Al di là della sua funzione
di riproduzione delle dinamiche del capitale, e della sua
rappresentazione più diretta dello sfruttamento dell'uomo
sull'uomo, il lavoro può essere considerato una categoria etica indipendente
dalle dinamiche sociali. L'attaccamento al lavoro insomma è la
manifestazione di una moralità intrinseca, che prescinde dalla
valenza sociale e politica del lavoro stesso.
Quelli della
generazione di mio padre, come ho avuto di dire in altre occasioni,
consideravano il lavoro come una benedizione e come un dovere
imprescindibile. Mio padre bancario non ha mai saltato un giorno di
lavoro se non quando si è ammalato seriamente e non ha mai pensato
che lavorare in banca significasse essere un servo del capitale. Il
lavoro era lavoro e basta.
L'esempio estremo di questa concezione
dell'etica del lavoro ce lo offre il servo fedele di Fëdor
Pavlovič, il vecchio Karamazov, Grigorij, che considera la fedeltà
al padrone, malgrado le sue nefandezze, come un valore assoluto, e
allo stesso tempo considera un'ignominia il venir meno al proprio
dovere di servitore. Un po' come un samurai che fa del servire un
padrone lo scopo della sua esistenza e della sua realizzazione umana,
proprio in forza della purezza assoluta del gesto, indipendente dalle
qualità morali del padrone che si è trovato a servire e sufficiente
a se stesso. Il dovere per il dovere.
Cosa c'entra tutto ciò con gli statali
è presto detto. La maggioranza degli statali lavora sodo e con il
suo lavoro fa muovere la macchina dello stato. Senza gli statali
sarebbe la paralisi di qualsiasi attività amministrativa. La
paralisi totale dello stato insomma, e se consideriamo il welfare nel
suo complesso, la morte di qualsiasi garanzia di sicurezza. Oggi però, diversamente da ieri, una parte
degli statali e dei lavoratori in generale ha smarrito il senso di un'etica del lavoro, vuoi
per l'indebolirsi in sé della fibra morale della società, vuoi per
il rifiuto ideologico del lavoro stesso, rifiuto spesso usato
goffamente come alibi, senza distinzione fra il lavoro come
sfruttamento e il lavoro come auto-realizzazione. A tutto ciò va
aggiunto che la forte spinta al consumo, indotta dalla pervasività
di modelli di comportamento sociali veicolati dai media e la
gratificazione personale ridotta alla pura fruizione di merci, pone
il lavoro come un fastidio necessario e mal tollerato, una pausa
greve, che si frappone fra la brama di consumo e la merce.
È vero alcuni comportamenti degli statali, come di tutta la classe
lavoratrice sono sgradevoli: timbrare il cartellino e poi darsi alla
macchia, fare straordinari fasulli per raggranellare qualche lira,
mettersi in malattia in giorni strategici per andare in vacanza, fare
male il prorpio lavoro scaricandone il peso su altri, timbrare al
posto del collega assente ecc. ecc. sono cose irritanti per chi
possiede un minimo di etica. Potrei andare avanti a lungo, ma non
servirebbe a nulla. Sappiamo tutti di cosa stiamo parlando. Stiamo
parlando unicamente della cattiveria dei poveri. Granelli di polvere
in un mare di sabbia. Al confronto delle cattiverie dei ricchi queste
cattiverie fanno persino sorridere. Il fatto è che i ricchi odiano i
poveri, li hanno sempre odiati, li considerano una massa di
fannulloni oziosi, ignoranti e neghittosi, che trascorrono il proprio
tempo a bearsi nell'inedia o a trastullarsi con le proprie bassezze.
Gentaglia che ti striscia
ai piedi giurandoti amore e rispetto, ma pronta a pugnalarti alle
spalle se poco poco cadi in disgrazia. Questa feccia tecnocratica che
ci governa è l'esempio lampante di quest'odio. Sono sempre gli
stessi, anche se cambiano le facce e le epoche. Sono i ricchi
liberali, gli stessi che hanno considerato e considerano tuttora un
dovere colonizzare i selvaggi, specie se hanno la faccia nera, così
come considerano un dovere educare i poveri ad una sana moralità,
moralità dalla quale ovviamente essi sono esentati.
“Se dessimo un reddito di
cittadinanza agli italiani se lo spenderebbero in pastasciutta”.
Queste parole descrivono l'odio e il disprezzo dei ricchi verso i
poveri meglio di qualsiasi trattato. Ed è così che gente malvagia,
che considera la libertà di arricchire come il bene supremo e
incondizionato e la proprietà come un legittimo trofeo di chi è più
forte e si crede più intelligente, è così che questa gente si
attacca alla cattiveria dei poveri come pretesto per smantellare
tutte le conquiste che gli stessi poveri hanno ottenuto in secoli di lotte
sanguinose, e per rintuzzare il loro potere, sempre eccessivo a
parere dei ricchi. Che si credono questi, che il lavoro è un
diritto, mangiare, avere una casa, divertirsi, amare è un diritto?
No, tutto costa e quindi tutto va guadagnato, eppoi ognuno a casa sua
senza disturbare, che la feccia non imbratti il paesaggio.
I ricchi
fanno schifo e non ho ritegno a dirlo, né ho il timore di essere
ritenuto una sorta di giapponese imprigionato nel novecento. Mi duole
soltanto sentire i lavoratori del settore privato compiacersi se gli
statali vengono bastonati, facendo il gioco di questi governanti infidi:
"perché
dobbiamo togliere garanzie e diritti solo ai lavoratori del privato? Non
è equo, giusto?", disse la strega cattiva, e i poveri si fecero la
guerra.
E' per questo motivo che difendo la
cattiveria dei poveri, anche se non mi piace. (F.C.)
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