Nel corso dei lavori di Fiuggi e nei giorni precedenti Stefano Fassina,
anche attraverso contributi di altre compagne e compagni, ha elaborato
questo documento politico, particolarmente mirato al tema del rapporto
fra la sinistra e l'Europa, per mettere in moto un dibattito che non si
riesce a sviluppare nè dentro a LEU, nè dentro alle sue diverse
componenti.
Oltre al dovere, come Network, di farlo conoscere,
segnaliamo che si tratta di un documento ancora aperto e che è possibile
sottoscriverlo sull'indirizzo e-mail in calce al documento stesso,
oppure scrivendo sottoscrivo nei commenti
1
Dalla parte del lavoro: il nodo Italia-Ue-Eurozona
contributo in progress alla costruzione di LeU
Il presente documento non ha, come ovvio, l’ambizione di affrontare
tutti i nodi che la sinistra si trova davanti in questo difficile
momento culturale, sociale e politico. Né tanto meno pretende di fornire
risposte definitive e compiute ai problemi aperti. L’obiettivo è più
limitato ma non meno importante: promuovere la discussione e avviare un
dibattito franco e aperto su alcuni temi cruciali troppo spesso elusi.
Abbozzare delle risposte deve essere un lavoro collettivo, che investa
non solo gli intellettuali e gli analisti, ma i luoghi della discussione
e decisione politica. Per noi il primo, anche se non esclusivo, di
questi luoghi è LEU, se vogliamo, come vogliamo, che non vada disperso
l’impegno profuso in questi mesi da tante e tanti compagni.
Il
documento vuole essere un contributo a un dibattito non più rinviabile.
In quanto tale, non chiede adesioni acritiche: si tratta di un testo
“aperto” a cui chiunque è interessato può contribuire, con correzioni,
integrazioni e suggerimenti.
Fiuggi, 6 Maggio 2018
Le cause profonde del voto: la fine del “Trentennio inglorioso”
La disfatta storica delle sinistre il 4 Marzo, prima che elettorale, è
culturale. Certo, è forte la tentazione di rimuovere la “sostanza” e
confinare l’analisi del voto agli “accidenti”. Per chi è stato ed è
impegnato in LeU, gli accidenti sono numerosi: i ritardi nell’avvio
della lista, dopo 6 mesi di insensato negoziato per il “campo
progressista” di Giuliano Pisapia; l’improvvisazione della leadership
elettorale; la qualità delle candidature, spesso astratte da
qualsivoglia percorso territoriale; l’assenza di discontinuità
riconoscibile e il profilo e il posizionamento da Pd pre-renziano. Per
il Pd, è ancora più semplice: il capro espiatorio è il renzismo.
Tuttavia, senza disconoscere gli accidenti, dobbiamo andare alla
sostanza per capire e reagire. La sostanza segnala, senza incertezze, la
chiusura del “Trentennio inglorioso” post ‘89 durante il quale la
sinistra storica ha seguito la parabola discendente dello Stato
nazionale. La sostanza si coglie nell’analisi di tutte le elezioni
avvenute negli ultimi due anni: dal referendum su Brexit, al voto negli
Stati Uniti, in Olanda, Francia, Germania e, infine, in Italia. Il
denominatore comune è la “ribellione” di popolo e classi medie verso
l’ordine economico e sociale dominante e, in stretta conseguenza, il
declino di tutte le componenti della famiglia socialista europea e della
versione mainstream del Partito
2
Democratico degli Stati Uniti
in quanto corresponsabili, spesso orgogliosamente come nel caso del
nostro Ulivo, della costruzione di quell’ordine. Il Labour Party di
Jeremy Corbyn fa eccezione perché l’esaurimento del ciclo blairiano si è
consumato prima e la ricostruzione ha trovato una figura e una classe
dirigente credibile, interprete da sempre di un paradigma keynesiano,
nazionale e popolare, alternativo al liberismo soft del New Labour.
