mercoledì 9 maggio 2018

Sostiene Fassina

Nel corso dei lavori di Fiuggi e nei giorni precedenti Stefano Fassina, anche attraverso contributi di altre compagne e compagni, ha elaborato questo documento politico, particolarmente mirato al tema del rapporto fra la sinistra e l'Europa, per mettere in moto un dibattito che non si riesce a sviluppare nè dentro a LEU, nè dentro alle sue diverse componenti.
Oltre al dovere, come Network, di farlo conoscere, segnaliamo che si tratta di un documento ancora aperto e che è possibile sottoscriverlo sull'indirizzo e-mail in calce al documento stesso, oppure scrivendo sottoscrivo nei commenti
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Dalla parte del lavoro: il nodo Italia-Ue-Eurozona
contributo in progress alla costruzione di LeU
Il presente documento non ha, come ovvio, l’ambizione di affrontare tutti i nodi che la sinistra si trova davanti in questo difficile momento culturale, sociale e politico. Né tanto meno pretende di fornire risposte definitive e compiute ai problemi aperti. L’obiettivo è più limitato ma non meno importante: promuovere la discussione e avviare un dibattito franco e aperto su alcuni temi cruciali troppo spesso elusi.
Abbozzare delle risposte deve essere un lavoro collettivo, che investa non solo gli intellettuali e gli analisti, ma i luoghi della discussione e decisione politica. Per noi il primo, anche se non esclusivo, di questi luoghi è LEU, se vogliamo, come vogliamo, che non vada disperso l’impegno profuso in questi mesi da tante e tanti compagni.
Il documento vuole essere un contributo a un dibattito non più rinviabile. In quanto tale, non chiede adesioni acritiche: si tratta di un testo “aperto” a cui chiunque è interessato può contribuire, con correzioni, integrazioni e suggerimenti.
Fiuggi, 6 Maggio 2018
Le cause profonde del voto: la fine del “Trentennio inglorioso”
La disfatta storica delle sinistre il 4 Marzo, prima che elettorale, è culturale. Certo, è forte la tentazione di rimuovere la “sostanza” e confinare l’analisi del voto agli “accidenti”. Per chi è stato ed è impegnato in LeU, gli accidenti sono numerosi: i ritardi nell’avvio della lista, dopo 6 mesi di insensato negoziato per il “campo progressista” di Giuliano Pisapia; l’improvvisazione della leadership elettorale; la qualità delle candidature, spesso astratte da qualsivoglia percorso territoriale; l’assenza di discontinuità riconoscibile e il profilo e il posizionamento da Pd pre-renziano. Per il Pd, è ancora più semplice: il capro espiatorio è il renzismo.
Tuttavia, senza disconoscere gli accidenti, dobbiamo andare alla sostanza per capire e reagire. La sostanza segnala, senza incertezze, la chiusura del “Trentennio inglorioso” post ‘89 durante il quale la sinistra storica ha seguito la parabola discendente dello Stato nazionale. La sostanza si coglie nell’analisi di tutte le elezioni avvenute negli ultimi due anni: dal referendum su Brexit, al voto negli Stati Uniti, in Olanda, Francia, Germania e, infine, in Italia. Il denominatore comune è la “ribellione” di popolo e classi medie verso l’ordine economico e sociale dominante e, in stretta conseguenza, il declino di tutte le componenti della famiglia socialista europea e della versione mainstream del Partito
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Democratico degli Stati Uniti in quanto corresponsabili, spesso orgogliosamente come nel caso del nostro Ulivo, della costruzione di quell’ordine. Il Labour Party di Jeremy Corbyn fa eccezione perché l’esaurimento del ciclo blairiano si è consumato prima e la ricostruzione ha trovato una figura e una classe dirigente credibile, interprete da sempre di un paradigma keynesiano, nazionale e popolare, alternativo al liberismo soft del New Labour.
I dati elettorali dell’ultimo biennio confermano in dimensioni estreme un’amara verità: chi vive difficoltà materiali sceglie in prevalenza la destra o movimenti anti-sistema, mentre alla sinistra storica o di movimento si affida in larga misura chi sta bene. Nonostante tale drammatica contraddizione, la reazione post voto tra “i perdenti”, si limita alla riaffermazione di obiettivi, non soltanto retorici e generici, ma soprattutto astratti dall’analisi delle cause strutturali del voto. Perché non si rivolge alla sinistra una così larga e diffusa svalutazione del lavoro e le conseguenti impennate delle disuguaglianze nella distribuzione primaria e secondaria del reddito, dell’accesso e della qualità dei servizi di cittadinanza (sanità, scuola, pensioni, abitazione)?
