare il diritto dell’universale ad imporsi come norma, ovvero il fatto di essere un umano che si associa agli altri attraverso comportamenti che seguono un orizzonte universalista. La condiscendenza di Macron per la “religione repubblicana” è sinonimo della sua personale incomprensione dell’ideale repubblicano come vettore di aggregazione umana. Essa può inoltre indicare la sua indifferenza verso la forza del discorso razionale privo di verità rivelate come fondamento della comunità umana. Dopotutto, secondo lui, la legge di mercato non è già più forte di qualsivoglia interventismo politico? L’ideologia del mercatismo e quella religiosa rientrano entrambe nel campo di affermazione apodittica, per le quali non sussiste possibilità di dibattito.
Il Dogma impedisce alla comunità umana di essere libera. Non è possibile discuterlo. Lo si accetta o lo si subisce. Talvolta anche forzosamente, nel caso in cui le Chiese dispongano dei mezzi appropriati: ecco perché esse non devono avere spazio nella decisione pubblica. Ma, attenzione! A dire il vero, allontanamento non è sinonimo di interdizione o disprezzo. Alle Chiese non sono mai state negate né la libertà di espressione, né la libertà di propaganda nella sfera pubblica; è inutile fingere di credere il contrario solo per ricavarne conclusioni anti-laiche. Secondo noi repubblicani, le direttive religiose sono indubbiamente competenza della sfera privata e intima, rientrano nel dibattito interiore di ciascun individuo nel momento in cui prende una decisione. In quanto credente, un individuo può essere convinto della necessità di fare questa o quella cosa, o anche che si debba votare in questo o quel modo. Ciò è totalmente lecito, ma una disposizione religiosa non può trasformarsi in imposizione per tutti gli altri, dato che la Legge fornisce a ciascun soggetto la libertà di coscienza individuale. Infatti, in tema di morale individuale, i repubblicani non prescrivono comportamenti da seguire, a parte il rispetto della Legge e la Virtù come norma d’azione personale. Quando parliamo di diritto all’aborto, non suggeriamo chi dovrebbe abortire o per quale ragione: ciò rientra, infatti, nella libertà di coscienza individuale della persona in questione. Una persona può decidere di non abortire seguendo le proprie credenze religiose; ma perché negare questa possibilità agli altri? Lo stesso vale per il suicidio assistito. Non diremmo mai a una persona quando dovrebbe suicidarsi! Ma se lo volesse fare e avesse bisogno di assistenza, almeno ne avrebbe la possibilità. Il Dogma, invece, per la sua stessa essenza, contrasta coloro che non lo seguono. La “religione repubblicana” non propone che la Virtù come mezzo per esercitare la propria libertà.
Si intravede, dunque, un doppio abuso di linguaggio nel discorso di Macron. In primo luogo, cercare di far credere di riconoscere la globalità di un essere umano attraverso gli elementi che la creano – tra cui la fede – è contradditorio rispetto alla laicizzazione dello spazio pubblico. In secondo luogo, far credere che noi tentiamo di imporre solo per principio dei comportamenti contrari a quelli proposti dalla religione. Noi, al contrario, interveniamo solo in caso di disturbo all’ordine pubblico. Tale limitazione della libertà è piuttosto comune: in una società repubblicana, nessuna libertà è totale, ad esclusione della libertà di coscienza. Tutte le altre libertà sono regolamentate, e, dunque, limitate. Siete tutti liberi di pensare ciò che volete, ma questo non può permettervi di commettere azioni illegali. Punto. Se si oltrepassa questo concetto, si rientra in una logica assurda di negoziazione con la Chiesa sulla base dei suoi dogmi rivelati. Si tratta, dunque, di una logica di concessione che le permette di imporsi sull’intera società. L’ingerenza religiosa nella politica è sempre stata vettore di autoritarismo e di limitazione delle libertà individuali.
LVSL: La laicità riporta all’idea piuttosto giacobina dell’indivisibilità del popolo francese e della separazione della religione dalla politica. Qual è il ruolo della laicità nel vostro progetto? Dovremmo temere un ritorno dell’ingerenza religiosa nella politica?
