sabato 24 giugno 2017

CIA Covert Aid to Italy Averaged $5 Million Annually From Late 1940s to Early 1960s, Study Finds



from Globalresearch
 
Washington, D.C. February 7, 2017 – CIA covert aid to Italy continued well after the agency’s involvement in the 1948 elections – into the early 1960s – averaging around $5 million a year, according to a draft Defense Department historical study published today for the first time by the National Security Archive at The George Washington University.
The study, declassified in 2016, focuses on the role of Clare Boothe Luce as ambassador to Italy, 1953-1957. In addition to overseeing a program of covert financial support to centrist Italian governments, she used the awarding of contracts under the Department of Defense Offshore Procurement Program to weaken the Italian Communist Party’s hold on labor unions. The author concludes that the Eisenhower administration, faced with the possibility of civil war in Italy or the Communist Party coming to power legally, was “willing to intervene militarily only if the Communists seized power forcibly and then only in concert with other European nations.”


Clare Boothe Luce, U.S. envoy to Italy from 1953-1956, was as famous for her glamour and blunt speaking as for the distinction of being the first woman to represent the U.S. in a major diplomatic post. (Undated photo from the Carl Van Vechten collection, Library of Congress)
Today’s posted document was written by Dr. Ronald D. Landa, formerly with the State Department’s Office of the Historian and the Historical Office of the Office of the Secretary of Defense.  It is one of three drafts he prepared for the latter office that were intended as chapters in a monograph on United States policy toward Europe during the Eisenhower administration. Landa finished the drafts in 2011 and early 2012. Declassification review took another 3-4 years. Budgetary limitations prevented completion and publication of the book.
Click on the images to read the documents.




This posting and two subsequent ones–on United States policy leading to the 1956 Hungarian Revolution and on its policy during the Hungarian Revolution–focus on issues with a military dimension not covered by volumes in the official series, History of the Office of the Secretary of Defense. They are of added interest given the author’s access to classified U.S. records, although readers will notice that certain information has been redacted by U.S. Government reviewers. Dr. Landa also researched a variety of open materials, including the Central Intelligence Agency’s CREST database, the Declassified Documents Reference System, the Digital National Security Archive, and British records at The National Archives in London.
The National Security Archive is grateful to Dr. Landa for making these draft studies available so they could become part of the ongoing scholarly exploration of the U.S. role in Europe during a critical phase of the Cold War.
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READ THE DOCUMENTS
“Shots from a Luce Cannon”: Combating Communism in Italy, 1953-1956
Source: Historical Office, Office of the Secretary of Defense
Draft historical study by Dr. Ronald D. Landa of U.S. policy toward Italy from 1953-1956

Working Bibliography for “Shots from a Luce Cannon”
Source: Historical Office, Office of the Secretary of Defense
Draft bibliography attached to Dr. Ronald D. Landa study on U.S. policy toward Italy from 1953-1956


“Shots from a Luce Cannon”: Combating Communism in Italy, 1953-1956
Source: Historical Office, Office of the Secretary of Defense
Draft historical study by Dr. Ronald D. Landa of U.S. policy toward Italy from 1953-1956
Working Bibliography for “Shots from a Luce Cannon”
Source: Historical Office, Office of the Secretary of Defense
Draft bibliography attached to Dr. Ronald D. Landa study on U.S. policy toward Italy from 1953-1956

mercoledì 7 giugno 2017

Appello per una sinistra a modo mio

Franco Cilli da ildiariodispinoza

Partiamo dalla consapevolezza che la sinistra è una realtà multiforme e ibrida e che sinora non è mai riuscita a  valorizzare le diversità, ponendosi queste più come conflitto insolubile e criterio ad excludendum che come valore aggiunto. Occorre prendere atto che se tale nodo gordiano non verrà sciolto non ci sarà mai una sinistra maggioritaria. Appare inoltre evidente che sussiste una territorializzazione delle culture in seno alla sinistra, dove ognuno occupa un terreno concettuale, perimetrando ogni orizzonte di senso e rimandando all'altro l'idea dello sconfinamento verso territori eretici, piuttosto che cercare un’integrazione di ambiti differenti. Oggi assistiamo all'ennesimo tentativo, da parte di attori meno vincolati alla storia della vecchia sinistra, di unificare una sinistra diffusa sotto la bandiera della costituzione. La costituzione è importante, importante è il richiamo ai suoi valori di giustizia e libertà, ma tale richiamo non può affiancarsi ad un’analisi dilettantesca e approssimativa delle cause economiche della crisi e della sostanza del liberismo. L’analisi risulta monca e parziale quando non è decisamente distorta. Far risalire il problema del bilancio e dell’austerità all’elusione e all’evasione fiscale è un’ingenuità grossolana, che elude il discorso della svalutazione del costo del lavoro imposto dai trattati europei come conseguenza del suo impianto liberista e difficilmente modificabile con le sole buone intenzioni. Questa visione ingenua dell’economia alienerà una buona parte di soggetti politici e di singoli compagni, che leggeranno in ciò la dimostrazione di un inevitabile approdo acritico nei confronti dell’europeismo, se non addirittura di una presa di posizione dogmatica e non negoziabile nei confronti dello stesso. Nessuno vuole ripetere una nuova Grecia, il problema dei rapporti con l'Europa va posto, senza aut aut da una parte e dall'altra. Altro nodo è il conflitto non dichiarato, sebbene palese, fra le istanze diciamo così “globaliste” e quelle “sovraniste”. Anche qui la dicotomia è una divaricazione che scava un fossato dove tutti i ponti vengono tagliati allo scopo (da parte dei globalisti) di non contagiare la purezza ontologica dei processi di soggettivazione, perno irrinunciabile di qualsiasi orizzonte politico e strategia, sostenuto da un riduzionismo astratto e di stampo nominalista, ma di poca sostanza. Una visione che appare francamente datata rispetto a un’analisi di fase che suggerirebbe perlomeno un passo indietro per riflettere piuttosto che perseverare su vecchi schemi che poco hanno prodotto in passato. Mia opinione che metto sul banco, senza farla diventare l'ennesima irrinunciabile discriminante.

