di Enza Panebianco (da femminismo a sud via Gennaro Carotenuto)
Parliamo di femminicidio all’italiana. Lei è una martire o una arpia. Lui è sempre depresso. Nel giro di pochi giorni su parecchi quotidiani avete potuto leggere la storia di Mariagrazia, uccisa dal solito marito che dopo averle tolto la vita si è suicidato, di Rossana, uccisa dal convivente che dopo una fuga si è costituito, di Teresa, uccisa dal marito e poi perfino insultata (era un'arpia!), di una donna della quale nessuno scrive il nome, che viene massacrata a colpi di accetta da un uomo che aveva già tentato di uccidere la ex moglie, di Rosalia, morta a 17 anni perché è chiaro che "se mi lasci non vale", di Miriam e Anna, la prima morta per mano certa e la seconda ancora non si sa, di molte altre ancora che se sommate diventano un numero spaventoso del quale ci si rende conto solo a contarle ogni giorno.
Tra gli assassini ci sono i mariti depressi, quelli pietosi che tolgono la vita perché "lei era malata", quelli che "lei era un'arpia", quelli che "lei era una puttana e lo faceva impazzire", quelli che "lui l’amava troppo e lei voleva lasciarlo".
Normalmente ogni scusa viene usata come attenuante. Si descrive un sintomo per legittimare un gesto che limita la libertà altrui. Come quando si dice che certe cose le puoi fare se sei ubriaco. Chi beve però sa perfettamente che l’alcool non è una autorizzazione a fare come ti pare.
La depressione - e lo dico senza essere una esperta in materia – dicono sia una patologia che colpisce in maggior numero le donne. Eppure questo non si traduce in altrettanti omicidi. Le origini della depressione credo siano spiegate di modo che anestetizzino la società rispetto a problemi ben più gravi. Un giorno ti licenziano, non sai come mantenere la famiglia, non puoi pagare il mutuo e vai in depressione. Ci saranno mille altre ragioni ma tutte si traducono in una patologizzazione delle ragioni fortemente sociali che portano alla depressione.
Gli scienziati fanno una gran fatica per trovare l’origine di questo male in un difetto genetico, giusto per non dire che questa cosa dipende da noi, dagli umani, dai nostri comportamenti, da quello che subiamo o che infliggiamo agli altri. Dire di una persona che è "malata" è il modo migliore per deresponsabilizzare la società di una serie di problemi che non vuole risolvere. Perciò concede una tregua anche all’individuo e lo relega nell’angolo riservato agli scarti di produzione.
Una persona depressa per quanto ne so viene trattata con farmaci che rincoglioniscono un elefante, un anestetico che ti fa restare con il sorriso in bocca anche se arriva quello che ti pignora tutto e lo mette all’asta. Una cosa che spesso dicono in psichiatria è che: non sono importanti le cose che accadono ma come tu le affronti. Come dire: se non sai accettare un licenziamento, una società che ti massacra, ti usa e poi ti getta, se non accetti di essere molestata, violentata in vari modi, è e sarà sempre colpa tua. Non è il tuo datore di lavoro ad essere un bastardo, sei tu ad essere malata.
Se sei in mobilità, quasi al licenziamento, ti sfrattano da casa e ti suicidi: è certamente colpa tua, non del governo, né delle banche, né di ogni altro figlio di puttana che si arricchisce sulla tua pelle, ti spreme e poi ti butta via.
A leggere Foucault si capisce che l’anormalità è una cosa che esiste in ciascuno di noi, che la follia è stata una bella giustificazione morale per incarcerare e rinchiudere tanta gente che rifiutava di farsi "normalizzare". La psichiatria e il carcere stanno per lui infatti allo stesso livello.
La psichiatria moderna, quella dopo Basaglia, dopo la chiusura dei manicomi, ha fatto dei passi avanti ma la logica della normalizzazione permea un pezzo consistente del settore.
La spinta che c'è’ in questo momento va comunque in tutt’altra direzione. Raccolgo articoli e dettagli su donne uccise dai loro uomini da almeno 15 anni (non da un giorno, ma da 15 anni). Fatelo anche voi, andate in biblioteca e cercate fra gli articoli di cronaca. Fateveli dare dalle redazioni dei giornali. Adesso che i quotidiani pubblicano su internet cercateli in rete. Posso dirvi con certezza per esempio qual è l’andamento delle versioni che vengono fornite dalla stampa.
