di Mimmo Porcaro da Socialismo 2017
1914 – 1917
Una inesausta tradizione critica imputa alla Rivoluzione del 1917 l’ ingiustificabile, eccessiva violenza che
essa avrebbe esercitato contro gli uomini e le cose, ma soprattutto
contro le leggi dell’evoluzione economica e della dinamica storica. Lo
si chiami blanquismo, lo si imputi a hybris,
lo si veda come opera dei demoni dostoevskijani o come applicazione
delle aride geometrie sociali di Cernisevskij, l’errore imperdonabile
dei bolscevichi sarebbe sempre lo stesso: l’aver agito fuori tempo e fuori luogo,
imponendo la rivoluzione ad un paese troppo arretrato e smorzando sul
nascere le possibilità di lento ma sicuro progresso della democrazia, e
poi del socialismo, aperte dalla fine dello zarismo. Basta però tornare
di poco indietro nel tempo e questa critica mostra tutta la propria
infondatezza. Nell’agosto del 1914 la socialdemocrazia tedesca, stupor mundi,
vanto del movimento operaio internazionale, immensa e rodata macchina
concepita proprio per accompagnare lo sviluppo del dinamico capitalismo
germanico verso un esito socialista, vota i crediti di guerra, si allea
strettamente con la burocrazia e con l’esercito (iniziando così a
legittimare quelle stesse forze che vent’anni dopo avrebbero condotto al
nazismo) e contribuisce in maniera decisiva allo scatenamento del primo
macello mondiale. In quel momento, come nota giustamente Luciano
Canfora sulla scorta di Fernand Braudel, la storia d’Europa avrebbe
potuto prendere un corso completamente diverso, tale da influenzare
decisamente anche il nostro presente. Si poteva scegliere fra socialismo e guerra, e la SPD fece la scelta peggiorei.
Ecco a cosa portano le intangibili leggi dell’evoluzione economica
(capitalistica) se lasciate a sé stesse; ecco dove conduce la storia
quando è fatta dalle classi dominanti. Ed ecco la ragione del ’17: i
socialdemocratici tedeschi, accettando l’evoluzione imperialista del
“loro” capitalismo, scatenano la guerra; i menscevichi russi, confidando
nell’evoluzione futura del capitalismo russo, non sanno o non vogliono
fermarla; i bolscevichi invece la fermano, perché non accettano nessuna
delle tendenze evolutive del capitalismo mondiale. Così, mentre nel
punto più alto dello sviluppo si realizza il punto più basso della
dignità umana, nel punto più basso dello sviluppo si accende invece
l’unica luce di speranza per milioni di operai e contadini che si
ammazzano nel fango per conto di altri. La rivoluzione dipende
certamente da una determinata ed obiettiva congiuntura storica, che deve
essere considerata con realismo dai rivoluzionari; ma gli esiti di
quella congiuntura possono essere molteplici e non rispondono a nessuna
necessità. La Rivoluzione non risponde alle leggi dell’economia né a
quelle della storia. Si origina da esse, e con esse deve confrontarsi,
ma non segue linearmente il loro corso (altrimenti sarebbe una ripetizione, non una rivoluzione) e avviene dove e quando avviene. E se avviene una volta può avvenire sempre: questo è il lascito antistorico dell’Ottobre (antistorico se la storia è intesa come quel tempo evolutivo, “omogeneo e vuoto” contro il quale scriveva Benjaminii).
Un lascito che sembra essere del tutto dimenticato, anche dalla residua
sinistra “rivoluzionaria”, che ancora attende che siano la
globalizzazione e l’Europa a recare con sé, con lo sviluppo delle forze
produttive, lo sviluppo del movimento dei lavoratori, della società
civile, della moltitudine e perciò (chissà come) del comunismo. Quindi,
tutti a soffiare nelle vele già gonfie dell’ideologia imperialista: più
globalizzazione, più Europa! Ma l’una e l’altra ci hanno già dato la
guerra e ne promettono una peggiore, a meno che qualcuno non rompa
questo meccanismo nei suoi punti deboli. Come purtroppo non si è fatto in Grecia. Come non
si vorrebbe fare in Italia se mai si presentasse l’occasione. E perché i
menscevichi nostrani aborrono l’idea della rottura nell’ ”anello
debole”? Proprio perché essa ricorda da vicino la rottura bolscevica e
la sua pretesa immaturità. Ma il fatto è che, dato un determinato
livello di sviluppo delle forze produttive, una rivoluzione socialista è
sempre matura e non lo è mai. C’è sempre la possibilità astratta
di usare a vantaggio dei molti le forze produttive esistenti, oppure di
usare il piano per sviluppare una produzione insufficiente. Ma c’è
sempre la necessità concreta
di fronteggiare la severa crisi che genera la rivoluzione e che a lei
consegue: e una crisi severa pone sempre di fronte ai rivoluzionari,
anche nei paesi più sviluppati, gravi problemi di scarsità, dilemmi a
volte tragici, nodi apparentemente insolubili, scelte che richiedono il
sacrificio di una parte dei propri obiettivi, proprio come se la rivoluzione non fosse ancora matura. Così vanno le cose, con la rivoluzione. E per questo chi è nemico della Rivoluzione russa è nemico di ogni rivoluzione.
Stile ed etica di Lenin
Non dobbiamo mai smettere di riflettere sullo stile politico di Lenin e sulle sue implicazioni teoriche e filosofiche. Uno stile fatto di continui spostamenti tattici in vista di uno scopo immutabile:
la conquista del potere politico in funzione della rivoluzione
socialista. Quello che Lunacarskij chiama, dando da subito un
significato positivo al termine, l’opportunismo di Leniniii
non è frutto dell’assenza di principi ma proprio della presenza di un
principio ordinatore. Proprio perché la sua azione non vuole limitarsi
alla propaganda, ma vuole avere a che fare sempre con la politica,
proprio perché non si limita a declamare un ideale in attesa della
pienezza dei tempi, ma vuole agire sugli attuali rapporti di forza,
proprio perché ha in testa un preciso obiettivo strategico Lenin deve
necessariamente operare tutte le svolte tattiche che la realtà gli
impone e gli consente: ed è disposto, per questo, a divenire minoranza
nel suo stesso partito. Chi vuole soltanto riaffermare in faccia al
mondo la bontà dei propri valori e la bellezza della propria immacolata
immagine non ha bisogno di tattica. L’assenza di svolte, l’assenza di
mutamenti, anche sorprendenti, negli obiettivi di fase e nelle alleanze è
indice dell’assenza di politica.
