Martedì
10 aprile 2018 abbiamo incontrato J. L. Mélenchon nel suo ufficio
all’Assemblea Nazionale. Nel corso della discussione, il deputato del
dipartimento delle Bocche del Reno ripercorre il cammino che l’ha
portato a costruire il movimento che gli ha permesso di ottenere il
19,58% dei voti al primo turno delle Presidenziali, lo scorso aprile
2017. Il leader della France Insoumise ci parla delle influenze
intellettuali che l’hanno segnato, del suo rapporto, spesso contestato,
con l’America Latina e con la Spagna di Podemos, passando per il
Materialismo Storico e la Rivoluzione Francese, il cui ruolo è per JLM
centralissimo. Questa intervista è anche l’occasione per conoscere il
punto di vista di JLM sulle esternazioni di Emmanuel Macron, a dire il
vero piuttosto contestate, sul tema del rapporto tra Stato e Chiesa
Cattolica al collegio dei Bernardini. “La legge di separazione tra
Chiesa Cattolica e Stato [che ebbe a sancire nel 1905 il carattere
puramente laico di quest’ultimo, ndr] non è il frutto di una
chiacchierata, quanto piuttosto il compimento di tre secoli di guerra
civile aperta o latente”, sostiene JML; “porre l’accento sulla questione
significa concentrarsi sulla Repubblica in quanto tale”. Sul finale,
JLM sviluppa la sua sua visione sul concetto di Stato e del ruolo dei
tribuni, sul maggio ’68 e sul rapporto con le giovani generazioni, senza
dimenticare le recenti mobilitazioni: “vi è un fattore che nessuno può
prevedere e mai potrà: l’iniziativa popolare. Essa può sovrastare tutto e
tutti”.
LVSL: il suo impegno politico è
profondamente segnato dalla storia della Rivoluzione Francese e dal
giacobinismo. Detto questo, da qualche anno, sembra ispirarsi al
populismo così come teorizzato da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe e,
alla fine, messo in pratica da Podemos in Spagna. La campagna della
France Insoumise, allo stesso tempo orizzontale e verticale, è parsa un
tentativo di sintesi tra queste ispirazioni. Si può quindi parlare di
populismo giacobino?
Partirei col dire che il riferimento a
Laclau, per quanto mi riguarda, è più che altro un espediente. Certo, in
riferimento al mio cammino politico, le mie conclusioni tendono ad
essere vicine e non di rado identiche a quelle di Ernesto. E il suo
contributo scientifico, così come quello di Chantal Mouffe, illumina il
nostro lavoro. Quest’ultimo, tuttavia, ha origini più lontane. Il nostro
interesse per Laclau veniva dall’incontro con un pensatore
latino-americano e dal fatto che la fonte del nostro ragionamento
proveniva dalle rivoluzioni democratiche dell’America Latina, del tutto
antitetiche rispetto a ciò che esisteva nel momento stesso in cui ci
apprestavamo a intraprendere le nostre azioni politiche dall’altro capo
del mondo. Uso il “noi” in riferimento al sottoscritto e a François
Delapierre, con il quale pubblicai il libro L’ère du peuple, un
compendio del nostro modo di pensare. Quanto andavamo dicendo era
talmente nuovo che nessun osservatore era in grado né di comprendere né
di cogliere l’essenza innovativa delle nostre intuizioni. Non smettevano
di maltrattarci cercando a tutti i costi di incasellare il nostro
pensiero. Da lì il termine “populista”, tramite il quale venivamo
assimilati all’estrema destra. Gli stessi dirigenti del PCF
parteciparono al gioco. Dimenticando i loro padri nobili – che avevano
inventato il premio del romanzo populista e preconizzato il progetto “di
un’unione dei popoli di Francia” -, non esitarono a puntarci il dito
contro. Il riferimento a Laclau soddisfaceva lo snobismo mediatico e
consentiva di provare l’esistenza di un “populismo di sinistra” senza il
bisogno che a sostenerlo fossimo noi.
Il nostro nuovo cammino era avviato. La
nostra evoluzione partiva dall’America Latina e, a mano a mano che
avanzavamo, i nostri contributi diventavano per noi delle tappe cui far
riferimento. Per fare un esempio, nel numero 3 della rivista PRS (Pour
la République Sociale), lavorammo sulla cultura come causa dell’azione
civile. Ritenevamo fosse un modo decisivo per mettere a giusta distanza
la teoria sterilizzante del riflesso, secondo la quale le idee sono il
semplice riflesso delle infrastrutture materiali e dei rapporti sociali
in essere. Allo stesso tempo, giravamo pagina rispetto al disvelamento
del reale e altre questioni in materia di avanguardismo illuminato. Il
giacobinismo è un repubblicanesimo globale. Presuppone un popolo avido
di libertà e uguaglianza. La sua azione rivoluzionaria investe la
dinamica delle sue rappresentazioni simboliche. Di certo v’è che tutto
ciò vale per un Paese il cui motto nazionale recita
Liberté-Egalité-Fraternité. Nessun “onore e patria”, “il mio diritto, il
mio re”, “ordine e progresso” e altre formule al tempo in voga. In
sintesi, non bisogna mai dimenticare nella formazione di una coscienza
le condizioni iniziali del suo ambiente culturale sul piano nazionale.
Respingiamo quindi la tesi delle sovrastrutture come riflesso. Al
contrario, le condizioni sociali sono tali perché rese culturalmente
desiderabili dall’insieme dei codici dominanti. D’altro canto,
l’insurrezione contro certe condizioni sociali non deriva tanto dalla
loro condizione oggettiva quanto dall’idea morale o culturale che ci si
fa della propria dignità, dei diritti, del rapporto con gli altri. Una
traiettoria che muove il nostro pensiero così come il quadro d’insieme,
il materialismo filosofico. Non era la prima volta che ce ne occupavamo.
Quanto a me, da tempo lavoravo al ripensamento delle premesse
scientifiche del marxismo. Marx lavorava a partire dal pensiero frutto
del suo tempo. Ne trasse quindi una visione del determinismo analoga a
quella di Simon Laplace: quando si conosce la posizione e la velocità di
un corpo in un dato momento, se ne possono dedurre le posizioni che lo
stesso corpo occupava prima e tutte quelle che occuperà in seguito.
Tutto ciò è legato al principio d’incertezza che non è l’impossibilità
di accedere alla conoscenza, quanto una proprietà dell’universo
materiale. Dal 1905, in seguito alla discussione tra Niels Bohr e Albert
Einstein, la questione può dirsi risolta. Tuttavia, colpisce che di
questa discussione scientifica non vi sia traccia tra i ranghi marxisti
dell’epoca. Al tempo, accanto a tutto ciò, Lenin continua miserabilmente
a scrivere Materialismo e empiriocriticismo. Per quanto mi
riguarda, influenzato dal filosofo marxista Denis Colin, presi le
distanze da questa visione del materialismo includendo il principio
d’incertezza. Tratto la questione nel mio libro Alla conquista del caos nel 1991. A quel tempo, capivamo che il determinismo non poteva che essere probabilista. Ciò
significa che gli sviluppi lineari nelle situazioni umane non sono
affatto i più probabili. Si trattava di un rinnovamento della nostra
base filosofica fondamentale. Modificando il nostro immaginario, ciò
modificò anche la nostra visione tattica. L’evento intellettuale fu per
noi considerevole. Dagli anni 2000, abbiamo lavorato sulle rivoluzioni
concrete che hanno avuto luogo in seguito alla caduta del Muro. Un
contesto in cui – ci spiegavano, “la fine della Storia” – avremmo dovuto
rinunciare ai nostri progetti politici. Assumeva allora carattere
decisivo l’osservazione diretta del flusso della Storia nel momento in
cui mostrava, di nuovo, la possibilità di rottura dello status quo sul
piano globale.
A quel tempo, la nostra attenzione
ricadeva sull’America Latina, attirati dal Partito dei Lavoratori (PT)
del Brasiliano Lula, la cui ideologia propendeva per le fasce più povere
della società. Un’ideologia che non ha nulla a che vedere col
socialismo storico. Piuttosto, un prodotto d’importazione declinato in
“teologia della liberazione”, concetto che muove storicamente dai
seminari sparsi in tutto il Brasile. Osservavamo il PT di Lula, ma
tendevamo a non occuparci di quel che avveniva nel resto del continente.
