di Domenico Moro da economiaepolitica.it
I trattati europei e l’euro,
imponendo austerità e inibendo l’implementazione di politiche
economiche su misura per le necessità dei singoli Paesi, hanno ottenuto
il risultato opposto a quello previsto dai decisori politici e dalla
dirigenza della Banca d’Italia negli anni’80 e ’90: il debito pubblico
italiano è aumentato.
Il debito pubblico
è in Italia uno dei temi principali, se non il principale, attorno al
quale ruotano il dibattito economico e le scelte politiche. Il debito
pubblico, giudicato eccessivo, è stata una delle motivazioni per
l’adesione all’euro e ai trattati europei, allo scopo di costringere
governi e parlamenti a una maggiore disciplina di bilancio, incidendo
anche oggi sulle scelte di spesa e di politica economica. La maggior
parte del debito pubblico attuale si è formata tra l’inizio degli anni
’80 e l’inizio degli anni ’90, raddoppiando dal 59,9% sul Pil del 1981
al 124,9% del 1994. Nonostante i vincoli europei alla spesa pubblica,
oggi il debito risulta superiore ai livelli dei primi anni ’90,
raggiungendo il 131,8% sul Pil contro il 75,7% della media Ue e il 79%
della media dell’area euro, ed essendo inferiore in Europa al solo
debito greco.
L’obiettivo del presente articolo è
capire perché il debito è raddoppiato tra 1981 e 1994 e perché
successivamente non si è riusciti a ridurlo in modo significativo e
duraturo.
Fig. 1 – Andamento del debito pubblico di Italia, Francia, Regno Unito, Germania e Spagna (in % sul Pil; 1861-2017)
Fonti: Imf; Banca d’Italia;
Direction de la statistique generale et de la documentation;
Statistisches Jahrbuch für das Deutsche Reich, Wirtschaft und Statistik,
cit. in O. Nathan, The nazi war economy; P. Jockstock, The long term
growth of national income in Germany; Fisk, French Public Finance in the
Great War and Today.
Bisogna premettere che l’Italia è
caratterizzata storicamente, sin dai primi decenni dopo l’Unità, da un
debito pubblico relativamente alto rispetto al Pil, in conseguenza delle
ingenti spese sostenute per lunghe guerre d’indipendenza, per la
politica coloniale, l’organizzazione di una amministrazione nazionale e
il sostegno pubblico dell’accumulazione autoctona di capitale. Tuttavia,
il divario con gli altri grandi Paesi europei non è mai stato né così
ampio né così completo come nell’ultima fase storica, compresa tra il
1982 e il 2017 (fig.1). Ad esempio, nell’ultimo ventennio del XIX secolo
il debito pubblico italiano era in linea con quelli spagnolo e francese
e, tra 1915 e 1945, nonostante le enormi spese dovute al continuo stato
di guerra (Prima e Seconda guerra mondiale, Libia, Etiopia, Spagna) e
la socializzazione delle perdite del capitale bancario e industriale
durante la Grande crisi degli anni ‘30, rimase ben al di sotto di quello
britannico e francese. Anche tra il 1945 e il 1975 il livello del
debito rimase abbastanza basso e non troppo dissimile da quello degli
altri Paesi.
L’interpretazione prevalente, ormai
radicata nel senso comune, attribuisce il raddoppio del debito pubblico
all’eccesso di spesa da parte dei governi socialisti e democristiani
degli anni ‘80, dovuta in particolare alla corruzione e al clientelismo.
Un’altra interpretazione riconduce l’accumulo del debito al saldo
negativo del rapporto entrate/spese, quindi a un eccesso di spesa
relativamente alla scarsità di entrate, dovuta alla bassa pressione
fiscale e/o alla evasione ed elusione fiscale.
Fenomeni di corruzione
e di clientelismo si sono verificati e hanno inciso sull’efficienza e
sulla redistribuzione della spesa pubblica tra le classi sociali, ma non
sono stati determinanti per la crescita del debito in rapporto al Pil.
La spesa statale al netto degli interessi in rapporto al Pil – ossia la
spesa per trasferimenti alle famiglie e alle imprese e per stipendi,
beni, servizi acquistati dalla Pa, che include anche la corruzione e le
spese inefficienti e clientelari – risulta, tra 1982 e 1994, sempre al
di sotto della media dei Paesi dell’area euro e della Ue. Viceversa la
spesa per interessi in rapporto al Pil è sempre notevolmente al di sopra
della media dei Paesi dell’area euro e della Ue e in crescita sostenuta
tra 1982 e 1993. Nel 1993, quando la spesa pubblica italiana, al netto
degli interessi, raggiunge il picco, rimane nettamente inferiore (45,7%
sul Pil) a quella dell’area euro (48,6%). Viceversa, nello stesso anno
la spesa per interessi risulta di quasi tre volte superiore (12,1%) a
quella dell’area euro (4,2%)[1].
Considerando tutto il periodo 1982-1994 La spesa media annua italiana,
al netto degli interessi, raggiunge il 43,3% mentre quella per interessi
tocca il 9%, contro rispettivamente il 46,4% e il 3,7% medi dell’area
euro (fig.2).
