lunedì 26 ottobre 2015

La fine del kirchnerismo e del ciclo progressista in America latina?

dal blog di Gennaro Carotenuto


È tempo di provare un’analisi che vada oltre il mero risultato del primo turno presidenziale argentino ma che da questo parta. È finito, anche se vincesse Daniel Scioli, il ciclo kirchnerista che ha ricostruito il paese dopo il default del 2001, e da tempo, in particolare con le difficoltà brasiliane e venezuelane degli eredi di Lula e Chávez, sembra giunto alla fine il ciclo storico progressista e integrazionista dell’America latina post-neoliberale. Partiamo brevemente dall’oggi, dalla foto di famiglia con il borghese Scioli in cravatta e il suo candidato proletario alla vicepresidenza Zannini, per allargare il discorso.
Dunque per la prima volta nella storia argentina ci sarà un ballottaggio. Questo partirà da un pareggio tecnico tra il candidato appoggiato dalla maggioranza, Daniel Scioli e quello della destra neoliberale Mauricio Macri (accentato sulla ‘a’, non sulla ‘i’, Màcri). I sondaggi, ai quali per una volta sarebbe ingiusto dare tutte le colpe, erano tutti appiattiti sul voto nelle primarie obbligatorie di agosto, quando il 38% degli elettori scelse di partecipare a quelle del Frente para la Victoria, che aveva il solo Scioli come candidato, e il 31% appoggiò la coalizione di destra. In due mesi, non rilevati dalla demoscopia, una scienza sempre meno esatta, se mai lo è stata, il FpV non ha guadagnato quel paio di punti che avrebbero permesso la vittoria al primo turno e Macri ha sfondato quel bacino del 30% nel quale le destre erano relegate anche quando governavano col menemismo (voti peronisti per il neoliberismo). Non è interessante qui vaticinare cosa accadrà tra quattro settimane, e quanto eventualmente sarà profonda una restaurazione neoliberale. L’impeto -un fattore importante in questi casi- però sembra spostato tutto su Macri. Il centrista Scioli, nelle analisi pro-K a lui favorevoli nella notte, ha visto ricomparire magicamente aggettivazioni come “grigio” e “scialbo”, dalle quali era per un po’ stato graziato. In questo la scelta di un candidato esterno al mondo della sinistra da parte di Cristina Fernández potrebbe passare alla storia non tanto come un errore o frutto della mancanza di alternative interne, ma come provvidenziale per eludere un confronto interno al quale potrebbe non necessariamente esserci risposta plausibile. Così Scioli, il liberale, il ricco, il grigio, l’ex-menemista, potrebbe rivelarsi il perfetto capro espiatorio per evitare che la sinistra tragga lezione non solo da tutto il positivo realizzato in dodici anni di kirchnerismo, ma anche dai limiti e dagli errori di un progetto politico che, non solo in Argentina, sembra essere giunto alla fine di un ciclo vitale.
Provando ad abbozzare un bilancio storico complessivo del kirchnerismo è sicuro che Cristina Fernández de Kirchner lascerà la Casa Rosada in dicembre avendo compiuto l’obbiettivo del consolidamento del sistema democratico in Argentina. Tale postulato non vuol dire semplicemente che nell’Argentina del XXI secolo si vota invece di tramare golpe civico-militari ma anche che, al contrario di quanto accaduto nell’epoca neoliberale che succedette alle dittature, la democrazia non può pensare di escludere tout-court le masse popolari. Non è affatto poco e anche con una eventuale presidenza Macri il menemismo duro e puro, la semplice dissoluzione dello Stato, non tornerà. Questo è il secondo punto straordinariamente rilevante.
Tutta la storia politica argentina dal 1955 al 2003, tanto attraverso governi civico-militari che civili, ha visto la continua riduzione, quasi sempre con le cattive, del ruolo dello Stato. Nonostante gli slogan dei cantori del modello neoliberale, a più debolezza dello Stato non solo è corrisposta più povertà e diseguaglianza ma anche più corruzione, dissesto, violenza, poteri criminali, ingestibilità dei conflitti sociali se non con la repressione, indifferenza per l’ambiente. Il kirchnerismo, lontano dall’essere il mondo dei sogni, ha segnato su questo piano un punto di svolta. La ricostituzione della sovranità nazionale, dissolta nell’epoca del “Washington Consensus” e delle relazioni carnali che Menem dichiarava di intrattenere con la Casa Bianca, si è concretizzata in processi di redistribuzione in favore delle classi meno abbienti. L’idea di bene pubblico e comune, e quella dello stato sociale come base per la convivenza democratica, è tornata a far parte del discorso pubblico e provvedimenti come l’assegnazione universale per figlio sono un passo concreto nella restituzione del diritto alla cittadinanza alle classi popolari. I risultati, lungi dall’essere irreversibili, sono stati solidi e incisivi, con una riduzione importante della povertà e marcati successi, ma non assoluti in particolare nel Nord, in termini di riduzione dell’indigenza e della scandalosa denutrizione. Il tutto ottenuto, ed è un limite, con una politica agraria rimasta nelle disponibilità dell’agroindustria esportatrice.
In politica estera l’Argentina ha rappresentato, con la potenza regionale Brasile, l’irruenza del Venezuela e il soft power cubano, la ripresa di un’idea di integrazione nella quale l’interesse geopolitico comune latinoamericano è emerso probabilmente in maniera strutturale e il concerto latinoamericano ha saputo risolvere quasi tutte le crisi interne nella regione, escludendo o marginalizzando gli USA, come testimonia l’epocale processo di pace colombiano in corso non a caso all’Avana. Su questo piano una presidenza Macri potrebbe fare molto danno, ma anche qui è improbabile la cancellazione di 15 anni nei quali Néstor Kirchner fu la testa pensante, anche oltre i grandi meriti di Lula e Chávez. La maniera con la quale l’Argentina è uscita dal default e a ricostituito la solvibilità delle finanze pubbliche, è stata inoltre un modello e una speranza per i paesi che avevano vissuto la seconda metà del XX secolo sotto il costante ricatto del debito e dell’FMI. La politica regionale e la collaborazione con Cina e Russia, queste ultime demonizzate da Macri, hanno permesso la riduzione del ruolo degli USA nel paese e nella Regione che, oltre la guerra fredda, era rimasto abnorme nel ventennio finale del secolo scorso. Se i futuri presidenti di un grande paese come l’Argentina potranno andare alla Casa Bianca o presso organismi internazionali come l’FMI a ristabilire relazioni meno succubi (ci si augura), lo dovranno al kirchnerismo.
A tutto ciò si aggiunga una politica sui diritti umani e per il ristabilimento di verità e giustizia per le violazioni della dittatura: un modello del quale l’Argentina può andare orgogliosa e sulla quale ho scritto parte di un libro e che ha permesso anche una svolta culturale in un paese che sembrava succube di un’impunità devastante. Sul piano dei diritti civili, il matrimonio egualitario (per citare solo un aspetto) testimonia un’opera costante di civilizzazione dei rapporti sociali, lotta al sessismo, attenzione alle questioni di genere, nella quale l’Argentina appare essere un modello per il mondo, un altro mondo per paesi infinitamente più arretrati come l’Italia. E’ stato una sorta di laboratorio al quale Jorge Bergoglio si è prima opposto per poi, una volta papa, stabilire delle relazioni rispettose. Meno bene, ma infinitamente meglio del disastro brasiliano si è fatto nel sistema educativo. A oggi in America latina sembra più facile investire in università e ricerca (il Conicet, il CNR argentino, ha accolto tanti italiani formati ed espulsi dal nostro sistema universitario) che rivoluzionare quello scolastico. Si è contrastata l’evasione scolastica, ma i figli delle periferie hanno tuttora bisogno di migliori scuole pubbliche (quelle che Menem semplicemente chiudeva). Sul piano politico i governi K., che dopo il default hanno a lungo vissuto in condizioni di semi-embargo, si sono scontrati con coraggio con monopoli come quelli dei media e dei settori agrari più poderosi, che tanto hanno segnato in negativo la storia del paese e della Regione. Ai primi si chiedeva democratizzazione, ai secondi una miglior contribuzione fiscale rispetto alle straordinarie rendite generate in particolare dalla grande bonanza del prezzo della soia, sulla quale l’agroindustria ha costruito enormi fortune. I risultati sono contrastanti sui media e si sono risolti in una sconfitta dura rispetto alle politiche di equità fiscale. La difficoltà della sfida sostenuta impone rispetto per il governo che ha riportato nei dizionari il verbo “nazionalizzare” e recuperato alla vita pubblica la petrolifera YPF, le poste, la compagnia aerea di bandiera, l’acqua potabile, tutti privatizzati durante il menemismo.
Fin qui arrivano gli aspetti positivi. Quelli negativi sono più complessi da trattare perfino in un contesto quale quello europeo che tende a non vedere i primi e sperare di liberarsi di governi visti con fastidio come “la sinistra giurassica” o con nostalgia come “la sinistra vera di una volta”. Come in Brasile, tutto il processo si è basato in una sostanziale lungo surplace con i grandi capitali con i quali il conflitto è sempre stato al massimo verbale. Questi non solo non hanno però perso nulla in questi anni, ma hanno continuato a guadagnare più di prima. Tale appeseament, forse inevitabile se si considera il modello politico-economico di partenza, si riflette nel punto chiave del consumo come valore sostitutivo alla cittadinanza, del quale dirò dopo. È un appeasement che va però declinato anche nello stallo della difesa dell’ambiente, che continua a essere sotto attacco di agroindustria e industria estrattiva, dove il governo è riuscito a fare ben poco. Come anche nell’Orinoco chavista o nell’Ecuador dell’iniziativa Yasuní, sembra che non ci sia alternativa al finanziare lo sviluppo sociale se non a spese dell’ambiente e dello sfruttamento intensivo delle risorse naturali. Non scrivo questo né per fondamentalismo ambientalista, o indigenismo fuori epoca o nostalgie arcaiche; l’America latina ha bisogno estremo di infrastrutture e di trovare un compromesso con la madre Terra per l’uso delle risorse naturali per il benessere dei viventi, ma non può lasciare che il territorio sia disponibile ai metodi usati durante tutto il XX secolo dal modello delle multinazionali, usurpazione del suolo, deportazione dei contadini, agrotossici come piovesse, miniere velenose a cielo aperto, violazioni sistematiche dei diritti sindacali e umani. Non è un caso che anche in Argentina i principali movimenti e conflitti sociali degli ultimi anni siano tutti generati intorno alla difesa dell’ambiente e alla difesa della terra. È come se, in assenza di un modello economico alternativo al capitalismo (e il socialismo non ha mai rappresentato una discontinuità su questo piano), la risposta alla distruzione del pianeta e della convivenza civile voluta dal modello neoliberale, imposto nelle camere di tortura delle dittature, e mantenuto con la narcolessi culturale delle tivù commerciali in democrazia, sia stato semplicemente un ritorno allo “sviluppismo” post-bellico ma in condizioni ben peggiori.
Non si cerca più di usare le rendite agrarie per finanziare il sol dell’avvenire di uno sviluppo industriale ormai utopico in un continente a medio reddito, ma solo per sostenere programmi sociali che riducano le ingiustizie e le disuguaglianze in assenza di un’alternativa sistemica che le superi definitivamente. La tentazione, il non detto, lo strumento di potere, è usare programmi sociali indispensabili, semplicemente giusti, per alimentare un consenso clientelare. Se l’alternativa delle destre non è più buttare il bambino con l’acqua sporca ma un uso solo clientelare degli stessi, l’alternativa della sinistra qual è?
PIÙ CONSUMATORI CHE CITTADINI
Ampliando il discorso e facendo del kirchnerismo un simbolo di un’epoca, esattamente il 5 novembre del 2005 il concerto latinoamericano sconfisse l’ALCA di George Bush, il Trattato di libero commercio delle Americhe, proprio qui a Mar del Plata. Questo era un progetto neocoloniale duro e puro anche se l’espressione stride a molti in Europa. Voleva utilizzare l’America latina come infinita maquiladora per permettere agli USA di vincere la competizione globale con la Cina. Quel giorno segnò forse il punto più alto della coscienza critica nel Continente e quindi dell’integrazione di questo. Vada come vada il 22 novembre, dei grandi leader di quel giorno il solo Evo Morales resta saldamente in sella. E resta in sella perché nel suo impegno l’aspetto del pensare un progetto integratore più ampio della società è predominante. Il welfare non basta, ma qual è l’alternativa? In qualche modo la Bolivia è tra i pochi a potersi permettere di non pensare se stessa solo come –per stare a Marcello Carmagnani- “altro Occidente”. Per quell’ibrido culturale che è l’America latina urbana, non vi è alternativa all’esserne vagone di coda a partire dal modello di sviluppo, consumi, desideri. Nessuno ha però il diritto di criticare un occidentale latinoamericano per il desiderare consumi garantiti ad altri occidentali. L’esigenza che nessuno governo –neanche Cuba- ha mai potuto eludere di sostenere la crescita economica, con la quale si pagano programmi sociali per loro natura di lungo periodo, comporta anche che gli accordi commerciali sbattuti fuori dalla porta con l’ALCA, tendano a rientrare dalla finestra. Come altrove e come Allende non fece in tempo a vedere, per la sinistra vi è inoltre il limite del riferirsi a classi popolari definitivamente oltre la fine della storia del lavoro di massa, i partiti e i sindacati. Quando Chávez evocò il fantasma del socialismo (un colpo d’ali nell’indicare la necessità di ribaltare il tavolo, più che uno strumento di propaganda, o una rottura sistemica col capitalismo) o la stessa evocazione continua del “nazionale e popolare” cristinista, si è palesato uno iato che è di comprensione dell’esistente, della sfuggevolezza dei soggetti politici ai quali si fa riferimento, della mera realizzabilità. Non è un caso che la forza dei movimenti di questi anni sia sempre stata nella puntualità dell’agenda, nella lotta contro quella singola miniera, mai nell’escatologia della costruzione di nuove società per soggettività popolari ormai sfuggenti.
Non sottovaluterei inoltre la mera questione della leadership, come testimonia il ripiegare su Scioli del kirchnerismo. Se la Storia degli ultimi due secoli è stata almeno in parte scritta dal basso in un processo non certo lineare di democratizzazione, i leader, in particolare all’interno di sistemi democratici e repubbliche parlamentari, non vengono portati dalla cicogna ogni quattro anni. La morte precocissima di Néstor Kirchner e Hugo Chávez, la sostituzione di un patrimonio di popolarità come Lula, l’epifania della cometa di Pepe Mujíca o, in un contesto diverso di Fidel Castro e perfino di un personaggio discutibile come Daniel Ortega, l’impedimento golpista a un López Obrador di governare il Messico, sono colpi non facilmente ovviabili per l’intero movimento popolare e sociale latinoamericano.
L’incontro col Secolo di una teologia politica liberatrice, parte del discorso politico di una sinistra tradizionale, popolare e nazionalista nella declinazione latinoamericana del termine, ossia quella che ha governato negli ultimi anni, si incontra oggi di fronte alla pervicacità del modello, alla persistenza dell’attribuzione di valore da parte di questo e alla fine programmatica degli obbiettivi che si era data all’interno del sistema democratico. La difesa di quest’ultimo ha sempre rappresentato una priorità di fronte a rumori di sciabole e golpe economici. Accettato di competere all’interno di un modello liberal-democratico (non vi era alcuna alternativa), adesso si fanno i conti con l’alternanza, anche se quest’ultima vuol dire disfare una tela di Penelope così faticosamente tessuta. Non è solo il Venezuela a subire da 17 anni una guerra di logoramento non sempre fredda. Non c’è un grande vecchio, non ci sono gli USA cattivi da demonizzare in un hashtag #handoffqualcosa, ma un contesto di interessi tradizionali e modernissimi che confliggono con un campo popolare culturalmente non dominante, ma anzi tuttora subalterno. Strutturalmente subalterno, forse. Perciò all’interno di una modernità e di un modello economico che non è mai stato un’alternativa sistemica al capitalismo, si sono sempre cercate crescenti e di per sé titaniche guerre di logoramento, punti di scontro, modelli di cooptazione nei quali probabilmente le regole del gioco le ha sempre dettate il nemico.
Di tutto ciò la persistenza della corruzione è il sintomo più simbolico e stigmatizzato, anche se è una balla colossale della guerra mediatica contro i governi integrazionisti sostenere che la corruzione possa essere aumentata rispetto alla fine del secolo scorso. È però una ferita aperta il perché questa riesca a cooptare anche forze apparentemente fresche, di militanza che appare sana e una volta entrata in giri di sottogoverno si uniformi quasi sistematicamente. È dai tempi della “piñata nicaraguense”, quando i leader sandinisti lasciarono il potere, spartendosi beni pubblici per veri o presunti meriti rivoluzionari, che anche in America latina la questione morale, non è più prerogativa di una parte politica, la sinistra, ma al massimo di singoli. I modelli di cooptazione per famiglie politiche, in un sistema sociale che resta basato sulla produzione di ricchezza, sul possesso di questa e sull’ostentazione del consumo, e nella quale i segni di potere e riconoscibilità sociale non si discostano da quelli degli avversari politici, non possono che produrre corruzione. È ingenuo pensare che quello che è stigmatizzato nei partiti socialdemocratici europei non debba trovare corrispondenza negli omologhi latinoamericani, nel carrierismo fine a se stesso e nella corruzione. Ma qui c’è il divorzio o, forse una nuova forma di unione civile tra classe politica e governati. È ingenuo pensare che, soprattutto nelle nostre megalopoli sofferenti, nei ranchitos di Caracas, nelle villa miseria del Gran Buenos Aires, nelle favelas di Río, quella che nel XXI secolo è la principale aspettativa delle masse popolari, forse salute ma non democrazia, non educazione, non cultura, ma consumi subito, qui e ora, possa trovare dirigenti politici talmente lungimiranti da contrastare la volontà dei loro stessi elettori e delle reti di potere che li hanno selezionati. Oltretutto privandosi delle parafernalia riconosciute del potere, quello del benessere materiale. Pepe Mujica il pauperista, era il cappellaio matto, non la nuova politica. Lula non ha dato salute ed educazione e forse neanche pane, ma ha dato il companatico; accesso ai consumi come succedaneo della cittadinanza testimoniato ovunque dalla crescita della classe media che agisce, pensa e desidera in quanto tale. E meno male, per certi versi. A partire dal Brasile è successo in tutto il Continente. Dopo decenni di critica del PIL come parametro unico della felicità e della ricchezza delle nazioni, l’esigenza di non scontrarsi con una controparte che, ricordando Pietro Nenni, non è mai uscita dalla stanza dei bottoni, ha portato a misurare la felicità in termini di crescita dei consumi interni: i grandi interessi economici hanno continuato ad arricchirsi, le classi popolari, disinteressatesi all’assalto al cielo, hanno smobilitato contentandosi dello strapuntino offerto in una società dei consumi dalle quali erano fino a ieri state escluse. Non è poco, e nessuno ha diritto di biasimarle, e forse il progresso non è leggere tutti insieme Dostoevskij (come pensavano nel Cile popolare). Forse il progresso è possedere tutti un iPhone, ma è triste pensare che dopo i migliori anni della vita del Continente, l’America latina non riesca più a volare.