Ma in tutte le svolte di Lenin permane un elemento costante. Che non è,
va ripetuto, semplicemente l’obiettivo del potere politico, ma
l’obiettivo del potere politico in funzione degli interessi delle classi
subalterne. Questo è il punto veramente incondizionato, e quindi etico,
dello stile e dell’opera di Lenin. Un uomo che usa continuamente parole
diverse perché vuole affermare sempre la stessa cosa, che si sposta
continuamente da un luogo all’altro perché sta sempre da una parte sola, quella degli sfruttati. E che pertanto dimostra, ai cervelli non offuscati dai comodi cliché, la profonda motivazione morale
della sua intera esistenza. Una moralità che oggi non si comprende o
non si sopporta, visto che l’etica che ai giorni nostri viene
comodamente scialacquata serve per bloccare ogni politica, mentre l’etica di Lenin serve a produrre una politica di emancipazione. Una moralità ben compresa invece sia da un Deutscheriv che soprattutto da un Lukácsv,
che invita a considerare la figura di Lenin come realizzazione della
posizione etica stoico-epicurea. Accogliendo l’invito possiamo dire che
tale posizione consiste nel dare forma
alla propria esistenza in modo da poter prendere sempre posizione –
anche nei peggiori frangenti – in funzione del proprio progetto
razionale, nel discostarsi consapevolmente dalle situazioni che eccitano paure e passioni negative, nell’essere sempre pronti ad agire perché in ogni situazione concreta si gioca il senso di un’intera esistenza. Si può aggiungere che questo dar forma, questo sapersi discostare, questo saper agire, dal punto di vista strettamente politico si identificano con una tattica
che ha tra le sue preoccupazioni quella di impedire che il soggetto si
adagi in una posizione che lo allontani dal suo scopo, o che addirittura
lo possa trasformare antropologicamente estraniandolo dalla propria
classe e dalle proprie migliori motivazioni. Qui la tattica esprime
tutta la propria temibile, nascosta importanza: come insieme di
obiettivi concreti che il soggetto si pone, come insieme di posizioni
concrete che, una volta raggiunte, concorrono a determinare aspettative e
comportamenti, la tattica non è un mero strumento di un soggetto
politico presupposto, ma è una forma della costituzione del soggetto stesso. Per questo Lenin si indiavola per gli errori tattici. Un errore estremista può portare ad una prassi estremista e ad un compiaciuto autoisolamento. Un errore opportunista può tradursi in una prassi
opportunista e poi in un cedimento morale all’avversario. In entrambi i
casi un errore tattico ripetuto conduce ad un allontanamento dalla
motivazione fondamentale dell’azione: il rapporto con gli sfruttati. E’
per evitare questa separazione antropologica dalla “classe dei molti”
che Lenin rompe con i menscevichi prima e con la socialdemocrazia dopo.
Ed è per questo che avrebbe quasi certamente rotto (come era abituato a
fare) col suo stesso partito sulla questione della natura dello stato
che si andava a costruire, e che andava già allontanandosi dalla
simbiosi positiva con le masse.
1918 – 1923
Trascorso esattamente
un anno dalla rivoluzione russa, l’inizio della rivoluzione tedesca
dimostra subito che l’evento di Pietrogrado non è replicabile in forma
pura, e che il cammino degli sfruttati è decisamente contortovi.
I soviet che nascono nel novembre 1918 non trovano di meglio che
indicare come proprio rappresentante quello stesso Friedrich Ebert che,
come leader
socialdemocratico, è corresponsabile dell’entrata in guerra ed è
avvinto alle gerarchie dello stato. Gerarchie che non a caso lo
individuano come premier
del governo che dovrà frettolosamente inaugurare la democrazia
parlamentare in Germania. Così Ebert si trova, contemporaneamente, alla testa della rivoluzione e della reazione,
e la funzione di controllo politico e di polizia che la SPD ha svolto
durante tutto il conflitto ne viene premiata ed esaltata. Fin
dall’inizio il soviettismo si dimostra incapace di darsi una direzione
veramente autonoma, e per tutto il corso degli eventi il connubio tra
l’SPD e l’esercito nero assicurerà, a fatica, la sopravvivenza delle
vecchie classi dominanti. Di fronte a ciò non si erge nessun partito pur
lontanamente paragonabile a quello bolscevico, anzi. Il repertorio
degli errori che costellano la storia della mancata rivoluzione tedesca è
talmente vasto che meriterebbe di essere posto fra i testi obbligatori
di un programma di formazione politica. Incomprensione della necessità
della costruzione immediata di un partito rivoluzionario autonomo.
Incomprensione della necessità di attrezzarsi a continue svolte
tattiche. Primitivismo, avventurismo, ma anche attendismo e
opportunismo. Leader
che per emendare un precedente comportamento ultrasinistro si
comportano poi cocciutamente in maniera opposta, e viceversa. Lo stesso
partito bolscevico, e con lui la neonata Internazionale comunista, non
brillano sempre per sagacia e soprattutto per conoscenza della
situazione e tempestività dei suggerimenti. Ma questi errori (molti dei
quali del tutto comprensibili) forse non sarebbero bastati a sconfiggere
quello che secondo Franz Borkenau era il più grande movimento di
origine proletaria mai conosciuto al mondovii.