Questa minaccia è reale. Tuttavia, tale affermazione parrebbe contraddittoria rispetto alla secolarizzazione delle coscienze che si può toccare con mano e che non accenna a sgretolarsi. Questo non significa, però, che l’ingerenza religiosa stia scomparendo del tutto. L’adesione alle religioni risiede in parte nella tradizione ed essa continua ad esistere perché abbiamo a che fare con una società precostituita, con nuclei famigliari che ci precedono. Ci vengono insegnati dei valori, e per imparare a convivere con gli altri ci si deve innanzitutto misurare con tali valori. Il processo di individuazione si realizza, infatti, attraverso l’apprendimento delle norme di relazione con gli altri. Per l’appunto, non assistiamo alla nascita di nuove generazioni anarchiche; al contrario, abbiamo a che fare con nuove generazioni bramose di socializzazione e, dunque, di conformismo. La nostra condotta quotidiana prescinde forse dal metafisico e dalla superstizione? Assolutamente no! Trovo divertente il fatto che più gli oggetti hanno una modalità d’uso e un contenuto incomprensibili per l’utilizzatore, e meglio funziona il pensiero metafisico. Ci relazioniamo in maniera più sana e normale con un martello e un chiodo che con un computer perché nessuno sa come funziona un computer. Ecco perché ci ritroviamo ad insultare i nostri computer, parliamo con loro come se fossero persone; non accade lo stesso quando maneggiamo un martello. È piacevole constatare come le modalità d’uso degli oggetti contemporanei ci rispediscano spesso in una dimensione sempre meno realistica. Non pensiate, dunque, che la predisposizione alla metafisica e all’illusione della magia sia scomparsa nel ventunesimo secolo solo perché siamo circondati da oggetti sempre più all’avanguardia. È esattamente l’opposto. E lo evidenzio per rammentare che l’interesse per la religione non nasce dal nulla. Esiste un terreno fertile dove in qualsiasi momento la metafisica può mettere le mani sull’angoscia che deriva dall’ignoranza. La metafisica è, infatti, in grado di fornire il solo alimento che serve allo spirito: una spiegazione. Il cervello umano non può accettare la mancanza di spiegazioni, poiché è costruito in modo da garantire la nostra sopravvivenza. Per sopravvivere, è necessario comprendere, dare un nome alle cose. Le religioni si diffondono perché si propongono come spiegazioni globali del mondo e dei suoi enigmi irrisolvibili e questa capacità ha, come si è visto, radici profonde. E non si limitano a chiarire la devianza degli oggetti sofisticati che ci ritroviamo ad insultare, ma, soprattutto, rendono intelligibili circostanze altrimenti incomprensibili come la morte e l’ingiustizia derivata dal caso.
Ma in campo politico le religioni sono soprattutto degli abili pretesti. Lo abbiamo visto con la teoria dello “scontro delle civiltà” di Samuel Huntington, fondata interamente sull’idea che le culture separino gli esseri umani e che esse stesse si radichino nelle religioni. Partendo da qui è andata poi costituendosi la teoria che oggigiorno domina l’intero pensiero politico alla base delle strategie e della geopolitica portate avanti dalla NATO, secondo le quali Occidente sarebbe sinonimo di Cristianità. Si noti come la religione sia un pretesto tra persiani iraniani e arabi degli Emirati! Sciiti contro sunniti? Tutto questo non serve che a motivare la lotta per l’influenza nella regione e per il controllo della zona geografica in cui si trova il 42% del gas e il 47% del petrolio mondiale… Il discorso religioso è ormai un tutt’uno con le guerre imperialiste e regionali perché in questo modo possono essere giustificate senza dover indugiare sugli interessi materiali che le provocano realmente. L’onere religioso agevola il conflitto e impedisce la riconciliazione delle parti che si scontrano. Come vedete, non ci troviamo a discutere di una tesi astratta circa il ruolo delle religioni nei conflitti. La cultura è intrinseca degli esseri umani, per cui per incentivare questi ultimi a uccidersi l’un l’altro servono delle buone motivazioni che permettano loro di farlo senza indugio. La religione è una motivazione piuttosto confortante.
In ogni caso, le religioni non hanno per niente abbandonato la loro volontà di conquista. Ci sono stati, senza dubbio, dei progressi. Per quanto riguarda i cattolici, ammetto di preferire l’enciclica “Laudato sì” a ciò che avrebbe potuto sostenere il Papa precedente. Papa Francesco cita, infatti, Teilhard de Chardin: secondo questa visione del cristianesimo, gli esseri umani sono corresponsabili del perfezionamento del creato. Queste prescrizioni su temi ecologici e sociali acquisiscono così una valenza tale da poter contribuire alle nostre battaglie. Questo, però, non toglie che in America Latina la Chiesa cattolica non abbia indietreggiato di un millimetro su altri temi di fondamentale importanza come il diritto all’aborto, i diritti delle persone omosessuali e il diritto al suicidio assistito. Nonostante i processi di democratizzazione nella regione latinoamericana siano in moto da oltre 10/20 anni, l’intimidazione è tale per cui l’aborto non è ancora legale in nessun paese! Solo l’Uruguay è leggermente più all’avanguardia rispetto a questo tema.