Fig. 2 – Spese al netto degli interessi e spese per interessi di Italia e area euro (in % sul Pil; 1980-2017)
Fonte: Banca d’Italia, Statistiche di finanza pubblica nei Paesi europei (1999, 2006, 2018)
L’aumento dell’incidenza della spesa per
gli interessi sul debito è dovuta alla crescita vertiginosa dei tassi
d’interesse sui titoli di stato a partire proprio dal 1982 (fig.3). Tale
fenomeno va osservato tenendo presente il tasso reale o effettivo, cioè
al netto dell’inflazione, in quanto sulla formazione o sulla riduzione
dell’accumulo di debito gioca un ruolo importante l’inflazione che, a
seconda che cresca o diminuisca, porta proporzionalmente a una riduzione
o a una crescita del debito. Infatti, nelle fasi di iperinflazione
subito dopo la Prima e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale il
debito è crollato verticalmente in tutti i Paesi coinvolti, a partire
dall’Italia, che passò da un debito del 112,6% sul Pil nel 1943 al 28,7%
nel 1948 (fig.1). Per quanto riguarda il nostro ragionamento sul
raddoppio del debito, bisogna considerare che precedentemente al 1982 i
tassi reali dei Buoni ordinari del tesoro (Bot)[2]
erano fortemente negativi o intorno allo 0%, raggiungendo nel 1980
addirittura un tasso di -5,73%. Tra 1976 e 1981 il rendimento medio
annuo reale fu del -2,6%, viceversa tra 1982 e 1994 raggiunse il 4,6%
(fig. 3).
Fig. 3 – Tassi d’interesse effettivi e nominali dei Bot e tasso d’inflazione (in %; 1976-2016)
Fonte: Mediobanca, Indici e dati relativi ad investimenti in titoli quotati nelle borse italiane (1984- 2016)
La ragione della forte e progressiva
crescita dei rendimenti reali dei Bot sta nel cosiddetto “divorzio” tra
Banca d’Italia e Ministero del Tesoro, a seguito dell’invio nel 1981 da
parte del ministro Andreatta al governatore Ciampi di una lettera con la
quale si esentava la Banca centrale dall’obbligo di acquistare i titoli
di debito emessi dal ministero e non assorbiti dal mercato. Ciò
comportò due effetti: la riduzione della creazione di nuova liquidità,
che abbassò l’inflazione, e la fine del ruolo svolto dalla Banca
centrale di compratore di ultima istanza del debito pubblico, che rese
necessario collocare tutto il debito sul mercato, con costi più elevati
di quanto sarebbe stato possibile in precedenza.
Di conseguenza, l’inflazione
si ridusse molto di più di quanto non calassero i tassi d’interesse
nominali sul debito, portando così all’aumento dei tassi reali e quindi
all’accumulo accelerato di debito. Più tardi, a partire dalla fine degli
anni ’90, il problema si aggravò, a seguito della liberalizzazione dei
mercati finanziari, che portarono all’aumento della quota del debito
pubblico in mano ai non residenti, dal 6% del 1991 al 27% del 1998 al
42,7 del 2008[3].
In questo modo i rendimenti dei titoli furono assoggettati alla
speculazione internazionale, senza la protezione offerta da un
compratore di ultima istanza. Ad ogni modo, prima ancora che gli effetti
della liberalizzazione internazionale si facessero sentire, fu tra ’92 e
’93 che i tassi d’interesse effettivi toccarono il picco del 6,81% e
del 5,06%. È da notare che neanche l’introduzione dell’euro (1992-2002)
ha riportato i tassi effettivi al livello pre “divorzio” (media annua
dello 0,63% tra 1999 e 2016). Eppure l’obiettivo statutario della Bce è
specificatamente il controllo dell’inflazione, che del resto è scesa
molto più che negli anni ’80 e ‘90, arrivando intorno allo zero, a causa
anche della maggiore recessione dal dopoguerra. Il punto è che il ruolo
di compratore di ultima istanza dopo il 1981 non è stato più ricoperto
da nessuna istituzione, nazionale o europea che fosse.
Per quanto riguarda il saldo negativo
tra entrate e uscite, la sua importanza sulla formazione del debito, già
prima del “divorzio” è molto inferiore rispetto a quella del servizio
al debito. Soprattutto, a partire dal 1982 l’incidenza del disavanzo
pubblico sulla formazione del debito si riduce progressivamente,
assumendo un andamento esattamente opposto a quello dell’incidenza della
spesa per interessi e annullandosi del tutto a partire dal 1991 (fig.
4). L’incidenza media della spesa per interessi sul Pil tra 1982 e 1994 è
del 9,1%, mentre quella del disavanzo delle entrate è dell’1,6%. In
sostanza il servizio al debito incide sul raddoppio del debito circa
cinque volte di più del disavanzo, cioè in una misura di almeno il 75%.
Ciò vale ancor di più nel periodo successivo al 1994. Del resto, tra
1991 e 2017 non si registra alcun deficit del bilancio pubblico primario
(al netto degli interessi), tranne che nel 2009.
