di Antonio D'Orazio
La base di discussione, a sinistra, noi compresi (grazie), è l’uscita dalle politiche recessive, la priorità all’occupazione, l’abbandono delle teorie economiche liberiste anche in un quadro di democraticizzazione delle istituzioni europee, ma anche nostre. Obiettivi sacrosanti. Vorrei però che si ragionasse se è realistico, oltre che sensato, pensare di uscire da questa crisi affidandosi alla “crescita” (misurato da questo Pil insufficiente e distorto) e a “politiche espansive”? Quelle stesse proposte prioritarie nel nostro Patto per il lavoro, giustamente rivendicando un ruolo maggiore per il pubblico, ma avvitato sull’esistente e veramente sull’improbabile concetto di “pieno impiego” che ci trasciniamo da anni perdendone continuamente i pezzi.
Il lungo boom che ha accompagnato un buon secolo e mezzo di rivoluzione industriale si è esaurito” e dobbiamo rassegnarci ad una “nuova normalità”. Cioè, ad un cosiddetto “sviluppo stazionario”. Infatti sul lungo periodo la crescita della produzione in occidente non supera mai l’1- 1,5% all’anno. Nemmeno la cosiddetta grande Germania. Queste percentuali di “crescita” sono assolutamente insufficienti per il mantenimento di un paese.
Dobbiamo trovare anche noi delle vie di uscita non fondate sulla crescita e sulla espansione nei termini che ci vengono proposti? Diciamo anche noi che per aumentare l’occupazione bisogna far cresce la domanda interna e le esportazioni. Ma se le merci di largo consumo (specie quelle più a basso costo) sono tutte d’importazione, un aumento della domanda interna, ammesso che ci fosse, quale occupazione accrescerebbe?
Viene sempre auspicata come leva anticrisi l’aumento degli investimenti (“stimoli”, sgravi fiscali, opere pubbliche, ecc.) per far ripartire le imprese. Ma se i denari con cui si fanno queste operazioni li si prende a debito (emissioni di titoli pubblici, bond, project financing, ecc.) e se sul debito bisogna pagare gli interessi e se gli interessi sono più alti della crescita dell’economia “reale”, alla fine a guadagnarci non saranno mai i salari, ma solo le rendite finanziarie. Esattamente quello che è successo negli ultimi trent’anni: la quota dei salari sul reddito nazionale è diminuita a favore di quella andata ad appannaggio dei profitti e delle rendite. Se le cose stanno così, allora, condizione preliminare non è l’investimento (pubblico o privato) in sé, ma la ristrutturazione alla radice del funzionamento della finanza. Sfugge solo a chi non vuole vedere che esiste una criminalità finanziaria che governa aree fondamentali del mercato mondiale: un sistema in cui il legale e l’illegale si fondono, al di là e al di sopra dei poteri ufficiali degli Stati. E ci stanno facendo quadrare i conti, a noi.
Intanto se il lavoro non c’è, forse, invece, di cose utili da fare ce ne sarebbero anche tante. Un numero sempre più grande di persone cominciano a darsi delle risposte da soli organizzandosi in gruppi di acquisto e banche del tempo solidali, in cooperative di comunità, in gruppi di auto-mutuo-aiuto per un welfare di prossimità, in gestioni condivise dei beni comuni, in scambi non monetari, se non a volte con monete locali. Non riusciamo nemmeno ad immaginare quanta partecipazione è prioritariamente e in modo preponderante gestita di nuovo dalle donne. Dovremmo chiedere ai nostri economisti progressisti, e anche a noi stessi per ritrovare una identità che ritengo un po’ perduta, visto che quello che pensano i neoliberisti ormai dovremmo averlo imparato sulla nostra pelle, che posto c’è nelle nuove teorie economiche non convenzionali per l’economia solidale o sociale o civile o morale. Per esempio predisporre una conversione strutturale dei rapporti sociali di produzione e di consumo. Oppure dobbiamo tornare alle indicazioni dei socialisti libertari e mutualistici del passato. Senza lo stato ma con la bilateralità, visto che in fondo i soldi sono sempre dei lavoratori per i lavoratori. Per intenderci, sarà mai possibile ipotizzare almeno una via di uscita dalla crisi che non sia solo anti-neoliberista, ma anche oltre-capitalista? Nemmeno a medio e lungo termine?
Se tutti gli economisti indicano una impossibilità di poter continuare a consumare il pianeta, a breve e anche in pochi; se indicano altresì una sconfitta reale del capitalismo da produttivo a finanziario-speculativo e preannunciano anche a breve un’altra bolla, cioè una vera débacle, allora un nuovo concetto tra produzione e consumo ecocompatibile dovrà pur iniziare ad avere un po’ più sostenitori di quelli attuali. E comunque almeno quella della nostra organizzazione.