Stare insieme pur nell’apparente inconciliabilità delle posizioni serve per ricalibrare le proprie coordinate di tiro e cercare una sintesi utile allo scopo. Condannare l’ipotesi sovranista come estratto di un’ideologia puramente regressiva, agitando lo spettro dell’eresia nazionalista, è folle. Nessuno vede il ripristino della sovranità quale premessa per un ritorno ai vecchi stati nazione e della retorica patriottica, bensì come premessa essenziale e come insieme di dispositivi necessari per ricacciare il liberismo in gola a chi lo ha congegnato per i propri fini particolari. Chi vede la globalizzazione come incarnazione dello spirito della storia sbaglia, la globalizzazone non è che una variante di un processo storico non lineare, così come la sovranità non può che essere una delle tante variabili simboliche plausibili di un universo logico e posta al vaglio di una critica razionale. Nessuna religione dello stato o della nazione, nessuno spiritualismo globalista.
Il mio appello hegeliano è all’unità degli opposti e alla sintesi di tutte le forze antiliberiste e di chiara ispirazione socialista e comunista.
Per ultimo occorre prendere atto che la sinistra non è sufficiente a se stessa. Ipotizzare un accordo seppure improbabile con i 5S è giusto è doveroso se si vuole governare entro un periodo storico inferiore a un'era geologica. Anche qui la contesa non può essere dottrinaria e nemmeno possiamo soffermarci su posizioni specifiche che certamente sono in contrasto con una visione di sinistra, come talune dichiarazioni a sfondo xenofobo, ma costituiscono un dato che o viene preso di petto e contrastato su un piano di confronto dialettico e di peso specifico delle singole posizioni o è destinato a replicare l’ennesima insanabile dicotomia, che porterà a irrigidimenti e incistamenti delle posizioni politiche di ampie parti dell’elettorato o se preferite del popolo, visto come plebe ignorante e indomita.
Insomma si all'assemblea unitaria del 18 Giugno, ognuno con il coltello in bocca, ma sempre disposti a cercare un'unità d'intenti.

martedì 6 giugno 2017

Child-Beheading Terrorist Supporter Wins Getty and Sunday Times “Defining Images” Award for 2016

di Vanessa Beeley
21st Century Wire

“We see a lot of devastation. When you see a young child (Omran) who is obviously in shock sitting in the back of an ambulance, you are concerned with how he is, what happened to him and what situation has brought him there. The ability of the photographer to capture that moment renders it one of the best news pictures of the year.” ~ Stuart Hannagan of Getty Images
Don McCullin, one of the world’s finest photographers of war and disaster, said the digital revolution meant viewers could no longer trust the truthfulness of images they see. He said photography had been “hijacked” because “the digital cameras are extraordinary. I have a dark room and I still process film but digital photography can be a totally lying kind of experience, you can move anything you want … the whole thing can’t be trusted really.” ~ The Guardian, emphasis added.
Two very contrasting opinions on the digital age of photographic sleight of hand and perception altering influence.
Everyone will remember the “iconic” image of Omran Daqneesh in August 2016, taken during the fiercest fighting to liberate East Aleppo from Nusra Front-led occupation. This single image took the corporate media by storm eliciting international clamour for a No Fly Zone in Syria and further illegal intervention into a sovereign nation’s internal affairs. This image circled the globe as fast as internet would allow it to travel with no corporate media, independent verification of either context or source.
CNN reporters broke down in tears, and extraordinary displays of breathy, emotional, outpourings stormed onto our TV screens to decry the “brutality of the Syrian regime” while no verification of the image had been conducted. In short, it was the perfect example of the knee-jerk reaction policy of both corporate media and the western regimes, whose narrative is wholly and unquestioningly supported by their media megaphones.
According to the FT, Omran was the “human face to the suffering in Aleppo“, he was, according to the US State Department, “the real face of what is going on in Syria”. 
“That little boy has never had a day in his life where there hasn’t been war, death, destruction, poverty in his own country,” ~ John Kirby
In December 2016 Getty Images launched their ‘Year in Focus‘ — a collection of iconic photos that have defined 2016. According to an article in Huffington Post, Getty had covered 130,000 events worldwide and taken over 20 million images, an insight into the tremendous power this organsiation has over the image industry that shapes our perspectives on world events.
TIME produced a heart-rending article on the events surrounding this iconic photograph. They introduced us to Mahmoud Raslan, the photographer:
Mahmoud Rslan, a 27-year-old photographer from Aleppo, took the picture of Omran at the scene. He managed a pastry shop before the revolution and, beginning in 2011, participated in the protests.
Raslan gave a tear-jerking account of his role in Omran’s rescue and the taking of the arresting image:
“While taking the photo and looking at the boy, I was crying, while pleased that I was doing my job and taking a powerful photo. I wanted the focus to be clear. When I really started to sob was when I saw the eight-year-old sister of Omran. His sister was as calm as him and she had a similar injury in the face and eye. She made me cry 10 times stronger. We are humans, we are people. I was crying for the children and fearing that my daughter may go through the same experience.”
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Mahmoud Raslan, crying for Omran but grinning with child beheaders, Nour Al Din Zinki.

