di
Domenico D'Amico
Ci
risiamo.
O
meglio, siamo sempre lì, sul crinale ottocentesco della scienza come
ancella della filosofia, una scienza stolidamente abbarbicata alle
sue bagatelle materiali, che dalla bassezza del proprio orizzonte
conoscitivo pretende di dirci come dobbiamo vivere. Ma perché mai
questi tecnocrati del sapere non stanno una volta buona al loro posto
di elargitori di comodità voluttuarie (Feyerabend)?
A
ricordarcelo sono i filosofi del progetto Alétehia.
Molte
loro riflessioni sono, per dir così, più che sensate lapalissiane:
“Per i postmoderni sarebbe vana la pretesa della ragione di conoscere e stabilire sia i fini che i mezzi per raggiungerli. Nella sua furia distruttiva della tradizione moderna, essi non hanno gettato solo l’acqua sporca (la fede positivista nel progresso, l’idea dell’evoluzione lineare della storia) ma pure il bambino (i concetti di universale, di unità, totalità, di sostanza)”“Occorre allora usare linguaggio e concetti con discernimento, dovremmo smettere di parlare di 'meta narrazioni' o 'grandi narrazioni', poiché essi non contengono solo un giudizio di fatto ma di valore. Linguaggio e concetti che i filosofi postmoderni han preso in prestito da certo strutturalismo, che insieme alla critica alle ideologie gettavano nella spazzatura anche le idee.”
E
soprattutto:
“L’egemonia del pensiero postmoderno, forse suo malgrado, ha finito per accompagnare quella del pensiero unico neoliberista.”
Fin
qui, ripetiamo, siamo al minimo sindacale di qualsiasi teoria della
conoscenza, dato che il costume postmodernista, nella sua piena
manifestazione, non è discutibile, ma insensato.
Purtroppo,
in cauda, ritroviamo alcuni dei vecchi (ottocenteschi)
concetti filosofici riguardo la scienza:
“(...) occorre contrastare la tendenza a delegittimare la filosofia assorbendola nel pensiero scientifico, per l’esattezza tecno-scientifico ed alla sua natura pratico-manipolativa. Può sembrare inaccettabile ciò che Heidegger disse della scienza, che essa “non pensa”, ma a ben pensare è proprio così, tanto più oggi che la tecno-scienza sembra essere assurta, su spinta delle élite dominanti, a nuova religione, con la pretesa di essere il solo sapere oggettivo e rigoroso. La scienza odierna non pensa poiché ad essa non interessa la verità, né si perita di cercare risposte ai dilemmi morali e spirituali dell’esistenza — che considera irraggiungibili noumeni—, poiché non si pone alcun fine se non quello, grazie alla tecnica, di mostrare la sua propria potenza. Di qui la sua hỳbris, l’atteggiamento di ostinata e titanica sopravvalutazione delle proprie forze.”
Qui
non siamo nemmeno ad Heidegger, piuttosto dalle parti di Croce e
Gentile. Si badi bene, non è che i concetti suesposti siano errati,
o distorti, o malconcepiti (a parte la stravaganza di rimproverare
alla ricerca scientifica l'abbandono, ormai quasi secolare, di
argomenti relativi alla verità, all'etica, alla teleologia, il che
casomai è un merito – vedi i deliri di certa psicologia
evoluzionistica), è solo che presuppongono una “scienza” che in
realtà non ha alcuna consistenza storica o culturale o materiale, ma
risiede, come uno spiritello platonico, nella testa dei filosofi.
In
questa fantasia, la scienza è qualcosa di analogo alla Chiesa
Cattolica: c'è una gerarchia, ci sono dei dogmi, dei rituali, un
popolo di sacerdoti, un popolo di credenti, eccetera. L'origine di
questi fantasmi è l'ambiguità del termine (“scienza”), fin
troppo vago, che può includere l'atteggiamento empirico che chiunque
assume nella vita quotidiana (anche i più devoti vattimisti), o il
principio naturalistico di non prendere in considerazione cause
sovrannaturali, o il rigetto di qualsiasi teleologia o
antropocentrismo, oppure la sostituzione della verità con una
valutazione statistica, o altro ancora. Di conseguenza abbiamo frasi
come “(la scienza) non si pone alcun fine se non quello, grazie
alla tecnica, di mostrare la sua propria potenza”, che sono pura
mitografia. È qui il problema: in questo guazzabuglio in cui si
frullano metodo scientifico, tecnologia, pratiche di potere e cultura
(e propaganda) di massa, è naturale che il post-sinistro di turno
(non parliamo di Alétheia, naturalmente) se ne venga fuori con
l'antivaccinismo “antiliberista”, gradino ultimo dell'eutanasia
dei diritti sociali in cambio dello zuccherino dei diritti
individuali (a guisa di multiopzione consumistica).
Certo,
i ricercatori che parlano in pubblico possono essere arroganti e
offensivi, ma, cari filosofi, cercate di essere comprensivi: quando
ti vengono a dire “Perché tutta questa urgenza di vaccinare,
vaccinare, vaccinare? Non è mica scoppiata un'epidemia!”,
dimostrando in questo modo di non avere nemmeno la più rudimentale
cognizione di come funzionino il sistema immunitario e i vaccini (e
parliamo di medici!), be', la pazienza può scappare.
Del
resto, che vuoi che sia? Per il Capitale è molto meglio una
manifestazione per una “vaccinazione informata”, piuttosto che
una di gilet gialli con troppi grilli per la testa.
Cari
compagni, filosofi e no: se non siamo capaci di capire la differenza
tra un antibiotico e un drone, nessuna prassi, nessun metodo, nessuna
epistemologia potrà salvarci.