Il concetto di laicità è parte integrante del progetto di “La France insoumise” e il ragionamento che si cela dietro una tale affermazione si può riassumere brevemente. Noi partiamo da una visione molto coerente, per la quale se esiste un solo ecosistema compatibile con la vita umana, ci deve essere pertanto un interesse generale comune a tutti gli esseri umani. Per poter delineare liberamente quale sia questo interesse è necessario che l’uomo non prevalga sulla donna, che il padrone non prevalga sull’operaio e che la religione non impedisca l’originarsi di una discussione o ne predetermini la decisione finale. Per poter comprendere quale sia l’interesse generale è pertanto fondamentale che la società politica e lo Stato siano laici. La laicità non è, dunque, un supplemento, bensì una condizione iniziale. La separazione della Chiesa dallo Stato è la condizione per la quale può sussistere un dibattito razionale, che è a sua volta la condizione che determina il delinearsi dell’interesse generale. Tutto questo può sembrare banale, ma in realtà rompe drasticamente con le risposte della nostra famiglia ideologica. Negli anni ’70, quando si invocava all’interesse generale, ci si sentiva immediatamente rispondere: “L’interesse generale è l’interesse del capitale”. Anche se si trattava solo di una costruzione ideologica derivata dal pensiero dominante del momento, strideva con quelle di trenta o quarant’anni prima. Nella nostra epoca, l’interesse del capitale non può essere sinonimo di interesse generale, anzi, ne è il più terribile avversario. Il capitale volge intrinsecamente al corto termine e al singolo. Al contrario, l’armonia con i cicli della natura volge necessariamente al lungo termine e al generale.
LVSL: Ogni qualvolta degli individui si rivelano capaci di “incarnare” il potere e la dignità della funzione suprema, si è affermata l’abitudine di parlare di “uomini di Stato”. In occasione del primo grande dibattito svoltosi prima delle elezioni presidenziali, molti esperti hanno notato che Lei sembrasse essere il candidato più adatto alla presidenza e hanno addirittura evocato il Suo portamento gaullista. Allo stesso tempo, è stato molto elogiato il Suo omaggio a Arnaud Beltrame. Cosa implica il fatto di “rientrare nei panni di” e di rappresentare un’opzione credibile nel momento in cui si aspira alla conquista del potere? Stiamo attualmente assistendo alla carenza della capacità di “incarnazione”?
Spero di aver contribuito a colmare questa carenza, dato che la mia campagna del 2017 ha proposto una personalità adeguata ad un programma, anche più della campagna del 2012. Ho sempre discusso di questo aspetto con i miei compagni di altri paesi, non mi sono mai tirato indietro. È la stessa cosa che dissi ai miei amici italiani: o assumete la vostra funzione tribunizia e avete il coraggio di impersonare il vostro programma, oppure questo compito imprescindibile sarà svolto da altri. Ed è esattamente ciò che è successo con il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo l’anno in cui boicottò la coalizione che si stava costituendo intorno a Rifondazione Comunista. Quella fu una catastrofe e io stesso ne ho tratto insegnamento. 
La questione dell’“incarnazione” è di natura metafisica e la voglio trattare in maniera analitica. Io credo fermamente in ciò che dico e in ciò che faccio. L’“incarnazione” è un risultato finale e non un ruolo assunto improvvisamente. Non è che ci si alza al mattino e si entra in un personaggio allo stesso modo in cui ci si è infilati il pigiama la sera precedente. È il programma che produce l’incarnazione ed essa avviene solo se giunge nel momento politico della presa di coscienza popolare. Credo di conoscere il popolo francese, in particolar modo conosco la sua storia e la maggior parte del territorio in cui vive, un territorio che ho percorso in lungo e in largo e in ogni angolo. Il popolo francese è il popolo politico del continente, si esprime attraverso termini unici che ne risaltano lo spirito egualitario. Quando ci si riferisce al comportamento di qualcuno affermando “Ah, se tutti facessero come te…” è un altro modo per dire “Ti comporti bene e lo potrebbero fare anche tutti gli altri”. Ecco, esiste un egualitarismo spontaneo del popolo francese, le cui radici risalgono alla grande Rivoluzione del 1789, che fu innanzitutto una rivoluzione di libertà. Le persone erano convinte che i problemi si potessero risolvere solo attraverso il voto. Ad un certo punto avrebbero addirittura voluto votare per elegger i propri preti! E si sono così sostituiti allo Stato monarchico andato in pezzi, fino al punto di voler riunire tutte queste conquiste in una “Festa della Federazione”, un anno dopo la presa della Bastiglia. I contenuti della Rivoluzione del 1789 hanno così prodotto una dinamica che permette di comprendere come personaggi a prima vista così lontani dall’essenza rivoluzionaria l’hanno poi incarnata allo stesso modo in cui lo fece a suo tempo Maximilien Robespierre.