The only problem is, Raslan was far from an innocent observer of a child’s plight. He was swiftly identified as the supporter and selfie-taker appearing with Syria’s militant extremist group, Nour Al Din Zinki, notoriously noted for their brutal torture, humiliation and public beheading of 12 year old Palestinian child, Abdullah Issa.
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On left, Omran Daqneesh, on right 12 year old Abdullah Issa, beheaded by Nour al Din Zinki, one month prior to Omran’s image being circulated.

Syrian Girl’s media channel perfectly demonstrated the extreme hypocrisy surrounding the circulation of Omran’s image and the international uproar, when compared to the muted response to the publicly displayed and truly hideous atrocity committed against a child by an extremist group, known to be funded by the United States. 
In addition, the images and footage of Omran, were circulated by none other than French Foreign Office funded, Aleppo Media Centre, already exposed by 21WIRE as the Syrian propaganda branch of Canal France International, the French cooperation agency and media operator of the French Ministry of Foreign Affairs. Aleppo Media Centre worked exclusively in Nusra Front (al Qaeda in Syria) terrorist-occupied East Aleppo, supplying anti-Syrian government images and reports to US and western media.
Read 21st Century Wire’s article here: Aleppo Media Centre Funded by French Foreign Office, EU and US
Getty Images and Sunday Times Awards for “Arresting Images”.
On the 27th January 2017 the BBC broadcast their “Media Show” with presenter, James Harding. Part of the programme covered the Getty “Arresting Images” exhibition. Harding informed us that Getty images have put together an exhibition of what they consider to be the most striking examples of photo-journalism from 2016. Harding then visited their London gallery with Bette Lynch Director of Getty’s News Photography for Europe, the Middle East and Africa, accompanied by Eleanor Mills, Editor of Sunday Times Magazine.
Lynch and Mills both wax lyrical over the image of Omran, its striking blend of “colour and composition”, which lend added depth to the evocative force of the image, are remarked upon, enthusiastically. Lynch describes how the image is “heartbreaking” for her, just before Harding asks a surprisingly pertinent question, for the BBC. We have included an edited version of the Media Show, the full version may be heard here.
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HARDING:
“This picture raised some questions re context, the thing about a single snapshot images quite often there are questions of context..whereas with TV you see what happens before and after. I have a vague recollection of seeing the ambulance door open and the boy being put into the seat….I dont know if they [paramedics?] were kept away, while the photographers had their chance…so there is an element of staging. So if it was posed, Bette, is there anything about this picture that you think is worth questioning?”

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Mahmoud Raslan, photographer of Omran with child beheaders, Nour Al Din Zinki