Come insegnare a non credere alle bufale

Il trucco è trasmettere lo scetticismo scientifico e i docenti universitari dovrebbero spiegare le pseudoscienze intorno a noi



da Wired

Come insegnare il metodo scientifico e, più in generale, a pensare in modo critico? Oggi che le bufale affollano tanto i vecchi che i nuovi media (ammesso che abbia ancora un barlume di senso la distinzione), forse limitarsi al contenuto degli attuali libri di testo e sciorinare in scuole e università lezioni su Galileo Galilei non è sufficiente. Secondo uno studio del 2012 condotto presso l’università dell’Arizona, gli studenti che negli ultimi vent’anni si sono iscritti a facoltà non scientifiche dimostravano sì una discreta alfabetizzazione scientifica, ma questo non impediva a molti di loro di credere in dischi volanti, astrologia e parapsicologia. Questa forma mentis inoltre cambiava pochissimo col procedere degli studi: in altre parole l’irrazionalità dimostra di resistere benissimo all’educazione formale.
E se i docenti universitari invece cominciassero a sfruttare proprio le bufale, e in particolare le pseudoscienze, per far germinare nei loro studenti lo scetticismo scientifico, impareggiabile strumento per distinguere i fatti dalla fantasia? Ne sono convinti gli psicologi Rodney Schmaltz (MacEwan University, Canada) e Scott O. Lilienfeld (Emory University, Usa) che sulla rivista Frontiers in Psychology argomentano questa tesi e forniscono qualche esempio di applicazione.
L’obiettivo non è dire agli studenti che, ad esempio, una certa affermazione è sicuramente pseudoscientifica, ma fare in modo che lo possano scoprire da soli testandola empiricamente e scovando le falle nel ragionamento che la supporta. Se infatti distinguere formalmente tra scienza e pseudoscienza è pane per i filosofi, i principali tratti diagnostici sono facilmente riconoscibili nella pratica, con un po’ di esercizio.
Favole quantistiche
Prendiamo uno dei molteplici casi dove la meccanica quantistica viene citata, a sproposito, come giustificazione di affermazioni pseudoscientifiche: The Secret. Nel libro di Rhonda Byrne del 2006 tratto dall’omonimo film, si spiega che esistono leggi universali per le quali (riassumendo) se davvero credi fortemente a un obiettivo da raggiungere alla fine lo raggiungerai, basta essere positivi e avere fiducia nelle proprietà del Cosmo. All’interno del volume si possono leggere perle come questa:

“Le nostre emozioni sono un meccanismo di feedback che ci dice se siamo in carreggiata o no, se siamo sulla strada giusta o no. Ricorda che i tuoi pensieri sono la causa prima di ogni cosa. Così, ogni volta che fai un pensiero intenso e prolungato, lo mandi immediatamente nell’Universo. Quel pensiero si unisce magneticamente alla frequenza simile e nel giro di qualche secondo ti restituisce la lettura di quella frequenza attraverso le tue emozioni.”
Queste frasi hanno un senso o siamo di fronte a una insalata di parole che usa a sproposito termini scientifici per far sembrare più profonda e documentata una affermazione per la quale non esistono prove? E di chi sono le tesi illustrate in The Secret? Davvero di rispettabili scienziati o di stelle del marketing con un Ph.D. ottenuto a università on-line? Mostrando in aula questo materiale i professori possono guidare gli studenti indirizzandoli nella strada giusta per trovare da soli la risposta, e magari anche a costruire qualche semplice esperimento che metta alla prova le cosiddette leggi.
Medium & Co
Anche con la parapsicologia si può insegnare il pensiero critico agli universitari. Con un po’ di preparazione, il docente può mostrare un gioco di prestigio come piegare un cucchiaio sfiorandolo (uno dei trucchi è piegarlo ripetutamente avanti e indietro prima dello show) e sfidare gli studenti a trovare ipotesi alternative a quella soprannaturale. Oppure si può chiedere loro di indagare sui sedicenti medium: internet non dimentica e quasi ogni apparizione televisiva dei più famosi contattisti e/o veggenti è disponibile su Youtube. Davvero le previsioni di Sylvia Browne erano così precise? E allora come mai, pur avendo pubblicamente accettato la sfida, non ha mai partecipato alla One Million Dollar Paranormal Challenge del Re degli scettici James Randi?