I
dati elettorali dell’ultimo biennio confermano in dimensioni estreme
un’amara verità: chi vive difficoltà materiali sceglie in prevalenza la
destra o movimenti anti-sistema, mentre alla sinistra storica o di
movimento si affida in larga misura chi sta bene. Nonostante tale
drammatica contraddizione, la reazione post voto tra “i perdenti”, si
limita alla riaffermazione di obiettivi, non soltanto retorici e
generici, ma soprattutto astratti dall’analisi delle cause strutturali
del voto. Perché non si rivolge alla sinistra una così larga e diffusa
svalutazione del lavoro e le conseguenti impennate delle disuguaglianze
nella distribuzione primaria e secondaria del reddito, dell’accesso e
della qualità dei servizi di cittadinanza (sanità, scuola, pensioni,
abitazione)?
Le risposte a tali domande passano lungo il nesso
nazionale-sovranazionale, per usare il lessico gramsciano. È per noi
l’asse nazionale-europeo-eurozona, inquadrato in quella globalizzazione,
che la sinistra non ha saputo e voluto “governare”, nonostante gli
appelli in tal senso profusi sin dagli anni Novanta. Anche in Italia,
con le elezioni del 4 Marzo, si infrange il “mito europeista”. Il punto è
decisivo, sebbene traumatico. Vale, in primo luogo, per tutta la
variegata famiglia socialista europea per la quale l’Ue e l’eurozona è
stata la zattera ideologica post ‘89. Il punto vale anche per la
sinistra radicale e quella antagonista, sebbene per vie diverse: non
hanno responsabilità dirette dell’ordine economico e sociale di
svalutazione del lavoro, ma il loro cosmopolitismo e “orizzontalismo” è
ideologia sinergica al liberismo nello svuotamento dello Stato
nazionale. Non a caso, la lista transnazionale per le prossime elezioni
europee, attrae anche parte della sinistra “critica”, dopo aver
conquistato Partito Radicale e il Pd, almeno coerenti con il loro
impianto liberista.
In tale quadro interpretativo, dobbiamo cogliere
che l’articolazione reale del nesso nazionale-sovranazionale non è
univoca e non è neutra. Ha precisi segni di classe: determina effetti
asimmetrici non solo tra Stati, ma all’interno di ciascuno Stato: sui
territori e sui diversi interessi economici e sociali.
L’europeismo
reale beneficia le imprese manifatturiere e di servizi capofila di
filiere dedicate all’export (concentrate al Nord), in misura limitata i
loro dipendenti coperti dal welfare aziendale, i grandi professionisti
ad esse connessi. Beneficia poi le imprese finanziarie, i vertici delle
principali istituzioni pubbliche di regolazione dell’economia e
ristrette élite della cultura e dell’informazione e la loro prole,
generalizzata come “generazione Erasmus”. È, in estrema semplificazione,
l’insieme dell’export. L’europeismo reale colpisce, invece, con
altrettanta estrema semplificazione,gli interessi economici e sociali
dipendenti dalla domanda interna: micro e piccole imprese del commercio e
dei servizi e loro dipendenti in qualunque forma giuridica (dal
contratto classico, alla partita Iva); lavoratori autonomi;
professionisti, in larga misura giovani senza studio ereditato;
lavoratori e lavoratrici delle pubbliche amministrazioni e, in fine, la
marea di disoccupati, precari e sottoccupati, giovani e meno giovani
(prevalenti al Sud). Insomma, quelli che dovrebbero essere i riferimenti
della sinistra.
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Il variegato insieme dell’export ha votato
per il Pd+Europa, per Forza Italia nella sua ultima incarnazione
merkeliana e, nelle sue frange “Erasmus”, per Liberi e Uguali e
finanche, la parte più scapigliata, per Potere al Popolo. È l’insieme
cosmopolita che vive nei centri delle città e nelle periferie storiche
gentrificate e declina la drammatica sfida dell’accoglienza e
dell’integrazione dei migranti soltanto in chiave umanitaria.