E non impedirono, in fin dei conti, la nascita e la crescita di un
partito comunista che seppe darsi una dimensione di massa. Il fatto è,
però, che la rivoluzione trovò di fronte a sé, in Germania, almeno due
pesanti ostacoli che in Russia non si conobbero. Primo: in Germania la
tendenza conciliatrice interna
al movimento operaio non è (o non diviene rapidamente) minoritaria come
in Russia, ed anzi è largamente maggioritaria, radicata nel
proletariato, esperta e dotata di mezzi notevoli. Così viene dimostrata
praticamente una verità del tutto inattesa dai rivoluzionari: la maggioranza del proletariato non vuole,
o non vuole immediatamente la rivoluzione, ed è disposta a credere più a
chi promette soluzioni graduali che a chi predica rotture. Secondo
ostacolo: nonostante quanto sopra, la durezza della crisi
inflazionistica pilotata dalla borghesia tedesca espone comunque la
borghesia stessa al rischio costante di una radicalizzazione del
proletariato. A questo punto, quello che non era riuscito militarmente in Russia alla coalizione antibolscevica riesce economicamente
in Germania all’imperialismo americano, e dal 1923, conclusosi
farsescamente un ultimo conato rivoluzionario che avrebbe forse potuto
avere sviluppi diversi, si inaugura l’era degli “investimenti
antisocialisti” degli Stati uniti, forma efficacissima di restaurazione
dei rapporti sociali da parte del sistema capitalista mondialeviii.
Gli ostacoli che
bloccarono il partito comunista tedesco sono in fondo ancora davanti a
noi. Ma se il nesso tra le gerarchie imperialistiche mondiali e la
riproduzione dei rapporti sociali su scala locale è stato oggetto di
numerose riflessioni ed approfondimenti, la costante egemonia del
“movimento operaio-borghese” sul complesso del movimento dei lavoratori
non ha ricevuto analoghe attenzioni. Il fatto che i lavoratori
organizzati, per la loro conoscenza del processo produttivo e per la
loro attitudine alla cooperazione, siano la figura centrale della
costruzione del socialismo, fa credere che quindi essi siano anche necessariamente la figura centrale della rottura rivoluzionaria, e che anzi senza di essi o contro
una parte rilevante di essi non sia possibile nessun progresso
politico. Ecco che quindi fin dall’inizio i rivoluzionari sono costretti
a porsi un problema sorprendente: quello della conquista della maggioranza di quel proletariato che avrebbe dovuto essere naturalmente
rivoluzionario. Da qui la tattica del Fronte unito: marciare insieme ai
sindacati ed ai partiti “operai-borghesi” per dimostrare alle masse,
nel corso della battaglia comune per obiettivi economico-sociali da
tutti condivisi, la vera natura delle organizzazioni socialdemocratiche,
smascherarle e sostituirsi ad esse nella direzione del movimento.
Fatica ardua, costellata di successi parziali ma quasi mai coronata da
vittorie strategiche. Perché se è vero che l’ossessione leniniana per la
verità concreta e per l’importanza dell’esperienza diretta
delle masse resta una chiave universale dell’agitazione e dell’azione
politica, è anche vero che essa non conduce a nulla se non si comprende
che il proletariato non è affatto naturalmente rivoluzionario, e che non è quindi sufficiente dimostrare la natura moderata della socialdemocrazia, dato che questa corrisponde alla natura moderata delle masse stesseix.
Quando si dice “natura” si intende ovviamente l’aspetto normalmente
dominante della natura delle masse: anche quando lotta con asprezza il
proletariato sa di dipendere dal capitale e sa che uno “sciopero del
capitale” può lasciarlo senza mezzi di sussistenza, a meno che non
intervenga da subito un nuovo ordine di cui però, all’inizio, non è
facile vedere i contorni. Perché l’aspetto rivoluzionario del
proletariato possa emergere sono necessari almeno due fattori: una crisi
generale della società, dell’economia e dello stato, ed una
mobilitazione che aggiunga alle motivazioni economiche (che da sole
potrebbero giustificare anche comportamenti opportunistici) la
motivazione della difesa del proprio mondo vitale: della vita contro la
guerra, della casa contro la miseria e l’invasione, del lavoro contro lo
sfruttatore, della libertà contro l’oppressione. Soltanto le identità vissute come non negoziabili
conducono alla rivoluzione, e quindi solo il formarsi progressivo di
queste identità (e non la ripetizione di rivendicazioni economiche)
prepara le condizioni soggettive di un rivolgimento. Il nostro problema
attuale è quello di capire quali identità possono accompagnarsi agli
obiettivi socialisti quando, come oggi, l’identità di classe, l’identità
dei lavoratori stabili ed organizzati, è quasi sempre connotata in
senso moderato, e la rabbia sociale si diffonde invece nel mondo
apparentemente amorfo del quasi-lavoro. Un mondo di cittadini anonimi
che oggi in Europa sembrano aver perduto le loro radici di classe e
possono ritrovarle solo riaggregandosi appunto come cittadini, titolari
di uno spazio politico che renda possibile lavoro e libertà.
1935 – 1949
La linea del Fronte
unito, ridotta all’astuzia di allearsi con qualcuno per smascherarlo,
non poteva funzionare. Né funzionò la successiva linea che assimilava
ormai socialdemocrazia e fascismo. Entrambe non potevano che favorire
sia la persistenza dell’egemonia socialdemocratica sia l’ascesa del
fascismo vero. Fino a che, nel 1935, il VII congresso
dell’Internazionale comunista non varò la linea dei Fronti popolarix,
ossia dell’alleanza antifascista non soltanto con la socialdemocrazia,
ma anche con la borghesia democratica mostrando come il processo
rivoluzionario, che già si era complicato con il Fronte unito, per farsi
più efficace debba farsi più spurio. Qui si apre una questione
storiografica e politica di estrema delicatezza e difficoltà. Fu, quella
linea, soltanto l’effetto della teoria staliniana del socialismo in un
paese solo, e quindi della necessità di difendere l’Urss alleandosi coi
governi democratico-borghesi e con quelli delle nazioni
anticolonialiste? Fu quella la causa principale della sconfitta del
movimento rivoluzionario in occidente (costretto a rinunciare ai suoi
obiettivi per quelli genericamente democratico-nazionali), e quindi
dell’esplosione della Seconda guerra mondiale? Oppure fu il colpo di
genio che rallentò l’affermazione del fascismo, consentì all’Urss di
rafforzarsi e poi di vincere, favorì il radicamento di massa dei partiti
comunisti nell’occidente postbellico? Sul punto si potrà discutere
all’infinito, ma c’è una considerazione che deve precedere tutto: la
scelta del Fronte unito o del Fronte popolare, il rifiuto del
velleitarismo rivoluzionario, il bisogno di articolare lotta per il
socialismo e lotta nazionale possono essere argomentati realisticamente anche senza dover far ricorso all’influenza dell’Urss e della teoria del socialismo in un paese solo.