Le risposte a tali domande passano lungo il nesso nazionale-sovranazionale, per usare il lessico gramsciano. È per noi l’asse nazionale-europeo-eurozona, inquadrato in quella globalizzazione, che la sinistra non ha saputo e voluto “governare”, nonostante gli appelli in tal senso profusi sin dagli anni Novanta. Anche in Italia, con le elezioni del 4 Marzo, si infrange il “mito europeista”. Il punto è decisivo, sebbene traumatico. Vale, in primo luogo, per tutta la variegata famiglia socialista europea per la quale l’Ue e l’eurozona è stata la zattera ideologica post ‘89. Il punto vale anche per la sinistra radicale e quella antagonista, sebbene per vie diverse: non hanno responsabilità dirette dell’ordine economico e sociale di svalutazione del lavoro, ma il loro cosmopolitismo e “orizzontalismo” è ideologia sinergica al liberismo nello svuotamento dello Stato nazionale. Non a caso, la lista transnazionale per le prossime elezioni europee, attrae anche parte della sinistra “critica”, dopo aver conquistato Partito Radicale e il Pd, almeno coerenti con il loro impianto liberista.
In tale quadro interpretativo, dobbiamo cogliere che l’articolazione reale del nesso nazionale-sovranazionale non è univoca e non è neutra. Ha precisi segni di classe: determina effetti asimmetrici non solo tra Stati, ma all’interno di ciascuno Stato: sui territori e sui diversi interessi economici e sociali.
L’europeismo reale beneficia le imprese manifatturiere e di servizi capofila di filiere dedicate all’export (concentrate al Nord), in misura limitata i loro dipendenti coperti dal welfare aziendale, i grandi professionisti ad esse connessi. Beneficia poi le imprese finanziarie, i vertici delle principali istituzioni pubbliche di regolazione dell’economia e ristrette élite della cultura e dell’informazione e la loro prole, generalizzata come “generazione Erasmus”. È, in estrema semplificazione, l’insieme dell’export. L’europeismo reale colpisce, invece, con altrettanta estrema semplificazione,gli interessi economici e sociali dipendenti dalla domanda interna: micro e piccole imprese del commercio e dei servizi e loro dipendenti in qualunque forma giuridica (dal contratto classico, alla partita Iva); lavoratori autonomi; professionisti, in larga misura giovani senza studio ereditato; lavoratori e lavoratrici delle pubbliche amministrazioni e, in fine, la marea di disoccupati, precari e sottoccupati, giovani e meno giovani (prevalenti al Sud). Insomma, quelli che dovrebbero essere i riferimenti della sinistra.
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Il variegato insieme dell’export ha votato per il Pd+Europa, per Forza Italia nella sua ultima incarnazione merkeliana e, nelle sue frange “Erasmus”, per Liberi e Uguali e finanche, la parte più scapigliata, per Potere al Popolo. È l’insieme cosmopolita che vive nei centri delle città e nelle periferie storiche gentrificate e declina la drammatica sfida dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti soltanto in chiave umanitaria.
L’orda della domanda interna da decenni soffocata ha scelto, nel Mezzogiorno, in prevalenza M5S e, soprattuto al Nord, la Lega di Salvini e l’appendice di Fratelli d’Italia. Vive nelle periferie, nelle fasce sub-urbane, nelle aree rurali. “Sente”, per ragioni materiali, i migranti come “concorrenti” sul terreno del lavoro e del welfare e come “pericolo” sul versante della sicurezza.
Il problema per il Pd+Europa, FI e residui di sinistra diversamente collocata è che, nonostante la propaganda di Renzi e Gentiloni (“l’Italia riparte”, il “milione di posti di lavoro”), i beneficiari della consolidata declinazione del nesso nazionale-Europa-eurozona sono, in Italia, dati i nostri “fondamentali”, soltanto un terzo dell’economia (poco più della quota di Pil da export). Il problema ulteriore è che, nell’ultimo quarto di secolo, sono stati pesantemente ridimensionati i principali canali redistributivi verso gli interessi connessi alla domanda interna: dai contratti nazionali di lavoro, alla fiscalità generale, al welfare. Quindi, è un’area elettorale che non può essere, per ragioni strutturali, maggioranza, anche fosse unita in Parlamento.