Una volta compreso questo, si comprende la sostanza dell’azione politica. Qual è la funzione essenziale della politica? La si può ricercare anche in qualcuno che si oppone radicalmente alle proprie idee: lo afferma anche Marx nel “catechismo” della Lega dei Giusti, il primo testo da lui firmato. In primis: cos’è il comunismo? Risposta: né i soviet, né il potenziamento delle forze di produzione, ma “l’apprendimento delle condizioni di liberazione del proletariato”. Si tratta, dunque, di evidenziare un elemento radicalmente soggettivo. Allo stesso modo, in L’ideologia tedesca”: “Il comunismo è il movimento reale che confuta lo stato attuale delle cose, (le contraddizioni del sistema) e la sua coscienza”. Nell’ideologia marxista, la coscienza pesa tanto quanto il movimento reale che confuta lo stato attuale delle cose. E infine: “Il proletariato sarà rivoluzionario o non sarà”. Che significa che non sarà?
Allora si credeva che [il proletariato] sarebbe stato definito dal suo ruolo nei rapporti di produzione, ma in realtà il marxismo dei primi tempi lo definiva a partire dal suo rapporto con la cultura! Ecco perché il marxismo distingue tra in-sé e per-sé e tra i due si trova la politica. La coscienza diventa, così, l’interesse principale dell’azione politica in vista della conquista del potere. La strategia de L’era del popolo [L’ère du peuple, libro di Mélenchon] si basa, dunque, su
una continuità filosofica e politica: la costruzione di tale coscienza deve tenere conto della forma complessiva della condizione umana di coloro ai quali ci si rivolge. Faccio riferimento all’insieme di discorsi che non hanno legame alcuno con la vita quotidiana delle persone e con l’idea morale che si fanno della loro dignità e del loro rapporto con gli altri. In L’era del popolo c’è un capitolo sulla morale come fattore di unificazione e sprono all’azione sociale. Per quanto ci riguarda, abbiamo definitivamente sposato l’idea per la quale gli esseri umani sono esseri di cultura e, come conseguenza, sono esseri sociali.
LVSL: Torniamo alla vostra strategia. Avete ottenuto dei risultati molto importati tra i giovani al primo turno delle elezioni presidenziali, specialmente tra coloro che hanno votato per la prima volta, con il 30 % nella fascia 18-24 anni. Tuttavia, non avete avuto successo tra gli anziani che hanno un peso enorme all’interno del corpo elettorale e che hanno votato in larga parte per Macron e Fillon. Il distacco politico sembra divenire sempre più un distacco generazionale. Come mai i vostri discorsi fanno così tanta fatica a raggiungere i più anziani? I baby boomers si sono imborghesiti e sono diventati irrimediabilmente neoliberali?
I miei discorsi raggiungono più difficilmente gli anziani per le stesse ragioni per le quali raggiungono più facilmente i giovani. I giovani infatti hanno una coscienza collettivista ecologista molto forte, nonostante le recriminazioni che vengono fatte sull’egoismo che sembrano esprimere. La consapevolezza del raggiungimento del limite per l’ecosistema, del rifiuto, dell’asservimento che provoca una società che trasforma tutto in mercato sono molto sviluppate. Raggiungiamo, con i giovani, i limiti di un’onda che ha precedentemente sommerso tutte le gioventù precedenti.