Ufi
L’ultimo esempio che approfondiscono Schmaltz  e Lilienfeld riguarda gli onnipresenti alieni. Una sera del 1955 i coniugi Taylor erano ospiti della famiglia Sutton nella loro fattoria a Kelly, Kentucky. Le due famiglie, 11 persone in tutto, hanno riferito quella notte alle autorità di essere stati attaccati da terrificanti alieni: alti circa un metro, di colore argentato, dotati di artigli e grandi occhi gialli, sembravano librarsi nell’aria e voler assediare i malcapitati. Prima di gridare all’incontro ravvicinato bisogna però chiedersi se ci sono davvero delle prove della natura extra-terrestre dei visitatori notturni. Non c’è infatti nulla di meno attendibile di un testimone oculare (potete rendervene conto da soli guardando questo video) e bisogna considerare che nei giorni precedenti avevano fatto notizia avvistamenti di dischi volanti che altro non erano che meteore. Ma cosa potrebbero aver visto allora i Sutton e i Taylor? Secondo una indagine del CSI (Committee for Skeptical Inquiry, una associazione analoga al nostro CICAP) le descrizioni degli alieni sono quasi identiche a quella di altri avvistamenti di strane creature (ad esempio il celebre Uomo Falena) che si sono rivelati semplici gufi. In ogni caso, come nelle altre migliaia di avvistamenti di dischi volanti o dei loro presunti occupanti, le prove fisiche scarseggiano: come tendiamo a non credere sulla parola a qualcuno che dice di aver visto uno gnomo armato di ascia  un unicorno, dovremmo mantenere lo stesso scetticismo anche quando si parla di alieni.

Insomma, se adeguatamente custodite le bufale all’interno delle università potrebbero diventare un potente strumento per colmare alcune pericolose lacune di senso critico.

Il futuro di Italia contro Germania

di Tonino D’Orazio

L’eurocentralità del pangermanismo sta isolando l’Italia, centrale e del sud, portandola ad una semplice appendice in mezzo al Mediterraneo. Utilizzando al massimo tutti i cospicui fondi europei previsti fino al 2020 (anche i nostri che non sappiamo spendere) e, ovviamente, una volta la strutturazione assodata, anche e soprattutto oltre questo periodo. Per il futuro.
Vi sono a questo scopo tre enormi progetti-programma che si chiamano macro-regioni, che raggruppano alcune nazioni. Ne sono attivati (già nell’orbita tedesca) quella del Baltico e quella del Danubio, il terzo è quello Adriatica-Ionio (Eusair). In realtà tutti riconducibili ad una massima geopolitica di germano-centralizzazione. Il prossimo progetto riguarderà la macro-regione Alpi, con un convitato di pietra che si chiama la sempre più xenofoba e terrorizzata Svizzera.
Quella che ci interessa in modo particolare riguarda la nostra macro-regione, formata da quattro paesi UE (Italia, Grecia, Slovenia, Croazia) e quattro extra-Ue, (Bosnia, Serbia, Montenegro, Albania) ma prossimi ad essere attirati nell’orbita. A parte noi, si tratta di inglobare in toto i Balcani. Fin qui si capisce l’attitudine europea di continuare ad integrare e in un certo modo a dividere i popoli slavi dal resto dell’est.
Tutte le nuove infrastrutture del programma, al quale “devono” essere finalizzati e raggruppati tutti i fondi europei già disponibili sul territorio, si rivolgono soprattutto ai Balcani. Come per esempio nuove autostrade trans-balcaniche riconducibili (da Grecia o Turchia) a Slovenia-Austria-Germania-Polonia. Compresi ovviamente trasporti, mobilità e nodi di reti di energie. Se si pensa ai gasdotti provenienti dalla Russia, potrebbero non arrivare più in Italia, risalire i Balcani, rimanendo noi sui precari gasdotti libici e futuro energetico.
Allo stato attuale questo enorme corridoio balcanico si fermerebbe, per noi, a Ravenna e non andrebbe oltre, se non con i nostri fondi strutturali italiani d'investimento (sic!), che in un periodo come questo lascia molti dubbi di prospettiva. Diventerebbe un punto di incontro con la dorsale (Portogallo e Spagna sono ancora molto indietro nelle infrastrutture) Barcellona, Marsiglia, Genova (o Alpi e Torino) e nord Italia. Rimane insomma molto attrattivo il porto di Trieste, da sempre punto di snodo di Austria e Germania verso il Mediterraneo tramite l’Adriatico. Interessante tener conto, con il già funzionante raddoppio del Canale di Suez, l’importanza acquisita dal mare Adriatico come autostrada del mare verso il centro e il nord-est europeo. Si tratta di vedere quali porti secondari diventeranno internodo o scalo, tenendo conto che l’Adriatico, costa balcani, ha più “pescaggio” e vi verrebbero sicuramente strutturati nuovi porti più moderni e attrezzati. A meno di farli comperare e attrezzare dai cinesi che hanno capito tutto e forse il Pireo non basta. Le coste italiane hanno fondali più bassi e sono purtroppo più appetibili per le trivellazioni petrolifere.
Si capisce che l’inter-scambio commerciale europeo più conveniente, se non il futuro, per l’Italia sia verso i paesi dell’est, i Balcani, compresa la Turchia, la Russia, se non il medio-oriente, mercati “aperti” e in “progress” se scoppiasse la pace. Il nord Africa è ridotto in una situazione di regresso impressionante, ma "democratico", dai pesanti  interventi militari ed economici degli anglo-sassoni e per anni non ne avremo che flussi di migranti. La macro-regione, comunque, comporta interventi nello Ionio, cioè lo specchio di mare che va da Taranto a Trapani, di fatto, un innesto per il futuro di una seppur lontana macro-nazione del Mediterraneo.
L’importanza dell’est l’hanno capita soprattutto il Piemonte e la Toscana (area tirrenica che attende invano il completamento del 5° corridoio europeo), regioni non confinanti ma diventate molto attive nella programmazione di Adriatico-Ionio.  Anche il Montenegro, (popolazione metà dell’Abruzzo, 680.000 ab.) che con un chiaro aumento del Pil del 4/5 % l’anno, pur utilizzando già l’euro unilateralmente (!) e non avendo ancora aderito alla Nato, fa transitare liberamente dal loro porto principale Antivari, tutte le merci che “clandestinamente” superano l’embargo europeo verso la Russia. Quando si dice che le merci passano dappertutto e gli uomini no e nemmeno di forza! E’ pur sempre la “bellezza” del libero mercato senza regole.
Quest’area, in evidente protagonismo alla quale dobbiamo avvicinarci con progetti finalizzati e di solidarietà, rimane l’ultimo punto forte dell’Italia in Europa e, se glielo permettono, il proprio rilancio e il ricentramento del Mediterraneo e dei popoli rivieraschi.
Purtroppo i paesi balcanici si stanno avvicinando velocemente ai diktat e alla “normalizzazione” voluti dalla troika, pur di “entrare” nel giusto sogno di appartenenza europea, con le privatizzazioni delle ultime imprese pubbliche e dei servizi, ma anche delle micro imprese, abbracciando così, per il futuro, le logiche dell’austerità, in paesi già strutturalmente deboli e facili “prede”. La macro-regione Adriatico-Ionio, tra l’altro gestito dai vari Ministeri Affari Esteri e Commissione Europea censori di eventuali “deviazioni” al progetto, e poco niente dalle regioni che hanno un ruolo in fondo applicativo delle decisioni, pur sempre nell’ipocrisia del protagonismo, servirà anche a razionalizzare e sfruttare, diciamo colonizzare, i nuovi venuti, per cui una presenza politica delle regioni, almeno un po’ critica, che passi da progetti dal basso, può risultare di interesse preminente. Alle politiche di austerità o ci si adegua oppure si cercano comunque soluzioni critiche di partecipazione democratica o di contrasto. La Grecia insegna.
Insomma, se rimane un bene l’integrazione di questi popoli nella comunità europea, fatta salva la stupida idea di dividerli per religione e etnie dal mondo slavo in generale, cioè in funzione anti Russia e con ineluttabile inglobamento e sottomissione Nato,  bisogna chiedere loro, anche con il nostro aiuto, di essere forti e critici nelle loro rivendicazioni di “avvicinamento” e capire meglio, anche per noi, l’importanza di collegamento della loro posizione geopolitica con tutta l’area ad est dei loro paesi e che rappresenta, in fondo anche per loro, una vera opportunità di sviluppo.
Il nostro sicuramente passa, se svincolati dal servilismo alla Germania che ci caratterizza con evidenza da almeno un paio di lustri, attraverso il rilancio della nostra posizione nel Mediterraneo e verso nuovi orizzonti possibili.

venerdì 23 ottobre 2015

Teorie economiche alternative Implicazioni per la politica economica


di Fabio Petri da sinistrainrete


Ripubblichiamo, con il permesso dell'autore, un vecchio saggio di Fabio Petri del 26.1.1995 che ci sembra tuttavia ancora utile come introduzione all'importanza che una solida base di analisi economica ha per trarre valide conclusioni di politica economica [Sergio Cesaratto]

 Premessa

aeaCalendarC'è da chiedersi innanzitutto se problemi come la disoccupazione siano da considerare come mali inevitabili, da addebitare ai lavoratori che si ostinano a pretendere salari troppo alti, o se invece si tratti di qualcosa di curabile attraverso interventi governativi che non rendano necessaria una diminuzione dei salari. Questo è un primo gruppo di questioni per le quali aderire ad una scuola teorica o ad un'altra fa una grande differenza. Mi soffermerò su questa differenza e poi parlerò del problema del debito pubblico che è la questione di cui si più si parla in Italia. Come vedremo, anche in questo caso ci si chiederà: il debito pubblico nel nostro Paese va o no azzerato in tempi brevi, mediante un attivo del bilancio dello Stato -cioè tramite entrate dello Stato superiori alle spese?
Il punto da cogliere è che gli economisti non sono d'accordo su quale sia la migliore descrizione di come funziona un'economia di mercato, e proprio per questo non sono neppure d'accordo su quale siano le risposte - in termini di scelte di politica economica - da dare alle domande che ci siamo posti.
Vorrei tentare di individuare la radice di fondo di questo disaccordo tra gli economisti. Tale radice risiede fondamentalmente nelle differenze di impostazione tra le due principali teorie economiche. Una di queste teorie è quella che io chiamo classica e che è quella di Adam Smith, Ricardo, di Marx - oggi integrata con l'apporto di Keynes - l'altra è quella che io chiamo marginalista anche se più spesso la si chiama neoclassica - che è quella oggi dominante nel mondo accademico. Il mio intervento seguirà il seguente schema:
1. Quali sono le linee fondamentali di queste due impostazioni teoriche ed in che cosa differiscono nella struttura teorica.
2. Cercherò di dimostrare come dalle differenze tra queste due impostazioni, emergano visioni profondamente diverse della natura della società in cui viviamo.
3. Suggerirò che una di queste due impostazioni, quella marginalista o neoclassica, si sia rivelata scientificamente molto debole e quindi da scartare.
4. Cercherò di dimostrare che le risposte più appropriate da dare ai problemi che ho indicato - disoccupazione e debito pubblico- sono molto diverse di quelle attualmente accreditate.