Solo in seguito le circostanze ci condussero alla scoperta della
rivoluzione bolivariana in Venezuela. Di primo acchito la cosa ci
destabilizzò. Un militare a capo di un rivolta dai contorni sociali, non
certo un fatto ordinario in America Latina. Laggiù i militari, non a
torto, sono i primi sospettati! Secondo l’ideologia dominante in
Sud-America, il posto dei militari nel quadro dell’azione politica è
quella assegnata da Samuel Huntington ne Il soldato e la nazione, testo chiave che precede Lo scontro delle civiltà. Il modello? Augusto Pinochet.
La rivoluzione bolivariana ha generato
in noi un vero e proprio cambio di prospettiva, al punto che le
questioni riguardanti il PT e l’esperienza brasiliana perdevano di
significato. Per me, l’esperienza del Chavismo differiva in maniera
radicale rispetto a quella brasiliana. Un’esperienza, si badi bene,
descrivibile nell’ambito del populismo. Sul piano metodologico, il
populismo rimanda a codici narrativi chiari, in una formula
“disponibili”, capaci di significare la terminologia politica.
Per questo, non serve a nulla, in Europa, lottare per appropriarsi del
termine “populismo”, così come è stupido battersi per quello di
“sinistra”. Le puntigliosità sulla “vera sinistra”, “la falsa sinistra”,
“sinistra al 100%”, sono per noi superate. Tutto ciò non ha alcun
senso. Al contrario, tutto ciò rende indecifrabile il campo politico che
s’intende occupare. La battaglia delle idee è al tempo stesso una
battaglia di movimento. Le guerre di posizione non fanno per noi.
Il cambio di prospettiva cui ci si
riferiva ci ha esortati a considerare degli aspetti mai del tutto
esplorati. A dire il vero, fu Chavez ad esortarci. Quella fu
un’esperienza personale devo dire emozionante. L’ultima cosa che feci
con lui fu uno stralcio di campagna elettorale nel 2012. Lo raggiunsi
con l’obiettivo di staccare un po’ dopo le Presidenziali e le
Legislative del 2012. Il risultato? L’esatto opposto. Mi misi a fare
campagna con lui. Quanto imparai! In molti campi. Ebbi modo di saggiare,
per esempio, il modo in cui Chavez era solito approcciarsi
all’esercito. La mia idea dello strumento militare corrispondeva a
quella dettagliata da Chavez in occasione di una parata a cui ebbi modo
di assistere. Ho sempre ragionato in maniera diversa rispetto agli
ambienti politici in cui mi sono formato. Devo al mio impegno politico
giovanile al fianco del fondatore dell’Armée rouge la visione che
ho oggi dell’esercito. Faccio menzione del tema a titolo puramente
esemplificativo. In ogni circostanza, Chavez non tradiva la propria
linea di nazionalismo di sinistra. I rapporti che intrattenni con Chavez
mi diedero molti spunti, tanto teorici quanto pratici. Posso dire che
feci della sua linea generale la mia. Non si tratta più di costruire
un’avanguardia rivoluzionaria ma far di un popolo in subbuglio un popolo
rivoluzionario. La strategia della conflittualità è il mezzo di
orientamento. Chavez partiva dall’interesse generale in antitesi
rispetto agli interessi particolari.
Forti dell’esperienza Chavista e del
rinnovamento teorico cui avevamo sottoposto la nostra forma mentis,
eravamo finalmente in grado di costruire il nostro corpus dottrinale,
declinato nella quarta edizione de “L’era del popolo”. Niente Laclau,
niente Podemos. Siamo partiti dalla nostra storia politica, dalla nostra
cultura politica nazionale. Mai come oggi, il mio modo di vedere è
stato tanto radicato nell’insegnamento della Rivoluzione francese e
della Comune di Parigi. Al tempo l’auto-organizzazione delle masse e la
federazione delle lotte erano onnipresenti nella società. Per meglio
comprendere la nostra traiettoria politica, è necessario osservare
esperienze come quella di Die Linke in Germania, Syriza in Grecia,
Izquierda Unida in Spagna e il Bloco di esquerda in Portagallo. In
origine, l’influenza maggiore derivava dal PT brasiliano. Di lì, la
formula tramite la quale una coalizione di piccoli partiti tende a
raggrupparsi in un unico fronte prima di procedere alla fusione in
un’unica compagine. A seguire Podemos e la France Insoumise. Un processo
che inizia dunque con l’esperienza brasiliana, al quale si sono
aggiunte nel tempo tutta una serie di innovazioni tanto sul piano
concettuale che pratico. In Francia, la rottura arriva al termine
dell’esperienza nota come “Front de gauche”, conclusasi in seguito
all’impasse politica causata dalla natura “particolare” delle istanze
proprie dei vari gruppi della sinistra. Per quanto mi riguarda, la
rottura s’è consumata durante la campagna delle elezioni comunali,
regionali e dipartimentali. Una vera e propria agonia. Il Front de
gauche è caduto sotto il fuoco delle logiche di coalizione, e
dell’opportunismo, al punto da renderne l’essenza indecifrabile dai più.
Tuttavia, non parve propizio rompere l’ingranaggio che muoveva il Front
de gauche, non in quel momento almeno. Di lì a poco ci sarebbero state
le Elezioni europee. Non avevamo tempo per ridefinire i posizionamenti,
tantomeno i mezzi per sollecitare la militanza. Per questa ragione,
abbiamo concorso alle Europee sotto il vessillo del Front de gauche,
sommersi da un caos identitario di proporzioni indescrivibili. Per
concludere, la direzione comunista, nostra alleata, non ha rispettato né
l’accordo né il disegno strategico, liquidando l’elezione come fosse
una corvée burocratica, col risultato di minare la fiducia tra
alleati. In Spagna, l’ascesa di Podemos è dipesa da una scissione
avvenuta in seno a Izquierda unida. Fu quello il momento della svolta.
In Francia, la direzione comunista rifiutò senz’appello la costruzione
di un fronte a partire dalla base, quindi del superamento delle
strutture tradizionali.
LVSL – Qual è stata, quindi, l’influenza di Podemos?
Diversamente dalle tendenze al tempo in
voga, Podemos nacque da una logica di rottura con Izquierda unida.
Delapierre seguiva da vicino il gruppo costituente di Podemos – i suoi
dirigenti – osservandone attentamente l’evoluzione. A partire dal 2011,
Inigo Erréjon è relatore fisso presso la scuola estiva del Parti de
Gauche. Non ci siamo più persi di vista. Un rapporto fatto di reciproca
intesa: noi partecipiamo alla chiusura delle loro campagne elettorali e
loro alle nostre. Nel frattempo, andava consumandosi il tradimento di
Syriza e il riavvicinamento del PT al PS brasiliano, episodi che
sancivano l’allontanamento di quelle esperienza dalla nostra. Come
espressione del ciclo bolivariano interpretato in America-Latina dal PT
brasiliano, Podemos e la France Insoumise, entrambi emersi dalla rottura
consumata rispettivamente con lzquierda unida e il Front de gauche,
rappresentano forme innovative nel panorama politico europeo.
Oggi, il forum del piano B in Europa
raggruppa circa una trentina tra partiti e movimenti. In un certo senso
ricalca la funzione federatrice del forum di San Paolo in America Latina
negli anni precedenti le varie prese di potere. Ciò che ci lega a
Podemos è una radice comune. Il mio primo incontro con Inigo Erréjon, è
avvenuto a Caracas, non a Madrid. Fine pensatore, Erréjon non ha esitato
a mettermi in guardia dalla narrativa anti-imperialista di Chavez, di
cui percepiva il decadimento. Una narrativa – sosteneva – totalmente
avulsa dalla realtà delle giovani generazioni, mai confrontatesi con la
fame. Per Erréjon, una simile prospettiva strategica e culturale
appariva sterile e quindi insufficiente per mobilitare la società. Ho
spudoratamente plaudito alla provocazione di Chavez in riguardo alla
necessità di un orizzonte positivo che testimoni l’ambizione culturale
del progetto bolivariano.