Influenza che ci fu, spesso fu decisiva e a volte fu nefasta, ma che
può essere considerata come causa fondamentale delle difficoltà del
movimento comunista soltanto se si presuppone l’esistenza continua di situazioni o di forti potenzialità rivoluzionarie,
cosa che non è dato riscontrare in quegli anni e con quella continuità
presupposta dai critici del bolscevismo e dello stalinismoxi.
Insomma, non c’era bisogno dell’ascendente dei bolscevichi per capire
che il giovane e gracile partito comunista cinese poco avrebbe potuto in
uno scontro immediato col Kuomintang, e che in una fase iniziale
meglio avrebbe fatto, come fece, a partecipare direttamente a quella
formazione democratico-borghese pur mantenendo la propria autonomia
organizzativaxii.
Né c’era bisogno dell’ascendente di Stalin per capire che di fronte al
nazifascismo era necessaria una politica di larghe o larghissime
alleanze. Forse soltanto nel caso della Spagna si può sostenere che un
diffuso movimento rivoluzionario sia stato scientemente bloccato dalle
imposizioni dell’Urss e si può argomentare che tale blocco abbia reso
più difficile proseguire efficacemente la guerra contro Francoxiii.
Ma anche in quel caso la necessità di pensare prima alla vittoria
contro il fascismo e poi alla rivoluzione faceva parte delle opzioni
realistiche (tanto che gli stessi anarchici parteciparono in maniera
significativa al governo frontista di Largo Caballero). E la stessa
decisione comunista di porre al movimento spagnolo compiti puramente
democratici e non socialisti non era soltanto consona all’interesse
sovietico per i buoni rapporti con il capitalismo liberale europeo, ma
era anche legata al fortissimo rischio di isolamento che avrebbe corso
una Madrid rossa di fronte all’inevitabile reazione anglo-americana e
alla già dimostrata connivenza francese. Quanto alla Cina è innegabile
che, tra gravi errori e forti contraddizioni, la linea frontista, e la
capacità di sospenderla e riprenderla a tempo debito, è stata una delle
condizioni della splendida vittoria del ’49, che peraltro si deve in
gran parte anche dalla capacità di iniziativa autonoma del PCC sia nelle zone liberate sia nella gestione della guerra antigiapponesexiv.
L’aver scelto, dopo sbandate e tentennamenti, una politica di fronte
antifascista e anticoloniale, ha consentito al movimento comunista, e
ancor di più all’idea di comunismo, di diffondersi ovunque e di
mantenere una significativa presenza anche nell’Europa capitalista: se
oggi qualcuno parla ancora di comunismo è anche grazie a quell’esperienza. E se oggi in Europa ancora c’è uno straccio di welfare
lo si deve in buona misura al terrore che Lenin e Stalin hanno seminato
in tutta la borghesia, e a quelle Costituzioni democratico-sociali che
(come ben ha compreso il capitale finanziario che non a caso le detesta)
sono il più importante sedimento dell’onda lunga del 1917. Su questo
punto, insomma, le critiche delle diverse varianti del comunismo di
sinistra non mi paiono realistiche. Non a caso, in 100 anni, quelle
posizioni critiche, anche se hanno influenzato importanti esperienze di
movimento e serie riflessioni teoriche, non hanno mai condotto a nessuna
vittoria storica significativa. Un esito che consente loro,
paradossalmente, di riprodurre la tendenza estremista perché le libera
dall’obbligo di rispondere alle inevitabili delusioni a cui è esposta
ogni concreta realizzazione storica: chi non vince mai, non deve render
conto di nulla.
La dialettica all’opera
Eppure, se è vero che
la variegata sinistra comunista non avrebbe saputo assicurare quello
sviluppo mondiale del movimento che fu invece assicurato dal frontismo, è
anche vero che dialetticamente (e quindi ironicamente) in quella stessa
diffusione dei partiti e dell’orientamento comunista c’era il germe del
successivo disfacimento. Un germe che può essere individuato in ciò:
non fu la scelta del fronte il vero errore, e nemmeno fu l’eccessiva
fiducia riposta in questa o quella borghesia nazionale o la stessa
sbagliata concezione dell’inevitabilità
dei due tempi (prima la democrazia, poi il socialismo). Fu piuttosto
l’idea che il fascismo fosse l’ultima parola del capitalismo, che
quest’ultimo avesse davanti a sé soltanto l’opzione reazionaria e
stagnazionista, che nel capitalismo postbellico ogni idea di
pianificazione fosse pura propaganda ed ogni espansione dei consumi
fosse impossibile. E che per questo motivo la strategia comunista si
poteva ridurre alla lotta per la democrazia e per lo sviluppo, non
soltanto perché questo imponeva l’ordine di Yalta, ma perché in ogni caso
democrazia e sviluppo, erano tendenzialmente connotate in senso
socialista a causa dell’incapacità del capitalismo di assicurare l’una e
l’altroxv.
Inoltre nell’idea di Togliatti, che è indubbiamente colui che più ha
affinato la prospettiva frontista, la democrazia, lo sviluppo e la
stessa possibile torsione socialista dell’una e dell’altro erano
garantite essenzialmente dalla presenza attiva del partito comunista all’interno dello stato:
e questa presenza politica era ritenuta sufficiente a guidare la
macchina statale anche se essa restava istituzionalmente identica, o
quasi, a quella forgiata dalle classi dominanti. Nessuno
spazio, quindi, per forme autonome di democrazia popolare capaci
quantomeno di entrare in dialettica con quello stato. Ma nessuno spazio
anche per “eccessivi” interventi pianificatori e redistributivi: tutto
doveva essere valutato in funzione della possibilità di restare al
governo, o di tornarvi. La democrazia progressiva
come forma intermedia tra capitalismo e socialismo eludeva così, in
realtà, ogni prospettiva di transizione. Strategia gravida di
conseguenze, inizialmente positive (non cesseremo di studiare la natura e
lo sviluppo del PCI come partito di massa), ma alla fine disastrose.