Da un po’ di anni, da quando cioè esiste una forte spinta autoritaria che insiste su soluzioni farmacologiche anche per punire gli stupratori, da quando nelle carceri si è ricominciato a sedare pesantemente i reclusi perché stranieri e perché non si è fatta alcuna fatica a comprenderli, la versione della stampa circa i femminicidi è peggiorata.
La componente razzista spinge alla formulazione di accuse piene di distinguo. Il marocchino che ammazza è solo un assassino. L’italiano che ammazza è depresso. Non c'è dunque alcun interesse ad indagare le cause reali del femminicidio. Nessun interesse. C'è’ anzi l’interesse esplicito a giustificare il femminicida (lei era un’arpia!), a compatirlo (lui è depresso!), a legittimarlo (lui aveva ragione di essere geloso!).
In tutti i casi la ragione precisa, la costante che si ripresenta come fosse una inevitabile condanna a morte è la decisione della donna di lasciare il marito, il fidanzato, rifarsi una vita, allontanarsi, fare altro. Oppure è semplicemente la decisione della donna di reagire dopo aver subito ogni genere di angheria compresa quella psicologica (anche quella volgarmente legittimata dallo stato di salute del marito).
Volendo patologizzare il problema, di quale uomo che uccide una donna o la picchia selvaggiamente o la stupra per punirla potresti dire che sta bene?
Quante sono invece le donne che vivono da "depresse" perché non possono, non sanno, liberarsi in una situazione di schiavitù? Quante sono le donne "depresse" che ammazzano i mariti per reagire alle angherie che subiscono? Chi è dunque, all’interno delle relazioni tra un uomo e una donna, ad essere in stato di soggezione? Inequivocabilmente la donna.
Sono le donne ad essere educate per accogliere e prendersi cura di uomini di qualunque specie. Sono le donne che devono sopportare qualunque tipo di situazione familiare. Le donne sempre colpevolizzate se non si prendono cura di tutti. Le donne alle quali lo stato assegna il ruolo di ammortizzatrici sociali a partire dalla loro condizione di schiavitù.
Lo stato non indaga sui femminicidi semplicemente perché ne è complice. La verità sta tutta qui. Ne è complice e non demorde anzi insiste nell’attribuire un ruolo che non può essere tradito pena la diserzione.
Come non ricordare le accuse di tanti uomini che massacravano le mogli scritte nero su bianco su certi giornali: "lei non aveva cucinato", oppure "lei non pulisce mai la casa".
Come può osare dunque una donna scegliere di lasciare l’uomo che le ha catturate come proprietà a tutto servizio?
Non può. Se una donna lo fa, in certe condizioni, la donna deve pagare. Paga perché la società non l’aiuta, perché gli uomini la perseguitano, perché non c'è’ lavoro, non c'è’ casa, perché la società e lo stato non offrono alternativa, come se le porte fossero tutte chiuse perché ti sei comportata male. Pagano perché gli uomini considerano gli "alimenti" una quota di partecipazione all’uso del tuo corpo. Se non possono usarlo non te li danno, neppure quando quegli alimenti riguardano i bambini, neppure se sono il surrogato di quello che lo stato dovrebbe darti per ritornare ad essere autonoma. E come può lo stato pretendere che la donna separata riacquisti autonomia se a pagare quella autonomia è l’ex marito? Un paradosso infatti che si rivela in tutta la sua drammaticità perché mantiene un legame con uomini che ritengono di avere una opzione su di te. Lui paga per risarcirti degli anni che hai speso per costruire anche la sua fortuna e tu gli appartieni. Le donne pagano perchè per restare tranquille dovrebbero non dover stabilire più nessun legame con gli uomini violenti e invece lo stato decide che i mariti violenti possono avere diritto all’affido condiviso dei figli. Le donne pagano con la vita, troppo spesso, quasi sempre.
La cultura sulla quale si fonda uno stato patriarcale è tesa a creare giustificazioni morali al femminicidio. Si dice sia colpa della moglie se il marito era geloso perché la moglie doveva avere cura di indossare un burqa o di restare chiusa in casa. Si dice che sia colpa delle donne se lui non si sente sicuro perché le donne devono vivere le relazioni come fossero costanti sedute di terapia psicologica per i loro uomini.
Dalle rassegne stampa si capisce quale sia l’andamento di una società. Dal modo in cui viene tollerata la violenza contro le donne si capisce persino quale tipo di governo si insedierà: se è democratico, assistenzialista, cattolico, fascista, autoritario, oligarchico, progressista, etc etc.