Ho conosciuto quella degli anni ’90, quando l’ideale dominante era il trader che ha avuto successo nella sua operazione. Ho sempre partecipato a delle conferenze nelle scuole di eccellenza, dove entro in contatto con i figli della classe socioprofessionale più elevata. Questo mi permette di vedere come i ragazzi di questa classe sociale, che amano la società, evolvano. Attraverso i loro figli, si può identificare ciò che verrà rigettato o non continuato. Negli anni 90, alla fine di una conferenza, c’erano due o tre mohicani che venivano da me per dirmi che erano dalla mia parte. Lo facevano di nascosto e tutti imbarazzati.  Ora, in qualsiasi sala, c’è il 20-30% che si dichiara dalla nostra parte. Quelli che mi interessano di più sono gli altri, quelli che non la pensano come me, che non sono d’accordo con le mie conclusioni, ma lo sono con la mia diagnosi. C’è stata una costruzione di una nuova coscienza collettiva. Questa generazione è cosciente della rottura che questa ci richiede. La affronta con più entusiasmo perché sente che, per i suoi meriti e le sue conoscenze, è capace di rispondere alle sfide del mondo. 
Riguardo agli anziani, è il momento in cui vengono meno le illusioni sul Maggio 68. I leader che sono messi in evidenza oggi non hanno mai smesso di essere dei commensali del sistema. Ma,non bisogna dimenticare che il Maggio 68 è prima di tutto una grande rivoluzione operaia, dieci milioni di operai che decidono di scioperare. E tuttavia sono lasciati fuori dal quadro, come se non esistessero più. Nella celebrazione e nella commemorazione del Maggio 68 non vengono mostrati che personaggi ambigui e conformisti come Romain Goupil o Daniel Cohn-Bendit. Una generazione di persone che non sono mai stati altro che dei liberal-libertari, piccoli borghesi imbottiti di un egoismo edonista senza limiti, e senza nessun pericolo per il sistema. Sono rimasti coerenti con quello che erano. Nel rappresentare il Maggio 68, i media si abbuffano compiaciuti di queste loro prestazioni che permettono di nascondere la realtà di classe del ’68. Amano dimostrare che l’arma è definitivamente spuntata. La prova? I loro eroi di cartapesta che s se ne prendono gioco. Goupil non sostiene più i militanti, Cohn Bendit ci sputa sopra…
Ciò che ci deve interessare è proprio guardare come i vincitori di questa storia ne abbiano approfittato per far credere che si possa “trasformare il sistema dall’interno”. “Dopotutto”, dicono, “se ne possono tirar fuori dei vantaggi. Non vale la pena di brutalizzare tutto”. Come negarlo? Ma significa inghiottire con ogni boccone il conto di tutto il pasto. Si è demonizzato il socialismo e si è accostato Stalin a Robespierre. La propaganda si è accanita a squalificare sia l’intervento popolare sia la sua storia nella Rivoluzione. 
In Francia, dove si colloca il suo modello iniziale, i pennivendoli del sistema hanno compiuto un lavoro notevole, con François Furet per esempio.  Questo si traduce metodicamente in operazione d’apparato come l’Obs e gli altri organi di questo tipo. Hanno diffuso questo screditamento della rivoluzione nelle classi medie sapendo che esse fanno l’opinione e determinano lo stile di vita sul quale cercano di plasmarsi la classe operaia e i capi squadra, cioè quelli un po’ più in alto. Cosi, le generazioni del fallimento del ’68 e del programma comune sono state impregnate a piene mani da questo registro.
È quindi normale che gli anziani si identifichino meno nel mio discorso. C’è il peso dell’età, si diventa più conservatori invecchiando. Ci si accorge della vanità dell’esistenza che ci agitava quando eravamo più giovani. Gli anziani si dicono che il cambiamento che noi proponiamo non è possibile, che è troppo complicato. Chiedete a qualsiasi giovane che viene da una facoltà di ingegneria, saprà benissimo che è facile chiudere le centrali nucleari e sostituirle con le energie rinnovabili. Ci vorrebbero 4,5,10 anni. 4,5,10 anni, quando ne si hanno 70, sono molti. Ci si domanda se ne frattempo ci sarà l’elettricità. Mi viene chiesto “Signor Mèlenchon, non vorrete abbandonare il nucleare premendo un tasto?”. Tra gli anziani, una gran parte trova la sfida politica troppo alta. Ma ciò è rassicurante, perché la sfida rivoluzionaria non deriva mai da un atto ideologico, ma da una necessità conseguente alle circostanze. Questa è la nostra forza.
Le rivoluzioni non sono mai dei puri percorsi ideologici. Sono sempre i risultati di principi di auto-organizzazione all’opera in una certa situazione. Furet diceva che la rivoluzione sarebbe deragliata per via di alcune ideologie esagerate. Studiando la corrispondenza degli eletti degli stati generali, Timothy Tackett ha dimostrato che i rivoluzionari non erano dei cani rabbiosi, ma dei notabili motivati e perplessi. Affrontano delle situazioni che li sovrastano e portano delle risposte rivoluzionarie perché non sanno cos’altro fare. Le loro rispose sono soltanto quelle che sembrano loro adatte alle circostanze. La sola cosa che è ideologicamente costante attraverso i banchi dell’assemblea, è l’anticlericalismo. Ma Timothy Tackett ha mostrato come le persone che hanno semplicemente risposto alle circostanze che si susseguivano abbiano distrutto a poco a poco il vecchio ordine.