L’orda
della domanda interna da decenni soffocata ha scelto, nel Mezzogiorno,
in prevalenza M5S e, soprattuto al Nord, la Lega di Salvini e
l’appendice di Fratelli d’Italia. Vive nelle periferie, nelle fasce
sub-urbane, nelle aree rurali. “Sente”, per ragioni materiali, i
migranti come “concorrenti” sul terreno del lavoro e del welfare e come
“pericolo” sul versante della sicurezza.
Il problema per il
Pd+Europa, FI e residui di sinistra diversamente collocata è che,
nonostante la propaganda di Renzi e Gentiloni (“l’Italia riparte”, il
“milione di posti di lavoro”), i beneficiari della consolidata
declinazione del nesso nazionale-Europa-eurozona sono, in Italia, dati i
nostri “fondamentali”, soltanto un terzo dell’economia (poco più della
quota di Pil da export). Il problema ulteriore è che, nell’ultimo quarto
di secolo, sono stati pesantemente ridimensionati i principali canali
redistributivi verso gli interessi connessi alla domanda interna: dai
contratti nazionali di lavoro, alla fiscalità generale, al welfare.
Quindi, è un’area elettorale che non può essere, per ragioni
strutturali, maggioranza, anche fosse unita in Parlamento.
L’insieme
degli interessi legati alla domanda interna è, invece, larga
maggioranza, ma divergente nella ri-declinazione del nesso
nazionale-europeo-eurozona. Lega e FdI sono orientati verso il
trumpismo, ossia chiusura doganale e liberismo domestico. Il M5S ha
costruito negli anni il suo posizionamento politico in alternativa al
nesso europeo consolidato (sono stati etichettati dall’inizio come
“populisti anti-sistema”, quindi “anti-europei”), ma è senza una linea
chiara sul che fare (vedi l’allineamento post-elettorale di Di Maio al
mainstream europeo e transatlantico).
In tale quadro strutturale, la
marginalità di Liberi e Uguali deriva dalla sua ambiguità costitutiva:
uno sconosciuto programma formalmente keynesiano implicitamente
imperniato sulla rivitalizzazione dello Stato nazionale, ma legato alla
“riforma dei Trattati e portato avanti da classi dirigenti segnate
dall’esperienza de L’Ulivo.
In sintesi, il rigetto della sinistra
per come l’abbiamo conosciuta è stato ampio, forse definitivo. Agli
occhi e all’istinto del popolo delle periferie, siamo colpevoli (dal Pd a
Mdp) o abbiamo priorità autoreferenziali (da Sinistra Italiana e
Possibile a Potere al Popolo).
Che fare?
Allora che fare? Per
rispondere alla domanda, è necessario affrontare il quesito di fondo,
comune a tutte le sinistre europee: chi vuole rappresentare Liberi e
Uguali? E il Pd? Il discorso sulle alleanze è politicista senza prima
affrontare tali domande.
Da qui dobbiamo partire per discutere e
deliberare. Perché? Perché un partito è, innanzitutto, un’ideologia, una
lettura autonoma, specifica e distintiva della vicenda storica
nazionale in relazione al quadro sovranazionale. Quindi, un programma
fondamentale, inteso come interessi e soggetti da organizzare. Un
partito non è una “carta di valori”. Non è neanche sufficiente a dare
senso politico a un partito “l’organizzazione” o la giustapposizione di
“campagne tematiche”. Senza ideologia, senza fondamenta culturali e
storico-politiche distintive non si avvia un partito.
4
Si fa
testimonianza. Si può fare servizio sociale. Al massimo, sul piano
strettamente politico, si mette insieme una “corrente”, esterna o
interna è sostanzialmente irrilevante, di un altro partito.
Quale
può essere la base culturale e storico-politica specifica e distintiva
per costruire un partito non residuale dalla parte del lavoro? Anche in
LeU, corriamo il rischio delle fughe in avanti per la fase costituente
“a prescindere” o per il ritorno alle patrie, small o medium size, per
l’azzeramento o per Big Bang senza bussola culturale e politica
all’insegna di una volontaristica vocazione unitaria contro le orde
barbariche.