1. Le linee fondamentali della teoria classica e della teoria marginalista
Cominciamo dalle differenze tra queste due impostazioni ponendoci questa domanda: come è spiegato nelle due impostazioni il livello medio dei salari? Perché in certi periodi esso aumenta ed in altri diminuisce?
La scuola classica
Non presupporrò quasi alcuna conoscenza da parte vostra di economia, immagino però che tutti abbiate sentito parlare di Adam Smith - filosofo e professore universitario della fine del Settecento in Scozia - e di David Ricardo - figlio di una famiglia ebrea londinese, diventato miliardario speculando sui cambi, il quale si ritirò a vita privata e si occupò di economia politica per passione e che fu anche parlamentare. La teoria di David Ricardo venne a mio avviso travisata e infine abbandonata, con la quasi sola eccezione di Karl Marx, che la riprese nella seconda metà dell'Ottocento, quando già il pensiero dominante si muoveva in un'altra direzione. Questa teoria fu poi mantenuta in vita quasi esclusivamente da economisti marxisti, i quali, per ragioni ideologiche, in pochi trovarono spazio nelle università. Solo in tempi recenti la si è ripresa, dopo l'impulso dato dalla rinascita del radicalismo negli anni sessanta, ed anche ad opera di un notevolissimo economista italiano che studiò a Cambridge, Piero Sraffa.
Ebbene in Smith, in Ricardo, in Marx, troviamo sostanzialmente la stessa idea su che cosa determini il livello dei salari. Si tratta di quella che Marx avrebbe chiamato lotta di classe, ma l'idea non è propriamente sua, la troviamo già in Adam Smith: ossia, per Marx, ciò che determina il livello medio dei salari è il rapporto di forza tra la classe dei capitalisti e la classe dei lavoratori, che è in genere nettamente favorevole ai primi tranne che nei periodi di scarsità di manodopera, dovuti alle epidemie che decimavano i lavoratori, o generati da momenti di rapida crescita economica. Ma al di fuori di tali contingenze i capitalisti sono sufficientemente forti da mantenere il salario molto vicino ai livelli più bassi. Adam Smith lo definisce come il livello "compatibile con il comune sentimento di umanità". Questa idea del comune sentimento di umanità è un'idea interessante, su cui torneremo.
In genere, nella cultura comune della sinistra - in tutto il mondo - si pensa che questi siano concetti elaborati da Marx, mentre in realtà Marx non faceva che riprendere, approfondire e dire in termini più chiari quanto già era stato detto prima di lui. Con la differenza che Marx disse queste cose in un'epoca in cui il conflitto tra operai e capitalisti era ormai diventato aperto. Adam Smith, alla fine del settecento, quasi un secolo prima di Marx si esprime in modo chiarissimo:
"Quale sia il salario ordinario, dipende ovunque da un contratto normalmente stipulato tra lavoratori salariati e datori di lavoro, i cui interessi non sono affatto gli stessi. I primi sono disposti a intese al fine di fare aumentare i salari, i secondi al fine di farli abbassare. I lavoratori desiderano ottenere il più possibile, i datori di lavoro dare il meno possibile. In ogni caso non è difficile prevedere quale delle due parti sia normalmente avvantaggiata nella disputa, e sia quindi in grado di imporre all'altra parte i propri termini contrattuali. I datori di lavoro, essendo in minor numero possono accordarsi più facilmente; la legge - era palesemente così all'epoca di Smith - agevola o non ostacola il perseguimento dei loro interessi, mentre ciò non accade per i lavoratori. Ma soprattutto, in questo conflitto, i datori di lavoro possono resistere molto più a lungo. Un proprietario, un industriale, un mercante, potrebbe generalmente vivere anche per un anno o due senza impiegare alcun lavoratore, consumando il capitale accumulato. Al contrario, senza impiego molti lavoratori non potrebbero resistere neppure una settimana, pochi resisterebbero per un mese, quasi nessuno per un anno".
Nella descrizione di Smith i datori di lavoro sono sempre e ovunque una "casta" caratterizzata da "una tacita, ma costante, uniforme intesa a non aumentare i salari al di sopra del loro saggio corrente. Violare questa intesa, ovunque è un'azione assai impopolare", che solleva critiche da parte degli altri imprenditori. Ai datori di lavoro si oppongono, nella coalizione contraria, i lavoratori. "I loro interessi abituali sono talvolta l'alto prezzo dei viveri, talvolta i grandi profitti che i datori ottengono dal loro lavoro". I lavoratori descritti da Smith nel cercare un intesa migliore fanno sempre molto chiasso.
"Per raggiungere una decisione sollecita essi ricorrono a metodi sempre più spregiudicati e talvolta alla violenza e all'oltraggio. Essi sono disperati e agiscono con la sconsideratezza dei disperati destinati o a morire di fame, o a spaventare i loro datori di lavoro affinché soddisfino immediatamente le loro richieste. In queste occasioni però, i datori di lavoro, dal canto loro, non sono meno chiassosi e non cessano di domandare ad alta voce l'assistenza della magistratura e l'applicazione rigorosa di quelle leggi che sono state promulgate con grande severità contro le coalizioni dei servitori lavoranti giornalieri. Per cui assai raramente i lavoratori traggono vantaggio dalla violenza di queste tumultuose coalizioni che, per l'intervento della magistratura, o per la maggior fermezza dei datori di lavoro, o ancora per la necessità della maggioranza dei lavoratori di sottomettersi per non perdere la loro fonte di sussistenza, generalmente finiscono con la punizione o la rovina dei loro capi".
Si capisce allora come venisse spontaneo a qualsiasi lucido osservatore dell'epoca, ammettere che i salari erano determinati da quella che Marx da un lato e Smith - che non era certo un socialista né tanto meno un comunista rivoluzionario - dall'altro, avrebbero chiamato lotta di classe. Tale lotta di classe era ovviamente determinata dalla disoccupazione, dalla fermezza dell'appoggio dello Stato ai datori di lavoro e, soprattutto, dal livello dei consumi, quale ormai era considerato indispensabile dalla consuetudine, come compatibile con il comune sentimento di umanità.
La situazione era molto simile a quella dei servi della gleba nel feudalesimo, quando i signori feudali riuscivano a ottenere un reddito positivo, ottenuto dai versamenti da parte dei servi della gleba, dal prodotto sui loro campi, o dalle corvée che i servi effettuavano sui campi del signore. La domanda che bisogna porsi è: perché i servi della gleba accettavano di rinunciare a una parte di ciò che avrebbero dovuto avere di diritto? La risposta è semplice: perché i signori feudali erano l'anello forte della catena sociale, era loro il controllo delle terre. Essi avevano i soldati per far rispettare il loro controllo sulle terre, perciò potevano imporre ai servi della gleba di lavorare e a questi ultimi non rimaneva, evidentemente, altra scelta se non cedere, per non morire di fame. Questo spiega perché vennero promulgate leggi che vietavano di fuggire nelle città da un lato, e dall'altro l'indebolimento del sistema feudale in seguito allo sviluppo delle città. Ma finché i signori mantennero ben saldo il monopolio della possibilità di lavorare, essi poterono pretendere parte del prodotto dai servi della gleba, o parte del loro tempo di lavoro.
Nel fare un'analisi della storia del feudalesimo, si è anche descritto un ciclo che potremmo definire politico, in cui i signori feudali aumentano sempre più le loro pretese, le loro esazioni, chiedono corvée sempre più lunghe, elevano le gabelle su ponti e strade, fino a quando i contadini, esasperati, esplodono. Per lo più le rivolte vengono facilmente soffocate nel sangue, ma qualche volta i servi della gleba riescono a muoversi tutti insieme, a marciare verso il castello e ad incendiarlo. A questo punto gli altri signori si precipitano con le loro soldataglie dal feudatario in difficoltà e per evitare che l'episodio si ripeta fanno molte concessioni ai servi della gleba, la cui situazione migliora. Così si esaurisce il ciclo, che si riapre quando i signori ricominciano ad aumentare le esazioni, fino al successivo scoppio di ira popolare.
La situazione nel regime capitalistico è, secondo Adamo Smith, Ricardo e Marx, molto simile. C'è un monopolio collettivo, detenuto dai capitalisti, sulla possibilità di lavorare, poiché lavorare richiede il capitale che i proletari non hanno, né esso gli viene anticipato dalle banche, in quanto nullatenenti. I capitalisti allora offrono la possibilità di lavorare, a patto che parte del prodotto resti a loro come profitto.
Si capisce come in una situazione del genere ci sia una profonda indeterminatezza di quale debba essere il livello del salario: i capitalisti vogliono abbassarlo il più possibile, i lavoratori alzarlo il più possibile. Ma in ogni dato momento c'è una storia passata che ha formato delle consuetudini. In tutte le situazioni di indeterminatezza, è normale partire dalle consuetudini. Esse permettono infatti di regolare la vita senza che ogni giorno si debba ristabilire tutto da capo. Quando poi da una delle due parti ci si accorge che i rapporti di forza sono cambiati, si cerca di sostituire le vigenti consuetudini, spingendo in un'altra direzione. E' assai difficile, tuttavia, modificare le consuetudini, in quanto esse hanno un potere di pressione fortissimo sui comportamenti sociali, anche nella società odierna. I barboni, ad esempio, vivono con pochissimo, sono compagnie sgradevoli per la gente comune, perché vivono in un modo molto diverso dal nostro, perché il tipo di vita che fanno è notevolmente deteriorato. Sono persone la cui vita è ormai incompatibile con quella normale degli altri. Per questo la pressione sociale - affinché la gente non dia fastidio agli altri e sia adattabile ai modelli di vita dominanti - è un deterrente fortissimo. Tale pressione sociale impone, con una forza impressionante, un livello minimo di consumi, al di sotto del quale nessuno è disposto ad andare. Proviamo a immaginare, per assurdo, che arrivi una classe di invasori e imponga a tutti lo stile di vita dei barboni: accadrebbe che la stragrande maggioranza della popolazione non sarebbe disposta ad abbassare fino a quella soglia il proprio stile di vita. Se per un barbone infatti il suo stato è il punto di arrivo di un lento processo di degradazione, per la gente normale un brusco abbassamento del tenore di vita è semplicemente insopportabile. C'è un livello di consumi al di sotto del quale non vale la pena vivere, e per difendere il quale anzi vale la pena mettere a repentaglio la propria vita.
La scuola marginalista
Quella fin qui esposta è l'idea degli economisti classici. Confrontiamola adesso con l'altra, quella che abbiamo chiamato marginalista. La visione è completamente diversa: l'idea è che ci siano una domanda e un'offerta di lavoro [la domanda è quella espressa dalle imprese che richiedono manodopera e l'offerta è quella dei lavoratori, che offrono la propria forza lavoro, N.d.R.] e che la domanda di lavoro aumenti se i salari si abbassano. Allora a determinare i salari sarà il gioco della domanda e dell'offerta, ed infatti quando c'è disoccupazione, se i lavoratori non sono sciocchi, accetteranno che in una tale contingenza i salari si abbassino: il risultato sarà che la domanda di lavoro da parte delle imprese aumenterà.
Ora, l'idea comune della concorrenza è: quando l'offerta di un bene è maggiore della domanda, il prezzo si abbasserà, perché se chi offre non riesce a vendere, pur di non restare con la merce invenduta accetterà di piazzare il suo prodotto ad un prezzo più' basso. La teoria marginalista, a questo proposito, sostiene che se anche i lavoratori accettassero di comportarsi in modo concorrenziale, accettando quindi la caduta dei salari, finché permane la disoccupazione - questo significa offerta di lavoro maggiore della domanda - è necessario che il salario si abbassi ancora, cosicché la domanda di lavoro da parte delle imprese possa aumentare e si arrivi, per questa via, alla piena occupazione. Il livello a cui sarà sceso il salario è il livello a cui le forze di mercato tendono a spingere i salari. Ed è questo che spiega il livello dei salari: perché esso aumenta? Perché diminuisce? Quando diminuisce il livello dei salari? Semplicemente quando aumenta l'offerta di lavoro. La crescente offerta di lavoro da parte delle donne, ad esempio, fa ovviamente abbassare il livello del salario, diversamente le imprese non avrebbero incentivi a impiegare questa nuova forza lavoro. Questa è la teoria dominante, quella che appare, a prima vista, la più plausibile.