Con una certa perplessità si può pensare che la chiusura di numerose imprese produttrice possa farci scegliere obbligatoriamente, non tanto di riaprirle se i loro prodotti non vengono “consumati”, cioè venduti, ma anche di diminuirne l’immensa frammentazione del non assolutamente necessario assumendo il “diverso” consumo, se non di disconsumo ragionato, al quale so che molti compagni sono allergici, diciamo per farci capire nei termini berlingueriani di fine anni ’70 indicato con la parola di “nostra austerità”, con un concetto di non consumo a tutti i costi. È quindi è l'intero impianto neo-mercantilista a dovere essere rimesso in discussione assieme all'austerità propostaci, perché quest’ultima, da sola, e in questo modo non basta, non serve ed è distruttiva. I risultati sono davanti agli occhi di tutti, anche di chi vuol vedere che questo è l’unico mondo possibile. L’impoverimento della maggioranza della popolazione, non solo nostra, ma mondiale e l’arricchimento di pochi.
Ma questo solo se il “lavoro”, che non è solo occupazione manifatturiera, ma è anche realizzazione personale e quindi richiede sussistenza di reddito, di vita e di consumo austero, (di nuovo nei termini in cui lo intendeva Berlinguer) può iniziare ad avere teorie, programmi e comportamenti di fondo profondamente cambiati. Si tratta concretamente di uno sviluppo che privilegia il ben-essere e non solo il consumo di merci. Stavo quasi per dire il diritto alla felicità giusto per puntare un po’ più su. Altrimenti ci avvitiamo in un realismo costruito dagli altri su precarizzazione, povertà, sfruttamento e rimaniamo soltanto come momento difensivo, ma poi quasi a sostegno, purché si produca”, di un mercantilismo sprecone e guerrafondaio.
E’ questa una linea culturale non necessariamente nuova, ma l’unica per uscire dalla crisi a sinistra e riconquistare il diritto a una vita dignitosa. D’altra parte la parola crisi indica normalmente un periodo corto di rottura, mentre noi sappiamo quanto sia diventata strutturale, lunga e incontrovertibile. Ci dobbiamo ragionare molto come organizzazione del mondo del lavoro e essere poi conseguenti. Dobbiamo chiedere alla Confederazione di farsi carico di indicare una nuova linea in questo senso che possa resistere nella contrattazione politica generale alle spinte continue di un capitalismo in declino perché senza regole, lo dicono i loro economisti, e condotte fraudolenti in serie, che ci stanno trascinando nella sua follia distruttrice.
Non solo, siamo sempre più implicati in una spirale occidentale-centrica e guerrafondaia, strisciante o aperta. Ci fanno fare il tifo, da una distruzione all’altra. Nel resto del mondo, multipolare, un nuovo socialismo sta viaggiando altrove e ce lo ricorda inviandoci un loro papa, che predica per noi luoghi comuni quasi rivoluzionari per un popolo che ci appartiene laicamente e socialmente, i poveri.
Ho voluto fare un intervento di questo tipo, sulla nostra identità futura perché i tempi che altri, i vincitori, ci impongono sono ormai veloci. C’è anche chi va talmente veloce che rischia di incontrare un palo, però noi viaggiamo troppo piano. Mi spiego meglio. E’ almeno il mio terzo congresso, fra gli undici a cui ho partecipato nella mia militanza sindacale, nei quali, dopo sei mesi di iter e di dibattito, alla fine mi ritrovo che complessivamente, essendo il quadro sociale e politico cambiato a volte anche radicalmente, il documento congressuale diventa quasi inutilizzabile, se non a volte contraddittorio. Lo so che la democrazia è pesante, però dobbiamo trovare qualche metodo organizzativo che ci permetta di essere aderenti alla misura dei tempi. Un documento politico sindacale snello, di identità, confederale, unitario, di dieci pagine e non di cento che nessuno a letto. Non serve di più per indicare una via di medio e lungo periodo, e una piattaforma e un metodo rivendicativo strettamente sindacale da affinare puntualmente al quadro in movimento, per quanto possibile, sulla linea ideale del testo congressuale. Sdoppiare le due questioni, come fanno quasi tutti i sindacati almeno europei. Magari rinforzare o moltiplicare, che so, le conferenze di organizzazioni in termini non solo per problemi interni ma farne anche un elemento propulsivo e unitario alle rivendicazioni complessive. Diciamo conferenze confederali piattaformiste, con grandi orientamenti nazionali unitari. In questo quadro di disastro del mondo del lavoro, e non, non è più possibile che ognuno vada per conto proprio. La delega di rappresentanza decisionale ai direttivi non basta più, e non può essere un congresso di ascolto. Scusate, chi ascolta chi? Ci vogliono più delegati che dirigenti. Più contatto (si dice anche democrazia) alla base, con i lavoratori e i delegati, nostra vera ricchezza, uomini e donne in prima linea e sempre più a rischio. Tra l’altro rischiamo, già da un po’, di non essere più la Confederazione del lavoro di riferimento nazionale, perché una grande fetta del mondo del lavoro e non, anche numericamente, sta altrove.
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