L’insieme degli interessi legati alla domanda interna è, invece, larga maggioranza, ma divergente nella ri-declinazione del nesso nazionale-europeo-eurozona. Lega e FdI sono orientati verso il trumpismo, ossia chiusura doganale e liberismo domestico. Il M5S ha costruito negli anni il suo posizionamento politico in alternativa al nesso europeo consolidato (sono stati etichettati dall’inizio come “populisti anti-sistema”, quindi “anti-europei”), ma è senza una linea chiara sul che fare (vedi l’allineamento post-elettorale di Di Maio al mainstream europeo e transatlantico).
In tale quadro strutturale, la marginalità di Liberi e Uguali deriva dalla sua ambiguità costitutiva: uno sconosciuto programma formalmente keynesiano implicitamente imperniato sulla rivitalizzazione dello Stato nazionale, ma legato alla “riforma dei Trattati e portato avanti da classi dirigenti segnate dall’esperienza de L’Ulivo.
In sintesi, il rigetto della sinistra per come l’abbiamo conosciuta è stato ampio, forse definitivo. Agli occhi e all’istinto del popolo delle periferie, siamo colpevoli (dal Pd a Mdp) o abbiamo priorità autoreferenziali (da Sinistra Italiana e Possibile a Potere al Popolo).
Che fare?
Allora che fare? Per rispondere alla domanda, è necessario affrontare il quesito di fondo, comune a tutte le sinistre europee: chi vuole rappresentare Liberi e Uguali? E il Pd? Il discorso sulle alleanze è politicista senza prima affrontare tali domande.
Da qui dobbiamo partire per discutere e deliberare. Perché? Perché un partito è, innanzitutto, un’ideologia, una lettura autonoma, specifica e distintiva della vicenda storica nazionale in relazione al quadro sovranazionale. Quindi, un programma fondamentale, inteso come interessi e soggetti da organizzare. Un partito non è una “carta di valori”. Non è neanche sufficiente a dare senso politico a un partito “l’organizzazione” o la giustapposizione di “campagne tematiche”. Senza ideologia, senza fondamenta culturali e storico-politiche distintive non si avvia un partito.
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Si fa testimonianza. Si può fare servizio sociale. Al massimo, sul piano strettamente politico, si mette insieme una “corrente”, esterna o interna è sostanzialmente irrilevante, di un altro partito.
Quale può essere la base culturale e storico-politica specifica e distintiva per costruire un partito non residuale dalla parte del lavoro? Anche in LeU, corriamo il rischio delle fughe in avanti per la fase costituente “a prescindere” o per il ritorno alle patrie, small o medium size, per l’azzeramento o per Big Bang senza bussola culturale e politica all’insegna di una volontaristica vocazione unitaria contro le orde barbariche.
La ragione fondativa, quindi autonoma e distintiva, di un partito non residuale dalla parte del lavoro dovrebbe essere, innanzitutto, nei principi del socialismo, del cattolicesimo sociale e dell’ecologia integrale, ossia nel riconoscimento del conflitto, anche quando componibile, fra capitale e lavoro, tra capitale e natura, fra governo dello sviluppo (in tutte le sue dimensioni) e dominio del mercato. Di conseguenza, in relazione a tali principi, la nostra ragione fondativa dovrebbe essere un patriottismo costituzionale come articolazione del nesso nazionale-sovranazionale alternativa sia alla declinazione nazionalista della de-globalizzazione in corso, sia all’europeismo liberista dominante nel consolidato assetto regolativo e di policy dell’Ue e dell’eurozona. Il programma fondamentale è dare rappresentanza e potere a un universo del lavoro che nel Trentennio inglorioso è stato frammentato dalle trasformazioni organizzative e tecnologiche del capitalismo post-fordista, sostenute da precise politiche neoliberiste mirate a distruggere gli equilibri sociali e i corpi intermedi della fase del compromesso keynesiano-socialdemocratico. Non sarà facile ricomporre un fronte che va dai lavoratori dipendenti classici, per quanto indeboliti e impoveriti, alle mille forme del precariato e delle partite IVA, fino ai lavoratori delle piattaforme tecnologiche e ai disoccupati. Ma resta la priorità per dare nerbo a un soggetto politico dalla parte del lavoro, per la giustizia sociale ed ecologica che, attraverso gli strumenti dello Stato democratico, possa contrastare il potere del grande capitale nazionale e internazionale e proporsi alla guida di un più vasto fronte sociale.