Cerchiamo di capire quale struttura teorica sorregge questa teoria. Si potrebbe, infatti, ragionare in tutt'altro modo: supponiamo che ci sia disoccupazione e che i lavoratori accettino di farsi concorrenza e i salari si abbassino. Ma quando i salari si abbassano, quelli che già lavoravano hanno meno soldi di prima, quindi comprano meno beni e la domanda di beni che le imprese vendono diminuisce. Esse vendono meno e cominciano a licenziare. Perciò se i salari si abbassano non aumenta l'occupazione, ma al contrario diminuisce. Allora quale di questi due ragionamenti è quello più solido?
Cerchiamo di capire perché, quando il salario si abbassa, le imprese hanno convenienza a impiegare più lavoratori. Per i sostenitori dell'idea marginalista o neoclassica, la produzione non deriva solo dal lavoro, ma anche dal capitale. Le imprese hanno infatti una certa quantità di capitale, e quando con questa quantità di capitale vogliono impiegare più lavoratori, ogni nuovo lavoratore impiegato fa aumentare la produzione, ma questo aumento è gradualmente sempre minore per ogni lavoratore in più: e questo perché con un dato impianto, con dati beni capitali, i lavoratori aggiuntisi permetteranno di produrre cose via via meno utili (in una data falegnameria con uno stabilimento di cento metri quadri, se comincio ad aumentare i lavoratori impiegati, il prodotto cresce, ma per ogni lavoratore in più diminuisce lo spazio a disposizione; ad un certo punto, aumentando ancora i lavoratori, nessuno potrà più lavorare!).
Quale sarà allora il ragionamento dell'impresa quando dovrà decidere quanti lavoratori domandare? Confronterà quanto prodotto in più le verrebbe dall'impiegare un nuovo lavoratore, con il costo che l'assunzione di quest'ultimo comporta. Supponiamo che il centunesimo lavoratore permetta all'impresa di produrre beni in più, e che tali beni in più le diano un ricavo in più, dalla vendita, di un milione e mezzo al mese. Il lavoratore costa - supponiamo - un milione e duecentomila lire al mese: se l'impresa decide di assumerlo avrà un milione e mezzo di ricavo, un milione e due di costo, e trecentomila lire le resteranno come profitto. Fatti questi calcoli il lavoratore viene assunto. Stesso ragionamento verrà fatto per i successivi possibili lavoratori che permetteranno ulteriori aumenti di prodotto (via via sempre minori). Di conseguenza i ricavi in più saranno anch'essi via via minori.
Per cui l'impresa continuerà ad assumere fintanto che il ricavo ottenibile dalla maggiore produzione ottenuta con nuovi lavoratori sarà superiore al costo per ogni lavoratore in più. Questo meccanismo spiega il perché sia diffusa l'idea che l'occupazione dipenda dal livello dei salari, ma ricordiamo che stiamo ipotizzando un capitale dato, cioè degli impianti dati.
Se invece il capitale impiegato aumenta, questo comporterà un aumento del prodotto ed allora, probabilmente, anche gli ulteriori lavoratori contribuiranno alla produzione in misura maggiore; a parità dei salari vi sarà maggiore domanda di lavoratori da parte dell'impresa e, qualora si fosse già in una situazione di piena occupazione, il salario tenderà a salire. Quindi se aumenta l'offerta di lavoro il salario si abbassa, mentre se aumenta il capitale impiegato il salario tende ad innalzarsi.
Attenzione: non si è ancora confutato l'altro modo di ragionare cui avevamo accennato, in base al quale se i salari scendono i lavoratori comprano meno beni, quindi le imprese venderanno meno e saranno costrette a licenziare (per cui scendendo i salari l'occupazione diminuisce!).
Questo modo di ragionare è confutato, dai marginalisti nel modo seguente.
Il ragionamento che io ho fatto per il lavoro si può fare in modo esattamente simmetrico per il capitale. Un impresa, in un dato momento, avrà sia una certa quantità di capiate impiegato, che una certa quantità di lavoro impiegato. Dunque l'impresa si può porre lo stesso problema che abbiamo posto per i lavoratori anche per la quantità di capitale da domandare: conviene impiegare più capitale? L'impresa farà esattamente lo stesso tipo di ragionamento: se impiegasse un'unità in più di capitale - diciamo un milione in più - per impiegare ulteriori macchinari ecc., di quanto aumenterebbe il prodotto e quindi il ricavo? Per calcolare in modo corretto bisogna tener conto, però, anche del fatto che l'impresa dovrebbe indebitarsi per poter investire, quindi dovrebbe pagare un interesse. Si dovrà dunque confrontare il ricavo in più con il costo lordo del capitale (perché l'impresa dovrà restituire sia il milione di capitale ottenuto a prestito che l'interesse). Ma pur con questa piccola complicazione il ragionamento sarà esattamente lo stesso che nel caso dei lavoratori.
Si metterà a confronto il costo in più di ogni unità aggiuntiva di capitale con il ricavo in più, e se quest'ultimo è superiore al costo in più, allora conviene prendere a prestito quell'unità in più di capitale. Ed anche qui l'idea è: dato l'impiego di lavoro, quanto più capitale impiego tanto più aumenta il prodotto, ma via via di meno. Quindi ci sarà un momento in cui il costo in più e il ricavo in più si pareggiano e lì l'impresa si ferma. Ma se è così, non può mai esserci problema a vendere tutto ciò che si produce: infatti una parte di ciò che si produce verrà domandato dai consumatori ed una parte dalle imprese, che la acquisteranno come investimento. Ma quando le imprese fanno investimenti in realtà stanno ampliando il loro capitale, e allora ciò vuol dire che stanno decidendo di impiegare più capitale. Come abbiamo visto le imprese decidono di impiegare più capitale quando il saggio di interesse - che è il prezzo che devono pagare per il capitale - si abbassa. In altre parole il saggio di interesse è il prezzo che regola domanda e offerta di capitale: basta che il saggio d'interesse sia determinato dalla concorrenza, per far sì che le sue variazioni portino a far coincidere l'offerta di beni capitali delle imprese con la domanda.
Risulterà quindi che il salario, sulla base della concorrenza, riesce a portare alla piena occupazione il mercato del lavoro, ed il saggio di interesse, sulla stessa base, riesce a garantire che tutti i beni non comprati dai consumatori vengano comprati dalle imprese. Per questo, se nel breve periodo può verificarsi che all'abbassarsi dei salari i lavoratori comprino meno e quindi le imprese vendano meno, semplicemente saranno le imprese a comprare di più sulla base della diminuzione del saggio d'interesse. In ogni caso, essendosi abbassato il salario, le imprese impiegano ulteriori lavoratori, aumentano la produzione, e l'aumento della produzione in parte verrà comprato dai lavoratori di nuova assunzione, mentre la differenza di nuovo dalle imprese, purché si abbassi a sufficienza il saggio di interesse. Insomma se i mercati concorrenziali vengono lasciati funzionare bene, non c'è mai problema a vendere tutto quanto prodotto. E questa è la teoria dominante nel mondo accademico.
Le implicazioni importanti di questa teoria sono due: la prima è che se lasciamo funzionare beni i mercati, questi porteranno alla piena occupazione - per cui la disoccupazione che si osserva nella realtà è fondamentalmente causata dai lavoratori ed in particolare dai sindacati, che bloccano il meccanismo di mercato non lasciando abbassare il salario. Per questo le imprese domandano solo il numero di lavoratori che rende il costo del lavoro uguale a quel prodotto in più che gli economisti chiamano prodotto marginale del lavoro. E poiché il potere dei sindacati deriva da un riconoscimento del loro ruolo da parte dei lavoratori, sono questi ultimi, in sintesi, i responsabili della disoccupazione. La seconda conseguenza importante di questa visione riguarda la remunerazione che va al lavoro come salario e la remunerazione che va al capitale come interessi: esse corrispondono in realtà, in un senso molto profondo, ad un ideale di giustizia.
Infatti pensiamo ad un qualsiasi lavoratore: poiché come abbiamo visto, le imprese domandano lavoro fino al punto in cui il ricavo in più è uguale al costo in più, ciò vuol dire che il salario di questo qualsiasi lavoratore è proprio uguale al prodotto in più che l'impresa perderebbe se lo licenziasse. Quando l'impresa decide di impiegare quel lavoratore, confronta il ricavo in più col costo in più. Allora se l'impresa licenziasse il lavoratore essa perderebbe un ricavo in più proprio pari al salario. Quindi ciò vuol dire che il valore del salario è uguale al valore dei beni in più prodotti da quel lavoratore. Quando reputiamo equo ciò che noi paghiamo a qualcuno? Quando in qualche modo quello che noi paghiamo a qualcuno corrisponde a ciò che questo qualcuno ha contribuito a darci. Mettiamoci dal punto di vista della società: come facciamo a misurare il contributo alla società di ciascun singolo lavoratore? Il contributo che ciascun lavoratore dà alla società è esattamente ciò che la società perderebbe se questo lavoratore decidesse di non lavorare più, e cioè proprio quel prodotto in più attribuibile all'ultimo lavoratore. E quanto riceve il lavoratore come salario? Il valore di quel prodotto in più. Tanto dà e tanto riceve. C'è una corrispondenza perfetta tra contributo alla società e paga al lavoro.
Ora, si può dimostrare - e ci arrivate già intuitivamente sulla base del ragionamento fatto prima - che lo stesso deve valere anche per il capitale. Abbiamo detto che le imprese decidono anche quanto capitale impiegare con lo stesso ragionamento; e impiegano capitale fino al punto in cui il ricavo in più dell'ultima unità di capitale è pari al costo in più. Ma ciò significa che anche il saggio d'interesse riflette proprio il contributo di ciascuna unità di capitale, cioè anche l'interesse risponde a giustizia. Voi potreste dire: "un attimo, il lavoratore fatica, soffre per lavorare, mentre chi dà il capitale che sofferenza subisce?" E invece c'è la risposta anche qui: la sofferenza è la rinuncia al consumo. Da dove deriva il capitale? Esso viene dal risparmio, e quando qualcuno risparmia, rinuncia a consumare, è una sofferenza anche quella. Allora c'è un sacrificio dietro il capitale, il sacrificio corrisponde al risparmio, cioè alla rinuncia al piacere di consumare quei soldi. Questo sacrificio permette di risparmiare e il risparmio crea capitale. Quindi c'è un sacrificio dietro ogni unità di capitale. Ed il contributo alla società di questo sacrificio è il contributo corrispondente all'aumento di produzione reso possibile da quell'ulteriore unità di capitale. Se qualcuno decidesse di non risparmiare, la società perderebbe qualcosa. Perderebbe proprio quella produzione in più resa possibile da quell'unità in più di capitale, resa possibile da quel risparmio.
In conclusione, quindi, dietro il salario c'è un sacrificio e quel sacrificio viene remunerato in base al contributo che esso fornisce alla società. Allo stesso modo, dietro l'interesse c'è un sacrificio, e anche quel sacrificio viene remunerato in base al contributo che esso fornisce alla società.
Diciamo la verità: è bello, c'è un'armonia, c'è un'eleganza, una simmetria affascinante in questa teoria. Si può capire perché essa abbia avuto un notevole successo in ambito accademico, ed essa, tra l'altro, sembra basarsi su cose che paiono corrispondere alla realtà. Sembra corrispondere alla realtà il fatto che se in un'impresa con un dato capitale impieghiamo sempre più lavoratori, ad un certo punto i lavoratori in più faranno sì aumentare il prodotto, ma via via di meno, perché diventano via via meno utili. Ad un certo punto addirittura saranno superflui, non si saprà più che farne del millesimo lavoratore in una piccola falegnameria.