Il nuovo ordine che si distacca da questo crollo non si poggia su un’ideologia ma sulla necessità di rispondere alla situazione quotidiana. Per esempio, la risposta popolare alla Grande Paura del 1789 fu la creazione di milizie per proteggersi dai briganti. Il problema è che non c’era traccia dei briganti e, una volta che la guardia nazionale era stata creata, i miliziani non restituirono le armi e si diedero nuovi obbiettivi. I processi rivoluzionari partono sempre da delle preoccupazioni che rispondono a delle circostanze insormontabili se non con dei metodi rivoluzionari. Questo è il caso della rivoluzione del 1917: era impossibile cambiare il corso degli eventi finché non si fosse fermata la guerra. È per questo che i governi successivi sono crollati. Dopo, è diventata un’altra storia: la guerra civile ha sfigurato la rivoluzione del 1917 cosi come la guerra contro l’Europa ha sfigurato la rivoluzione del 1789 e ha portato alla vittoria di Bonaparte piuttosto che a quella di Robespierre.
Torniamo al punto di partenza, alla domanda sulle generazioni e al fatto che si debba andare incontro agli anziani. Io penso che piuttosto siano loro che ci verranno a cercare da soli. Dopotutto, sta già avvenendo. Guardate le opinioni positive nei sondaggi: per la prima volta, superiamo LREM ( La Republique en Marche) tra i pensionati, nell’ultime valutazioni. Siamo secondi in tutte le categorie, tranne per una in cui ci passano davanti- i liberi professionisti- e una in cui li sorpassiamo, proprio i pensionati.
Uno dei problemi ricorrenti delle forze che vogliono cambiare radicalmente la società è la paura del “salto nel vuoto” da parte di una fetta considerevole degli elettori. Come pensate di fronteggiare questa mancanza di credibilità, reale o fittizia? Come fare si che i francesi non trovino difficile immaginare un governo non sottomesso, e come passare dalla fase contestativa, quella del degagismo, a quella costruttiva.
Ne parlo proprio in un post recente del blog nel quale commento l’attualità, riguardo le fasi note del movimento rivoluzionario populista, la fase contestativa e la fase costruttiva sono legate da un comune movimento. Si rifiuta appropriandosi di altro e viceversa. Non bisogna mai dimenticare il contesto. Siamo in una fase di frattura della società.
Noi offriamo un punto di unione, La France Insoumise è il movimento della rivoluzione cittadina, vale a dire la riappropriazione di tutto ciò che costituisce la vita in comune. Ingloba delle categorie che non sono sempre delle dinamiche convergenti, a volte addirittura contraddittorie. La federazione di categorie sociali, di età e di luoghi si fa a partire dalle loro rispettive domande. C’è bisogno di una coincidenza di lotta prima di avere una convergenza di queste. Tutti hanno la loro logica. Parlavamo degli anziani: l’aumento della CSG ( Contribution Social Gerenalisèe) li avvicina ad altre categorie. Niente a che vedere con il fascino della mia figura. Il programma da un lato e la capacità del gruppo parlamentare di metterlo in atto dall’altro, ecco dei punti di riferimento solido per un’opinione che osserva e cerca.
Quindi, cosa rassicurerà? La percezione della nostra determinazione. Perché le persone dovrebbero essere attirate da Macron, che semina un disordine indescrivibile in tutto il paese e che racconta cose insopportabili sulla laicità? Noi de La France Insoumise, noi sappiamo dove andiamo. Noi difendiamo l’idea che ci sia un interesse generale e che la legge debba essere più forte del contratto. Ci sono persone che vengono rassicurate da questo, a condizione del fatto che si allontanino dagli altri. Ciò non avviene per conto suo. Non intendo diventare più rassicurante per riunire consenso attorno a me. Se lo facessi, rinuncerei al cemento che unisce la nostra base, dall’ala più radicale a quella più moderata.
