sabato 28 dicembre 2019

Violenza politica, terrorismo, lotta armata



di Antonio Iannello da lavoroculturale.org


Parole, memoria e ricerca in un’intervista a Monica Galfré.


Nel 2006 un sondaggio («Corriere della Sera» del 13 dicembre, p. 25) condotto su 1024 studenti milanesi tra i 17 e i 19 anni ebbe il seguente esito: per il 60 per cento di loro la bomba a piazza Fontana era stata messa dalle Brigate Rosse, mentre il 20 per cento dava la colpa alla mafia. Meno del 10 per cento era in grado di individuare la matrice dell’eversione neofascista. Da allora gli equivoci e le confusioni (più o meno volute) sugli anni della violenza armata non sono diminuite, andando a consolidarsi con progetti istituzionali e mediatici di pacificazioni forzate o di spiegazioni di tipo complottista. Proviamo a fare un lavoro di ri-costruzione della memoria con l’aiuto di Monica Galfré, storica che da anni si occupa di ricerca anche nel campo della lotta armata e della violenza politica in Italia.



 

Antonio Iannello: La violenza del decennio 1970-1980. In quale quadro storico deve essere inserita per essere compresa oggi? Non si chiede ovviamente se vi siano elementi per giustificarla, quanto per inserirla nel giusto contesto. Chi ha ucciso i componenti della scorta di Moro e lo stesso presidente della DC non dovrebbe essere considerato a livello giuridico e morale con gli stessi criteri di assassini comuni, di mafiosi come Riina, di chi ha ordinato e messo la bomba a Bologna nel 1980? Ci puoi fornire alcuni elementi fondamentali di contesto per comprendere quel periodo? Senza poter essere esaustivi ma per tracciare una linea, un orientamento di base.

Monica Galfré: La vicenda italiana si inserisce nell’ondata di conflittualità sociale e di violenza politica che si sprigiona a partire dal ’68, evento globale per eccellenza. Si tratta di quello che secondo alcuni studiosi è il terzo dei quattro cicli storici del terrorismo, che assume però caratteristiche e intensità molto variabili da luogo a luogo. Limitandosi al solo quadro europeo, che appare nondimeno molto variegato (ne fanno parte l’Ira in Irlanda e l’Eta in Spagna, espressioni armate di nazionalismi separatisti, senza legami diretti con la contestazione studentesca), risultano evidenti i riferimenti comuni, gli esempi forniti dalla guerriglia urbana in America Latina o in Nord America, gli echi delle guerre di decolonizzazione (si pensi solo all’Algeria e al Vietnam); e non mancano talvolta neanche gli aiuti reciproci, secondo concrete esigenze come quella delle armi.

Il caso italiano si distingue dal resto d’Europa per durata, intensità e radicamento della violenza politica e dell’eversione armata, sia di destra che di sinistra, all’interno di un panorama estremamente composito anche da un punto di vista tipologico e organizzativo, di cui la stessa ricerca – non ultimo perché la condanna ha a lungo prevalso sull’analisi – fatica a dare conto. In Italia però gli anni Settanta corrispondono anche a una fase decisiva della modernizzazione culturale e civile, che riallinea il Paese ai livelli occidentali.

Questo nodo contraddittorio è riconoscibile in una serie di punti che si possono schematicamente ricordare. Innanzitutto il ’68 italiano è un fenomeno più radicale e meno elitario che altrove, si diffonde non solo nelle università, ma in tutte le scuole secondarie e si mescola subito a un risveglio della conflittualità operaia. La crescita del livello di istruzione, che è molto rapida, crea un gap ancora più profondo che in altri Paesi tra i giovani – una categoria che assume una valenza interclassista – e le generazioni precedenti. Gli istituti tecnici e professionali, dove le classi sociali fino ad allora escluse dalla scolarizzazione secondaria hanno cominciato a mandare i propri figli soprattutto dopo l’istituzione della scuola media unica nel 1962, uniscono la propria rabbia sociale a quella espressa dai licei, che pure hanno connotazione sociale e culturale ben diversa, proprio mentre si manifestano le prime avvisaglie di crisi economica. In questi tratti emergono gli squilibri della modernizzazione italiana, della rapida e traumatica trasformazione dell’Italia da Paese contadino a industriale, che introietta i comportamenti di una società di massa senza risolvere problemi e tare di lungo periodo.

A tutto questo va associata la dirompenza delle lotte operaie dell’autunno ’69, il cosiddetto autunno caldo, che determina una saldatura tra studenti e operai destinata a caratterizzare gli anni Settanta italiani, e al quale si associa piazza Fontana, con l’inizio della cosiddetta strategia della tensione, che appare una reazione al cosiddetto biennio rosso, cioè al ’68 studentesco e al ’69 operaio. Non è un caso che qualcuno consideri il ’69 più periodizzante dello stesso ’68. Di qui inizia quel ciclo di conflittualità, che tra alti e bassi si protrae per tutto il decennio – il lungo ’68 italiano –, assumendo caratteri radicali nelle metropoli operaie del nord.