The response from Bette Lynch is without hesitation:
“No I dont..and I think it comes back to the truthfulness of imagery and where the images are sourced from and that they are reliable photojournalists.”
Reliable photojournalists” like Mahmoud Raslan photographed here with Nour Al Din Zinki and wearing the Zinki headband, thus affiliating himself with this group  of child torturing, US funded, extremist mercenaries, who participated in the Nusra Front/Al Qaeda-led brutal occupation of East Aleppo for almost five years.
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Lynch further compounds Getty’s faith in Raslan as a reliable source of war imagery from Nusra Front-dominated East Aleppo by stating that these are “photo-journalists at the peak of their game, citizen journalism has a place..what we see here is journalism at its very peak.” According to Lynch there are “millions of photographers out there…these guys we trust”.
At this point, Harding abandons his attempt to question the credibility of Omran’s celebrated image. He fails to ask the burning question, where is Omran now… what happened to this child, the “face of human suffering” in Aleppo? He fails to mention the undeniable evidence of photographer, Raslan’s connections to extremist, atrocity-committing factions in East Aleppo. He allows Getty’s Director of News Photography, to dismiss claims of staging with a declared trust in terrorist supporters as premise for the veracity of this photograph. A staged photograph that almost precipitated the terrifying escalation of a conflict between Russia and the US on Syrian soil.
This flaccid investigative journalism has become the hallmark of 21st century corporate media. The truth is denied to us because it is auto-dismissed by these half-hearted prods at the darkness that is Al Qaeda generated news speak. Omran is not to blame, he is another in a long line of children being exploited by these globalist circus performers who call themselves journalists.
Children are being exploited to promote a war that will kill more children. This is the more sinister, bigger picture, we should be protesting. These children already bear the wounds of an externally imposed war, now they will be forced to bear the deeper scars of being, indirectly, responsible for further deaths, further bloodshed in their homeland.
Omran will grow up knowing that his, suspected, “staged” image eclipsed the very real images and footage of another young child, Abdullah Issa, whose severed head was ignored by the same media and international community who made Omran an icon, overnight.
We should not underestimate the devastating effect this knowledge may have on a child like Omran. Children should not be coerced into calling for war, like Bana Alabed, they should not be used as props to support terrorism and neocolonialist geopolitical gains. What the BBC is tacitly supporting, is effectively, NATO and Gulf state child abuse to support what is already a criminal foreign policy, designed to reduce Syria to a failed state, under the banner of humanitarianism.
Yes, children must be protected from the horror of war but right now they are being used to prolong the horror of war. Getty Images, and the Sunday Times just awarded an Al Qaeda affiliate, a prize for child exploitation. The BBC failed to condemn this media, universal, platforming of extremism in Syria, because the BBC is an integral part of the terrorist cheerleading apparatus. This nomalisation of terrorism and extremism is a disease that is sweeping the corporate media channels in the west and it must be eradicated before we, the public, are irrevocably infected by its perversion of the facts.

lunedì 5 giugno 2017

Siria, una guerra “made in USA”

di Thomas Fazi da sinistrainrete 

L’attacco statunitense di venerdì è solo l’ultimo atto di una strategia di destabilizzazione che gli Stati Uniti portano avanti da anni

Quando si parla di Siria, ci sono due questioni che vengono surrettiziamente legate: la fine del conflitto e la rimozione di Assad. Secondo la narrazione dominante (anche a sinistra), il legame tra le due cose è ovvio: per porre fine al conflitto bisogna rimuovere Assad. Trattasi di una logica curiosa, però, per diversi motivi:

1. Assad, come il padre suo predecessore, è riuscito per diversi anni – anche ricorrendo a metodi brutali, è vero, ma lo stesso vale per tutti gli Stati mediorientali, inclusi quelli alleati dell’Occidente – a mantenere la pace (nonché un regime laico e multiconfessionale) in un paese che presenta un tessuto religioso estremamente complesso e frammentato.