2. Le differenze: due diverse visioni della società
Chiarito dunque questo fatto, chiarita quindi la profonda simmetria che in questa visione c'è tra redditi da lavoro e redditi da capitale, chiarita la giustizia che il mercato realizza nel determinare le retribuzioni del lavoro e del capitale, e chiarita l'efficienza di tutto ciò - perché, ricordate, si va alla piena occupazione, purché si lasci funzionare la concorrenza - vediamo allora, brevemente, di sottolineare le differenze rispetto all'altra impostazione, quella classica.
L'impostazione classica vede le cose - soprattutto per via del posteriore contributo di Keynes - proprio nel modo che vi dicevo: se si abbassano i salari, l'effetto sarà che i lavoratori acquisteranno di meno, cioè le imprese venderanno meno e quindi ci saranno licenziamenti.
La giustizia della retribuzione
Ma vediamo innanzitutto l'aspetto della giustizia della retribuzione. Se si vedono le cose alla maniera dei classici - ricordatevi quella analogia che vi ho fatto con il feudalesimo - parlare di profitti delle imprese - che è il linguaggio usato poi da Marx - oppure parlare di interessi sul capitale, fondamentalmente è la stessa cosa: sono redditi che derivano dalla proprietà del capitale. Spesso l'imprenditore è egli stesso il proprietario del capitale, quindi i profitti li percepisce senza nemmeno ripagarli con interessi, ma in realtà se avesse prestato a qualcun altro il capitale avrebbe preteso un interesse, quindi quello che guadagna come profitti anche in quel caso va suddiviso tra compenso per il rischio e interessi. Quindi parlare di interessi o profitti è equivalente.
Nella visione classica, la misura di ciò che va agli interessi o ai profitti, deriva dal semplice fatto che i capitalisti hanno il coltello dalla parte del manico. Essi dicono ai lavoratori: un salario talmente alto che vi consenta di appropriarvi di tutto il prodotto, senza che nulla resti a noi come interesse e profitti, semplicemente non lo permetteremo mai; per farvi lavorare con il nostro capitale - e ce l'abbiamo noi il capitale - vogliamo profitti o interessi. E quindi la situazione è analoga a quella dei signori feudali con i servi della gleba; ma se - come credo tutti - accettereste che il reddito dei signori feudali sia in realtà analogo al pizzo della mafia (che va dal commerciante e dice: io ho le pistole, o mi dai queste 400mila lire al mese o ti spariamo), allora è estremamente legittimo dire che il reddito del signore feudale sia un'estorsione, uno sfruttamento. E poiché la situazione per i profitti è del tutto analoga, i profitti sono sfruttamento. Adam Smith non usa questa parola - che userà Marx - ma in realtà abbiamo visto, dai passi di cui vi ho detto, che il concetto è lo stesso anche per Smith: tutto è necessario per poter fare sfruttamento.
La disoccupazione
Altra differenza interessante: un marginalista direbbe che se c'è disoccupazione la colpa è dei lavoratori che non lasciano abbassare i salari. Un classico che cosa direbbe? Direbbe: "è semplicemente umano e normale che i lavoratori resistano agli abbassamenti salariali", perché nella impostazione classica - ed è qui in realtà la differenza di fondo - questa idea che quando il prezzo del lavoro si abbassa, le imprese ne domandano di più, o che se il prezzo del capitale si abbassa le imprese ne domandano in più, quindi l'idea che noi ci potremmo costruire una curva decrescente di domanda per i fattori produttivi, in cui tanto più basso è il prezzo del fattore produttivo, tanto maggiore sarà la domanda, questa idea nei classici non c'è proprio. Se i salari si abbassano, il risultato immediato, per i classici, è semplicemente che si alzano i profitti: va di meno ai lavoratori e va di più ai capitalisti. Gli effetti sull'occupazione il più delle volte sono negativi; possono essere positivi solo se i capitalisti decidono di investire di più. Ma come dirà l'analisi economica successiva, a partire da questo importante economista, Keynes, in realtà le imprese non investono solo perché stanno facendo profitti. Le imprese investono quando pensano di usare bene i loro profitti nel costruire ulteriori impianti, quando cioè si aspettano di riuscire a vendere di più. Perché le imprese investano di più è necessario cioè che la domanda di beni stia già crescendo, per cui le imprese si aspettano di riuscire a vendere ancora di più. Quindi il risultato più probabile è l'altro, proprio quello che l'abbassamento del salario faccia abbassare la produzione, faciliti le crisi economiche.
Allora, dicevo, in una situazione di questo tipo, in cui non c'è nessun meccanismo di domanda e offerta che possa spontaneamente determinare un salario, in cui se il salario si abbassa o si innalza semplicemente è questione continua di lotta di classe, è del tutto naturale che i lavoratori si rifiutino di abbassare il salario.
Del resto provate a metterla così: se un abbassamento di salario non fa aumentare l'occupazione, quale sarà l'esperienza storica dei lavoratori? Anche quelle rare volte che i disoccupati, per disperazione o altro, dicono: purtroppo sto morendo di fame, vado alla fabbrica e mi offro alla metà del salario dei già impiegati, che cosa succederà? Succederà che i già occupati, per evitare il licenziamento, accetteranno essi stessi di farsi pagare solo la metà. Nella visione marginalista il risultato di questo abbassamento dei salari sarà l'aumento della domanda di lavoro. Avranno lavoro sia quelli che già erano occupati che i disoccupati. Nella visione classica invece gli occupati restano occupati ad un salario inferiore - se non vengono addirittura licenziati per l'abbassamento della domanda di beni, dovuto alla diminuzione di reddito dei lavoratori - e i disoccupati restano disoccupati. L'unica cosa che è successa è che ci hanno perso tutti. Ci hanno perso anche i disoccupati, che sono in genere mantenuti, almeno in parte, dai redditi dei loro parenti occupati.
Questa esperienza storica insegna molto rapidamente ai lavoratori che farsi concorrenza in questo modo - in cui i disoccupati si offrono ad un salario più basso - è un disastro. L'unico risultato è che tutti i salari si abbassano e l'occupazione non aumenta. E quindi è del tutto ovvio che si formi quello che la storia insegna - cioè che si formino dei sentimenti di assoluta proibizione morale per la concorrenza salariale. E in effetti questa cosa è talmente forte, che praticamente non ci si pensa nemmeno. A chi di voi viene in mente, se non ha trovato lavoro, di andare ad offrirsi ad un salario inferiore a quello normale? Quando vi chiedono: avete bisogno di lavoro? Ovviamente vi offrite al salario normale, al salario abituale. Perché non ci si offre a meno? Io sostengo che non lo si fa perché l'esperienza storica ha insegnato che ciò non serve. Ed a questo punto è diventata parte integrante della cultura operaia l'idea che sia qualcosa che, semplicemente, non si fa.
E questo è confermato dal fatto che in quei casi in cui è legittimo pensare che abbassare i salari serva a difendere l'occupazione, allora i lavoratori lo accettano. Infatti, quando per esempio c'è una fabbrica in pericolo di chiusura, e si riesce a mostrare ai lavoratori che l'unico modo per salvarla è abbassare i salari, allora i lavoratori lo accettano (spesso accettano di formare una cooperativa, e rilevare loro la fabbrica, benché sappiano che siccome la fabbrica non stava andando bene, questo significherà che per mesi, o forse per anni, dovranno accettare un salario più basso di quello di mercato).
La crescita economica
Altra differenza estremamente importante: la crescita economica, da che cosa dipende? Secondo l'impostazione marginalista, abbiamo visto, si riesce sempre a vendere tutto ciò che si produce - ovviamente sto mettendola in termini un po' rigidi, per qualche anno ci sarà magari qualche difficoltà, i processi di aggiustamento del mercato non sono istantanei, ma in media se si lascia funzionare bene il mercato, si riuscirà a vendere tutto - e allora ciò che non viene venduto per consumi verrà venduto alle imprese. Ciò significherà investimenti. Ma ciò che non viene venduto per consumi che cos'è? Pensiamolo dal punto di vista dei redditi. Ciò che viene prodotto dalle imprese ha un valore e costituisce reddito. Allora, evidentemente, solo una parte di questo reddito viene impiegato e speso a comprare beni di consumo. Tutto il resto viene risparmiato. Quindi quella parte del valore della produzione che non corrisponde ai consumi, corrisponde al risparmio. Abbiamo detto che il risparmio è quella cosa che crea capitale. Infatti che voi lo vediate come soldi non spesi, o come beni prodotti e non consumati, ma che vanno alle imprese, che cosa vedete? Vedete questo risparmio monetario, che va ad incrementare il valore monetario del capitale - e a questo corrispondono proprio beni prodotti e non consumati, che però vanno alle imprese che aumentano il valore dei beni fisici utilizzati come capitale. Quindi il risparmio crea capitale e quanto più si risparmia, tanto più capitale si crea. E' il capitale in più che determina la crescita economica. Conclusione: la crescita è determinata dai risparmi. Se vogliamo crescere di più bisogna risparmiare di più.
Nell'altra visione, quella classica, invece, la crescita è determinata dalle decisioni delle imprese di investire, che dipendono da tutt'altre cose - per esempio dall'aspettativa che si possa vendere di più in futuro. E molto spesso queste decisioni di investire sono insufficienti a mantenere la piena occupazione del lavoro. E' il caso di oggi in Italia: avrete letto che nell'ultimo hanno [1994, N.d.R.] sono stati 400 o 500mila i posti di lavoro persi. Mentre per i classici lo Stato deve intervenire attivamente per favorire la crescita economica e favorire l'occupazione, perché il mercato di per sé non garantisce affatto che si arrivi alla piena occupazione - questa curva di domanda decrescente di lavoro non c'è, come pure non c'è una curva di domanda decrescente del capitale - per i marginalisti, invece, il mercato mette tutto a posto da solo. E da ciò ovviamente derivano le posizioni di tipo liberale, liberista ecc. espresse da Berlusconi o da Bossi - per i quali non ci sono punti di disaccordo sostanziale nelle linee di politica economica.
La politica economica
Veniamo alle differenze tra le due impostazioni riguardo alla politica economica.
Per risolvere il problema della disoccupazione, secondo i marginalisti bisogna spezzare le reni ai sindacati - quello che esplicitamente disse di voler fare la Tatcher quando subentrò al governo in Inghilterra. Non per cattiveria, ma semplicemente in ossequio alle leggi del mercato. Se vogliamo aumentare l'occupazione bisogna che i salari scendano, facendo funzionare la concorrenza. Invece un classico, che abbia imparato la lezione di Keynes, direbbe che lo Stato deve intervenire attivamente stimolando la domanda. Se non si stimola la domanda le imprese non decideranno di produrre di più e quindi di assumere più lavoratori.
Sulla crescita economica, l'implicazione di politica economica della teoria marginalista è: per crescere di più bisogna risparmiare di più, cioè consumare di meno. Per questo è importante diminuire il deficit dello Stato, perché lo stato i soldi li usa per consumi. Noi non siamo abituati a vedere questa attività dello Stato come consumi, però lo sono. I soldi dello Stato vanno in sanità, stipendi dei dipendenti pubblici, pensioni: non sono investimenti. Questi soldi che lo Stato spende in deficit li ottiene da un prestito: si indebita. Ma i soldi che i titolari dei titoli di Stato prestano allo Stato, sono risparmi sottratti all'investimento presso le imprese, che permetterebbero l'acquisto di beni capitali. Lo Stato, dunque, col deficit aumenta i consumi e diminuisce i risparmi e quindi gli investimenti. Rallenta quindi la formazione di nuovo capitale, la crescita economica. Invece, nell'altra prospettiva, quella classica, se lo Stato spende fa bene, perché aumenta la domanda, inducendo le imprese a produrre di più. Le imprese che producono, se osservano che stanno producendo molto, decidono di ampliare l'impianto. Più lo Stato spende e più gli investimenti sono stimolati. Le due visioni non potrebbero essere più diverse.