La strategia della tensione – non solo le stragi neofasciste, ma anche un insieme di strutture segrete e tentativi eversivi, come il golpe Borghese del 1970 – è una particolarità tutta italiana, senza dubbio legata al passato, oltre che al clima della Guerra fredda: si sviluppa nel Paese sede del più forte partito comunista d’Occidente e si muove all’interno di una intricatissima trama, tra mondo militare, servizi segreti, interessi internazionali e responsabilità dello Stato; colpisce nel mucchio, non rivendica i suoi attentati, a differenza di quelli di sinistra, e si articola in livelli diversi, non sempre legati tra loro. Fino al 1974, quando le stragi di Piazza della Loggia e del treno Italicus nel 1974 chiudono la prima fase della strategia della tensione, i reati politici, compresi quelli di piazza, sono in maggioranza di destra; vi incide senz’altro il Msi di Giorgio Almirante, segretario dal 1969, che riporta dentro il partito le organizzazioni più estremiste, accrescendo – dopo le agitazioni del ’68 – l’attenzione per la componente giovanile in funzione anticomunista.

Difficile sostenere che su questo quadro non eserciti un peso la memoria dei vent’anni di dittatura fascista e della Resistenza, intesa come guerra civile (ben prima che Claudio Pavone, con l’omonimo libro, la riconoscesse tale), tanto più che la sopravvivenza di regimi fascisti in Portogallo, Spagna e Grecia rafforzava il timore di un colpo di Stato. Era una ferita ancora aperta: si pensi che il presidente della Camera Sandro Pertini, recatosi a Milano per il funerale delle vittime di piazza Fontana, si rifiutò di stringere la mano al questore, che era stato suo carceriere al confino.

A questo si lega anche il ruolo ambiguo giocato dall’antifascismo, che diventa un collante straordinariamente forte per tenere insieme tutta la sinistra italiana, da quella ufficiale a quella estrema, che si può dire regga fino alle tragiche giornate dell’aprile 1975, quando nel clima di grande aspettativa per l’affermazione del Pci alle elezioni amministrative si verificano scontri di piazza con vittime sia a sinistra che a destra. Gli anni Settanta paiono così rompere il periodo di lungo benessere dell’età dell’oro, facendo riemergere il fiume carsico delle lacerazioni prodotte dalla guerra civile europea, in particolare il fascismo e la Resistenza. L’idea di una continuità tra Stato fascista e Stato repubblicano fornisce ai militanti della lotta armata una sorta di legittimazione di fronte all’illegalità della loro scelta. Niente di simile si riscontra neanche in Germania, che ha conosciuto l’esperienza nazista ma non quella partigiana.

Infatti, se il terrorismo di destra è in qualche modo dentro lo Stato, contro lo Stato è senza dubbio quello di sinistra, che assume dimensioni inedite e caratteristiche nuove intorno alla metà del decennio, con il cosiddetto cambio di colore della violenza politica: da nero a rosso, in corrispondenza di profonde trasformazioni sul piano nazionale e internazionale. Da una parte la fine dell’età dell’oro e la crisi dell’economia occidentale, il tramonto di Nixon con lo scandalo Watergate e il crollo delle dittature fasciste in Portogallo, Grecia e Spagna; dall’altra la crisi dell’egemonia democristiana emersa con il referendum sul divorzio, la crescita elettorale del Pci e l’ipotesi del compromesso storico. È in questo contesto che, con il sequestro del procuratore genovese Mario Sossi, prende corpo l’attacco al cuore dello Stato delle Br, attive dal 1969-70.

Tuttavia le Br sono solo una parte di uno scenario eversivo complesso e articolato, che costituisce la vera peculiarità del periodo. La dissoluzione dei gruppi extraparlamentari, da Lotta continua a Potere operaio, lascia il posto a un’area politica magmatica, soggetta a continui fenomeni di scioglimento e di riaggregazione, all’interno della quale l’opzione della violenza si fa più esplicita di quanto non fosse nella prima metà del decennio. È questo il momento in cui, dopo essere stato a lungo teorizzato e legittimato a parole, l’omicidio politico entra nella fase di attuazione. È così che cominciano a moltiplicarsi – ne sono state contate centinaia –formazioni più o meno estemporanee ed effimere, una vera e propria galassia, al cui interno si distingue nettamente Prima linea per gravità di attentati e numero di processati. La sua è un’ipotesi di lotta armata alternativa (almeno sulla carta) all’attacco al cuore dello Stato delle Br, quando non direttamente avversa, che riadatta l’ideologia operaista rivendicando uno stretto legame con il movimento.

L’eversione di sinistra, persino nel caso della formazione più centralizzata, quella delle Br, si rivela un mosaico di esperienze diverse tra città e città – si pensi solo alla polverizzazione delle sigle – che suggerisce di parlarne sempre al plurale. La lotta armata è un fenomeno che si alimenta della conflittualità sociale complessa, non solo operaia, di cui le metropoli in particolare sono espressione. Colpisce la marginalità del Sud (anche se vi presero parte non pochi meridionali, operai emigrati nel triangolo industriale e studenti fuori sede), che sembra riprodurre una divisione in due del Paese di lungo periodo, rinnovata anche dalla guerra civile 1943-45.