Come ho già detto, il contributo di
Chavez è tutto da intendersi nell’idea che la nostra azione ha come
obiettivo quello di costruire un popolo rivoluzionario. Una battaglia
culturale di respiro globale, dunque. Tuttavia, non v’è stata alcuna
battaglia culturale a Caracas. Il programma bolivariano in salsa
Chavista ha a che fare con una sorta di social-democrazia radicalizzata:
prima di tutto la condivisione delle ricchezze. Principio encomiabile,
specie in riferimento ad una società in cui povertà e disuguaglianza
dilagano. Tuttavia, molti interrogativi restano inesplorati nel quadro
di quest’approccio, come ad esempio l’entità delle ricchezze, le
motivazioni culturali del popolo e via discorrendo. Rinneghiamo gli
Stati Uniti ma mangiamo, viviamo, beviamo e ci svaghiamo come loro. Per
questo è vitale una rivoluzione culturale, tesa a mettere in discussione
le abitudini di consumo che caratterizzano il paradigma produttivista.
Questo è il mio modo di concepire il populismo di sinistra, supponendo che il concetto in sé abbia una significato chiaro. Non è l’aspetto semantico che conta, quanto piuttosto l’essenza implicita del concetto. Ho trattato la questione ne L’ère du peuple.
Si tratta d’includere nel discorso un
nuovo attore: il popolo, che comprende la classe operaia, la quale si
ascrive al concetto di popolo senza esaurirne il significato. Il mio
pensiero diverge da quello di Laclau e Mouffe, che tendono ad
identificare la formazione di un popolo nell’atto puramente soggettivo
d’individuazione di un “noi” e un “loro”. Rifuggo pertanto dalla spirale
in cui conduce la filosofia idealista. Ciò che per me definisce il
“popolo” è il suo ancoraggio sociale. Si tratta, in primo luogo, del
legame tra la rete sociale urbanizzata e la sopravvivenza del singolo.
Ciò che intendo riguarda i servizi pubblici i quali incidono sulle
rappresentanze politiche collettive.
Ancora, il popolo è il cardine di una
dinamica specifica: quella che concerne 7 miliardi di esseri umani tra
loro connessi come mai s’era visto nel corso della Storia. La Storia
insegna che ogni volta che l’umanità raddoppia (in termini numerici),
essa oltrepassa un limite tecnico e di civilizzazione. Io stesso sono
nato in un mondo abitato da 2 miliardi di esseri umani. La popolazione è
triplicata nel corso di una generazione quando invece, per raggiungere
il miliardo nel XIX Secolo, aveva impiegato 2/300.000 anni. Un nuovo
limite è stato bellamente superato, constatabile in mille modi. Uno di
questi, tuttavia, risulta decisivo: il livello di sfruttamento
ambientale è tale da minacciare la distruzione dell’ecosistema. Da qui,
un interesse generale umano che sarà il fondamento ideologico su cui si
si baserà l’esistenza del popolo come soggetto politico. La definizione
di popolo dipende quindi dalle sue aspirazioni, dal bisogno di
padroneggiare le questioni sulle quali costruisce se stesso: la salute,
la scuola ecc. Il motore della rivoluzione civile è il frutto
dell’incontro di queste dinamiche. È al cuore della dottrina de L’ère du peuple.
LVSL – Emmanuel Macron ha dichiarato
che “il legame tra la Chiesa e lo Stato è stato incrinato, a noi il
compito di ripararlo” e che “la laicità non ha come funzione quella di
negare la dimensione spirituale, né quella di estirpare dalla nostra
società la religiosità che nutre tanti nostri concittadini”. Qual è il
suo punto di vista in virtù di simili (e non abituali) dichiarazioni da
parte di un Presidente della Repubblica francese?
Per cominciare, lo scopo di Macron è
politico: recuperare i voti della destra cattolica. Tuttavia, agisce al
prezzo dei nostri principi fondamentali. Macron dimentica di essere il
Presidente di una Repubblica forte di una Storia ben precisa. Quando
egli sostiene che “il legame tra la Chiesa e lo Stato è stato incrinato,
a noi il compito di ripararlo”, il senso è chiaro. Vi è però un
malinteso. Il legame non è stato incrinato; è stato volontariamente
rotto nel 1905. Fu un atto storico. Non si tratta di riparare alcunché. A
impedirlo, l’attualità della lotta, tale in tutto il mondo, contro
l’irruzione della religione in politica. Ora più che mai, è bene che
politica e religione restino separate. Ora più mai, il nostro adagio
dev’essere: la Chiesa chez elles, lo Stato chez lui.
Ancora, la politica e la cittadinanza non appartengono allo stesso
paradigma della pratica religiosa. La religione è per sua natura chiusa,
dogmatica. Per converso, la Repubblica è aperta. Per natura tende a
muoversi per mezzo di delibere liberamente discusse. In alcun modo
pretende d’associare le sue conclusioni alla verità. Cosa che invece il
dogmatismo religioso contesta. Nell’Enciclica del 1906, si taccia il
suffragio universale di peccaminosità in quanto norma del tutto
indifferente alle prescrizioni di Dio. La reversibilità della legge – la
sua evoluzione – sintetizza al meglio ciò che la Chiesa combatte: la
sovranità e la volontà generale, la ragione, lo spirito umano come sede
della verità, così come il carattere provvisorio di quest’ultimo. Le
Chiese incarnano l’incapacità al cambiamento. Lo si vede da come
praticano la carità, sempre la stessa da Secoli. Quanto alla Repubblica,
di statico – non soggetto a cambiamento – ha solo il rispetto di alcuni
principi universali, come i diritti dell’uomo. I diritti dell’essere
umano sono non-negoziabili e superiori a tutti gli altri.
Alla luce della situazione attuale, né
lo Stato né la religione sono interessati a discutere la divisione dei
poteri. Le Chiese non possono rinunciare alle loro pretese in quanto
direttamente riconducibili al verbo divino. La loro, infatti, è una
tendenza spontanea all’abuso di potere. Una questione da non
sottovalutare. Il legame cui sopra non va dunque ricostruito. Aggiungo:
v’è qualcosa di sospetto nel reclamare la ricostruzione di un simile
legame, specie con le gerarchie cattoliche. La centralità ricoperta dal
cattolicesimo nel quadro delle prerogative di Macron è deleteria. Il
Presidente riproporrà lo stesso discorso innanzi un’assemblea di ebrei,
musulmani o buddisti?
Fondamentalmente, Le asserzioni di
Macron appaiono quindi contrarie a certi principi repubblicani. Ciò non è
dovuto solo al fatto che egli in buona sostanza contesta la legge del
1905. Piuttosto, Macron sembra ignorare la Storia che ha reso necessaria
la legge del 1905. La Storia è materia viva e attuale. La Storia non è
un passato. È il presente nella vita di una nazione lungo le onde del
tempo. La comprensione dei motivi che portarono alla separazione tra
Chiesa e Stato cominciano prima 1905. Le radici della questione
affondano nello disputa tra Filippo il Bello e Papa Bonifacio VIII per
la spartizione dei poteri. Il vicario di Cristo esigeva una
giurisdizione totale, tanto sul piano spirituale che su quello
temporale. Dopo il Rinascimento, fino alle soglie della Rivoluzione
francese, la laicità va facendosi strada non nei salotti ma sul campo di
battaglia, col nemico sempre pronto alla mobilitazione. La Chiesa
Cattolica ha atteso il 1920 per riconoscere la Repubblica! Fino al 1906
condannava ancora il suffragio universale. Di fronte al dogmatismo
religioso siamo costantemente opposti a delle forze materiali. La legge
di separazione tra Chiesa Cattolica e Stato è il compimento di tre
secoli di guerra civile aperta o latente. Porre l’accento sulla
questione significa concentrarsi sulla Repubblica in quanto tale.
LVSL: Secondo Lei, quali sono le motivazioni celate dietro a tale retorica?