L’alterità comunista, fondata non più su una concreta prospettiva
socialista, ma sulla presunzione di essere l’unica forza capace di
assicurare un qualche progresso, svanirà quando il capitale, smentendo
clamorosamente il catastrofismo della III Internazionale, si mostrerà
capace di pianificare lo sviluppo in una cornice democratica. Peggio
ancora, la diffusa presenza dei comunisti nelle istituzioni politiche ed
economiche date li
trasformerà col tempo, privi com’erano di una vera autonomia culturale
nelle questioni nodali dell’economia e dello stato, in agenti di
quelle istituzioni stesse, dimostrando così, in negativo, il valore
dell’etica di Lenin. Il crollo dell’Urss ed il trionfo della
globalizzazione libereranno fino in fondo le pulsioni dirigenziali degli
eredi di Togliatti consentendo loro di candidarsi finalmente a compiti
di governo. E questa parabola presenterà, in Italia, una caratteristica
aggiuntiva: la centralità della presenza istituzionale del partito,
unita allo scetticismo sull’utilità del piano all’interno di un economia
capitalista, farà sì che fin da subito
il Pci sia relativamente indifferente ai contenuti “tecnici” delle
scelte di politica economica, a condizione di avere un ruolo decisivo in
quelle scelte stesse. Ciò condurrà ad accettare di fatto l’egemonia
culturale dell’antifascismo liberista (che identificava i mali del
regime essenzialmente con gli eccessi di statalismo e con la distorsione
monopolistica della concorrenza), a perdere ogni ostilità di principio
verso le politiche di stabilità monetaria, ad accogliere, pur tra
qualche resistenza interna, misure economiche tradizionalissime che
ribadivano le gerarchie sociali del paesexvi.
Ne deriveranno la politica economica (sostanzialmente liberista)della
Ricostruzione, l’atteggiamento verso il centro sinistra (fatto di
critiche all’esclusione dei comunisti ma anche di convergenze su una
versione soft dell’intervento pubblico) e soprattutto la riscoperta
dell’ “interesse generale” alla deflazione,
riscoperta fatta alla fine degli anni’70 e destinata a lungo successo.
Sia chiaro: alle tante colpe di Stalin non si deve aggiungere quella di
aver generato i D’Alema e i Bersani. La trasformazione del Pci in Pds
segna comunque una rottura storica. Ma l’identificazione del progresso
col mercato, la limitazione dell’azione governativa alla liberazione
della concorrenza, la deferenza (peraltro comune a molta sinistra) nei
confronti della Banca d’Italia, e quindi l’apprezzamento della sua
autonomia, non sono state inventate oggi né si devono alla nefasta
influenza di Eugenio Scalfari. Vengono da lontano.
Historia magistra
Tutta questa vicenda è
chiaramente ricca di insegnamenti. Oltre a quello, da tempo oggetto di
discussione, dell’impossibilità di concepire le alleanze come rinuncia a
qualunque iniziativa autonoma da parte dei comunisti, due insegnamenti
mi paiono molto importanti per noi, oggi. Il primo riguarda le forme
della politica, prima ancora dei contenuti. Abbiamo imparato che la
rivoluzione o è spuria o non è, e che non è possibile evitare di
confrontarsi con l’apparato di stato, di costruire alleanze, di definire
obiettivi intermedi. Ma abbiamo imparato anche che se il movimento dei
comunisti è gestito da una sola istituzione e se questa istituzione è un partito che vede principalmente nello stato esistente il suo spazio di realizzazione, l’inevitabile cooptazione del partito nello stato trascina con sé la metamorfosi negativa di tutto il movimento rivoluzionario. Per ovviare a ciò è necessario un pluralismo istituzionale
del movimento. Il “partito” dei comunisti (sia esso composto da una o
da diverse organizzazioni) deve essere distinto dal partito democratico
di larga coalizione che occupa l’amministrazione, ed entrambi devono
essere distinti sia dai sindacati che dalla rete di istituzioni popolari
autonome. Ognuno di questi elementi è chiamato a dirigere la danza, se
sa farlo. E se uno fallisce o passa dall’altra parte, qualcun altro può
subentrare. L’altro insegnamento riguarda l’internazionalismo. Abbiamo
imparato che un associazione internazionale può trasformarsi nello
strumento della potenza di una nazione soverchiante. Ma non possiamo
dedurne che un processo rivoluzionario debba essere scadenzato fin
dall’inizio sui tempi e i modi di un movimento internazionale. La
rivoluzione ha inevitabilmente una dimensione locale (perché lo spazio globale è soltanto lo spazio del capitale) che a sua volta è quasi sempre una dimensione nazionale,
ed è a partire da questa dimensione che si pongono gli inevitabili e
decisivi problemi di collocazione internazionale che ogni rivoluzione
deve risolvere. Il rapporto con altri stati è con altri movimenti è
inevitabilmente mediato dalle caratteristiche nazionali e dalle
divergenze fra le nazioni (divergenze storico-geografiche, oggi acuite
dalle dinamiche dell’accumulazione capitalistica mondiale). Certo, anche
Trotskij sapeva che “la rivoluzione socialista comincia sul terreno
nazionale, si sviluppa sull’arena internazionale e si compie sull’arena
mondiale”xvii.