La ragione fondativa, quindi autonoma e distintiva, di
un partito non residuale dalla parte del lavoro dovrebbe essere,
innanzitutto, nei principi del socialismo, del cattolicesimo sociale e
dell’ecologia integrale, ossia nel riconoscimento del conflitto, anche
quando componibile, fra capitale e lavoro, tra capitale e natura, fra
governo dello sviluppo (in tutte le sue dimensioni) e dominio del
mercato. Di conseguenza, in relazione a tali principi, la nostra ragione
fondativa dovrebbe essere un patriottismo costituzionale come
articolazione del nesso nazionale-sovranazionale alternativa sia alla
declinazione nazionalista della de-globalizzazione in corso, sia
all’europeismo liberista dominante nel consolidato assetto regolativo e
di policy dell’Ue e dell’eurozona. Il programma fondamentale è dare
rappresentanza e potere a un universo del lavoro che nel Trentennio
inglorioso è stato frammentato dalle trasformazioni organizzative e
tecnologiche del capitalismo post-fordista, sostenute da precise
politiche neoliberiste mirate a distruggere gli equilibri sociali e i
corpi intermedi della fase del compromesso keynesiano-socialdemocratico.
Non sarà facile ricomporre un fronte che va dai lavoratori dipendenti
classici, per quanto indeboliti e impoveriti, alle mille forme del
precariato e delle partite IVA, fino ai lavoratori delle piattaforme
tecnologiche e ai disoccupati. Ma resta la priorità per dare nerbo a un
soggetto politico dalla parte del lavoro, per la giustizia sociale ed
ecologica che, attraverso gli strumenti dello Stato democratico, possa
contrastare il potere del grande capitale nazionale e internazionale e
proporsi alla guida di un più vasto fronte sociale.
Cos’è il
patriottismo costituzionale in relazione ai principi del socialismo, del
cattolicesimo sociale e dell’ecologia integrale? È, in primo luogo, una
lettura empiricamente fondata dell’europeismo reale. L’Ue e l’eurozona
vanno riconosciuti nei dati di realtà, oltre i miti fondativi e il
fideismo delle sinistre in tutte le varie sfumature di rosso e rosa:
sono ordini istituzionali e economico-sociali di aggravamento degli
effetti della globalizzazione. Sono impianti di segno liberista,
orientati al mercantilismo alimentato dalla svalutazione del lavoro. Lo
sono sin dal celebrato “Trattato di Roma” del 1957: allora, gli effetti
erano circoscritti perché i 6 contraenti avevano economie a livello di
sviluppo e welfare analogo, i mercati di capitali erano “chiusi”, le
banche centrali attive e “dipendenti” dal circuito democratico e, non
ultimo, il paese a minor costo del lavoro era l’Italia. La principale
leva d’azione non è l’austerità, come tanta sinistra politica e
sindacale senza cultura economica continua a ritenere. L’austerità è un
meccanismo di trasmissione. La principale leva del mercantilismo è il
mercato interno europeo senza standard sociali e fiscali,
sciaguratamente allargato a Est dalla Commissione Prodi nel 2004, e la
moneta unica nel quadro liberista dei Trattati europei.
5
I
Trattati ospitano molteplici e mutualmente contraddittori principi, in
un apparente sincretismo. Ma i principi prevalenti sono la concorrenza e
la stabilità dei prezzi. Domina il principio della concorrenza, non tra
imprese, ma tra ordinamenti costituzionali e tra welfare state. Sono
principi radicalmente contraddittori con i principi ordinatori scritti
nella nostra Costituzione, ispirati al socialismo e al cattolicesimo
sociale e dell’ecologia integrale: la solidarietà e la dignità della
persona nel lavoro. L’attuazione dell’europeismo reale, tramite mercato
interno e moneta unica, colpisce in modo sistematico gli interessi
economici e sociali che la sinistra è nata per proteggere e promuovere.