Non mi faccio di certo ingannare. Macron
veste i panni del leader dei conservatori nostrano. La sua politica è
degna di un qualunque politico liberale esaltato, anche se ha capito che
finché la promuoverà nel quadro delle start-up [si fa riferimento
all’inaugurazione della “Station F” a Parigi, il più grande campus di
start-up nel mondo] non potrà che ottenere l’appoggio di una ristretta
minoranza della società. Inoltre, nel mondo delle start-up, non sono
tutti avari come lui pensa! Cercherà di sedurre, come cerca di fare sin
dall’inizio, una larga fetta di reazionari. Dopo gli insulti gratuiti
lanciati contro i cosiddetti “fannulloni”, i “cinici” e gli
“insignificanti”, ecco arrivato il momento delle azioni pratiche: i
ragazzi e le ragazze che occupano le facoltà sarebbero, dunque, dei
buoni a nulla da sgomberare come dei delinquenti. Vale lo stesso per i
fatti accaduti a Notre-Dame-des-Landes [sgombero del sit-in promosso
dagli “zadisti” battutosi contro la costruzione del contestato
aeroporto], e così via. Allo stesso modo, la criminalizzazione
dell’attività sindacale è sul buon cammino. Cerca, in altre parole, di
identificarsi con la Francia più cattolica e conservatrice. Ma non sono
sicuro che anch’essa si farà ingannare.
Qual è la forza di legittimazione di un
tale discorso? Credo che cerchi di offrire anche una particolare visione
dell’essere umano. Macron cita Emmanuel Mounier, il teorico del
“personalismo comunitario”. Per quanto ci riguarda, noi sosteniamo il
personalismo repubblicano, facciamo nostro il concetto di persona come
soggetto della propria esistenza. Una identità aperta che si costruisce
nell’arco di una vita e che non esiste solo come risultato di diversi
servizi a cui ha diritto come effetto del dover convivere in una
società. Secondo noi, ci si può formare rifacendosi pienamente
all’ideale repubblicano, che mette in primo luogo la pratica
dell’altruismo e, più in generale, la realizzazione dei valori di
libertà, uguaglianza e fraternità. Al contrario, secondo il personalismo
comunitario di Mounier, la persona trova il proprio collante nella fede
che costituisce la propria comunità. Non si tratta di speculazione
astratta, non dimentico ciò di cui stiamo parlando fin dall’inizio. La
visione macroniana tenta di ingannare la realtà proposta dalla
“religione” repubblicana. Ecco, quindi, un’altra maniera di negare il
diritto dell’universale ad imporsi come norma, ovvero il fatto di essere
un umano che si associa agli altri attraverso comportamenti che seguono
un orizzonte universalista. La condiscendenza di Macron per la
“religione repubblicana” è sinonimo della sua personale incomprensione
dell’ideale repubblicano come vettore di aggregazione umana. Essa può
inoltre indicare la sua indifferenza verso la forza del discorso
razionale privo di verità rivelate come fondamento della comunità umana.
Dopotutto, secondo lui, la legge di mercato non è già più forte di
qualsivoglia interventismo politico? L’ideologia del mercatismo e quella
religiosa rientrano entrambe nel campo di affermazione apodittica, per
le quali non sussiste possibilità di dibattito.
Il Dogma impedisce alla comunità umana
di essere libera. Non è possibile discuterlo. Lo si accetta o lo si
subisce. Talvolta anche forzosamente, nel caso in cui le Chiese
dispongano dei mezzi appropriati: ecco perché esse non devono avere
spazio nella decisione pubblica. Ma, attenzione! A dire il vero,
allontanamento non è sinonimo di interdizione o disprezzo. Alle Chiese
non sono mai state negate né la libertà di espressione, né la libertà di
propaganda nella sfera pubblica; è inutile fingere di credere il
contrario solo per ricavarne conclusioni anti-laiche. Secondo noi
repubblicani, le direttive religiose sono indubbiamente competenza della
sfera privata e intima, rientrano nel dibattito interiore di ciascun
individuo nel momento in cui prende una decisione. In quanto credente,
un individuo può essere convinto della necessità di fare questa o quella
cosa, o anche che si debba votare in questo o quel modo. Ciò è
totalmente lecito, ma una disposizione religiosa non può trasformarsi in
imposizione per tutti gli altri, dato che la Legge fornisce a ciascun
soggetto la libertà di coscienza individuale. Infatti, in tema di morale
individuale, i repubblicani non prescrivono comportamenti da seguire, a
parte il rispetto della Legge e la Virtù come norma d’azione personale.
Quando parliamo di diritto all’aborto, non suggeriamo chi dovrebbe
abortire o per quale ragione: ciò rientra, infatti, nella libertà di
coscienza individuale della persona in questione. Una persona può
decidere di non abortire seguendo le proprie credenze religiose; ma
perché negare questa possibilità agli altri? Lo stesso vale per il
suicidio assistito. Non diremmo mai a una persona quando dovrebbe
suicidarsi! Ma se lo volesse fare e avesse bisogno di assistenza, almeno
ne avrebbe la possibilità. Il Dogma, invece, per la sua stessa essenza,
contrasta coloro che non lo seguono. La “religione repubblicana” non
propone che la Virtù come mezzo per esercitare la propria libertà.
Si intravede, dunque, un doppio abuso di
linguaggio nel discorso di Macron. In primo luogo, cercare di far
credere di riconoscere la globalità di un essere umano attraverso gli
elementi che la creano – tra cui la fede – è contradditorio rispetto
alla laicizzazione dello spazio pubblico. In secondo luogo, far credere
che noi tentiamo di imporre solo per principio dei comportamenti
contrari a quelli proposti dalla religione. Noi, al contrario,
interveniamo solo in caso di disturbo all’ordine pubblico. Tale
limitazione della libertà è piuttosto comune: in una società
repubblicana, nessuna libertà è totale, ad esclusione della libertà di
coscienza. Tutte le altre libertà sono regolamentate, e, dunque,
limitate. Siete tutti liberi di pensare ciò che volete, ma questo non
può permettervi di commettere azioni illegali. Punto. Se si oltrepassa
questo concetto, si rientra in una logica assurda di negoziazione con la
Chiesa sulla base dei suoi dogmi rivelati. Si tratta, dunque, di una
logica di concessione che le permette di imporsi sull’intera società.
L’ingerenza religiosa nella politica è sempre stata vettore di
autoritarismo e di limitazione delle libertà individuali.
LVSL: La laicità riporta all’idea
piuttosto giacobina dell’indivisibilità del popolo francese e della
separazione della religione dalla politica. Qual è il ruolo della
laicità nel vostro progetto? Dovremmo temere un ritorno dell’ingerenza
religiosa nella politica?
Questa minaccia è reale. Tuttavia, tale
affermazione parrebbe contraddittoria rispetto alla secolarizzazione
delle coscienze che si può toccare con mano e che non accenna a
sgretolarsi. Questo non significa, però, che l’ingerenza religiosa stia
scomparendo del tutto. L’adesione alle religioni risiede in parte nella
tradizione ed essa continua ad esistere perché abbiamo a che fare con
una società precostituita, con nuclei famigliari che ci precedono. Ci
vengono insegnati dei valori, e per imparare a convivere con gli altri
ci si deve innanzitutto misurare con tali valori. Il processo di
individuazione si realizza, infatti, attraverso l’apprendimento delle
norme di relazione con gli altri. Per l’appunto, non assistiamo alla
nascita di nuove generazioni anarchiche; al contrario, abbiamo a che
fare con nuove generazioni bramose di socializzazione e, dunque, di
conformismo. La nostra condotta quotidiana prescinde forse dal
metafisico e dalla superstizione? Assolutamente no! Trovo divertente il
fatto che più gli oggetti hanno una modalità d’uso e un contenuto
incomprensibili per l’utilizzatore, e meglio funziona il pensiero
metafisico. Ci relazioniamo in maniera più sana e normale con un
martello e un chiodo che con un computer perché nessuno sa come funziona
un computer. Ecco perché ci ritroviamo ad insultare i nostri computer,
parliamo con loro come se fossero persone; non accade lo stesso quando
maneggiamo un martello. È piacevole constatare come le modalità d’uso
degli oggetti contemporanei ci rispediscano spesso in una dimensione
sempre meno realistica. Non pensiate, dunque, che la predisposizione
alla metafisica e all’illusione della magia sia scomparsa nel
ventunesimo secolo solo perché siamo circondati da oggetti sempre più
all’avanguardia. È esattamente l’opposto. E lo evidenzio per rammentare
che l’interesse per la religione non nasce dal nulla. Esiste un terreno
fertile dove in qualsiasi momento la metafisica può mettere le mani
sull’angoscia che deriva dall’ignoranza. La metafisica è, infatti, in
grado di fornire il solo alimento che serve allo spirito: una
spiegazione. Il cervello umano non può accettare la mancanza di
spiegazioni, poiché è costruito in modo da garantire la nostra
sopravvivenza. Per sopravvivere, è necessario comprendere, dare un nome
alle cose. Le religioni si diffondono perché si propongono come
spiegazioni globali del mondo e dei suoi enigmi irrisolvibili e questa
capacità ha, come si è visto, radici profonde. E non si limitano a
chiarire la devianza degli oggetti sofisticati che ci ritroviamo ad
insultare, ma, soprattutto, rendono intelligibili circostanze altrimenti
incomprensibili come la morte e l’ingiustizia derivata dal caso.