Il movimento del ’77, l’ultima mobilitazione politica del secolo, è una ulteriore conferma della peculiarità italiana. Nel momento in cui altrove si comincia a parlare di fine delle ideologie e di riflusso, il Paese è investito da una fiammata di violenza politica, se pur condita con elementi inediti e componenti diverse, che contribuisce a sfumare sempre di più i confini tra legalità e illegalità. Se il Pci veste i panni di partito dell’ordine, sancendo la rottura irreversibile con l’estremismo, il movimento del ’77 costituisce un consistente bacino di reclutamento sia per i gruppi esistenti che per quelli in formazione; proprio mentre la crisi dei collettivi autonomi, tra il 1978 e il 1979, partorisce decine di gruppi clandestini. Tra il ’77 e l’82 è commesso il 90 per cento di tutti gli attentati, con una crescita evidente degli omicidi.

L’acceleratore decisivo è il clamoroso rapimento – e poi l’omicidio – di Aldo Moro, culmine del terrorismo di sinistra, ma anche inizio della sua fase più intensa, con l’attivazione di aree eversive diverse. Nel 1979 l’omicidio dell’operaio comunista e sindacalista della Cgil Guido Rossa da parte delle Br, e quello del giudice progressista Emilio Alessandrini a opera di Prima linea, segnano un punto di non ritorno che mette in crisi una parte degli stessi militanti. Lo stesso 1980 – quando compaiono i primi pentiti e la marcia dei 40.000 pone fine al ciclo di lotte operaie iniziato con l’autunno caldo – è l’anno peggiore, con ben 125 vittime, tra cui il giornalista del «Corriere della sera» Walter Tobagi, il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Vittorio Bachelet e molti altri, insieme agli 85 morti della bomba alla stazione di Bologna, che indica il drammatico riaffiorare dello stragismo.

In termini quantitativi il bilancio del decennio di piombo e dei conflitti di piazza – 500 morti, oltre 2000 feriti, decine di migliaia di miliardi di danni materiali – non è certo trascurabile, anche se sono numeri che in una prospettiva mondiale di più lungo periodo sembrano perdere rilevanza. Tuttavia il senso della profonda lacerazione di quegli anni è nelle cicatrici che non si possono quantificare: gli effetti prodotti dall’attacco eversivo sul quadro politico e istituzionale, tra cui il prezzo pagato dalla democrazia all’emergenza, che si dispiega su più livelli: legislativo, giudiziario e carcerario.

Vi si associa l’oscura percezione di un pericolo prossimo e dissimulato nelle pieghe della società, che ha in qualche modo a che fare con i nodi rimasti insoluti della storia nazionale. I terroristi di destra e di sinistra sono figure incomparabili, ma sia tra gli uni che tra gli altri sono molti i ragazzi normali, persino di buona famiglia; è in questo senso paradigmatico il caso del militante di Prima linea Marco Donat Cattin, figlio di Carlo, vicesegretario della Dc e più volte ministro, che sembra riassumere il terrorismo in una resa dei conti tra padri e figli. Ma si pensi anche agli ambienti della Roma bene, così contigui al terribile delitto a sfondo sessuale del Circeo, cui appartengono molti giovani neofascisti; e, per gli anni successivi, all’esperienza così diversa dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar) di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro.

L’idea dell’attacco esterno, che invece prevale a lungo alimentando dietrologie più o meno fantasiose, ha una innegabile funzione rassicurante; cui contribuisce anche l’insistenza sulla dimensione minoritaria dei fenomeni eversivi – di pochi violenti, folli, agenti dei servizi segreti e simili – che tradisce la difficoltà a prendere atto delle dimensioni e della natura del problema. 




A.I.: C’è differenza fra i modi in cui le questioni della lotta armata, del terrorismo, della violenza politica sono affrontate oggi rispetto ai mesi e agli anni immediatamente successivi o al periodo stesso in cui queste vicende avevano luogo?

M.G.: La lucidità delle analisi coeve, a ridosso dei fatti, è sorprendente se letta oggi. Colpisce, in particolare, il dibattito sull’uscita dall’emergenza, alla metà degli anni Ottanta, che riguarda soprattutto l’eversione di sinistra e si rivela in grado – con tratti di apertura e spregiudicatezza oggi impensabili – di risvegliare la coscienza del Paese su aspetti cruciali della convivenza civile e dell’esistenza umana. I cosiddetti anni di piombo rappresentano un profondo trauma, tale da cambiare il rapporto della società italiana con la violenza, innescando una seria riconsiderazione della legittimità del suo uso, non solo in coloro che ne erano stati gli esecutori più convinti (la diffusione dei movimenti per la pace degli anni Ottanta-Novanta trae di qui uno dei suoi impulsi). Ci sono giornalisti come Giorgio Bocca e Corrado Stajano; magistrati come Luigi Guicciardi e Marco Ramat, vicino al Pci e fondatore di Magistratura democratica, solo per citare i primi che mi vengono in mente; ma anche politici in molti schieramenti che, pur condannando senza alcun tentennamento la lotta armata e la violenza politica, cercano di collocare il fenomeno armato in un contesto che dia loro elementi utili per comprenderne le origini e il radicamento, la natura sui generis che lo distingue dai reati comuni, così come il generale Dalla Chiesa fa di fronte alla Commissione parlamentare su via Fani. Anche i militanti, ormai carcerati, a ridosso degli eventi mostrano una disponibilità a rileggere in termini autocritici la loro esperienza: una disponibilità che si è con il tempo consumata, erosa, in un clima che non ha favorito il delicato meccanismo dell’autocritica.