Fig. 4 – Importanza relativa
sulla formazione del debito della spesa per interessi e del saldo
negativo di bilancio e pressione fiscale di Italia e area euro (in % su
Pil; 1980-2017)
Fonte: Banca d’Italia, Statistiche di finanza pubblica nei Paesi europei (1999-2018)
Al contrario, la Germania, nello stesso
periodo di tempo, presenta un deficit primario in ben otto anni. La
ragione della riduzione e poi dell’annullamento del deficit primario sta
nel fatto che in Italia la pressione fiscale prese ad aumentare
ininterrottamente dal 31,3% sul Pil del 1980 fino a raggiungere la media
europea nel 1992 e il picco proprio nel 1993 (44,4%), aumentando così
di 13,1 punti percentuali in 13 anni, mentre nello stesso periodo l’area
euro aumentava la pressione fiscale di soli 2,2 punti (fig.4). Dal 1993
al 2017, tranne che per quattro anni, la pressione fiscale italiana sul
Pil (incidenza media annua 41,9%) risulterà sempre superiore o uguale a
quella dell’area euro (40,8%).
L’errore dei governi italiani degli anni
‘80, se si può parlare di errore e non piuttosto di scelte politiche
neoliberiste, sta nel fatto di aver eliminato il compratore di ultima
istanza del debito pubblico proprio nel momento in cui se ne aveva più
bisogno. Infatti, in quel periodo si registra un indebolimento della
crescita, dovuto alle crisi dei primi ’80 e dei primi anni ’90. A questo
si aggiunge nel corso degli anni ’90 e 2000 un aumento della
vulnerabilità a shock esterni, dovuta alla liberalizzazione dei mercati
finanziari e quindi alla dipendenza dalla estrema mobilità degli
investimenti internazionali. Non bisogna dimenticare, inoltre, che le
privatizzazioni, parte del pacchetto neoliberista adottato dai governi
italiani (come la separazione tra Banca centrale e Tesoro e la
liberalizzazione dei flussi di capitale), hanno fornito un sollievo
ridotto e solo momentaneo al debito, indebolendo sulla lunga distanza la
crescita del prodotto interno e il ritorno per lo Stato in termini di
dividendi incassati.
Come hanno rilevato Stefano Perri e Riccardo Realfonzo[4]
e contrariamente a quanto tuttora si ritiene a livello di istituzioni
europee e nell’establishment economico e statale nostrano, la questione
decisiva per la gestione del debito pubblico italiano non è e non è mai
stata il contenimento della spesa sociale. È invece la crescita dei
tassi d’interesse sul debito a dover essere considerata come la causa
più importante, anche se non l’unica, del raddoppio del debito degli
anni 1982-1994, e della successiva difficoltà a ridurlo. Tuttavia, non
bisogna dimenticare che, sottesa all’andamento del debito, c’è la
tendenza al disequilibrio dell’economia capitalistica, che, in fase di
crisi, riduce il Pil e quindi il denominatore, portando alla crescita
del rapporto debito/Pil.
Ciò si è verificato soprattutto tra 2008
e 2017, quando, nella determinazione dell’incremento del debito, alla
spesa per interessi si è associata la grave recessione, tramutatasi in
stagnazione permanente, i cui effetti, però, sono stati particolarmente
pesanti a causa della ridotta possibilità dello Stato di spendere in
funzione anticiclica, dovuta a sua volta anche alla inesistenza di un
prestatore di ultima istanza, ormai sancita definitivamente dal
trasferimento del controllo sulla emissione di moneta alla Bce. In
questo senso, i trattati europei e l’euro, imponendo una draconiana
austerity e inibendo l’implementazione di politiche economiche su misura
per le necessità dei singoli Paesi, hanno ottenuto il risultato opposto
a quello previsto dai decisori politici e dalla dirigenza della Banca
d’Italia negli anni’80 e ’90, vale a dire l’aumento del debito
pubblico. Nello stesso tempo, però, crescita, salari e occupazione sono
stati depressi, in una inefficace rincorsa alla riduzione del debito.
[1]
I dati relativi alle spese, alle entrate, alla pressione fiscale di
Italia e area euro sono di fonte Banca d’Italia, Statistiche di finanza
pubblica nei Paesi europei. I dati dell’area euro sono sempre al netto
dell’Italia.
[2]
Il rendimento reale o effettivo è il risultato della depurazione
dall’inflazione del rendimento nominale dei Buoni ordinari del Tesoro a
12 mesi (media delle aste di metà e fine mese). Il calcolo è basato sui
dati dell’inflazione media annua e dei tassi d’interesse medi annui
pubblicati da Mediobanca dal 1984, che si riferiscono a un periodo che
parte dal 1976 e arriva al 2016.
[3] Banca d’Italia, database, Amministrazioni pubbliche: debito pubblico lordo detenuto da non residenti (quota).
[4] Si veda di Stefano Perri e Riccardo Realfonzo, “Tagli alla spesa pubblica? Una vecchia ricetta”, in Economia e politica, 1 Aprile 2014.
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