Ma in campo politico le religioni sono
soprattutto degli abili pretesti. Lo abbiamo visto con la teoria dello
“scontro delle civiltà” di Samuel Huntington, fondata interamente
sull’idea che le culture separino gli esseri umani e che esse stesse si
radichino nelle religioni. Partendo da qui è andata poi costituendosi la
teoria che oggigiorno domina l’intero pensiero politico alla base delle
strategie e della geopolitica portate avanti dalla NATO, secondo le
quali Occidente sarebbe sinonimo di Cristianità. Si noti come la
religione sia un pretesto tra persiani iraniani e arabi degli Emirati!
Sciiti contro sunniti? Tutto questo non serve che a motivare la lotta
per l’influenza nella regione e per il controllo della zona geografica
in cui si trova il 42% del gas e il 47% del petrolio mondiale… Il
discorso religioso è ormai un tutt’uno con le guerre imperialiste e
regionali perché in questo modo possono essere giustificate senza dover
indugiare sugli interessi materiali che le provocano realmente. L’onere
religioso agevola il conflitto e impedisce la riconciliazione delle
parti che si scontrano. Come vedete, non ci troviamo a discutere di una
tesi astratta circa il ruolo delle religioni nei conflitti. La cultura è
intrinseca degli esseri umani, per cui per incentivare questi ultimi a
uccidersi l’un l’altro servono delle buone motivazioni che permettano
loro di farlo senza indugio. La religione è una motivazione piuttosto
confortante.
In ogni caso, le religioni non hanno per
niente abbandonato la loro volontà di conquista. Ci sono stati, senza
dubbio, dei progressi. Per quanto riguarda i cattolici, ammetto di
preferire l’enciclica “Laudato sì” a ciò che avrebbe potuto sostenere il
Papa precedente. Papa Francesco cita, infatti, Teilhard de Chardin:
secondo questa visione del cristianesimo, gli esseri umani sono
corresponsabili del perfezionamento del creato. Queste prescrizioni su
temi ecologici e sociali acquisiscono così una valenza tale da poter
contribuire alle nostre battaglie. Questo, però, non toglie che in
America Latina la Chiesa cattolica non abbia indietreggiato di un
millimetro su altri temi di fondamentale importanza come il diritto
all’aborto, i diritti delle persone omosessuali e il diritto al suicidio
assistito. Nonostante i processi di democratizzazione nella regione
latinoamericana siano in moto da oltre 10/20 anni, l’intimidazione è
tale per cui l’aborto non è ancora legale in nessun paese! Solo
l’Uruguay è leggermente più all’avanguardia rispetto a questo tema.
Il concetto di laicità è parte
integrante del progetto di “La France insoumise” e il ragionamento che
si cela dietro una tale affermazione si può riassumere brevemente. Noi
partiamo da una visione molto coerente, per la quale se esiste un solo
ecosistema compatibile con la vita umana, ci deve essere pertanto un
interesse generale comune a tutti gli esseri umani. Per poter delineare
liberamente quale sia questo interesse è necessario che l’uomo non
prevalga sulla donna, che il padrone non prevalga sull’operaio e che la
religione non impedisca l’originarsi di una discussione o ne
predetermini la decisione finale. Per poter comprendere quale sia
l’interesse generale è pertanto fondamentale che la società politica e
lo Stato siano laici. La laicità non è, dunque, un supplemento, bensì
una condizione iniziale. La separazione della Chiesa dallo Stato è la
condizione per la quale può sussistere un dibattito razionale, che è a
sua volta la condizione che determina il delinearsi dell’interesse
generale. Tutto questo può sembrare banale, ma in realtà rompe
drasticamente con le risposte della nostra famiglia ideologica. Negli
anni ’70, quando si invocava all’interesse generale, ci si sentiva
immediatamente rispondere: “L’interesse generale è l’interesse del
capitale”. Anche se si trattava solo di una costruzione ideologica
derivata dal pensiero dominante del momento, strideva con quelle di
trenta o quarant’anni prima. Nella nostra epoca, l’interesse del
capitale non può essere sinonimo di interesse generale, anzi, ne è il
più terribile avversario. Il capitale volge intrinsecamente al corto
termine e al singolo. Al contrario, l’armonia con i cicli della natura
volge necessariamente al lungo termine e al generale.
LVSL: Ogni qualvolta degli individui
si rivelano capaci di “incarnare” il potere e la dignità della funzione
suprema, si è affermata l’abitudine di parlare di “uomini di Stato”. In
occasione del primo grande dibattito svoltosi prima delle elezioni
presidenziali, molti esperti hanno notato che Lei sembrasse essere il
candidato più adatto alla presidenza e hanno addirittura evocato il Suo
portamento gaullista. Allo stesso tempo, è stato molto elogiato il Suo
omaggio a Arnaud Beltrame. Cosa implica il fatto di “rientrare nei panni
di” e di rappresentare un’opzione credibile nel momento in cui si
aspira alla conquista del potere? Stiamo attualmente assistendo alla
carenza della capacità di “incarnazione”?
Spero di aver contribuito a colmare
questa carenza, dato che la mia campagna del 2017 ha proposto una
personalità adeguata ad un programma, anche più della campagna del 2012.
Ho sempre discusso di questo aspetto con i miei compagni di altri
paesi, non mi sono mai tirato indietro. È la stessa cosa che dissi ai
miei amici italiani: o assumete la vostra funzione tribunizia e avete il
coraggio di impersonare il vostro programma, oppure questo compito
imprescindibile sarà svolto da altri. Ed è esattamente ciò che è
successo con il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo l’anno in cui
boicottò la coalizione che si stava costituendo intorno a Rifondazione
Comunista. Quella fu una catastrofe e io stesso ne ho tratto
insegnamento.
La questione dell’“incarnazione” è di
natura metafisica e la voglio trattare in maniera analitica. Io credo
fermamente in ciò che dico e in ciò che faccio. L’“incarnazione” è un
risultato finale e non un ruolo assunto improvvisamente. Non è che ci si
alza al mattino e si entra in un personaggio allo stesso modo in cui ci
si è infilati il pigiama la sera precedente. È il programma che produce
l’incarnazione ed essa avviene solo se giunge nel momento politico
della presa di coscienza popolare. Credo di conoscere il popolo
francese, in particolar modo conosco la sua storia e la maggior parte
del territorio in cui vive, un territorio che ho percorso in lungo e in
largo e in ogni angolo. Il popolo francese è il popolo politico del
continente, si esprime attraverso termini unici che ne risaltano lo
spirito egualitario. Quando ci si riferisce al comportamento di qualcuno
affermando “Ah, se tutti facessero come te…” è un altro modo per dire
“Ti comporti bene e lo potrebbero fare anche tutti gli altri”. Ecco,
esiste un egualitarismo spontaneo del popolo francese, le cui radici
risalgono alla grande Rivoluzione del 1789, che fu innanzitutto una
rivoluzione di libertà. Le persone erano convinte che i problemi si
potessero risolvere solo attraverso il voto. Ad un certo punto avrebbero
addirittura voluto votare per elegger i propri preti! E si sono così
sostituiti allo Stato monarchico andato in pezzi, fino al punto di voler
riunire tutte queste conquiste in una “Festa della Federazione”, un
anno dopo la presa della Bastiglia. I contenuti della Rivoluzione del
1789 hanno così prodotto una dinamica che permette di comprendere come
personaggi a prima vista così lontani dall’essenza rivoluzionaria
l’hanno poi incarnata allo stesso modo in cui lo fece a suo tempo
Maximilien Robespierre.