I motivi di questo irrigidimento generale sono molti e complessi. Con il tramonto delle utopie e il crollo del muro di Berlino, la fine del mondo comunista e del concetto stesso di rivoluzione, l’impressione netta di una sconfitta del movimento operaio ha ridotto la sensibilità nei confronti di un fenomeno che, piaccia o meno, fa parte della storia della sinistra; inoltre, così come è successo per la Shoah e per violenze di altra natura, la memoria ha conquistato un peso crescente, tanto che negli ultimi anni le vittime del terrorismo hanno conquistato una indubbia «centralità», in una stringente polemica nei confronti del protagonismo degli ex terroristi e della loro pretesa di raccontare – quasi per un’ennesima anomalia del Paese – la tragedia nazionale di cui essi stessi sono stati i responsabili.

A confronto con la lucidità della metà degli anni Ottanta, l’immagine restituita in questi ultimi anni dai media e dagli studi storici risulta assai più opaca. Se il punto di vista delle vittime contribuisce a ricostruire l’impatto del terrorismo sulla società, il prevalere dell’atteggiamento di condanna e di «una lettura giudiziaria della storia» che esso porta con sé non rende un buon servizio alla storia. Come ha scritto Traverso a proposito di questa tendenza generale, alle vittime è stato restituito giustamente un volto, ma «le ragioni della loro morte» rischiano di diventare «incomprensibili».

Nonostante l’interesse crescente, storia della lotta armata e storia della Repubblica dialogano ancora a fatica, eludendo la domanda di fondo: perché e come l’Italia ha rappresentato un caso imparagonabile al resto d’Europa per durata, intensità e radicamento sociale; quanto e come quel trauma ha segnato la vita del Paese, al di là del peso incancellabile di più di 140 morti, migliaia di feriti e innumerevoli attentati?

A.I.: La semplificazione di media e saggistica, testi, video, oggi social media, sul periodo della lotta armata, del terrorismo, della violenza politica ha portato confusione e ha inciso sulla memoria. Ci sono o ci sono stati a suo parere documentari, testi divulgativi, trasmissioni televisive e radiofoniche che hanno provato a restituire elementi di verità o per lo meno di comprensione storica che suggerirebbe a una studentessa o a uno studente che vuol cominciare a informarsi?

M.G.: La violenza politica di quegli anni è un tema scottante, con cui non si sono fatti i conti; mi pare ancora evidente la difficoltà a considerarli parte integrante e non separata della storia di questo Paese. Di conseguenza continuano a prevalere, su quelle della storia, le esigenze e le sfide, non sempre compatibili, della giustizia e della memoria pubblica, tipiche di un XX secolo letto come secolo della violenza. Anche nelle trasmissioni culturali e nei documentari che compaiono sui media l’esigenza della condanna appare ancora soverchiante, come se questa sostituisse la conoscenza, anziché soffocarla. La tendenza a presentare il fenomeno come isolato da tutto ciò che allora si agitava nella società è in questo senso indicativo: del resto il recente arresto di Cesare Battisti – presentato dai media come il trionfo di una giustizia rigorosa dopo anni di lassismo – ha riprodotto questo cliché, schiacciando tutta la vicenda sulle esigenze del presente.

Il ritardo nell’acquisizione di una distanza critica non fa bene neanche ai linguaggi narrativi diversi da quello storico. Non è un caso che la violenza politica, il terrorismo e in genere gli anni Settanta italiani, salvo rarissime eccezioni, risultino tra i soggetti meno rappresentabili anche dal cinema e dalla letteratura, che non hanno trovato immagini per riprodurli e parole per raccontarli. Perché anche le arti, come la ricerca storica, hanno bisogno di libertà intellettuale. Confrontando il caso italiano con quello tedesco, nel cinema Germania batte Italia 4 a 3: il cinema tedesco sin dai tempi di Germania in autunno, girato nel 1978 dai più geniali registi di avanguardia, si è inserito fecondamente nel dibattito sul terrorismo e sulla lotta al terrorismo, senza peraltro perdere niente sul piano della qualità. Non è certo un caso che l’espressione “anni di piombo” – tanto abusata quanto imprecisa per il caso italiano – derivi dal titolo del magistrale film tedesco firmato da Margarethe Von Trotta.