Ma a mio parere sottovalutava (e di molto) i condizionamenti imposti
dall’inevitabile dimensione nazionale dell’inizio della rivoluzione,
perché presupponeva un astratto interesse comune del proletariato
mondiale alla rivoluzione, mentre questo interesse comune non può essere
pensato come un presupposto ma è il risultato
di un faticoso lavoro di mediazione tra i diversi interessi immediati
dei lavoratori dei diversi paesi. Di più, nelle condizioni attuali non
si può pensare l’internazionalismo come un rapporto che si stabilisca
solo tra nazioni orientate al socialismo, ma lo si deve vedere come un
rapporto tra nazioni e/o blocchi aventi il comune obiettivo di ridurre
la libertà di circolazione capitale e di gestire politicamente i
rapporti fra stati in modo da non costringere nessuno di essi alla
subordinazione o alla deflazione competitiva.
Dividere l’uno in due
Era necessario
Stalin? Potrei dire che era necessario forzare sia la collettivizzazione
che l’industrializzazione, senza le quali la II guerra mondiale sarebbe
finita molto diversamente. Potrei aggiungere che era necessaria una
soluzione autoritaria al problema del potere in Unione sovietica, per
l’ampiezza dell’impero, per la durezza dei conflitti interni ed esterni,
per le tradizioni politiche e per le stesse innegabili caratteristiche
autoritarie del bolscevismo (autoritarismo che Lenin superò nella
pratica, ma non sufficientemente nella teoria). E potrei concludere che
non era però necessaria una soluzione autoritaria all’interno
del partito, visto che Lenin era riuscito a garantire la più ampia
discussione anche in momenti assai più critici di quelli vissuti da
Stalin. Ma riconosco di non poter rispondere seriamente a questa
domanda, e penso anche che ad essa, come a tutte quelle che riguardano
l’involuzione del socialismo reale si potrà iniziare a rispondere
seriamente solo quando un nuovo movimento socialista sia cresciuto
abbastanza, in intelligenze e risorse, per poter riprendere lo studio
sistematico delle esperienze del passato. Un tale studio dovrebbe essere
guidato dal un orientamento dialettico. Nella discussione su Stalin, e
sul socialismo reale, la fa da padrona la sterile fissità delle opposizioni,
mentre dovremmo essere in grado di comprendere che i rapporti più
importanti sono vere e proprie contraddizioni, dove l’un polo può
esistere ed essere definito solo nella relazione che lo oppone
all’altro, e dove nessuno dei due poli può essere definitivamente
assorbito nell’altro. Partito e movimento, democrazia e centralismo,
offensiva e difensiva, nazione ed internazionalismo, piano e mercato
sono appunto i poli di altrettante ineliminabili contraddizioni. E la
soluzione di tali contraddizioni non consiste nella sparizione dell’uno
dei termini o nella conciliazione degli opposti, ma nel trovare per
ciascuna di esse, nella concretezza della prassi, una forma di
svolgimento a noi favorevole. Ciò vale soprattutto per la contraddizione
che, quando si parla di stalinismo, è forse più la più “pesante”, ossia
quella fra stato e società.
Anche e soprattutto in questo caso non si può abolire uno dei due
termini, e quindi non si può abolire lo stato. Si può abolirne il
carattere di classe, farlo gestire da personale proveniente dai ceti
subalterni, rendere obbligatoria per i funzionari la consultazione
continua dei gruppi sociali, si può e si deve porre di fronte ad esso il
contraltare delle istituzioni popolari autonome. Si può fare tutto ciò,
ma non si può eliminare la funzione dello stato come ente distinto dalla società,
agente attraverso norme generali garantite in ultima istanza da un
potere coercitivo. Dobbiamo riconoscerlo con pacatezza: la teoria
dell’estinzione dello stato, nella sua forma più estrema, è sbagliata; e
riconoscerlo non significa affatto ammainare la bandiera rossa, anzi:
significa lavorare per una più forte democrazia
popolare. Infatti, anche se eliminassimo formalmente i centri di potere
statale, le esigenze di organizzazione sociale e l’emergere di nuove
concentrazioni di potere tecnologico-finanziario sempre possibili anche
all’interno del lavoro cooperativo, creerebbero centri di forza tanto
più potenti quanto più occulti. Meglio dunque una sovranità palese e
contestabile che una occulta e inattingibile. Si risponde: fondiamo lo
stato sui soviet. Ma che succede se il soviet A diviene più ricco o
potente del soviet B e lo prevarica? Chi ristabilirà l’eguaglianza se
non un ente terzo dotato di potere coercitivo? E soprattutto, cosa che
non mi stancherò mai di ripetere, chi svolgerà la funzione essenziale di
contestare lo stato dall’esterno
e di preparare eventualmente gruppi alternativi di funzionari, chi lo
farà se e quando i soviet saranno divenuti tutt’uno con lo stato, saranno
lo stato? Infatti, se dico che lo stato è inevitabile, dico anche che è
inevitabile la tendenza alla degenerazione autoritaria o
autoreferenziale dello stato; e quindi aggiungo immediatamente che nel
momento in cui costruiamo un nuovo stato dobbiamo da subito creare dei
contrappesi: le garanzie del diritto, l’attività di organismi sociali
autonomi, la separazione del partito dagli apparati di stato. Se invece
penso che lo stato o il semi-stato socialista siano in linea di
principio esenti da tare interne in quanto espressione immediata del
popolo o della moltitudine, mi consegno disarmato alla riproduzione, su
scala pericolosamente allargata, dei poteri indiscutibili ed informali
che inevitabilmente lievitano nelle situazioni di formale assenza di
potere. Qui si vede come le posizioni consiliariste, democraticiste,
anarchiche possono giungere anch’esse ad esiti del tutto opposti a
quelli sbandierati – tragedia che quindi non colpisce soltanto il
bolscevismo. E possono giungervi non soltanto perché il disordine
sociale generato dall’applicazione integrale delle loro tesi
provocherebbe una inevitabile reazione autoritaria. Ma perché esse
contengono un forte elemento di autoritarismo implicito in quanto condividono con lo stalinismo una idea monistica
del potere. Stalin assorbe la società nel partito-stato. I suoi
avversari fanno l’opposto. Ma in questo come in altri casi bisogna, al
contrario, mantenere la tensione fra i due poli. E, come diceva Mao –
forse il più importante critico dello stalinismo – dividere l’uno in due.