Cos’è il patriottismo costituzionale in relazione ai principi del socialismo, del cattolicesimo sociale e dell’ecologia integrale? È, in primo luogo, una lettura empiricamente fondata dell’europeismo reale. L’Ue e l’eurozona vanno riconosciuti nei dati di realtà, oltre i miti fondativi e il fideismo delle sinistre in tutte le varie sfumature di rosso e rosa: sono ordini istituzionali e economico-sociali di aggravamento degli effetti della globalizzazione. Sono impianti di segno liberista, orientati al mercantilismo alimentato dalla svalutazione del lavoro. Lo sono sin dal celebrato “Trattato di Roma” del 1957: allora, gli effetti erano circoscritti perché i 6 contraenti avevano economie a livello di sviluppo e welfare analogo, i mercati di capitali erano “chiusi”, le banche centrali attive e “dipendenti” dal circuito democratico e, non ultimo, il paese a minor costo del lavoro era l’Italia. La principale leva d’azione non è l’austerità, come tanta sinistra politica e sindacale senza cultura economica continua a ritenere. L’austerità è un meccanismo di trasmissione. La principale leva del mercantilismo è il mercato interno europeo senza standard sociali e fiscali, sciaguratamente allargato a Est dalla Commissione Prodi nel 2004, e la moneta unica nel quadro liberista dei Trattati europei.
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I Trattati ospitano molteplici e mutualmente contraddittori principi, in un apparente sincretismo. Ma i principi prevalenti sono la concorrenza e la stabilità dei prezzi. Domina il principio della concorrenza, non tra imprese, ma tra ordinamenti costituzionali e tra welfare state. Sono principi radicalmente contraddittori con i principi ordinatori scritti nella nostra Costituzione, ispirati al socialismo e al cattolicesimo sociale e dell’ecologia integrale: la solidarietà e la dignità della persona nel lavoro. L’attuazione dell’europeismo reale, tramite mercato interno e moneta unica, colpisce in modo sistematico gli interessi economici e sociali che la sinistra è nata per proteggere e promuovere. Stare dalla parte del lavoro è impossibile nel quadro dato. La parabola di Syriza è soltanto il più bruciante esempio. Chi storicamente ha rappresentato gli interessi del lavoro e si adegua ai principi prevalenti o si vanta di aver integrato il proprio Paese nell’ordine della Ue e dell’eurozona tradisce la sua missione originaria e viene, inevitabilmente, abbandonato anzi combattuto da quelle fasce popolari e classi medie che dovrebbe rappresentare.
Sono “riformabili” in senso pro-labour i Trattati? Che fare a Trattati vigenti? Il problema è la subalternità della sinistra storica post ‘89 al liberismo e all’europeismo liberista o il primato del “vincolo esterno”? È possibile costruire, nel contesto attuale, qualche strumento di intervento dello Stato Nazionale? Oppure, la linea è: “lavoriamo a cambiare le regole, ma finché le regole vigono si rispettano”?
Sinistre al bivio: proseguire lungo la via dell’integrazione europea
Nella sinistra storica, viene pian piano riconosciuto, in qualche caso anche dai fautori del Pd delle origini e dagli Ulivisti di rito prodiano, il carattere strutturalmente liberista della Ue e dell’eurozona. L’evidenza è del resto irresistibile. Ma poi si arriva a un bivio. Da una parte, quanti, “cosmopoliti”, ritengono che, nonostante gli ostacoli politici, interpretati come “rapporti di forza” congiunturalmente sfavorevoli, si debba andare avanti per una maggiore integrazione europea, per più Europa, per “gli StatiUniti d’Europa”, perché la sovranità democratica, nell’epoca dei mercati globali e delle sfide globali (dal clima alle migrazioni alle guerre) si può rianimare soltanto a scala sovranazionale. Quanti ritengono possibile riequilibrare i rapporti di forza a favore dell’integrazione progressiva, quindi riformare i Trattati, dopo aver liberato “il popolo unico europeo” dal gioco dei tecnocrati di Bruxelles. Quanti, insomma, negano ogni possibile potenziamento delle funzioni dello Stato Nazionale con la scomunica di “sovranismo”. Ma sovranismo, ricorda Galli Della Loggia, “maestro” difficile da etichettare come “populista”, è “il termine carico di significato negativo che le élite occidentali —avvalendosi della loro egemonia culturale e del potere che gliene deriva di dare il nome alle cose— hanno dato alla difesa del potere di decidere a livello nazionale, fatta ostinatamente propria in genere da chi dell’élite non fa parte”.