Sembra quindi che la rappresentazione cinematografica sia meno efficace laddove la ferita e il coinvolgimento della società sono stati più profondi. Proprio il film Germania in autunno fa risaltare un’altra differenza: in quel film si discuteva se mandare in onda un’Antigone alla televisione mentre fuori imperversava il terrorismo della Raf, ma in Italia l’Antigone fu rappresentata in carcere, durante il primo convegno tenutosi a Rebibbia nel 1984. In Germania, quindi, dove la repressione procedette senza incontrare ostacoli di rilievo, il cinema sembra aver assolto alla funzione che in Italia è stata di una porzione consistente della società civile, convinta dell’impossibilità di avere ragione del terrorismo con la sola forza.

Tra le trasmissioni televisive che mantengono a tutt’oggi la loro validità, esempio di grande giornalismo di inchiesta storica, c’è sicuramente «La notte della Repubblica» di Sergio Zavoli, che contiene ancora una sua validità, per lo sforzo innegabile di andare al di là del giudizio e della condanna, per la capacità del grande giornalista di mettersi tra parentesi e lasciar parlare un numero impressionante di esperti, testimoni e protagonisti per decifrare fenomeni complessi a tragici quali le Br, i tentati golpe, le stragi, la strategia della tensione, e con il merito di tenere insieme, senza banalizzazioni l’onda lunga dell’Italia delle eversioni, delle stragi, della contestazione e del terrorismo. È comunque una trasmissione figlia del suo tempo: andò in onda a ridosso degli avvenimenti, dal dicembre 1989 all’aprile 1990, quando – come si è visto – c’era paradossalmente un clima più aperto di adesso.

A.I.: Di fronte alla violenza politica c’è o ci deve essere differenza fra l’azione dello Stato e la riparazione del torto spesso tragico e privo di consolazione per i parenti delle vittime?

M.G.: La dialettica tra vittime e carnefici tende alla lunga a trasformarsi in un vicolo cieco, e non solo per la ricerca. Negli anni Ottanta non sono stati pochi i casi di incontro e confronto con gli ex terroristi, voluti dalle vittime alla umanissima ricerca di un perché. Si pensi a Sergio Lenci, fortunosamente sopravvissuto a un attentato di Prima linea e costretto a vivere con una pallottola nella nuca, che decide di incontrare la sua attentatrice tramite la mediazione di padre Bachelet (fratello di una vittima illustre delle Br). Si tratta sempre di incontri deludenti, che approfondiscono le distanze invece di ridurle, risolvendosi spesso in un sentimento di pietà verso i colpevoli che non placa la rabbia e aggiunge dolore al dolore. Nel libro sulla vita e sull’omicidio di suo padre, Benedetta Tobagi ha parlato con grande lucidità del «bisogno, disperato, di riconoscimento» della vittima, che si nutre di sentimenti ambivalenti e che è per questo destinato a non trovare mai soddisfazione. Si chiede ai carnefici di farsi carico della colpa smisurata di aver ucciso un innocente; ma allo stesso tempo l’enormità del male commesso è tale da risultare irrimediabile, con l’effetto di rendere inadeguati qualsiasi spiegazione, qualsiasi gesto. Ne erano ben consapevoli molti ex militanti, che dicevano di nutrire poca fiducia nella capacità comunicativa delle parole, prendendo talvolta le distanze dagli atti di manifesta resipiscenza, visti come una seconda violenza nei confronti di chi già aveva patito una perdita dolorosa. Del resto nell’omicidio politico si scontrano, in modo contraddittorio, il processo di astrazione e quello di personalizzazione dello scontro politico: perché si sparava a una funzione, ma si uccideva una persona.

D’altra parte iniziative come quelle di cui ha fornito testimonianza Il libro dell’incontro (Il Saggiatore), cioè il mettere di fronte vittime e carnefici, finiscono – pur partendo da presupposti “riparativi” e non vendicativi – per sottrarre al contesto un fenomeno che non può essere letto né tantomeno compreso al di fuori del suo tempo.

Al termine dei primi grandi processi che si poterono avvalere della presenza dei pentiti, giunsero anche le prime richieste pubbliche di perdono che, pur diverse nel tono e nei contenuti, suonarono ugualmente stonate. Il confronto personale tra chi ha procurato e chi ha subito l’offesa si è rivelato in ogni caso inadeguato, e non avrebbe potuto essere altrimenti. Lo Stato è chiamato anche in questo caso, e forse più che in altri casi, vista la natura dei reati, a giocare un ruolo super partes: nel concetto stesso di giustizia è implicita l’esigenza di una mediazione tra interessi diversi. Del resto, se pur con risultati talvolta discutibili, le istituzioni non si sono sottratte. La legge sui pentiti e quella dissociazione, che in qualche modo abbozzano una sorta di primissima soluzione politica, ne sono un esempio. Ma è anche vero che è proprio sulla questione del terrorismo che si registra (ora più di prima) una sorta di regressione sul piano del diritto, come se la gravità dei fatti autorizzasse a mettere in mora – invece che riaffermare con più forza – i fondamenti del sistema giudiziario e penale, dello Stato stesso.

A.I.: Cosa si può dire sull’uso del reato associativo e in generale sul sistema repressivo e penale anche in fase istruttoria, messo in atto dallo Stato nel contrasto alla violenza politica? Cosa è stato il teorema Calogero, e ha avuto una sua efficacia?