1960 – 1980
Se la prima ondata
causata dal terremoto del ’17 si è infranta sugli scogli dell’Europa
centrale, se la seconda (1935-1949) ha rotto quegli argini, guadagnando
in ampiezza ma diminuendo in intensità (salvo che in Cina e Jugoslavia),
e quindi facendo sedimentare le Costituzioni democratico-sociali
europee, la terza ondata, iniziata nella seconda metà degli anni ’60,
pur non essendo paragonabile alle prime due quanto ad intensità e
ferocia delle vittorie e delle sconfitte, e pur rappresentando, a ben
vedere, soltanto una mezza rivoluzione, ha dato comunque la stura ad una
controrivoluzione in piena regola. Vien da dire che anche se solo una
parte minoritaria degli operai e degli intellettuali che occupavano
fabbriche, scuole, piazze in quegli anni di libertà era consapevole di
aver alzato la stessa bandiera del ’17, la totalità della classe opposta
avrebbe invece compreso molto in fretta che la posta in gioco del
conflitto era in fondo la stessa. La forza dei movimenti sociali di
quegli anni era dovuta agli effetti di quelle Costituzioni che a loro
volta erano debitrici di Lenin e di Stalin. L’americanismo fondato su
alti salari ed alti consumi era una tendenza interna del capitale, ma la
sua diffusione e la coloritura socialista che esso assunse in Europa
molto devono alla concreta esistenza di un minaccioso blocco comunista.
La piena occupazione consentiva di porre nuovamente non solo il problema
del salario, ma anche quello del controllo della produzione. Lo
stridore fra le permanenti diseguaglianze e l’aumento della ricchezza
materiale, reso più evidente dal contrasto con le promesse
costituzionali, allargava il conflitto e faceva convergere strati
sociali diversi. La lotta esplose, e durò a lungo. Ma nonostante ciò non fu una rivoluzione.
I suoi punti alti furono i consigli operai ed alcuni momenti di
alleanza fra diverse classi popolari (in particolare fra operai e
studenti di origine piccolo borghese). Nonché alcune riforme che
accentuavano il potere dello stato rispetto a quello della singola
impresa privata. Ma non fu una rivoluzione perché mancò l’aspetto della
crisi generale del sistema, perché l’intervento pubblico seppe lenire
gli effetti della crisi economica, perché partiti e sindacati operai
erano già da tempo divenuti parte integrante dell’apparato di stato
(intendendo lo stato nel senso ampio, “gramsciano” del termine). Il
problema ben compreso dai capitalisti, però, era che la forza del
movimento dei lavoratori non derivava da vicende occasionali ma dalla posizione strutturale
del lavoro in un quadro di piena occupazione, dall’ideologia
dell’eguaglianza che a questo quadro era connessa, dalla convergenza
dell’intellettualità su questa stessa ideologia, e infine dal ruolo diretto
assunto nella gestione dell’economia da uno stato che, almeno in linea
di principio, avrebbe potuto davvero cadere in mani pericolose. Ripeto:
le lotte di quegli anni erano il risultato della lunga durata della
Rivoluzione. Per contrastarle ci volle quindi una controrivoluzione che
fu diversa dalle altre solo per il tasso minore di violenza ed il tasso
maggiore di ristrutturazione economica ed ideologica. Una
ristrutturazione che ha il suo apice nella globalizzazione: incalzato
dal lavoro, il capitale si libera dai confini degli stati nazionali e
dai pericolosi progetti semisocialisti delle burocrazie ed inizia la
fantastica avventura della finanziarizzazione. Disoccupazione e
delocalizzazione frammentano la classe operaia, aumentano le divisioni
tra skilled
e no, i ceti prima attratti dalla classe operaia vengono ora nuovamente
sedotti dal capitale, che opera una magistrale sussunzione degli
aspetti individualistici e libertari del’68 a scapito di quelli
egualitari. Proprio quando la rivoluzione sembrava essersi impadronita
delle dinamiche sociali più profonde ed essere pronta a riemergere
direttamente, il neoliberismo e la contemporanea sconfitta del
socialismo la rendono remota come non mai. Nulla testimonia di più di
questo fatto quanto la spensierata spregiudicatezza con la quale oggi,
quando si vuole spacciare una nuova merce, si può parlare di rivoluzione
senza temere che la parola assuma altri significati.
2017
E’ finita la
Rivoluzione? Apparentemente sì. Apparentemente la globalizzazione ha
dissolto tutti gli effetti derivanti dalla lunga durata della rottura
bolscevica. E soprattutto ha chiuso lo spazio
di ogni rivoluzione, o, meglio, lo ha aperto in modo tale da far
divenire inattingibile quel potere che il ’17 aveva spezzato. Gli
effetti (e con essi la prospettiva) della rivoluzione sembrano quindi
morti. Ma a ben vedere tutto ciò riguarda l’ideologia e non la realtà
della globalizzazione. E non mi riferisco soltanto al fatto,
importantissimo, che il sogno unipolare dei Bush e di Toni Negri è da
tempo finito, infranto da due paesi che in forza della rivoluzione si
sono dati un capitalismo di stato che collide col capitalismo liberista e
che in tal modo può aprire spazi a chi deve allontanarsi dal blocco
occidentale. Mi riferisco a qualcosa di ancor più immediato e tangibile.
Mi riferisco proprio a noi, perché si sta ricostituendo lo spazio della nostra azione, e perché questa azione deve di nuovo urtare contro lo sviluppo
del capitalismo europeo. La globalizzazione divora sé stessa: i suoi
squilibri riproducono l’esigenza di una politica nazionale e con questo
riaprono la possibilità di un intervento dei comunisti su un potere localizzato.