L’inversione di rotta: il patriottismo costituzionale in chiave socialista, cattolico-sociale e dell’ecologia integrale
Dall’altra parte del bivio, quanti, invece, considerano gli ostacoli all’integrazione progressiva dell’Ue e dell’eurozona come espressione di profondi caratteri storico-politici legati alle radici nazionali dei popoli, degli Stati e della democrazia costituzionale. Quanti intravedono come unico traguardo possibile di una Unione europea sempre più integrata lo “Stato minimo europeo” desiderato da Von Hayek negli anni ‘30 per arginare l’avanzata socialista o nazionalista degli Stati nazionali.
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Quanti, di conseguenza, propongono la costruzione di strumenti nazionali di governo dell’economia, consapevoli dell’impossibilitá del ritorno al ‘900, avvertiti dei limiti alla sovranità nazionale. Quanti, quindi, prospettano una cooperazione internazionale, in primo luogo cooperazione nell’Unione europea, in base della visione di patria e dell’interesse nazionale incise nei principi socialisti e cattolico sociali della nostra Costituzione (udite, udite: il nome della rivista ufficiale dell’Anpi è “Patria Indipendente”). Non è nazionalismo. Non è autarchia. In sostanza, è la strada per un governo progressivo della de-globalizzazione e della ritirata dal progetto di integrazione europea, in alternativa al governo regressivo conquistato istintivamente, naturalmente, dalle destre. È il patriottismo costituzionale.
Cos’è qui e ora il patriottismo costituzionale interpretato secondo i principi socialisti, del cattolicesimo sociale e dell’ecologia integrale? Qui e ora, le grandi opzioni strategiche per un soggetto politico sono due. Alla vincente deriva trumpiana, oggi si contrappone soltanto l'europeismo liberista. È l’impianto del discorso pubblico imposto dalle forze dominanti ma funzionale anche a chi vi si oppone: antisistema vs sistema, populisti vs realisti, anti-europeisti vs europeisti.
È evidente che in tale polarizzazione non c’è spazio per una forza progressiva dalla parte del lavoro. È, quindi, innanzitutto decisivo spezzare l’ideologia binaria e introdurre un’alternativa. Sulla base della nostra Costituzione, declinata secondo la cultura socialista, cattolico-sociale e dell’ecologia integrale, l’alternativa è l’europeismo costituzionale. È un europeismo anti-retorico che riconosce e punta a correggere le contraddizioni tra i principi fondamentali della nostra Costituzione e l'impalcatura istituzionale e di policy dei Trattati e dell'euro. È un europeismo consapevole del primato della concorrenza e della stabilità dei prezzi scolpito delle normative della UE e nella fisiologia dell'eurozona e il primato del lavoro e della solidarietà sociale affermato nella nostra Carta fondamentale e, in forma diversa, nelle altre Carte scritte dopo il secondo conflitto mondiale. È un europeismo "adulto" in grado di rilevare la deriva verso lo "Stato minimo", prescritta dai Trattati e dall'agenda mercantilista della moneta unica e la necessità dell'intervento pubblico nella regolazione dell'economia prevista nella nostra Costituzione per "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto libertà e uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".
Il patriottismo costituzionale nella versione socialista, cattolico-sociale e dell’ecologia integrale, intende agire nella tensione tra, da una parte, i Trattati che prevedono "una moneta unica, l'euro, nonché la definizione e la conduzione di una politica monetaria e del cambio uniche, che abbiano l'obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi e, fatto salvo questo obiettivo, di sostenere le politiche economiche generali dell'Unione conformemente al principio di un'economia di mercato aperta e in libera concorrenza" (Tuef, art. 119, comma 2) e, dall’altra parte, la nostra Costituzione dove "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto" (Art 4, comma 1). Il patriottismo costituzionale qui proposto punta a correggere, anche attraverso misure unilaterali, il mercato unico europeo che, attraverso il principio del "Paese d'origine", alimenta dumping sociale, svalutazione del lavoro e quindi disuguaglianza sul decisivo terreno della distribuzione primaria del reddito. Il patriottismo costituzionale riafferma la centralità del contratto collettivo nazionale a protezione della concorrenza al ribasso.