M.G.: Sulla lotta al terrorismo e sulle modalità con cui è stata combattuta prevalgono giudizi contrapposti e preconcetti, dietro cui si intravedono il monopolio della memoria e la sua capacità di influenzare una parte dell’opinione pubblica e anche degli studiosi. Per gli ex militanti non fu nient’altro che repressione brutale, mentre i magistrati dell’antiterrorismo e chi ne ha condiviso le scelte hanno parlato di pieno rispetto della Costituzione. Nel Libro degli anni di piombo (Rizzoli), curato da Mattard-Bonucci/Lazard, due magistrati come Caselli e Spataro lo affermano con nettezza, mentre lo stesso Dalla Chiesa fece a suo tempo trasparire, senza tanti filtri, la necessità di una certa libertà di movimento da regole troppo rigide per combattere un nemico di cui, almeno finché Peci non sollevò il velo sull’universo eversivo, si era capito poco o nulla. In una recente intervista di Giuliano Ferrara si parla, con una certa onestà, di giusta sospensione dello stato di diritto.

La lotta al terrorismo non poté del resto procedere come un’operazione chirurgica che estirpa il male da un organismo sano. La sua improvvisazione e la sua iniziale inefficacia furono in buona parte dovute non tanto alla storica inefficienza del Paese o all’inframmettenza di forze occulte, come si è spesso insinuato, ma a oggettive difficoltà. La durezza emergenziale si mescolò a insperate aperture nella percezione, prima confusa poi sempre più chiara che, di fronte a una realtà assai più radicata e diffusa di quanto si fosse inizialmente creduto, la repressione non sarebbe stata sufficiente.

Questo però non vuol dire che in Italia la lotta al terrorismo si sia conciliata con lo Stato di diritto e con il suo rafforzamento. Il carcere e la giustizia dell’emergenza, il ruolo acquisito dalla magistratura e il rapporto alterato tra potere giudiziario e potere politico danno la misura della crisi e non del trionfo della democrazia. È difficile rendersi conto della dinamica degli eventi e del senso delle scelte se non si tiene conto, oltre che delle leggi, di ciò che avvenne in carcere e nel mondo della giustizia, cioè dove quelle leggi si applicarono. La vicenda del 7 aprile fu la prova generale della lotta al terrorismo e delle sue derive. Secondo l’impianto accusatorio dell’allora sostituto procuratore di Padova Pietro Calogero, l’autonomia operaria e i suoi teorici – non escluso Potere operaio – erano parte integrante della strategia terroristica facente capo, in ultimo, alle Brigate rosse: un’ipotesi – quella di un’organizzazione e di una strategie uniche – che si è rivelata priva di fondamento anche sul piano giudiziario, ma che negli ultimi anni è stata in qualche modo riproposta proprio sul piano storiografico. Nell’immediato l’operazione, oltre a produrre arresti a catena, contribuì a polarizzare e a spingere lo scontro su livelli più alti; e la veloce dissoluzione del sottobosco eversivo avvantaggiò sul momento la militanza regolare, facendo della clandestinità una scelta obbligata anche per l’area di Prima linea.

Di qui inizia l’uso estensivo del reato associativo e del concorso morale (tale per cui il singolo è ritenuto responsabile di tutti i reati commessi dalla organizzazione cui appartiene), su cui è stato appiattito qualsiasi antagonismo, si allarga il credito concesso ai pentiti, con tutti i rischi che ne potevano derivare, e che ne derivarono, per le garanzie fondamentali dell’imputato sancite dai codici penali a partire dalla Rivoluzione francese, a cominciare dalla personalità della responsabilità penale e dall’uguaglianza di fronte alla legge al diritto di difesa: perché l’imputato fu costretto all’inversione dell’onere della prova, mentre si diffusero la dilatazione a dismisura della carcerazione preventiva, dovuta ai mandati di cattura a grappolo e alla contestazione di più aggravanti, e l’uso del carcere duro come forma di pressione e di ricatto, quasi come un prolungamento della prassi inquisitoria sposata dalla magistratura. Alla fine del 1979, con quella che diventerà la legge Cossiga, si codificarono il sistema delle aggravanti e l’amplificazione del reato associativo, che battevano la consueta strada dell’inasprimento sanzionatorio e della restrizione dei diritti e delle garanzie, e si aggiunse la possibilità di consistenti sconti di pena per chi accettava di collaborare con la giustizia.



In particolare la legge sui pentiti, che dopo essere stata collaudata dall’antiterrorismo è stata applicata dalla lotta alla mafia, necessitava per sua stessa natura di ampi margini discrezionali per essere applicata e per poter orchestrare il gioco delle promesse e delle minacce cui inevitabilmente si legavano il pentimento e il pentitismo, che si configuravano come commedie o drammi collettivi di ampie dimensioni: vi partecipavano in primo luogo il pubblico ministero o il giudice istruttore, decisivi per indurre alla collaborazione con l’aiuto di esponenti scelti delle forze dell’ordine, e poi il giudice del dibattimento e dei successivi gradi che applicava il sistema delle attenuanti; infine solo l’Amministrazione carceraria poteva garantire un trattamento carcerario e una politica dei trasferimenti tali da non mettere in pericolo la vita dei pentiti; e spesso molti dovevano chiudere un occhio «o anche tutti e due» per arrivare laddove la legge non arrivava.