2. Il conflitto attuale ha origine proprio nella strategia di “regime change” che da almeno quindici anni guida la politica statunitense nei confronti della Siria. Diversi cablogrammi classificati diffusi da WikiLeaks dimostrano che già nel 2006 – dunque ben cinque anni prima dell’insurrezione popolare del 2011 – gli Stati Uniti puntavano a destabilizzare «con ogni mezzo necessario» il regime di Bashar al-Assad. In particolare, la «potenziale minaccia nei confronti del regime rappresentata dalla crescente presenza di militanti estremisti» nel paese veniva vista dagli Stati Uniti come «un’opportunità» – non solo dal punto di vista politico e militare ma altresì mediatico – da incoraggiare con ogni mezzo necessario. In uno dei cablò si legge: «L’argomentazione del governo siriano secondo cui è anch’esso una vittima del terrorismo andrebbe usato contro di esso per mettere in risalto la crescente instabilità all’interno della Siria».
Un’ulteriore strategia contemplata – sempre ai fini della destabilizzazione del regime – era quella di soffiare sul fuoco dello scontro religioso e identitario, sobillando le tensioni secolari tra sciiti e sunniti, tanto all’interno della Siria (paese a maggioranza sunnita ma governato da un regime sciita) quanto a livello regionale, esacerbando le tensioni tra il regime e i suoi nemici sunniti storici nella regione, Arabia Saudita in primis. L’obiettivo, rivelano i cablò, era quello di «aumentare l’isolamento e l’alienazione [del regime siriano] nei confronti dei suoi vicini arabi», per screditarlo agli occhi della comunità internazionale e giustificare così un intervento statunitense. A tal fine, veniva considerato prioritario il sostegno al cosiddetto “governo siriano in esilio” – un drappello di uomini riuniti intorno alla figura dell’ex vicepresidente siriano Abdel Halim Khaddam, il cui obiettivo dichiarato era (ed è) il rovesciamento del regime di Assad –, e ad altre organizzazioni dell’opposizione anti-regime all’estero (come il canale Barada TV) e in Siria, a cui gli Stati Uniti hanno cominciato a trasferire fondi almeno dal 2006.
Come scrive Robert Kennedy, «l’idea di fomentare una guerra civile tra sunniti e sciiti per indebolire i regimi siriano e iraniano al fine di mantenere il controllo delle forniture petrolchimiche della regione non era un concetto nuovo nel lessico del Pentagono». Un rapporto della RAND Corporation del 2008 contiene un progetto preciso di quello che stava per accadere. Il rapporto osserva che il controllo dei depositi di gas e di petrolio del Golfo Persico rimarrà, per gli Stati Uniti, «una priorità strategica» che «interagisce fortemente con quella di perseguire la guerra duratura». A tal fine, il rapporto raccomanda l’utilizzo di «azioni segrete, operazioni di informazione, guerra non convenzionale» per imporre una strategia “divide et impera”. «Gli Stati Uniti e i suoi alleati locali potrebbero utilizzare i jihadisti nazionalisti per lanciare una campagna per procura» e «i leader degli Stati Uniti potrebbero anche scegliere di sfruttare al meglio il conflitto tra sciiti e sunniti, prendendo le parti dei regimi sunniti conservatori contro i movimenti sciiti nel mondo musulmano… possibilmente sostenendo i governi sunniti autoritari».
Trattandosi di Medio Oriente, non sorprende che dietro la strategia di “regime change” degli americani in Siria via sia – e vi è – il petrolio. Uno studio realizzato nel 2011 da una società di servizi petroliferi legata al governo francese e all’attuale amministrazione britannica notava il significativo «potenziale idrocarburico» dei giacimenti offshore della Siria. Esso descrive i bacini offshore della Siria come «una vera zona di frontiera dell’esplorazione», notando l’esistenza di varie “zone piatte”, che, se confermate, «rappresenterebbero degli obiettivi di trivellazione da svariati miliardi di barili/trilioni di piedi cubi». Un altro rapporto, redatto dall’esercito statunitense, mostra chiaramente come gli strateghi americani, britannici e del Golfo vedano il Mediterraneo come un’opportunità per rendere l’Europa meno dipendente dal gas russo e per incrementare l’indipendenza energetica di Israele. A tal fine, si legge nel rapporto, potrebbe essere necessaria un’azione militare per avere accesso ai bacini offshore della Siria, che lambiscono le acque territoriali di diverse potenze mediterranee, tra cui Israele, l’Egitto, il Libano, Cipro e la Turchia. Il rapporto dell’esercito statunitense nota che le risorse offshore della Siria fanno parte di un sistema più ampio di depositi di gas e di petrolio nel bacino del Levante comprendente i territori offshore di diversi Stati in competizione tra loro. Si stima che la regione contenga all’incirca 1,7 miliardi di barili di petrolio e 122 trilioni di piedi cubi di gas naturale, un terzo del potenziale idrocarburico stimato del bacino. Per maggiori informazioni si veda qui.
È opinione diffusa che la strategia di “regime change” dell’amministrazione Bush sia stata interrotta da Obama nel 2009 a favore di una politica di dialogo. In realtà, i cablò di WikiLeaks rivelano che tale cambio di strategia «non si è mai verificato nella realtà»: il finanziamento ai gruppi dell’opposizione siriana è continuato ininterrottamente anche sotto l’amministrazione Obama. Come scrive Robert Naiman di Just Foreign Policy: «Leggendo i cablò, risulta evidente che gli Stati Uniti, anche dopo il 2009, non si sono mai veramente impegnati in una politica di dialogo: la realtà è che non hanno mai rinunciato a una politica di “regime change”». Questo è risultato evidente in seguito al 2011, quando gli Stati Uniti hanno sfruttato la rivolta popolare contro il regime – che in parte avevano sobillato – per mettere in campo la strategia di destabilizzazione, settarianizzazione e balcanizzazione del paese teorizzata da tempo dagli strateghi statunitensi, attraverso il sostegno finanziario, logistico e militare a diversi gruppi jihadisti (tra cui diverse fazioni contigue all’ISIS). Come ha scritto Jeffrey D. Sachs, almeno dal 2013 l’amministrazione Obama è stata «è [stata] impegnata in una guerra attiva, continuativa, coordinata dalla CIA con lo scopo di rovesciare Assad».
Il fatto che la strategia di “regime change” sia tornata prepotentemente alla ribalta dopo il 2011 si spiega anche con il riposizionamento della Siria nell’orbita russa in seguito allo scoppio della crisi siriana. Nel 2000, il Qatar aveva proposto di costruire 1.500 chilometri di gasdotto attraverso l’Arabia Saudita, la Giordania, la Siria e la Turchia. Il gasdotto era fortemente sostenuto sia dagli Stati Uniti che dall’Unione europea, in quanto da un lato avrebbe rafforzato il Qatar, principale alleato degli Stati Uniti nel mondo arabo, mentre dall’altro altro avrebbe ridotto la dipendenza dell’Europa dall’energia russa e allentato l’influenza economica e politica di Putin. Nel 2009, però, Assad ha annunciato che si sarebbe rifiutato di firmare l’accordo che consentiva al gasdotto di attraversare la Siria, «per proteggere gli interessi del nostro alleato russo», e nel 2011 ha firmato un memorandum d’intesa per un gasdotto alternativo – il cosiddetto Islamic Gas Pipeline – che dovrebbe partire dai giacimenti di gas dell’Iran e arrivano fino al Mar Mediterraneo, passando per l’Iraq, la Siria e il Libano. Il gasdotto islamico renderebbe l’Iran sciita, non il Qatar sunnita, il principale fornitore del mercato europeo dell’energia e aumenterebbe notevolmente l’influenza di Teheran (e dunque della Russia) in Medio Oriente e nel mondo. L’intensificarsi del conflitto siriano, a causa soprattutto della destabilizzazione esterna ad opera degli Stati Uniti, ha però effettivamente reso nulli i progetti per il “gasdotto islamico”, che sarebbe dovuto essere completato nel 2016.