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Il nostro patriottismo costituzionale denuncia uno statuto della Bce che neanche Reagan e Thatcher avrebbero sognato di realizzare e ricorda le amare valutazioni di Guido Carli che, a proposito del Trattato di Maastricht, nelle sue memorie sull'istituto di Francoforte scriveva: "è difficile accettare con animo leggero il fatto che l'obiettivo della stabilità dei prezzi sia indicato senza alcun riferimento al livello occupazionale e, dunque, al benessere delle comunità che si sono date questa Costituzione monetaria.". Il nostro patriottismo costituzionale propone e programma, attraverso la riconversione ecologica dell’economia, strategie attive e “discriminatorie” di politica industriale (inibite dall’articolo 107 del Trattato sugli aiuti di Stato alle imprese), investimenti in innovazione tecnologica per creare occupazione qualificata in settori emergenti ad elevato impatto sociale, come la green economy e l’economia circolare, e reimpostare una adeguata stagione di industrializzazione per il Mezzogiorno. In tale contesto di innovazione tecnologica progressiva, si promuove il “lavoro minimo garantito” e la riduzione/redistribuzione del tempo di lavoro, in alternativa di paradigma al “reddito di cittadinanza” (come trasferimento individuale, incondizionato e universale) e si dedicano maggiori risorse al Reddito di inclusione per estenderne la copertura e innalzarne l’importo al fine di contrastare la povertà e promuovere l’inclusione al lavoro.
La strada cosmopolita e della “sovranità europea”, rilanciata su versanti elettorali concorrenti da Macron e da Varoufakis e dai loro seguaci in Italia, è strada legittima. Ma non è una strada originale, distintiva. Anzi, è la strada seguita, dopo l’89, da tutte le versioni della sinistra storica e dalle variegate sinistre critiche, antagoniste, di movimento. Lungo tale strada non si può rispondere agli interessi del lavoro e delle classi medie disperate. Non si può arrivare a un soggetto politico autonomo, a un partito di una qualche rilevanza. Lungo tale strada si è appendice, dentro o fuori, del Partito Democratico o, nell’indisponibilità verso il Pd, si è nobile testimonianza di sinistra estetica.
Il nostro patriottismo costituzionale, archiviata la riforma progressiva dei Trattati, intende innanzitutto bloccare ulteriori misure regressive. Il pacchetto proposto dalla Commissione Junker è stato di fatto messo fuori gioco dal governo tedesco e dall’iniziativa (autorizzata da Berlino?) di 8 Paesi europei guidati da Olanda, Irlanda e Finlandia a causa di qualche limitata apertura alla condivisione dei rischi. Avremmo dovuto contrastarlo e dovremmo farlo qualora fosse ancora in campo poiché, nonostante le aperture, il pacchetto consolida l’impianto esistente e prevede una limitata solidarietà soltanto a condizione di ulteriori misure regressive sul piano economico e sociale. Tra le iniziative regressive da sospendere va incluso anche l’ulteriore allargamento della Ue ai Balcani. Nel quadro dato, determinerebbe ulteriore dumping sociale e svalutazione del lavoro.
Senza modificare i Trattati e senza poter ricorrere alla mutualizzazione dei debiti pubblici, strade impercorribili, quali azioni propone un soggetto autonomo orientato a proteggere e promuovere gli interessi del lavoro?
1. Va cancellato il Fiscal Compact dalla legislazione comunitaria. Perché? Perché dannoso, a causa della sua natura pro-ciclica, per la sostenibilità dei debiti pubblici e intimamente contraddittorio con gli obiettivi costituzionali di dignità del lavoro e welfare.
2. Va introdotta, affianco alla vigilanza sul vincolo del 3% nel rapporto tra deficit di bilancio pubblico e Pil, la vigilanza su una variabile di pari rilevanza economica e politica: il saldo commerciale (esportazioni meno importazioni).