L’iperbolica imputazione di insurrezione armata contro i poteri dello Stato e guerra civile, di cui nel 1984 furono chiamati a rispondere ben 269 brigatisti e autonomi del 7 aprile, era indicativa degli eccessi e delle contraddizioni – forse inevitabili – della lotta al terrorismo: era una imputazione che faceva la sua comparsa per la prima (e l’ultima) volta nella storia repubblicana, anche se sembrava più che altro strumentale a un rinvio dei nuovi termini della custodia cautelare; e strideva con quanto politici e inquirenti avevano sempre sostenuto sulla tenuta dello Stato e sull’incapacità del terrorismo di coinvolgere grandi masse.

A.I.: Come è finita la guerra?

M.G.: L’esaurirsi della parabola eversiva – ma bisogna ricordare che è stato sconfitto e punito solo il terrorismo di sinistra, mentre le stragi neofasciste sono rimaste senza colpevoli – assume una particolare rilevanza anche perché ha coinciso con il mutamento di scenario nazionale e internazionale che si è verificato a partire dall’inizio degli anni Ottanta. Da una parte l’avvio del processo che nel 1989 avrebbe chiuso la guerra fredda, dall’altra l’affermazione del craxismo e una nuova fase di crescita economica, l’inizio del declino del Pci e le battute finali di una lunga crisi del sistema dei partiti.

La lotta al terrorismo islamico ha riacceso l’interesse storiografico anche per l’uscita dall’emergenza degli anni di piombo, poiché ha spinto a riflettere un po’ ovunque sulla tenuta dello Stato di diritto rifacendosi agli esempi del passato in chiave comparativa. Nonostante la tendenza alle risposte rassicuranti se non proprio assolutorie, volte a dimostrare anche inconsapevolmente la superiorità del modello occidentale, la letteratura internazionale ha suggerito un approccio all’attività dei gruppi armati e alle risposte difensive degli Stati come parti di un unico dramma collettivo cui partecipa, con la politica e la stampa, l’intera società. Si tratta di un tema importante, anche se a lungo trascurato per l’Italia, perché nelle modalità con cui il terrorismo è stato combattuto – disseminate di esitazioni, squilibri e contraddizioni – stanno scritti più e meglio che altrove la natura del fenomeno e il suo impatto sulla storia repubblicana: in sintesi, la profonda lacerazione prodotta degli anni di piombo.

Il terrorismo è stato sconfitto grazie ai primi pentiti, che hanno consentito di penetrare nell’universo eversivo. Tuttavia il pentitismo non fu solo causa, ma anche effetto di un cedimento interno dei gruppi armati, di cui seppero approfittare il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa e i magistrati dell’antiterrorismo. La legge sui pentiti non fu però solo uno strumento per combattere il terrorismo, ma anche un abbozzo di soluzione politica, che riconosceva la natura sui generis dei reati eversivi. Di lì a poco il movimento della dissociazione, che attrasse oltre i tre quarti dei militanti carcerati, dette il via a un processo di revisione della scelta armata senza pari in Europa, confermando il terrorismo italiano come un caso unico anche per il modo in cui è stato sconfitto. È questo il motivo per cui protagonisti dell’uscita dall’emergenza, più che le vittime, furono gli ex militanti pentiti e dissociati, che trovarono un interlocutore anche nel variegato mondo cattolico.

È dall’orrore del carcere speciale e più in generale dal dolore patito in prima persona che prese avvio il processo di umanizzazione. L’essenza più profonda del lungo e tormentato viaggio di ritorno alla vita compiuto da molti ex militanti si caratterizzò proprio per l’intreccio indissolubile degli aspetti soggettivi e personali con quelli politici. Mettendo al centro la riscoperta dell’uomo e del suo valore, il dibattito postemergenziale dette voce a un’esigenza più generale, che istituzioni e partiti non sembravano in grado di soddisfare. Con il definitivo superamento della politica come lotta mortale tra amico e nemico, giunta in eredità dalla guerra civile europea, si chiudevano il secolo breve e il lungo dopoguerra italiano.

Dopo la sconfitta del terrorismo si cominciò subito a discutere l’idea di una soluzione politica, che era stata solo in parte soddisfatta dalla legge sui pentiti. Le proporzioni della lacerazione eversiva e le ingiustizie dell’emergenza apparvero subito tali per alcuni da giustificare un atto di clemenza in nome della pace sociale: così era avvenuto dopo altri momenti critici della storia unitaria – sottolineava Giorgio Bocca – dal brigantaggio alla Resistenza contro i nazifascisti. L’ipotesi di una riconciliazione ruotava in sostanza attorno al dilemma se, e con quali modalità, fosse opportuno trasformare in attenuante l’aggravante di terrorismo, cancellando gli eccessi e le ingiustizie prodotti dall’emergenza.