È questo il grande gioco geopolitico – o uno dei grandi giochi geopolitici – alla luce del quale va letto l’intervento americano post-2011 in Siria (così come quello russo). L’anno scorso il New York Times ha riportato alcuni fatti legati ad un ordine presidenziale segreto del 2013 che autorizza la CIA ad armare i ribelli siriani. Secondo il resoconto del giornale, l’Arabia Saudita avrebbe fornito un consistente finanziamento per gli armamenti, mentre la CIA, su ordine di Obama, ne avrebbe garantito il supporto organizzativo e la formazione. Documenti dei servizi segreti sauditi, pubblicati da WikiLeaks, mostrano inoltre che la Turchia, il Qatar e l’Arabia Saudita stavano già armando, formando e finanziando combattenti radicali sunniti jihadisti provenienti da Siria, Iraq e altrove – ovviamente con il consenso degli statunitensi – per rovesciare il regime di Assad. È importante sottolineare che gli Stati Uniti hanno continuare a inviare armi in Siria nonostante fosse evidente che alcune di queste sarebbe finite nelle mani dell’ISIS. «Intratteniamo buoni rapporti con i nostri fratelli dell’ELS», ha dichiarato l’ex leader dell’ISIS Abu Atheer nel 2013, riferendosi all’Esercito siriano libero (i cosiddetti “ribelli moderati”), sostenuto dagli USA, da cui disse di aver acquistato missili antiaerei e anticarro. Stando alle dichiarazioni degli ufficiali statunitensi, l’ascesa dell’ISIS aveva colto l’intelligence americana di sorpresa. Eppure un rapporto del 2012 della Defense Intelligence Agency (DIA) statunitense – che ebbe ambia diffusione negli ambienti del governo americano – dimostra che gli Stati Uniti sapevano benissimo che i propri Stati satellite – identificati come «i paesi occidentali, gli Stati del Golfo e la Turchia» – stavano lavorando alla creazione di uno “Stato islamico” nella regione, come poi è avvenuto. «Questo è esattamente quello che vogliono le potenze che sostengono l’opposizione – si legge nel rapporto – al fine di isolare il regime siriano, considerato un punto di riferimento strategico per l’espansione sciita (Iraq e Iran)».
È ampiamente dimostrato, in particolare, che elementi di alto livello del governo e delle agenzie di intelligence della Turchia – membro della NATO e stretto alleato degli Stati Uniti – hanno offerto sostegno militare e finanziario all’ISIS, e che questo comprendeva la vendita di petrolio sul mercato nero; è altresì un fatto che gli eserciti occidentali non hanno fatto nulla per bloccare le linee di approvvigionamento dell’ISIS attraverso la Turchia, né hanno mai attaccato le infrastrutture cruciali dell’ISIS, tra cui i convogli petroliferi.
Come ha commentato il giornalista statunitense David Mizner, la partecipazione degli Stati Uniti alla guerra contro il governo siriano ha giocato un ruolo centrale «nella trasformazione dello Stato islamico dell’Iraq in una potenza regionale che ha conquistato – e devastato – ampie regioni di entrambi i paesi. Questo esito era perfettamente prevedibile, ed infatti era stato previsto dallo stesso governo americano… È questa la verità a lungo occultata che il rapporto della DIA mette in evidenza: dopo la fase iniziale della guerra in Siria, sostenere la guerra contro il governo di Assad equivaleva ad aiutare l’ISIS». A partire dal 2014, gli ufficiali statunitensi hanno iniziato a prendere le distanze dalle azioni a sostegno dell’ISIS dei loro alleati. Nella pratica, però, il comportamento del governo americano nei confronti del gruppo terroristico è stato estremamente ambivalente. Nel settembre 2016, gli Stati Uniti hanno addirittura bombardato una postazione dell’esercito siriano – “per sbaglio”, secondo la versione ufficiale, successivamente smentita da un’indagine interna dell’esercito americano – che stava difendendo la città di Deir ez-Zor, uccidendo circa cento soldati e facilitando così la presa della città da parte dell’ISIS.
La cosa non dovrebbe sorprendere. Lo smembramento e la balcanizzazione della Siria è precisamente uno degli obiettivi della strategia statunitense nella regione, scrive il ricercatore britannico Nafeez Ahmed:
Esiste ormai un cartello di interessi estremamente ampio e potente – comprendente importanti imprese statunitensi, britanniche, francesi ed israeliane operanti nei settori della difesa, della sicurezza, dell’energia e dei media – che spinge per la disgregazione della Siria. La motivazione principale è il controllo delle potenziali risorse petrolifere e di gas offshore della Siria e del Mediterraneo orientale; tra l’altro, questo avrebbe anche l’effetto di indebolire molto la posizione della Russia e dell’Iran nella regione. 
Questa tesi è avallata anche da Sachs, secondo cui gli sforzi americani in Siria «non hanno lo scopo di proteggere il popolo siriano… ma sono in realtà una guerra per procura contro l’Iran e la Russia con la Siria come campo di battaglia». Il recente attacco statunitense ad opera dell’amministrazione Trump – ufficialmente in risposta ad un presunto attacco chimico, la cui responsabilità del regime rimane tutta da dimostrare[1] – rientra presumibilmente in questa strategia, nonostante la distensione dei rapporti col regime annunciata dal neopresidente statunitense in campagna elettorale.
Non c’è niente di nuovo in tutto ciò. Il sostegno – diretto o indiretto – degli Stati Uniti all’ISIS e ad altri gruppi estremisti si inserisce in una strategia sessantennale di destabilizzazione e di sostegno statunitense al terrorismo jihadista in Siria e in Medio Oriente più in generale. Come scrive Robert Kennedy, nipote di JFK, «dobbiamo riconoscere che il conflitto siriano è una guerra per il controllo delle risorse, non diversa dalla miriade di guerre clandestine e non dichiarate per il petrolio che abbiamo combattuto in Medio Oriente per 65 anni». L’ingerenza americana in Siria risale al 1949, quando gli Stati Uniti organizzarono un colpo di Stato con cui deposero il presidente democraticamente eletto, che aveva realizzato una fragile democrazia basata sul modello americano, e lo sostituirono con un dittatore scelto dalla CIA. Anche in quel caso, nota Roberts, l’intervento americano fu motivato dal rifiuto del governo siriano di approvare l’oleodotto trans-arabo, un progetto americano destinato a collegare i campi petroliferi dell’Arabia Saudita ai porti del Libano attraverso la Siria.