3. La solidità scientifica delle due teorie economiche
E allora visto tutto questo, voi capite l'importanza del decidere, sul piano scientifico, quale di queste due visioni sia più solida. Ora, ovviamente, ci vorrebbe un intero corso di laurea - e in molte facoltà neppure ci si arriva - per spiegare bene, fino in fondo, in tutti i dettagli, gli aspetti negativi e positivi di queste due visioni.
Tuttavia voglio almeno accennarvi al fatto che l'economista italiano di cui vi dicevo, Sraffa, ha mostrato sì che gli autori classici non avevano risolto alcuni problemi teorici - in particolare la famosa teoria del valore-lavoro di Marx non funzionava bene - ma che si trattava di problemi risolvibili all'interno della loro stessa teoria. Marx aveva incontrato un problema nello spiegare la determinazione dei prezzi relativi delle merci, e sosteneva che essi fossero determinati dal lavoro da esse incorporato e questo non è vero. Ma la sua idea di fondo era che ci debba essere un qualche modo per spiegare i prezzi relativi, una volta che noi prendiamo il salario come dato e determinato dalla lotta di classe. E' quello che Sraffa dimostra: su questo Marx aveva perfettamente ragione. Si può costruire un sistema matematico che mostra - dato il salario determinato dalla lotta di classe - come sia la concorrenza tra i capitalisti (i quali tendono a far sì che il rendimento del capitale diventi uguale tendenzialmente in tutte le industrie) a determinare i prezzi delle merci. Quindi è vero che Marx, e prima di lui Ricardo ecc., non erano riusciti a risolvere bene questa questione, ma essa non mette in crisi la loro teoria. Essa resta logicamente forte.
La teoria marginalista, invece, incontra gravissimi problemi. Li possiamo qui solo accennare. Per spiegare che gli abbassamenti dei salari determinino un aumento della domanda di lavoro da parte delle imprese, si è dovuto ragionare ipotizzando che sia data la quantità dei fattori produttivi diversi dal lavoro, cioè capitale e terra (per dire che il contributo alla produzione di ogni lavoratore aggiuntivo era via via minore, infatti, si è fatto l'esempio di un dato impianto - una falegnameria in cui più aumentano i lavoratori e più aumenta il prodotto, ma solo finché non comincia a mancare fisicamente lo spazio ecc.). Data una certa quantità di questi altri fattori, capitale e terra, se impieghiamo via via più lavoratori, questi lavoratori faranno cose via via meno utili. La teoria marginalista, dunque, per essere forte, ha bisogno di argomentare che sia legittimo ipotizzare come data la quantità di capitale. Ma questo, si dimostrerà, non è legittimo.
Infatti è possibile considerare come data la quantità di capitale in due sensi:
1) si considera come data la quantità dei singoli beni capitali;
2) si considera come dato il valore complessivo di tutti i beni capitali;
Il primo modo di considerare come data la quantità di capitale, considerando come data la quantità dei singoli beni capitali (si prende come data la quantità di viti, trattori, vanghe, vernici, benzina, torni ecc.) esistenti nell'economia, non funziona. Infatti, non appena le imprese impiegano più lavoratori, un'enorme numero di queste quantità si modificherà. Se l'impresa vuole produrre di più ha bisogno di più pezzi intermedi per ottenere i prodotti finali. Quindi quei beni capitali che sono pezzi intermedi del processo produttivo dovranno essere acquistati anticipando soldi, cioè sarà necessario prendere a prestito capitale. Qui i beni intermedi cambiano.
Inoltre, quando il salario si abbassa, tutti i prezzi cambiano, perché i salari entrano nei costi di produzione in modo diverso a seconda delle merci. Per i prodotti chimici, ad esempio - dato che si tratta di prodotti con enormi macchinari e pochissimo lavoro - se il salario scende il costo di produzione quasi non cambia. Invece per prodotti ottenuti con molto lavoro manuale, come i jeans, quando il salario si abbassa il costo di produzione scenderà molto. Quindi cambieranno i prezzi dei beni e di conseguenza cambierà la domanda di questi beni. Cambiando la domanda di questi beni, cambieranno anche i beni capitali impiegati e necessari per produrli. Se i jeans si abbassano di prezzo la gente comprerà più jeans, le imprese acquisteranno più macchinari per fare più jeans. Quindi dieci giorni dopo che si è abbassato il salario sarà aumentata la domanda di jeans e le imprese ordineranno più macchinari per fare jeans, e le fabbriche che producono questi macchinari ne fabbricheranno di più.
Ovviamente se si comprano più jeans si comprerà meno qualcos'altro, ad esempio meno prodotti chimici che non sono diminuiti di prezzo. Allora le imprese chimiche domanderanno meno beni capitali del tipo necessario a produrre prodotti chimici. In ogni caso le quantità dei singoli beni capitali non resteranno invariate all'abbassarsi del salario, e di conseguenza non è possibile considerare il capitale come dato in questo senso.
Allora forse si deve considerare la quantità di capitale come data nel secondo modo, cioè come valore complessivo di tutti i beni capitali. Questo lascerebbe effettivamente il capitale libero di cambiare di composizione - più macchine per fare jeans e meno macchine per fare prodotti chimici - senza che cambi il valore complessivo. Ed in effetti è questo il modo in cui, tradizionalmente, gli economisti di scuola marginalista parlano di una "data quantità di capitale" nella determinazione della domanda di lavoro. Ma, sfortunatamente per i marginalisti, la misura del capitale come valore di un complesso di beni - che sta anche cambiando - si modifica al modificarsi dei prezzi dei beni stessi. Abbiamo appena detto che quando i salari cambiano, anche i prezzi cambiano. Il risultato sarebbe dunque che il valore del capitale dipende dai salari, e cambia quando cambiano i salari.
Dunque non è possibile considerare come data la quantità di capitale, il che permetteva di costruire quella curva della domanda di lavoro che assieme all'offerta doveva determinare il salario. In questa teoria, infatti, finché non è determinato il salario non sappiamo il valore del capitale, finché non sappiamo il valore del capitale non conosciamo la domanda di lavoro, e quindi non sappiamo quale possa essere il salario di equilibrio: la teoria crolla.
In effetti, per motivi connessi a questi problemi teorici, la teoria marginalista negli ultimi anni è andata sviluppandosi in direzioni molto particolari, nel tentativo di fare a meno di questa nozione di capitale misurato come quantità di valore, della quale - come abbiamo visto - si riesce a dimostrare in due minuti l'insostenibilità. Dunque i marginalisti hanno tentato altre strade, che per brevità non vi posso illustrare. Si tratta delle cosiddette "Teorie moderne dell'equilibrio economico generale". Ciò che vi posso dire è che un numero crescente di teorici dell'equilibrio economico generale ammettono che si stanno cacciando in un vicolo cieco, diventano sempre più scettici sulla loro stessa teoria. In effetti ho la netta impressione che ormai la teoria marginalista, che è ancora quella dominante a livello accademico, a livello dei consulenti di governo ecc., sia un gigante dai piedi d'argilla. Questa teoria resta ancora accettata soprattutto dagli economisti applicati, i quali per via della necessaria divisione del lavoro in ambito scientifico, hanno imparato questa teoria qualche decennio fa per poi mettersi ad applicarla, per fare studi applicati, senza più tenersi al corrente dei successivi dibattiti sulla solidità delle fondamenta di questa impostazione. Ed i successivi dibattiti, invece, stanno minando alla base questa teoria, in modo secondo me ormai totale.
In conclusione la teoria logicamente e scientificamente più solida è quella classica.