Mi accusano di essere divisivo? Il mio risultato non sarebbe piuttosto la conseguenza? Bisogna abbandonare l’illusione della comunicazione. Avere uno slogan efficace ed un buon messaggio non riconcilierà tutti. Per riconciliare tutti, si dovrebbero abbassare i toni? Io non lo farò. Conto soprattutto sulla necessità della presa di coscienza di dover saltare l’ostacolo della routine e della rassegnazione. Se diventassi meno diretto, uscirei dalla strategia della conflittualità che è la sola capace di produrre coscienza, azione, fiducia e unione. La costruzione di un popolo rivoluzionario non è un pranzo di gala
Mitterand si è dovuto confrontare con lo stesso tipo di problemi per accedere al potere nel 1981
Il 1981 non è stata una rivoluzione. La società non si è strappata, e Francois Mitterand stesso non era un rivoluzionario. Tutti i membri del programma comune pensavano di cambiare le cose dall’alto. “La forza tranquilla”, era uno slogan della fine della campagna elettorale. Ora si mitizza l’argomento. Chi avrebbe vinto con questo slogan? Riflettete! Non ha alcun senso. Si è vinto grazie a trent’anni di accumulo politico. Il programma comune è partito dalla bocca di Waldeck Rochet nel 1956. Ci è voluta un’enormità di tempo per arrivare a costruire una base dove socialisti e comunisti si riconciliassero e a coinvolgere il resto della società. E ci sarebbe voluto lo sciopero generale del Maggio 68 per scuotere la coscienza popolare abbastanza in profondità.
Non si vince con gli slogan senza appiglio. Gli slogan devono corrispondere a delle situazioni. La situazione in cui mi trovo oggi, è la necessità di costruire una maggioranza. Per arrivare a questo, deve trovare le sue radici sociali a favore di una scelta. Quando il termometro politico sale, l’informazione circola molto velocemente e le coscienze possono fare delle scelte positive o negative. Ci sono persone che votano per me perché non sanno chi altro votare, ci sono quelli che mi votano perché trovano sensato quello che dico e perché il programma gli sembra efficace, e poi ci sono quelli che votano per me dicendosi che votare per altri non condurrà a nulla. Per loro, è quindi un voto utile.
Noi abbiamo costruito una situazione elettorale, all’interno della quale stiamo costruendo, tramite il programma, una base sociale di massa per il cambiamento di fondo che portiamo avanti. Nel 2012 avevamo avuto 4 milioni di voti; nel giugno 2016, avevo detto “ciascuno convinca qualcun altro, se arriviamo a 8 milioni di voti abbiamo vinto”. Alla fine, ne abbiamo raggiunti 7, e non abbiamo vinto. E tuttavia abbiamo guadagnato 3 milioni di elettori! Poi alle legislative, come nel 2012, ne abbiamo ripersi la metà. Ma la metà di 4 milioni non è la metà di 7 milioni. Stavolta, siamo riusciti ad ottenere un gruppo parlamentare. Questo ha permesso di superare una nuova soglia. Abbiamo sostituito un’immagine collettiva, quella del gruppo, all’immagine individuale del candidato. E da adesso in poi copriamo ed influenziamo numerosi settori della società. Ecco i risultati formidabili della nostra azione e della nostra lotta. La base di partenza si è incredibilmente allargata.
Ora il paese è in fermento sociale ed ideologico. Meglio! Perché all’interno di tutto ciò, per la prima volta, migliaia di giovani si costruiscono una coscienza politica. Possiamo vedere per la prima volta da molto tempo dei movimenti universitari, cosi come nei licei. Ci sono anche migliaia e migliaia di operai che si smuovono per scioperare e sono i settori più diseredati della classe operaia che resistono più a lungo. Per esempio, da Onet, per mesi, o le persone che puliscono i treni e le automobili, le donne delle pulizie degli alberghi, hanno resistito tre mesi di sciopero senza stipendio
Si sente quindi che nel profondo del paese c’è una sorta di eruzione. Non dico che sia ancora abbastanza, ma ricordate che il nostro obbiettivo è di costruire un popolo rivoluzionario, non una minoranza d’avanguardia rivoluzionaria che prenda il potere di sorpresa. Non ha mai funzionato e i nostri sono tutti morti all’uscita. Non è così che bisogna fare. Costruire un popolo rivoluzionario, vuol dire contare solo sulla capacità di organizzarsi e avanzare per costituire una maggioranza politica.
In questo momento, la scuola di lotta funziona a pieno ritmo: se il potere macronista fa un errore di troppo, il movimento accelera. Non posso dirvi adesso in che senso andrà, così come non posso dirvi adesso che cosa succederà il 5 maggio. Sarà un raggruppamento di protesta? O sarà il momento che vedrà convergere una rabbia terribile del paese? Io spero che sia l’ultima tappa prima della formazione di un’unione di lotte che venga alla chiamata comune di sindacati e movimenti politici. Questa è una strategia, ovvero un insieme di tattiche di combattimento al servizio di un obbiettivo.