3. Senza l’intervento esterno degli Stati Uniti è lecito dubitare che la situazione sarebbe degenerata nella guerra sanguinosa che da allora dilania il paese. Alla luce di ciò, sostenere che la soluzione al conflitto sia portare a termine la strategia di “regime change” che di quel conflitto è la causa scatenante rappresenta un salto logico quanto meno azzardato; la conseguenza più probabile della deposizione violenta di Assad e conseguente balcanizzazione della Siria (sul modello Iraq, Libia, ecc.), infatti, sarebbe quella di far sprofondare il paese in un guerra civile ancora più sanguinosa di quella attuale (senza considerare le conseguenze più ampie sul piano internazionale, di cui già abbiamo delle avvisaglie), non quella di far fiorire una ridente socialdemocrazia occidentale.

4. Se le cose stanno così, risulta abbastanza chiaro che la via migliore per porre fine al conflitto e riportare la pace nel paese sarebbe quella di interrompere immediatamente la strategia di destabilizzazione esterna e di “regime change” tutt’ora in corso e aiutare Assad a sconfiggere le forze jihadiste e a riprendere il controllo del paese; in un secondo momento si potrà poi valutare quali siano le istituzioni e gli strumenti più appropriati per aiutare le forze della società civile siriana ad avviare un processo di democratizzazione del paese.
Insomma, a detta di chi scrive, avere tutte e due le cose – la pace e la rimozione di Assad – pare francamente impossibile, a prescindere da qualunque altra considerazione di carattere politico, morale o legale; mi pare piuttosto che la scelta, piaccia o meno, sia tra (1) la permanenza di Assad al potere e l’avvio di un lento processo di pacificazione e democratizzazione del paese; e (2) il “regime change” e la definitiva irachizzazione della Siria, con tutte le conseguenze che si possono immaginare: proliferazione del terrorismo, esodi ancora più massici di profughi, ecc. Non vedo “terze vie”.

Note
[1] Basti sapere che la principale fonte a sostegno della tesi secondo cui l’attacco sarebbe responsabilità del regime è un dottore arrestato nel 2012 nel Regno Unito con l’accusa di terrorismo (e successivamente scagionato per insufficienza di prove) e che gli Stati Uniti finora hanno bloccato qualunque richiesta per un’indagine indipendente sui fatti di Idlib.

Egitto e Paesi del Golfo rompono con il Qatar: la “Nato araba” si frantuma prima di nascere

di Alberto Negri da ilsole24ore

 
Nel Golfo forse è cominciata una nuova era: dopo avere esportato instabilità in tutta la regione favorendo una versione dell'Islam retrograda e radicale le monarchie assolute del petrolio sono ai ferri corti.
Il quartier generale americano in Medio Oriente, il Centcom, ha sede in Qatar e gli Stati Uniti allo stesso tempo sono i maggiori protettori e fornitori di armi dell’Arabia Saudita, che insieme agli inglesi aiutano nella guerra in Yemen contro i ribelli Houthi sciiti. La rottura diplomatica tra Doha, l'Arabia Saudita, l'Egitto, gli Emirati Arabi e il Bahrein (cui si è aggiunto anche lo Yemen), incrina proprio il sistema di sicurezza americano e occidentale nel Golfo, cuore strategico del Medio Oriente e custode del 40% delle riserve petrolifere mondiali. Ecco perché questo scontro nel mondo sunnita degli sceicchi ci riguarda direttamente con tutte le implicazioni economiche, finanziarie e soprattutto per gli appoggi delle monarchie petrolifere ai movimenti radicali islamici e jihadisti.

