di Andrea Zhok
Di fronte alla prospettiva di un possibile default italiano, indotto
dal combinato disposto delle modifiche del MES, c'è chi si chiede se i
paesi che guidano questa riforma (Germania e Francia) non siano
consapevoli che un default italiano sarebbe una catastrofe che
porterebbe con sé anche i sistemi bancari altrui.
Su questo punto
però c'è un equivoco che bisogna sfatare. Si trova spesso come
argomento consolatorio l'idea che l'Italia è 'too big to fail'. E questo
è tecnicamente vero. Nessuno infatti ha interesse a vedere un default
incontrollato dell'Italia, che metterebbe in crisi con effetto domino
tutti i sistemi finanziari connessi.
Però la minaccia di un default
unilaterale e senza paracadute sarebbe una minaccia effettiva solo se
gestita autonomamente dall'Italia in una trattativa, alle proprie
condizioni (e, naturalmente, se a gestirla ci fossero persone
tecnicamente e diplomaticamente assai capaci, il che rende al momento
questa trattativa del tutto implausibile).
Non è questa la
prospettiva, e la riforma del MES indica già proprio le condizioni che
si prevedono come desiderabili a livello UE per un 'default
controllato'.
La prospettiva che viene presa in considerazione
come scenario desiderabile è quella in cui si procede ad alcuni
'haircut' circoscritti sui titoli del debito pubblico, sottoponendo
simultaneamente il paese a rigide condizionalità.
Queste
condizionalità devono indurre il paese che vi è soggetto a privatizzare
tutto il patrimonio pubblico che c'è ancora da privatizzare, e a
svendere le parti più interessanti del patrimonio privato connesso alla
produzione (banche innanzitutto).
Gruppi come
Leonardo-Finmeccanica, e le maggiori banche italiane sarebbero i primi a
cadere, seguiti dalla delega dello sfruttamento estensivo del
patrimonio ambientale e culturale.
Nel caso qualche anima bella
ritenga che questa prospettiva sia troppo maligna, che i 'fratelli
tedeschi e francesi' mai sarebbero così inclementi, ricordo che questo è
esattamente quanto è successo, su scala minore, con la Grecia. (Solo
che lì hanno imparato strada facendo, mentre ora la riforma del MES
vuole disporre tutto in modo regolamentato a monte.)
In Grecia
non c'è stato alcun default incontrollato (che avrebbe effettivamente
coinvolto istituti bancari francesi e tedeschi). Si è invece proceduto a
uno 'haircut' controllato e dilazionato, con allungamento dei tempi di
restituzione dei prestiti, ed erogazioni centellinate quanto bastava per
consentire al paese di 'mantenere i propri impegni', cioè di continuare
nelle interazioni economiche più proficue con l'estero.
Ma tutto
ciò avveniva sotto rigorosissime condizionalità, che hanno ristretto il
settore pubblico greco ai minimi termini, e che hanno costretto a
privatizzare tutti gli asset maggiormente produttivi, come il sistema
aeroportuale e il porto del Pireo, oggi gestiti da compagnie straniere.
Il simpatico effetto collaterale di questa strategia è che oggi anche
quando il Pil greco nominalmente cresce (e sui nostri giornali ci
spiegano che la Grecia è 'uscita dal tunnel'), comunque la maggior parte
dei ricavi sono immediatamente veicolati su banche estere, ai gestori,
contribuendo in maniera irrisoria a un miglioramento delle condizioni di
vita dei Greci.
Il modello che abbiamo di fronte non è dunque
quello del 'crollo', ma quello del saccheggio legalizzato, alla fine del
quale resta il simulacro di una nazione, con la sua bandieretta e
l'inno, ma di fatto ridotta ad un protettorato economico privo di ogni
margine di reale indipendenza.
venerdì 6 dicembre 2019
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