4. Le risposte ai problemi del debito pubblico e della disoccupazione
E su questa base veniamo a quei due problemi cui si accennava all'inizio, cioè la disoccupazione ed il debito pubblico ed al modo in cui affrontarli. Sul debito pubblico in realtà ve l'ho già anticipato. Per i marginalisti il debito pubblico crea dei problemi di instabilità finanziaria - perché ci sono tutti questi titoli che possono essere venduti e non rinnovati ed i risparmi portati all'estero - ma il problema veramente grave non è questo. Infatti si sa che l'instabilità finanziaria, se c'è un governo che vuole davvero intervenire in modo duro, è fermabile (certamente, comunque, il governo deve sormontare la resistenza della comunità finanziaria, che ha forti interessi nel poter avere perfetta libertà di movimento dei capitali perché in questo modo fa più soldi; ma un governo deciso a fermare l'instabilità finanziaria, di fatto ci riesce). Il vero problema che i marginalisti pongono, per sostenere che il debito pubblico va eliminato, è quello che vi dicevo prima: il debito pubblico fa sì che lo Stato si faccia prestare e usi per fini non di investimento, risparmi che altrimenti andrebbero ad aumentare gli investimenti. E così facendo diminuisce la crescita, col risultato che quando saremo anziani, e con noi i nostri figli, ci troveremo con molto meno capitale di quello che altrimenti ci sarebbe. E quindi c'è, in questo senso, un onere del debito pubblico sulle generazioni future.
Quest'onere non è dovuto alla semplice esistenza del debito pubblico - si tratta infatti di un debito degli italiani verso se stessi. Non si tratta di un vero debito perché non si tratta di un debito della nazione verso altri, bensì di un debito della nazione verso se stessa. Esso certo crea problemi redistributivi perché è molto difficile politicamente tassare solo quei cittadini che hanno prestato denaro allo Stato. Ma per la nazione nel suo complesso il debito pubblico non esiste. La nazione non è indebitata. Chi usa l'argomento della semplice esistenza del debito pubblico come fonte di problemi è ignorante o in malafede. Ed infatti il vero problema, che è poi quello che pongono gli economisti marginalisti seri, è che con il debito pubblico stiamo diminuendo l'accumulazione del capitale.
Invece nell'impostazione classica, proprio perché il debito pubblico non è un debito verso altri, esso non è un vero debito. E' vero che esso crea problemi di instabilità finanziaria, ma questi problemi, con sufficiente volontà possono essere risolti. Il tentativo di diminuire il debito pubblico, una volta che c'è, crea disastri. Infatti per diminuire il debito pubblico bisogna aumentare le imposte o diminuire la spese. Se lo Stato diminuisce le spese esso induce una contrazione della domanda. Se invece lo Stato aumenta le imposte diminuisce il reddito delle persone e quindi, di nuovo, diminuisce la domanda. Il risultato sarà che lo Stato non riuscirà nemmeno a ridurre il debito pubblico, perché se diminuisce le spese diminuiscono anche le entrate (perché le imprese produrranno meno, guadagneranno meno e pagheranno meno come tasse). Lo Stato, quindi, nel cercare di aumentare le entrate le fa in realtà diminuire e fa aumentare soltanto la disoccupazione.
Abbiamo detto che per lo Stato l'instabilità finanziaria esiste solo finché esso non voglia schierarsi contro gli interessi della comunità finanziaria. Inoltre basta ricordare che in Inghilterra il debito pubblico è stato il doppio del prodotto nazionale per decenni, nell'ottocento. Allo Stato, invece, conviene, almeno temporaneamente, aumentare il debito pubblico, aumentando le spese. Questo farà aumentare i consumi, stimolerà le imprese a produrre di più ed ad investire . E allora forse si riuscirà perfino a ridurre il debito grazie all'aumento delle entrate. Certo, resta vero che se lo Stato finanzia le sue spese in deficit, ci saranno meno risparmi che si convogliano verso le imprese. Ma il punto da capire è questo: lo Stato, in questo modo, prende risparmi da un reddito più grande, perché è un reddito che è lo Stato stesso a stimolare, quindi lo Stato raccoglie dei risparmi che senza le sue spese, senza il suo stimolo sulla domanda, non sarebbero nemmeno esistiti. Quindi se lo Stato segue queste linee, raccoglie sì dei risparmi, ma ne restano ugualmente per l'industria ed in misura superiore che se lo Stato non si fosse indebitato.
Per quanto riguarda, invece, l'occupazione, lo Stato deve in un modo o nell'altro stimolare la domanda, addirittura aumentando i consumi (attraverso eventualmente aumenti dei salari). Questo certo crea problemi, perché aumentando i salari si ridurranno i profitti e la concorrenza internazionale può portare alla fuoriuscita di capitali. Non si possono dunque aumentare molto i salari, ma qualcosa si può fare. Quella stessa cosa che diminuisce l'instabilità finanziaria connessa ai titoli del debito pubblico - cioè controlli sull'apparato finanziario ed in particolare sui movimenti di capitale - può, se non impedire, almeno rendere un po' più costoso esportare capitali all'estero. Questo diminuirebbe l'instabilità finanziaria, farebbe ridurre il tasso d'interesse interno che è necessario pagare ai capitalisti e quindi permettere di aumentare i salari, diminuendo nel contempo le spese dello Stato per gli interessi sul debito pubblico.
Ovviamente le cose non sono mai così facili. C'è - e questo lo ammette anche l'economista classico - un problema grave, che riguarda il vincolo esterno. Se il governo fosse un governo di sinistra, con economisti classici a fare da consulenti, le politiche di espansione della domanda potrebbero far crescere in modo più forte le importazioni delle esportazioni, i possessori di capitali si spaventerebbero temendo una svalutazione, esporterebbero capitali, ci sarebbe la svalutazione, essa porterebbe nel tempo ad inflazione ecc.
Questo problema del vincolo estero è sormontabile? Innanzitutto bisogna dire che se tutti i governi seguissero queste linee di espansione della domanda per favorire l'occupazione, il problema non esisterebbe. Tutti i paesi aumenterebbero le loro importazioni e cioè tutti aumenterebbero le esportazioni. Se tutte le nazioni decidessero di occuparsi del problema della disoccupazione, non ci sarebbe vincolo estero.
Questo ovviamente non succede, sia perché domina la teoria e la visione marginalista, sia per il cinismo del capitalista "marxista", il quale pur privo di fiducia nelle teorie della scuola marginalista, trova conveniente che le sue proposte siano attuate: non credo che Agnelli abbia bisogno di cedere nelle tesi marginaliste per capire che se si abbassano i salari per lui c'è una convenienza. In ogni caso sono ragioni politiche ad impedire l'attuazione di queste politiche espansive. In altre parole non si tratta di ragioni connesse al naturale funzionamento dei meccanismi di una economia di mercato. E per ragioni politiche si deve intendere che c'è un gruppo, molto forte e compatto, soprattutto negli ambienti finanziari, che sostanzialmente dice "A noi queste politiche non convengono".
Tuttavia, supposto che le altre nazioni non siano favorevoli a queste politiche per l'occupazione, il governo di una singola nazione potrebbe riuscire a portarle avanti con successo? In effetti, a mio avviso, delle vie le si potrebbe trovare. Innanzitutto un singolo Stato potrebbe accettare, per un certo periodo, di indebitarsi, concentrando la sua espansione soprattutto sugli investimenti, i quali potrebbero portare un tale ammodernamento da rendere questo Stato molto competitivo - il che permetterebbe poi di esportare molto (è ciò che in qualche misura hanno fatto le tigri asiatiche, la Corea, Hong Kong, Singapore ecc.).
Ma supponiamo che sia necessario aumentare le esportazioni più rapidamente di quanto non avverrebbe grazie agli investimenti (che hanno bisogno di tempo per fruttare) e che per farlo si debbano ridurre i costi delle imprese. Ma i costi delle imprese non sono costituiti solo dai salari! C'è anche il costo del denaro! Si potrebbe dunque ridurre il tasso d'interesse. Certo, sappiamo che c'è gente che si oppone a queste riduzioni, e non si tratta certo dei piccoli risparmiatori. Ai piccoli risparmiatori sarebbe facile spiegare che quel che perdono da una parte in termini di interessi sui titoli di Stato, lo guadagnano dall'altra in termini di minori spese sanitarie, maggiore occupazione per i propri figli ecc. A queste condizioni i piccoli risparmiatori non sarebbero contrari all'abbassamento dei tassi d'interesse. Chi è veramente contrario a queste riduzioni è chi possiede miliardi in titoli di Stato, e cioè non soltanto i vari Agnelli ecc., ma proprio le banche. Quelle banche che prima erano tutte pubbliche e che ora lo Stato sta privatizzando, diventando dunque qualcosa che lo Stato non può più controllare. Non ci sono affatto solide ragioni per sostenere le privatizzazioni, ed infatti all'estero, spesso, le imprese nazionalizzate funzionano benissimo. La Renault è nazionalizzata, la Wolkswagen lo era fino a poco tempo fa. Con una semplice particolarità: semplicemente i manager lavoravano.
Anche in Italia, del resto, molte imprese pubbliche erano in perdita perché dovevano fare prezzi bassi alle imprese private a cui vendevano beni capitali. Altre sono in perdita perché erano già in perdita quando lo Stato le ha comprate dai privati. E moltissime imprese private, invece, hanno fatto la fine che hanno fatto.
In conclusione pongo un’ultima questione. La promessa di Berlusconi di un milione di posti di lavoro non è insensata a priori. Sarebbe in qualche modo possibile, in un tempo relativamente breve, una creazione di lavoro così forte, ma ci vorrebbe la forza e la volontà di intaccare una serie di interessi economici e di privilegi, soprattutto legati agli ambienti finanziari - che sono quelli che obbligano l'Italia ad avere perfetta libertà di movimento dei capitali, il che rende estremamente difficile qualunque politica espansiva (infatti non appena l'Italia volesse espandere la produzione, avrebbe più importazioni che esportazioni e si verificherebbe il caso cui si accennava sopra: i possessori si spaventerebbero, comincerebbero a esportare capitali per timore di una svalutazione, questo porterebbe effettivamente alla svalutazione, essa protraendosi porterebbe inflazione ecc.).
Ma un governo che fosse deciso e che capisse che il mondo non funziona come dicono i marginalisti, ma piuttosto come dicono i classico-keynesiani, potrebbe effettivamente creare, in tempi ragionevolmente brevi, il famoso milione di posti di lavoro.

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...