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Gli aggiustamenti devono essere a carico del Paese "deviante" anche quando il saldo è positivo e supera il 3% del Pil. Vuol dire che la Germania deve innalzare le retribuzioni dei suoi lavoratori e lavoratrici, invece di imporre il taglio alle retribuzioni degli altri. Perché? Perché, come aveva già motivato (inutilmente) Keynes nel 1943 a Bretton Woods durante le trattative per il varo di FMI e Banca Mondiale, diffusi avanzi eccessivi di bilancia commerciale determinano un deficit cronico di domanda aggregata e disoccupazione elevata. Le ragioni keynesiane sono ancora più rilevanti quando l'agenda mercantilista è seguita ostinatamente dal Paese leader di un'area monetaria segnata da profonde differenze economiche e sociali. In altri termini, i surplus commerciali tedeschi dell'8-9% del Pil sono colpi devastanti sulle prospettive dell'eurozona e sulle condizioni del lavoro e del welfare, di gran lunga più gravi degli sconfinamenti del deficit dei bilanci pubblici. Al fine di attenuare la portata mercantilista dell’Ue e dell’eurozona andrebbe colta la sfida protezionista di Trump come opportunità: invece che cercare un trattamento preferenziale, i governi europei dovrebbero riconoscere che l’area più ricca del pianeta, l’Eurozona, non può continuare a fondare la sua crescita sul consumatore Usa e spostarsi verso la domanda interna europea, quindi di ciascuno Stato nazionale.
3. Va sostenuta la stabilizzazione e riduzione dei debiti pubblici attraverso la costruzione da parte della Bce di un mercato di titoli di Stato a lunghissima scadenza (almeno trentennale) e tassi zero. Come indicato nel progetto elaborato da Minenna e Boitani, la Bce si dovrebbe impegnare ad acquistare sul mercato secondario un ammontare di titoli di Stato pari, per ciascun Paese membro, alla dimensione finale del quantitative easing. Perché? Perché altrimenti le divergenze si aggravano e il terreno della competizione tra imprese diventa ancora più impervio per i Paesi periferici.
4. Va ampliato il mandato della Bce, in analogia a quanto scritto nello statuto della Federal Reserve degli Stati Uniti, al fine di includere l'obiettivo di un tasso di occupazione qualificato, a pari rilevanza con l'obiettivo di inflazione. Perché? Perché il diritto al lavoro è un diritto fondamentale. Non può essere sotto-ordinato all'inflation target.
5. Vanno cancellate o radicalmente riscritte alcune Direttive come, ad esempio, la Direttiva Bolkestein (introdotta nel 2004 dalla Commissione Prodi) e quella sui cosiddetti "lavoratori dislocati" (ritoccata di recente) al fine di arginare il dumping sociale determinato dal principio della concorrenza e del "Paese di origine". Perché? Perché, un mercato unico senza standard sociali, irresponsabilmente allargato a Est nel 2004, determina fisiologicamente svalutazione del lavoro e alimenta le disuguaglianze e depressione della domanda interna.
6. Vanno fermati i trattati di “libero scambio” a cominciare dal Ceta. Perché? Perché aggravano la svalutazione del lavoro.
Sono evidenti le difficoltà politiche delle "modeste proposte" sintetizzate sopra: la Germania e uno schieramento di Paesi dentro e fuori la zona euro non acconsentiranno a correggere l’impianto ordoliberista scolpito nei Trattati europei, a partire dal celebrato "Trattato di Roma", e nelle istituzioni dell'eurozona. La discussione prevalente a Berlino, il “compromesso” definito nel paper di 14 economisti franco-tedeschi sono chiari. Inoltre, si opporranno, in nome dell’interesse generale dell’Italia, anche gli interessi interni, beneficiati dal consolidato ordine liberista dell’Ue e dell’eurozona.
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Sul versante interno dobbiamo lavorare a tessere, giorno dopo giorno, una coalizione per la domanda interna, costituita dagli interessi economici e sociali dipendenti in via prevalente o totale da investimenti e consumi nazionali (il 75% della nostra economia): artigiani e commercianti, la stragrande maggioranza delle micro e piccole imprese, i “loro” lavoratori subordinati, lavoratori autonomi, professionisti e lavoratori e lavoratrici delle pubbliche amministrazioni.