Già nella semiperiferia latinoamericana si sono da tempo aperte
possibilità per importanti esperienze orientate al socialismo. Ma nella stessa Europa avanzata si realizzano inedite situazioni di subordinazione di interi paesi, condannati ad essere strangolati dai meccanismi che rendono permanenti
gli squilibri interni all’area e dal conseguente indebitamento. La
Grecia, che è la nostra culla, è anche la nostra verità: dimostra che
anche una semplice richiesta di redistribuzione del reddito non può
essere soddisfatta se non scegliendo una via rivoluzionaria,
che è tale perché implica la conquista (e la ricostruzione) delle leve
di comando, il mutamento del personale di governo e del suo rapporto con
le classi subalterne, il rilancio dello stato come centro di
orientamento dell’economia, la ricollocazione internazionale del paese.
Via rivoluzionaria che richiede di trovare ed esplicitare il legame tra
autonomia di classe ed indipendenza nazionale, e quindi di ribaltare la
strategia di distruzione delle nazioni, tipica dell’attuale forma
dell’imperialismo. Tutto ciò (che per alcuni palati difficili è ancora
“troppo poco”, ma per gli imperialisti è comunque inaccettabile) non è
altro che il farsi di nuovo tangibile del problema dello stato. E il ’17
altro non è, in fondo, che la dimostrazione che per le classi
subalterne è necessario ed è possibile
conquistare e trasformare il potere di stato in funzione dello sviluppo
di un progetto socialista. Forme, tempi, modi del processo sono
indiscutibilmente mutati dal ’17; e la sconfitta finale del socialismo
di stato pesa ancora sulle nostre spalle. Ma nessun movimento popolare
attende, per svilupparsi, che qualcuno abbia elaborato il lutto di una
sconfitta: se deve nascere nasce comunque.
Ed ogni volta che verrà posto concretamente il problema dello stato, e
quindi ogni volta che una rivoluzione anticapitalista cercherà la sua
strada, è al ’17 che si dovrà fare riferimento.
i Luciano Canfora, L’uso politico dei paradigmi storici, Laterza, Bari 2010, p. 59.
ii Walter Benjamin, Sul concetto di storia,
Einaudi, Torino, 1997, p. 45. Nel volume, ottimamente curato da
Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, si trovano, tra l’altro, anche i
materiali preparatori delle Tesi, da cui traggo questa limpida
osservazione: “Marx dice che le rivoluzioni sono le locomotive della
storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso.
Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da parte del
genere umano in viaggio su questo treno.” (p.101).
iii Anatolij Lunacarskij, Profili di rivoluzionari, De Donato, Bari, 1968, pp. 47 e 65.
iv Isaac Deutscher, I dilemmi morali di Lenin, in Ironie della storia, Longanesi, Milano, 1972, pp.133-145.
v György Lukács, Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario, Einaudi, Torino, 1970, p. 127.
vi Pierre Broué, Rivoluzione in Germania 1917-1923, Einaudi, Torino, 1977; F.L. Carsten, La rivoluzione nell’Europa centrale 1918/1919, Feltrinelli, Milano, 1978.
vii Pierre Broué, op.cit., p.101.
viii Ibidem, p. 756. Cfr. anche Enzo Collotti, Socialdemocratici e spartachisti: conquista o rottura dello stato borghese, in AA.VV., Dopo l’ottobre. La questione del governo: il movimento operaio tra riformismo e rivoluzione, Mazzotta, Milano, 1977, p. 40.
ix Un giudizio analogo si trova in Andreina De Clementi, L’Internazionale, il fascismo e Gramsci, in Dopo l’Ottobre, cit., pp. 139-140.
x Per la genesi ed i temi del VII congresso è utile la lettura di Franco De Felice, Fascismo, democrazia, fronte popolare. Il movimento comunista alla svolta del VII Congresso dell’Internazionale, De Donato, Bari, 1973. L’orientamento togliattiano di questo libro può essere bilanciato dai testi di Nicos Poulantzas, Fascismo e dittatura. La terza internazionale di fronte al fascismo, Jaca Book, Milano, 1971 e di Stefano Merli, Fronte antifascista e politica di classe. Socialisti e comunisti in Italia, 1923 – 1939.
xi Questo mi sembra il limite maggiore delle critiche formulate da Arthur Rosenberg, nella sua Storia del bolscevismo,
Sansoni, Firenze, 1969, anche se il libro contiene acutissime
osservazioni, come quelle relative ai limiti della tattica del fronte
unito (p.183). Anche Fernando Claudín, che dello stalinismo è critico in
fondo equilibrato, condivide questa sopravvalutazione generale delle
potenzialità rivoluzionarie, visto che oltre ad enfatizzare, con molte
ragioni, l’esperienza spagnola, vede situazioni analoghe anche nella
Francia del governo frontista e nell’Italia resistenziale: si veda il
suo La crisi del movimento comunista. Dal Comintern al Cominform, Feltrinelli, Milano, p. 482 e passim.
Giudizio senz’altro molto ottimistico nel caso dell’Italia, ma anche
nel caso della pur diversissima esperienza francese, come sostenuto da
Giorgio Caredda, Il Fronte Popolare in Francia, 1934-1938, Einaudi, Torino, 1977.
xii Jacques Guillermaz, Storia del Partitito comunista cinese 1921/1949, Feltrinelli, Milano, pp. 83 e ss. .
xiii PierreBroué, Émile Témine, La rivoluzione e la guerra di Spagna, Mondadori, Milano, 1980.
xiv Jacques Guillermaz, op. cit., pp. 169 e ss.; Enrica Collotti Pischel, Storia della rivoluzione cinese, Editori Riuniti, Roma, 1972.
xv Franco Sbarberi, I comunisti italiani e lo stato, 1929-1956, Feltrinelli, Milano, 1980.
xvi Ibidem, pp. 229 e ss. . Si veda anche Leonardo Paggi e Massimo D’Angelillo, I comunisti italiani e il riformismo. Un confronto con le socialdemocrazie europee, Einaudi, Torino, 1986, nonché, dello stesso Paggi, Strategie politiche e modelli di società nel rapporto Usa-Europa (1930-1950), in Leonardo Paggi, a cura di, Americanismo e riformismo. La socialdemocrazia europea nell’economia mondiale aperta, Einaudi, Torino, 1989.
xvii Lev Trotskij, La rivoluzione permanente, Einaudi, Torino, 1967, p. 127.
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