In sintesi si frantuma ancora prima di nascere la “Nato araba” contro il terrorismo proposta durante il viaggio del presidente americano Donald Trump in Arabia Saudita, quando gli Usa avevano firmato con Riad una fornitura in armi record da 110 miliardi di dollari. Anzi proprio il viaggio di Trump aveva fatto esplodere le tensioni, neppure troppo latenti, tra i Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo. Sui media qatarini erano comparse dichiarazioni di fuoco attribuite all'emiro Tamim bin Hamad Al-Thani contro la “linea anti-Iran” dettata da Riad e soprattutto contro la presa di posizione durissima nei confronti dei Fratelli Musulmani e del movimento palestinese Hamas, organizzazioni appoggiate e finanziate da Doha.
Ricordiamo che con generosi finanziamenti i sauditi avevano appoggiato insieme agli Emirati il colpo di stato del 2013 al Cairo del generale Al Sisi che aveva sbalzato dal potere il governo dei Fratelli Musulmani del presidente Morsi. Già allora c'era stata la rottura per alcuni mesi delle relazioni diplomatiche tra Doha, Riad e gli altri Paesi del Golfo.
Tensioni di lunga data cui si erano aggiunte le accuse da parte dei sauditi ai qatarini di appoggiare le minoranze sciite in Arabia Saudita e in Barhein, argomento diventato ancora più sensibile con la guerra in Yemen contro i ribelli Houthi sciiti sostenuti da Teheran, un conflitto in cui Riad si è impantanata e non riesce a vincere neppure con l’appoggio degli Stati Uniti.

Non solo. Al Qatar, che condivide con Teheran lo sfruttamento di importanti giacimenti offshore di gas, viene imputato, con l'Oman, di avere troppe simpatie per la repubblica islamica. In realtà si tratta di rapporti di vicinato che in qualche modo contrastano con lo stesso appoggio fornito da Doha ai movimenti jihadisti in Siria anti-Assad, alleato storico degli ayatollah iraniani.
La contrapposizione tra Qatar e sauditi ha radici lontane. Il Qatar ha come religione di Stato lo stesso wahhabismo dei sauditi ma appoggia anche formazioni salafite “rivoluzionarie” come i Fratelli musulmani che si sono sempre schierate contro la Casa dei Saud e vogliono abbatterla. Questo è il motivo profondo dello scontro con Riad. Non è un caso che la moschea nazionale del Qatar sia intitolata a Muhammad ibn Abd al-Wahhab e che gli sceicchi sauditi nei giorni scorsi abbiano rinnegato i legami di sangue tra la famiglia regnate qatarina e il teologo arabo nato nella regione del Najd, nell'odierna Arabia Saudita.
In questa ostilità tra Riad a Doha giocano oltre alle ragioni politiche, religiose e ideologiche anche quelle personali. L'ostilità dei Saud contro gli Al-Thani risale al colpo di Stato con cui il padre dell'attuale emiro, Hamad bin Khalifa al-Thani, prese il potere nel 1995. All'epoca Riad chiese persino al presidente egiziano Mubarak di intervenire con le sue truppe per detronizzare l'usurpatore, ma all'ultimo momento il rais egiziano si tirò indietro.

Una cosa è certa. La sconfitta dei radicali sunniti in Siria e dell'Isis sta costringendo gli Stati del Golfo a riposizionarsi: i più svelti sono stati i sauditi, che dopo avere appoggiato per anni i gruppi estremisti si sono schierati con le posizioni americane e a favore di Israele in cambio da parte di Washington di accese dichiarazioni contro l'Iran, il vero avversario di Riad per l'egemonia nel Golfo. Il Qatar ha molte colpe, come quella di avere sobillato, come hanno fatto del resto per decenni anche i sauditi, i jihadisti, e di dare sostegno agli imam più radicali, ma soprattutto ha il “difetto” agli occhi di Riad di non volere uno scontro con la repubblica islamica che Doha vede come un elemento per bilanciare il potere saudita nella regione.
Dopo avere trasferito per anni in Medio Oriente e all’esterno le tensioni nel mondo sunnita, soprattutto per tenerle lontano da casa loro, finanziando i movimenti più radicali, le monarchie del Golfo hanno cominciato a sbranarsi tra di loro: da un certo punto di vista potrebbe essere una buona notizia ma pure l'inizio di un'inedita e imprevedibile instabilità nel Golfo in Paesi che compensano l'assenza di democrazia con il petrolio e gli investimenti colossali con cui hanno tenuto al guinzaglio anche le leadership del mondo occidentale.

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...