L’amnistia fu subito scartata perché sembrava legittimare il terrorismo come una guerra civile, fornendo ai terroristi il riconoscimento politico che era stato loro negato fino ad allora. Lo scopo era anche smentire che essi fossero stati qualcosa di più dell’esigua minoranza sradicata di cui parlavano in molti; anche se Giorgio Bocca, che la Resistenza l’aveva combattuta, ricordava che i 3000 comunisti combattenti contati nel 1978 erano pari al numero dei partigiani prima della crescita registrata nella primavera del 1944. Secondo altri era inaccettabile l’idea che negli anni Settanta ci fosse stata una guerra civile, categoria che ancora si faceva fatica ad applicare al periodo 1943-45; responsabilità collettiva non significava comunque irresponsabilità penale dei colpevoli. Per i comunisti non era possibile nessuna equiparazione tra lo Stato democratico e i suoi aggressori, né alcun paragone con le lacerazioni prodotte dal nazifascismo e con l’amnistia concessa da Togliatti.

Si arrivò così alla legge sui dissociati, che simbolicamente ebbe un valore rilevante, anche se non soddisfece nessuno, tanto che da allora l’idea di una soluzione politica si è riaffacciata più volte.


A.I.: Che tipologie di lettura esistono da parte dei protagonisti, quali grandi aree interpretative provengono dal mondo della lotta armata su quella stagione?

M.G.: A parlare di guerra civile sono oggi alcuni ex terroristi e autonomi, che vi cercano una forma di attenuante più o meno inconscia, se non di autoassoluzione, anche se il reato di guerra civile (e di insurrezione armata contro i poteri dello Stato), di cui alcuni di loro dovettero rispondere fin dai primi processi, era di fatto un aggravante. Ma anche qualche autorevole rappresentante delle istituzioni di allora, come il democristiano Francesco Cossiga e il comunista Ugo Pecchioli, hanno ammesso a posteriori la matrice ideale e il radicamento sociale della lotta armata, che si sviluppò in un clima per il quale il presidente della Commissione Stragi Giovanni Pellegrino ha parlato espressamente di guerra civile. Per sottolineare che non si trattò di una guerra civile in senso proprio, la si è definita «a bassa intensità» o «simulata», secondo la definizione di Luigi Manconi: ma forse meglio sarebbe dire «percepita», e cioè non reale, ma comunque decisiva nell’indirizzare i comportamenti di una generazione condizionata dal «colpo di Stato alle porte» e convinta che la rivoluzione fosse imminente. Giuliano Ferrara ha di recente ammesso che si trattò di «guerra, fatta con i mezzi della politica, ma era una guerra civile, senza regole, senza le divise, asimmetrica, come i jihadisti di oggi, la peggiore». «C’era una battaglia per la guida del movimento operaio: il partito armato non era composto da masse sterminate come quelle organizzate da noi, ma era un’avanguardia agguerrita e determinata che condizionava o orientava la vita all’interno della fabbrica meccanizzata e capitalistica: facevano i cortei interni, provocavano la gerarchia con forme democraticamente e intollerabili, sparacchiavano, gambizzavano e ammazzavano».

In genere però perdura la difficoltà a riconoscere la natura politica dei reati commessi dai militanti della lotta armata, cioè in ultimo ad ammettere la profonda lacerazione nella società italiana di cui essa è stata causa ed effetto, antica e nuova al tempo stesso, e a riconoscere la sua origine nella storia della sinistra, ben oltre l’«album di famiglia» di cui ha parlato Rossana Rossanda.

Dopo l’iniziale apertura a ridosso degli avvenimenti, l’impressione è che ora ci sia un irrigidimento: difficile capire da dove sia partito. È una sorta di incomunicabilità che non porta da nessuna parte. La vicenda Battisti è in questo senso emblematica di un giustizialismo funzionale alla lotta politica che si nutre della cancellazione di ogni prospettiva storica: sfido un ragazzo di oggi a capire cosa è successo in questo paese negli anni Settanta-Ottanta basandosi solo su ciò che in quell’occasione hanno scritto i media.


Monica Galfré è professoressa associata di Storia contemporanea presso il Dipartimento Sagas (Storia Archeologia Geografia Arte Spettacolo) dell’Università di Firenze. Si è occupata di storia delle istituzioni scolastiche e dell’editoria nell’Italia contemporanea, con particolare riferimento agli anni del fascismo e della repubblica, e da tempo si interessa di violenza politica di sinistra e lotta armata negli anni Settanta e Ottanta. È autrice di numerosi saggi e dei seguenti volumi: Una riforma alla prova. La scuola media di Gentile e il fascismo(Franco Angeli 2000), Il regime degli editori. Libri, scuola e fascismo (Laterza 2005),La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987 (Laterza 2014), Tutti a scuola! L’istruzione nell’Italia del Novecento (Carocci 2017) e La guerra è il nostro Vietnam. Il ’68 e l’istruzione secondaria italiana (Viella 2019).

Nessun commento:

Posta un commento

Il racconto truccato del conflitto previdenziale

di Matteo Bortolon da Il Manifesto   Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...