Una volta compreso questo, si comprende
la sostanza dell’azione politica. Qual è la funzione essenziale della
politica? La si può ricercare anche in qualcuno che si oppone
radicalmente alle proprie idee: lo afferma anche Marx nel “catechismo”
della Lega dei Giusti, il primo testo da lui firmato. In primis: cos’è
il comunismo? Risposta: né i soviet, né il potenziamento delle forze di
produzione, ma “l’apprendimento delle condizioni di liberazione del
proletariato”. Si tratta, dunque, di evidenziare un elemento
radicalmente soggettivo. Allo stesso modo, in L’ideologia tedesca”: “Il comunismo è il movimento reale che confuta lo stato attuale delle cose, (le contraddizioni
del sistema) e la sua coscienza”. Nell’ideologia marxista, la coscienza
pesa tanto quanto il movimento reale che confuta lo stato attuale delle
cose. E infine: “Il proletariato sarà rivoluzionario o non sarà”. Che
significa che non sarà?
Allora si credeva che [il proletariato]
sarebbe stato definito dal suo ruolo nei rapporti di produzione, ma in
realtà il marxismo dei primi tempi lo definiva a partire dal suo
rapporto con la cultura! Ecco perché il marxismo distingue tra in-sé e per-sé
e tra i due si trova la politica. La coscienza diventa, così,
l’interesse principale dell’azione politica in vista della conquista del
potere. La strategia de L’era del popolo [L’ère du peuple, libro di Mélenchon] si basa, dunque, su
una continuità filosofica e politica: la
costruzione di tale coscienza deve tenere conto della forma complessiva
della condizione umana di coloro ai quali ci si rivolge. Faccio
riferimento all’insieme di discorsi che non hanno legame alcuno con la
vita quotidiana delle persone e con l’idea morale che si fanno della
loro dignità e del loro rapporto con gli altri. In L’era del popolo c’è
un capitolo sulla morale come fattore di unificazione e sprono
all’azione sociale. Per quanto ci riguarda, abbiamo definitivamente
sposato l’idea per la quale gli esseri umani sono esseri di cultura e,
come conseguenza, sono esseri sociali.
LVSL: Torniamo alla vostra strategia.
Avete ottenuto dei risultati molto importati tra i giovani al primo
turno delle elezioni presidenziali, specialmente tra coloro che hanno
votato per la prima volta, con il 30 % nella fascia 18-24 anni.
Tuttavia, non avete avuto successo tra gli anziani che hanno un peso
enorme all’interno del corpo elettorale e che hanno votato in larga
parte per Macron e Fillon. Il distacco politico sembra divenire sempre
più un distacco generazionale. Come mai i vostri discorsi fanno così
tanta fatica a raggiungere i più anziani? I baby boomers si sono
imborghesiti e sono diventati irrimediabilmente neoliberali?
I miei discorsi raggiungono più
difficilmente gli anziani per le stesse ragioni per le quali raggiungono
più facilmente i giovani. I giovani infatti hanno una coscienza
collettivista ecologista molto forte, nonostante le recriminazioni che
vengono fatte sull’egoismo che sembrano esprimere. La consapevolezza del
raggiungimento del limite per l’ecosistema, del rifiuto,
dell’asservimento che provoca una società che trasforma tutto in mercato
sono molto sviluppate. Raggiungiamo, con i giovani, i limiti di un’onda
che ha precedentemente sommerso tutte le gioventù precedenti.
Ho conosciuto quella degli anni ’90,
quando l’ideale dominante era il trader che ha avuto successo nella sua
operazione. Ho sempre partecipato a delle conferenze nelle scuole di
eccellenza, dove entro in contatto con i figli della classe
socioprofessionale più elevata. Questo mi permette di vedere come i
ragazzi di questa classe sociale, che amano la società, evolvano.
Attraverso i loro figli, si può identificare ciò che verrà rigettato o
non continuato. Negli anni 90, alla fine di una conferenza, c’erano due o
tre mohicani che venivano da me per dirmi che erano dalla mia parte. Lo
facevano di nascosto e tutti imbarazzati. Ora,
in qualsiasi sala, c’è il 20-30% che si dichiara dalla nostra parte.
Quelli che mi interessano di più sono gli altri, quelli che non la
pensano come me, che non sono d’accordo con le mie conclusioni, ma lo
sono con la mia diagnosi. C’è stata una costruzione di una nuova
coscienza collettiva. Questa generazione è cosciente della rottura che
questa ci richiede. La affronta con più entusiasmo perché sente che, per
i suoi meriti e le sue conoscenze, è capace di rispondere alle sfide
del mondo.
Riguardo agli anziani, è il momento in
cui vengono meno le illusioni sul Maggio 68. I leader che sono messi in
evidenza oggi non hanno mai smesso di essere dei commensali del sistema.
Ma,non bisogna dimenticare che il Maggio 68 è prima di tutto una grande
rivoluzione operaia, dieci milioni di operai che decidono di
scioperare. E tuttavia sono lasciati fuori dal quadro, come se non
esistessero più. Nella celebrazione e nella commemorazione del Maggio 68
non vengono mostrati che personaggi ambigui e conformisti come Romain
Goupil o Daniel Cohn-Bendit. Una generazione di persone che non sono mai
stati altro che dei liberal-libertari, piccoli borghesi imbottiti di un
egoismo edonista senza limiti, e senza nessun pericolo per il sistema.
Sono rimasti coerenti con quello che erano. Nel rappresentare il Maggio
68, i media si abbuffano compiaciuti di queste loro prestazioni che
permettono di nascondere la realtà di classe del ’68. Amano dimostrare
che l’arma è definitivamente spuntata. La prova? I loro eroi di
cartapesta che s se ne prendono gioco. Goupil non sostiene più i
militanti, Cohn Bendit ci sputa sopra…
Ciò che ci deve interessare è proprio
guardare come i vincitori di questa storia ne abbiano approfittato per
far credere che si possa “trasformare il sistema dall’interno”.
“Dopotutto”, dicono, “se ne possono tirar fuori dei vantaggi. Non vale
la pena di brutalizzare tutto”. Come negarlo? Ma significa inghiottire
con ogni boccone il conto di tutto il pasto. Si è demonizzato il
socialismo e si è accostato Stalin a Robespierre. La propaganda si è
accanita a squalificare sia l’intervento popolare sia la sua storia
nella Rivoluzione.
In Francia, dove si colloca il suo
modello iniziale, i pennivendoli del sistema hanno compiuto un lavoro
notevole, con François Furet per esempio. Questo
si traduce metodicamente in operazione d’apparato come l’Obs e gli
altri organi di questo tipo. Hanno diffuso questo screditamento della
rivoluzione nelle classi medie sapendo che esse fanno l’opinione e
determinano lo stile di vita sul quale cercano di plasmarsi la classe
operaia e i capi squadra, cioè quelli un po’ più in alto. Cosi, le
generazioni del fallimento del ’68 e del programma comune sono state
impregnate a piene mani da questo registro.
È quindi normale che gli anziani si identifichino meno nel mio discorso. C’è il peso dell’età, si diventa più conservatori invecchiando. Ci si accorge della vanità dell’esistenza che ci agitava quando eravamo più giovani. Gli anziani si dicono che il cambiamento che noi proponiamo non è possibile, che è troppo complicato. Chiedete a qualsiasi giovane che viene da una facoltà di ingegneria, saprà benissimo che è facile chiudere le centrali nucleari e sostituirle con le energie rinnovabili. Ci vorrebbero 4,5,10 anni. 4,5,10 anni, quando ne si hanno 70, sono molti. Ci si domanda se ne frattempo ci sarà l’elettricità. Mi viene chiesto “Signor Mèlenchon, non vorrete abbandonare il nucleare premendo un tasto?”. Tra gli anziani, una gran parte trova la sfida politica troppo alta. Ma ciò è rassicurante, perché la sfida rivoluzionaria non deriva mai da un atto ideologico, ma da una necessità conseguente alle circostanze. Questa è la nostra forza.