Le donne non vengono uccise perché gli uomini sono depressi. Le donne vengono uccise perché lo stato non le vuole libere. Perché agevola la spinta al possesso, l’orrendo modo di relazionarsi di tanti uomini, perché li usa come aguzzini per tenere in piedi una struttura sociale nella quale la regola è: unirsi, contribuire alla crescita demografica, partorire operai e consumatori, crepare.
Tutti quelli che non assolvono a questa funzione non esistono, sono trasgressori, eretici, vittime dell’inquisizione: così le donne che vogliono liberarsi, e le lesbiche, e i gay, e le trans, e gli uomini che dissentono e non si fanno carcerieri delle donne, e chiunque non sia disposto ad essere considerato un numero.
Una società che si fonda sulla schiavitù degli esseri umani, le donne schiave tra gli schiavi, non ha interesse a liberare nessuno.
Quello che fanno ora – sicurezza, certezza della pena, etc etc – è solo un pessimo modo per tenere le cose esattamente come stanno. Come quando dentro un carcere il direttore scrive regole che fanno l’occhiolino ai cattivi mentre lui finge di minacciarli affinché i buoni continuino a spazzare pavimenti, lavare i cessi e lavorare come muli.
Volessero darci una mano lo avrebbero già fatto. Non vogliono e i maschi lo sanno.
Perciò è necessario che noi ammettiamo la nostra corresponsabilità e che ci diamo da fare:
prevenire – fare attenzione alla persona con cui decidiamo di stare – provando a non infognarci in storie con persone aggressive, violente, gelose, asfissianti, possessive, morbose, solo perché riteniamo di poterli cambiare o di non poter meritare di meglio;
reagire – far crescere la nostra autostima – considerandoci belle per quello che siamo, perseguendo un futuro che ci dia prospettive di autonomia, vicino o lontano da casa, rivolgendoci ad altre donne se necessario, stabilendo alleanze, anzi sorellanze con altre, chiedendo aiuto se serve senza vergognarci;
parlare – esplicitare, comunicare tutto – raccontare quello che ci succede, se lo raccontiamo alle altre dobbiamo dirlo a noi stesse, consegnare dettagli alla persona di cui ci fidiamo, amica o estranea che sia, non vergognarci di niente, non considerare quello che ci succede come un errore che riguarda solo noi, che dipende da noi.
Noi non ne abbiamo colpa, non potevamo saperlo, e se anche lo sapevamo e abbiamo ugualmente scelto di restare non dobbiamo mai pensare di doverne pagare le conseguenze con la vita. Dobbiamo andare via orgogliose di avere capito, di avere una occasione di riscatto, di poter rinascere, di ricominciare, di poter assumerci la responsabilità delle nostre vite. Sicure di poter trovare un futuro differente e migliore e molte altre persone che ci ameranno molto di più.
Diamoci, datevi una mossa sorelle, qui non ci salva nessuno, bisogna fare tutto da sole. Questa è già autodifesa. Noi la pratichiamo da sempre.
Fate attenzione ad ogni cosa che vi dicono, alle foto che vengono pubblicate accanto ad ogni notizia di violenza che vi riguarda: voi sempre vittime, persone da proteggere, schiave di uomini consegnate ad altri uomini, mai grintose, orgogliose, vive, fiere, solidali, mai una immagine che faccia crescere la vostra autostima e che vi rappresenti per quello che siete. Donne di resistenza che non smettono mai di resistere anche se piegate-sfinite-massacrate, persone coraggiose che sopravvivono a tutto e che sacrificano la vita ogni giorno per ottenere un pezzo di libertà, eroine di una quotidianità brutale, forti e tenaci, determinate e piene di talento. Non martiri che fanno del proprio martirio una ragione di vita ma donne resistenti che si liberano dallo stato di schiavitù per poter essere libere.
Parlate, urlate, mettetevi in contatto con altre sorelle, alzate la testa e reagite. Siete vive e siete libere. Indecorose e libere!
La foto è di claudia pajewsky e fa parte di una raccolta che racconta un pezzo di manifestazione contro la violenza maschile sulle donne del 25 novembre 2008 organizzata dalla rete nazionale femministe e lesbiche sommosse. Il nostro slogan era: Indecorose e libere.
mercoledì 29 luglio 2009
Donne uccise: i maschi non concedono neppure la semilibertà
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