Sul versante europeo, con chi portare avanti la controffensiva progressiva nella declinazione del nesso nazionale-Unione europea-eurozona? I nostri interlocutori sono, innanzitutto, Podemos, La France Insoumise e Bloco de Esquerda primi firmatari, il 12 Aprile scorso, di un appello per “rompere la camicia di forza dei trattati europei che impongono l’austerità e favoriscono il dumping fiscale e sociale”, per “Un ordine democratico, giusto ed equo, che rispetti la sovranità dei popoli.”. Dobbiamo cercare le massime convergenze possibili, innanzitutto con loro, ma agire anche attraverso iniziative unilaterali, “in infrazione” quando necessario. Si deve richiedere, quando necessario, l'opzione opt-out, soluzione ampiamente usata da altri paesi su scelte fondamentali (euro, Schengen, Fiscal compact) senza incorrere in conseguenze “punitive”. Si deve usare con determinazione, ove non fosse concesso l’opt-out, il potere di veto su ogni decisione per cui sia richiesta l'unanimità. Giova ripetere che questo non va inteso come un atteggiamento anti-europeo: l’obiettivo non è separarsi dall'Unione Europea, con cui bisogna mantenere tutte le forme di collaborazione possibili, ma contrastare l’ulteriore ridefinizione della nostra Costituzione materiale.
Oltre al nodo Italia-Ue-eurozona, l’immigrazione è l’altro tema, peraltro associato con quello della sicurezza, che dobbiamo affrontare in modo adeguato a ricostruire una relazione, innanzitutto sentimentale, con le fasce popolari attratte da offerte politiche regressive. Il punto centrale consiste nell’iniziare a discuterne, senza nascondere il problema sotto il tappeto di un solidarismo di circostanza. Bernie Sanders, durante la sua compagna elettorale per le primarie per la presidenza degli Usa, sottolineo che una politica di frontiere aperte è una politica liberista (“Open borders is a right wing policy”). Da sinistra, dobbiamo proporre un modello di integrazione rispettoso anche dei timori e delle ansie diffuse. Un modello di integrazione che non destrutturi ulteriormente il mercato del lavoro. Fra un multiculturalismo indifferenziato e incapace di selettività e la ghettizzazione discriminatoria proposta dalla Lega, dobbiamo saper integrare oltre a accogliere, unificare le lotte sociali e assicurare un flusso migratorio in entrata il più possibile programmato, nel rispetto delle regole e delle tradizioni del nostro Paese. In tale contesto, è decisiva la revisione degli accordi di Dublino, prevedendo sanzioni sulle erogazioni di fondi europei per i Paesi che non collaborano e, dall’altro, risorse aggiuntive ai Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. I Paesi di partenza dei flussi devono essere messi in sicurezza sotto il profilo della stabilità politica e sotto il profilo economico, legando l’assistenza economica (che deve provenire da tutta l’Europa, i muri o le polizie ai confini alpini prima o poi saranno travolti) anche a forme di controllo dei flussi “in situ”. I gruppi criminali che fanno tratta di esseri umani vanno perseguiti anche dai Governi dei Paesi di partenza. I luoghi in cui i migranti vengono trattenuti nei Paesi di partenza devono essere gestiti nel pieno rispetto dei diritti umani e devono essere aperti ai controlli delle istituzioni internazionali.
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In conclusione
La navigazione controvento può riprendere. Anche in Italia. Lo scenario è instabile. Non soltanto per i numeri in Parlamento. Ma per una ragione fondamentale: l’ordine economico e sociale dominante, i mercati e i vincoli sovranazionali al servizio degli interessi più forti, non vengono meno. Le promesse, di segno diverso, fatte dai “vincitori” sono impraticabili. I rapporti di forza rimangono enormemente squilibrati a sfavore del lavoro. La rottura, per scelta o accidente finanziario, o la normalizzazione degli “anti-sistema” riaprirebbe i giochi. Ma non c’è alcun determinismo economico. La sinistra potrebbe tornare a reinterpretare la sfida, difficilissima, soltanto a condizione di liberarsi dalla religione dell’europeismo astratto e avviarsi lungo la rotta, in chiave socialista e cattolico-sociale, del patriottismo costituzionale per costruire leve regolative essenziali per lo Stato nazionale, unica dimensione praticata e praticabile per la sovranità popolare.
Fiuggi, 6 Maggio 2018
Prime sottoscrizioni:
Stefano Fassina, Lanfranco Turci, Laura Lauri, Celeste Ingrao, Michele Prospero, Massimo D’Antoni, Riccardo Achilli, Daniela Lastri, Paolo Desogus, Salvatore Multinu, Giusy Spadaccino, Floriana D’Elia, Carlo Clericetti, Alessandro Visalli, Andrea De Pietri, Marco Lang, Chiara Zoccarato, Salvatore Monni, Mauro Beschi
Per contribuire al testo e/o sottoscrivere: fiuggi.maggio2018@gmail.com

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