È quindi normale che gli anziani si identifichino meno nel mio discorso. C’è il peso dell’età, si diventa più conservatori invecchiando. Ci si accorge della vanità dell’esistenza che ci agitava quando eravamo più giovani. Gli anziani si dicono che il cambiamento che noi proponiamo non è possibile, che è troppo complicato. Chiedete a qualsiasi giovane che viene da una facoltà di ingegneria, saprà benissimo che è facile chiudere le centrali nucleari e sostituirle con le energie rinnovabili. Ci vorrebbero 4,5,10 anni. 4,5,10 anni, quando ne si hanno 70, sono molti. Ci si domanda se ne frattempo ci sarà l’elettricità. Mi viene chiesto “Signor Mèlenchon, non vorrete abbandonare il nucleare premendo un tasto?”. Tra gli anziani, una gran parte trova la sfida politica troppo alta. Ma ciò è rassicurante, perché la sfida rivoluzionaria non deriva mai da un atto ideologico, ma da una necessità conseguente alle circostanze. Questa è la nostra forza.
Le rivoluzioni non sono mai dei puri
percorsi ideologici. Sono sempre i risultati di principi di
auto-organizzazione all’opera in una certa situazione. Furet diceva che
la rivoluzione sarebbe deragliata per via di alcune ideologie esagerate.
Studiando la corrispondenza degli eletti degli stati generali, Timothy
Tackett ha dimostrato che i rivoluzionari non erano dei cani rabbiosi,
ma dei notabili motivati e perplessi. Affrontano delle situazioni che li
sovrastano e portano delle risposte rivoluzionarie perché non sanno
cos’altro fare. Le loro rispose sono soltanto quelle che sembrano loro
adatte alle circostanze. La sola cosa che è ideologicamente costante
attraverso i banchi dell’assemblea, è l’anticlericalismo. Ma Timothy
Tackett ha mostrato come le persone che hanno semplicemente risposto
alle circostanze che si susseguivano abbiano distrutto a poco a poco il
vecchio ordine.
Il nuovo ordine che si distacca da
questo crollo non si poggia su un’ideologia ma sulla necessità di
rispondere alla situazione quotidiana. Per esempio, la risposta popolare
alla Grande Paura del 1789 fu la creazione di milizie per proteggersi
dai briganti. Il problema è che non c’era traccia dei briganti e, una
volta che la guardia nazionale era stata creata, i miliziani non
restituirono le armi e si diedero nuovi obbiettivi. I processi
rivoluzionari partono sempre da delle preoccupazioni che rispondono a
delle circostanze insormontabili se non con dei metodi rivoluzionari.
Questo è il caso della rivoluzione del 1917: era impossibile cambiare il
corso degli eventi finché non si fosse fermata la guerra. È per questo
che i governi successivi sono crollati. Dopo, è diventata un’altra
storia: la guerra civile ha sfigurato la rivoluzione del 1917 cosi come
la guerra contro l’Europa ha sfigurato la rivoluzione del 1789 e ha
portato alla vittoria di Bonaparte piuttosto che a quella di
Robespierre.
Torniamo al punto di partenza, alla
domanda sulle generazioni e al fatto che si debba andare incontro agli
anziani. Io penso che piuttosto siano loro che ci verranno a cercare da
soli. Dopotutto, sta già avvenendo. Guardate le opinioni positive nei
sondaggi: per la prima volta, superiamo LREM ( La Republique en Marche)
tra i pensionati, nell’ultime valutazioni. Siamo secondi in tutte le
categorie, tranne per una in cui ci passano davanti- i liberi
professionisti- e una in cui li sorpassiamo, proprio i pensionati.
Uno dei problemi ricorrenti delle
forze che vogliono cambiare radicalmente la società è la paura del
“salto nel vuoto” da parte di una fetta considerevole degli elettori.
Come pensate di fronteggiare questa mancanza di credibilità, reale o
fittizia? Come fare si che i francesi non trovino difficile immaginare
un governo non sottomesso, e come passare dalla fase contestativa,
quella del degagismo, a quella costruttiva.
Ne parlo proprio in un post recente del
blog nel quale commento l’attualità, riguardo le fasi note del movimento
rivoluzionario populista, la fase contestativa e la fase costruttiva
sono legate da un comune movimento. Si rifiuta appropriandosi di altro e
viceversa. Non bisogna mai dimenticare il contesto. Siamo in una fase
di frattura della società.
Noi offriamo un punto di unione, La France Insoumise è il movimento della rivoluzione cittadina, vale a dire la riappropriazione di tutto ciò che costituisce la vita in comune. Ingloba delle categorie che non sono sempre delle dinamiche convergenti, a volte addirittura contraddittorie. La federazione di categorie sociali, di età e di luoghi si fa a partire dalle loro rispettive domande. C’è bisogno di una coincidenza di lotta prima di avere una convergenza di queste. Tutti hanno la loro logica. Parlavamo degli anziani: l’aumento della CSG ( Contribution Social Gerenalisèe) li avvicina ad altre categorie. Niente a che vedere con il fascino della mia figura. Il programma da un lato e la capacità del gruppo parlamentare di metterlo in atto dall’altro, ecco dei punti di riferimento solido per un’opinione che osserva e cerca.
Noi offriamo un punto di unione, La France Insoumise è il movimento della rivoluzione cittadina, vale a dire la riappropriazione di tutto ciò che costituisce la vita in comune. Ingloba delle categorie che non sono sempre delle dinamiche convergenti, a volte addirittura contraddittorie. La federazione di categorie sociali, di età e di luoghi si fa a partire dalle loro rispettive domande. C’è bisogno di una coincidenza di lotta prima di avere una convergenza di queste. Tutti hanno la loro logica. Parlavamo degli anziani: l’aumento della CSG ( Contribution Social Gerenalisèe) li avvicina ad altre categorie. Niente a che vedere con il fascino della mia figura. Il programma da un lato e la capacità del gruppo parlamentare di metterlo in atto dall’altro, ecco dei punti di riferimento solido per un’opinione che osserva e cerca.
Quindi, cosa rassicurerà? La percezione
della nostra determinazione. Perché le persone dovrebbero essere
attirate da Macron, che semina un disordine indescrivibile in tutto il
paese e che racconta cose insopportabili sulla laicità? Noi de La France
Insoumise, noi sappiamo dove andiamo. Noi difendiamo l’idea che ci sia
un interesse generale e che la legge debba essere più forte del
contratto. Ci sono persone che vengono rassicurate da questo, a
condizione del fatto che si allontanino dagli altri. Ciò non avviene per
conto suo. Non intendo diventare più rassicurante per riunire consenso
attorno a me. Se lo facessi, rinuncerei al cemento che unisce la nostra
base, dall’ala più radicale a quella più moderata.
Mi accusano di essere divisivo? Il mio
risultato non sarebbe piuttosto la conseguenza? Bisogna abbandonare
l’illusione della comunicazione. Avere uno slogan efficace ed un buon
messaggio non riconcilierà tutti. Per riconciliare tutti, si dovrebbero
abbassare i toni? Io non lo farò. Conto soprattutto sulla necessità
della presa di coscienza di dover saltare l’ostacolo della routine e
della rassegnazione. Se diventassi meno diretto, uscirei dalla strategia
della conflittualità che è la sola capace di produrre coscienza,
azione, fiducia e unione. La costruzione di un popolo rivoluzionario non
è un pranzo di gala
Mitterand si è dovuto confrontare con lo stesso tipo di problemi per accedere al potere nel 1981
Il 1981 non è stata una rivoluzione. La
società non si è strappata, e Francois Mitterand stesso non era un
rivoluzionario. Tutti i membri del programma comune pensavano di
cambiare le cose dall’alto. “La forza tranquilla”, era uno slogan della
fine della campagna elettorale. Ora si mitizza l’argomento. Chi avrebbe
vinto con questo slogan? Riflettete! Non ha alcun senso. Si è vinto
grazie a trent’anni di accumulo politico. Il programma comune è partito
dalla bocca di Waldeck Rochet nel 1956. Ci è voluta un’enormità di tempo
per arrivare a costruire una base dove socialisti e comunisti si
riconciliassero e a coinvolgere il resto della società. E ci sarebbe
voluto lo sciopero generale del Maggio 68 per scuotere la coscienza
popolare abbastanza in profondità.