Non stiamo recitando un catechismo al quale dovrebbero conformarsi le masse. Noi illuminiamo, a volte scateniamo, ma sempre come loro servitori. La lotta non è un oggetto di separazione interna al popolo, è il contrario. Per questo ho chiesto di voltare pagina riguardo le tensioni di settembre con la CGT ( Confederation generale du travail), per imparare la lezione dagli episodi precedenti. Ci appoggiamo su una lotta di massa, e affinché possa allargarsi, bisogna trovare un respiro proprio ad essa, e non cercarlo all’esterno.
Questo significa, tra le altre cose, che la chiave tattica del comando politico è di regolare le due questioni che ci hanno bloccato l’ultima volta, a settembre: la divisione sindacale e la separazione tra sindacale e politico. Quando dico sindacale parlo dell’articolazione del movimento sociale, visto che esso non esiste allo stato puro. Esiste attraverso le mediazioni, che sia la lotta Onet, quella delle donne delle pulizie o dei ferrovieri, il sindacato ne sarà il mezzo. Tutte queste lotte transitano per la forma di un’organizzazione sindacale per strutturarsi. Questo può anche creare tensioni all’interno, quando la massa ha l’impressione che le indicazioni sindacali non corrispondano alle sue aspettative.
La lotta dei ferrovieri della SNCF (Société Nationale des Chemins de fer Français) sembra essere più popolare del previsto, compreso, abbastanza sorprendentemente, tra i francesi di destra. Come se si lottasse contro il fatto di “disfare la Francia e il suo Stato”. Che sguardo avete sulla mobilizzazione? Che ruolo dovreste avere all’interno di essa?
Per noi, non si tratta di creare una barriera destra-sinistra all’interno della lotta. Non ha senso, perché ci sono delle persone che votano a destra e sono per la SNCF o per il servizio pubblico. D’altra parte, la destra nel nostro paese non è sempre stata liberale. C’è tutta una parte della destra che si aggrappa ad altre idee e che sente le nostre ragioni. Cosa che certi nostri amici di «sinistra » non sempre comprendono o non hanno voglia di comprendere.
Quindi, quale sarà la nostra linea? Unire il popolo. Non ci allontaniamo da questa rotta. Ma la messa in atto varia a seconda dei momenti e dei contesti di conflittualità. Per cosa passa oggi? Potrebbe essere un fattore scatenante che la infiamma in un movimento di entusiasmo, di insurrezione. In altri momenti si passa per delle combinazioni più organizzate. Per questi motivi, oggi il mio modello è Marsiglia. Perché Marsiglia? Perché c’è una cabina di comando unificata dove la CGT prende l’iniziativa di unificare tutti, dove CGT, FSU Solidaire, UNEF e sindacati liceali e partiti politici si ritrovano intorno allo stesso tavolo per fare un corteo provinciale. Ma non c’è né parola d’ordine né statuto. Ciascuno sa perché viene e lo dice alla sua maniera. La si può davvero vedere cosa sia un processo di unificazione.
Dopo la distruzione dello scenario politico tradizionale alle presidenziali, c’è stato un momento dove i partiti di sinistra, e altre sigle di tutti i tipi, lanciavano un appello dopo essersi scannati per tre ore per tre parole in una stanza chiusa, e riunivano meno persone in strada di quanti avessero firmato l’appello. Ovviamente è una caricatura, ma tutti sanno di cosa io stia parlando. Bisogna finirla con tutto questo, siamo entrati in un’altra epoca. Un’ epoca più libera per innovare nelle procedure. La formula di unione marsigliese è forse la formula dell’unione popolare finalmente trovata. Perché è senza precedenti. La tattica e la strategia politica regolano problemi concreti.
Ma c’è anche un fattore che nessuno prevede e mai potrà: l’iniziativa popolare. Può sommergere tutto, il mondo intero, e questo è il mio desiderio più profondo. Perché quando l’iniziativa popolare sommerge le strutture, non ha tempo da perdere. Va dritta allo scopo e colpisce là dove si trova il nodo delle contraddizioni.
Intervista a cura di Lenny Benbara
Pubblicata su “Le vent se lève” il 30 aprile 2018.
Traduzione in italiano di Daniele Morritti, Elena Schiatti e Federico Moretti

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