Non si vince con gli slogan senza
appiglio. Gli slogan devono corrispondere a delle situazioni. La
situazione in cui mi trovo oggi, è la necessità di costruire una
maggioranza. Per arrivare a questo, deve trovare le sue radici sociali a
favore di una scelta. Quando il termometro politico sale,
l’informazione circola molto velocemente e le coscienze possono fare
delle scelte positive o negative. Ci sono persone che votano per me
perché non sanno chi altro votare, ci sono quelli che mi votano perché
trovano sensato quello che dico e perché il programma gli sembra
efficace, e poi ci sono quelli che votano per me dicendosi che votare
per altri non condurrà a nulla. Per loro, è quindi un voto utile.
Noi abbiamo costruito una situazione
elettorale, all’interno della quale stiamo costruendo, tramite il
programma, una base sociale di massa per il cambiamento di fondo che
portiamo avanti. Nel 2012 avevamo avuto 4 milioni di voti; nel giugno
2016, avevo detto “ciascuno convinca qualcun altro, se arriviamo a 8
milioni di voti abbiamo vinto”. Alla fine, ne abbiamo raggiunti 7, e non
abbiamo vinto. E tuttavia abbiamo guadagnato 3 milioni di elettori! Poi
alle legislative, come nel 2012, ne abbiamo ripersi la metà. Ma la metà
di 4 milioni non è la metà di 7 milioni. Stavolta, siamo riusciti ad
ottenere un gruppo parlamentare. Questo ha permesso di superare una
nuova soglia. Abbiamo sostituito un’immagine collettiva, quella del
gruppo, all’immagine individuale del candidato. E da adesso in poi
copriamo ed influenziamo numerosi settori della società. Ecco i
risultati formidabili della nostra azione e della nostra lotta. La base
di partenza si è incredibilmente allargata.
Ora il paese è in fermento sociale ed
ideologico. Meglio! Perché all’interno di tutto ciò, per la prima volta,
migliaia di giovani si costruiscono una coscienza politica. Possiamo
vedere per la prima volta da molto tempo dei movimenti universitari,
cosi come nei licei. Ci sono anche migliaia e migliaia di operai che si
smuovono per scioperare e sono i settori più diseredati della classe
operaia che resistono più a lungo. Per esempio, da Onet, per mesi, o le
persone che puliscono i treni e le automobili, le donne delle pulizie
degli alberghi, hanno resistito tre mesi di sciopero senza stipendio
Si sente quindi che nel profondo del
paese c’è una sorta di eruzione. Non dico che sia ancora abbastanza, ma
ricordate che il nostro obbiettivo è di costruire un popolo
rivoluzionario, non una minoranza d’avanguardia rivoluzionaria che
prenda il potere di sorpresa. Non ha mai funzionato e i nostri sono
tutti morti all’uscita. Non è così che bisogna fare. Costruire un popolo
rivoluzionario, vuol dire contare solo sulla capacità di organizzarsi e
avanzare per costituire una maggioranza politica.
In questo momento, la scuola di lotta
funziona a pieno ritmo: se il potere macronista fa un errore di troppo,
il movimento accelera. Non posso dirvi adesso in che senso andrà, così
come non posso dirvi adesso che cosa succederà il 5 maggio. Sarà un
raggruppamento di protesta? O sarà il momento che vedrà convergere una
rabbia terribile del paese? Io spero che sia l’ultima tappa prima della
formazione di un’unione di lotte che venga alla chiamata comune di
sindacati e movimenti politici. Questa è una strategia, ovvero un
insieme di tattiche di combattimento al servizio di un obbiettivo.
Non stiamo recitando un catechismo al quale dovrebbero conformarsi le
masse. Noi illuminiamo, a volte scateniamo, ma sempre come loro
servitori. La lotta non è un oggetto di separazione interna al popolo, è
il contrario. Per questo ho chiesto di voltare pagina riguardo le
tensioni di settembre con la CGT ( Confederation generale du travail),
per imparare la lezione dagli episodi precedenti. Ci appoggiamo su una
lotta di massa, e affinché possa allargarsi, bisogna trovare un respiro
proprio ad essa, e non cercarlo all’esterno.
Questo significa, tra le altre cose, che
la chiave tattica del comando politico è di regolare le due questioni
che ci hanno bloccato l’ultima volta, a settembre: la divisione
sindacale e la separazione tra sindacale e politico. Quando dico
sindacale parlo dell’articolazione del movimento sociale, visto che esso
non esiste allo stato puro. Esiste attraverso le mediazioni, che sia la
lotta Onet, quella delle donne delle pulizie o dei ferrovieri, il
sindacato ne sarà il mezzo. Tutte queste lotte transitano per la forma
di un’organizzazione sindacale per strutturarsi. Questo può anche creare
tensioni all’interno, quando la massa ha l’impressione che le
indicazioni sindacali non corrispondano alle sue aspettative.
La lotta dei ferrovieri della SNCF
(Société Nationale des Chemins de fer Français) sembra essere più
popolare del previsto, compreso, abbastanza sorprendentemente, tra i
francesi di destra. Come se si lottasse contro il fatto di “disfare la
Francia e il suo Stato”. Che sguardo avete sulla mobilizzazione? Che
ruolo dovreste avere all’interno di essa?
Per noi, non si tratta di creare una
barriera destra-sinistra all’interno della lotta. Non ha senso, perché
ci sono delle persone che votano a destra e sono per la SNCF o per il
servizio pubblico. D’altra parte, la destra nel nostro paese non è
sempre stata liberale. C’è tutta una parte della destra che si aggrappa
ad altre idee e che sente le nostre ragioni. Cosa che certi nostri amici
di «sinistra » non sempre comprendono o non hanno voglia di
comprendere.
Quindi, quale sarà la nostra linea?
Unire il popolo. Non ci allontaniamo da questa rotta. Ma la messa in
atto varia a seconda dei momenti e dei contesti di conflittualità. Per
cosa passa oggi? Potrebbe essere un fattore scatenante che la infiamma
in un movimento di entusiasmo, di insurrezione. In altri momenti si
passa per delle combinazioni più organizzate. Per questi motivi, oggi il
mio modello è Marsiglia. Perché Marsiglia? Perché c’è una cabina di
comando unificata dove la CGT prende l’iniziativa di unificare tutti,
dove CGT, FSU Solidaire, UNEF e sindacati liceali e partiti politici si
ritrovano intorno allo stesso tavolo per fare un corteo provinciale. Ma
non c’è né parola d’ordine né statuto. Ciascuno sa perché viene e lo
dice alla sua maniera. La si può davvero vedere cosa sia un processo di
unificazione.
Dopo la distruzione dello scenario
politico tradizionale alle presidenziali, c’è stato un momento dove i
partiti di sinistra, e altre sigle di tutti i tipi, lanciavano un
appello dopo essersi scannati per tre ore per tre parole in una stanza
chiusa, e riunivano meno persone in strada di quanti avessero firmato
l’appello. Ovviamente è una caricatura, ma tutti sanno di cosa io stia
parlando. Bisogna finirla con tutto questo, siamo entrati in un’altra
epoca. Un’ epoca più libera per innovare nelle procedure. La formula di
unione marsigliese è forse la formula dell’unione popolare finalmente
trovata. Perché è senza precedenti. La tattica e la strategia politica
regolano problemi concreti.
Ma c’è anche un fattore che nessuno
prevede e mai potrà: l’iniziativa popolare. Può sommergere tutto, il
mondo intero, e questo è il mio desiderio più profondo. Perché quando
l’iniziativa popolare sommerge le strutture, non ha tempo da perdere. Va
dritta allo scopo e colpisce là dove si trova il nodo delle
contraddizioni.
Intervista a cura di Lenny BenbaraPubblicata su “Le vent se lève” il 30 aprile 2018.
Traduzione in italiano di Daniele Morritti, Elena Schiatti e Federico Moretti
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