Stare dalla parte del lavoro è impossibile nel quadro dato. La parabola
di Syriza è soltanto il più bruciante esempio. Chi storicamente ha
rappresentato gli interessi del lavoro e si adegua ai principi
prevalenti o si vanta di aver integrato il proprio Paese nell’ordine
della Ue e dell’eurozona tradisce la sua missione originaria e viene,
inevitabilmente, abbandonato anzi combattuto da quelle fasce popolari e
classi medie che dovrebbe rappresentare.
Sono “riformabili” in senso
pro-labour i Trattati? Che fare a Trattati vigenti? Il problema è la
subalternità della sinistra storica post ‘89 al liberismo e
all’europeismo liberista o il primato del “vincolo esterno”? È possibile
costruire, nel contesto attuale, qualche strumento di intervento dello
Stato Nazionale? Oppure, la linea è: “lavoriamo a cambiare le regole, ma
finché le regole vigono si rispettano”?
Sinistre al bivio: proseguire lungo la via dell’integrazione europea
Nella sinistra storica, viene pian piano riconosciuto, in qualche caso
anche dai fautori del Pd delle origini e dagli Ulivisti di rito
prodiano, il carattere strutturalmente liberista della Ue e
dell’eurozona. L’evidenza è del resto irresistibile. Ma poi si arriva a
un bivio. Da una parte, quanti, “cosmopoliti”, ritengono che, nonostante
gli ostacoli politici, interpretati come “rapporti di forza”
congiunturalmente sfavorevoli, si debba andare avanti per una maggiore
integrazione europea, per più Europa, per “gli StatiUniti d’Europa”,
perché la sovranità democratica, nell’epoca dei mercati globali e delle
sfide globali (dal clima alle migrazioni alle guerre) si può rianimare
soltanto a scala sovranazionale. Quanti ritengono possibile
riequilibrare i rapporti di forza a favore dell’integrazione
progressiva, quindi riformare i Trattati, dopo aver liberato “il popolo
unico europeo” dal gioco dei tecnocrati di Bruxelles. Quanti, insomma,
negano ogni possibile potenziamento delle funzioni dello Stato Nazionale
con la scomunica di “sovranismo”. Ma sovranismo, ricorda Galli Della
Loggia, “maestro” difficile da etichettare come “populista”, è “il
termine carico di significato negativo che le élite occidentali
—avvalendosi della loro egemonia culturale e del potere che gliene
deriva di dare il nome alle cose— hanno dato alla difesa del potere di
decidere a livello nazionale, fatta ostinatamente propria in genere da
chi dell’élite non fa parte”.
L’inversione di rotta: il patriottismo costituzionale in chiave socialista, cattolico-sociale e dell’ecologia integrale
Dall’altra parte del bivio, quanti, invece, considerano gli ostacoli
all’integrazione progressiva dell’Ue e dell’eurozona come espressione di
profondi caratteri storico-politici legati alle radici nazionali dei
popoli, degli Stati e della democrazia costituzionale. Quanti
intravedono come unico traguardo possibile di una Unione europea sempre
più integrata lo “Stato minimo europeo” desiderato da Von Hayek negli
anni ‘30 per arginare l’avanzata socialista o nazionalista degli Stati
nazionali.
6
Quanti, di conseguenza, propongono la costruzione
di strumenti nazionali di governo dell’economia, consapevoli
dell’impossibilitá del ritorno al ‘900, avvertiti dei limiti alla
sovranità nazionale. Quanti, quindi, prospettano una cooperazione
internazionale, in primo luogo cooperazione nell’Unione europea, in base
della visione di patria e dell’interesse nazionale incise nei principi
socialisti e cattolico sociali della nostra Costituzione (udite, udite:
il nome della rivista ufficiale dell’Anpi è “Patria Indipendente”). Non è
nazionalismo. Non è autarchia. In sostanza, è la strada per un governo
progressivo della de-globalizzazione e della ritirata dal progetto di
integrazione europea, in alternativa al governo regressivo conquistato
istintivamente, naturalmente, dalle destre. È il patriottismo
costituzionale.
Cos’è qui e ora il patriottismo costituzionale
interpretato secondo i principi socialisti, del cattolicesimo sociale e
dell’ecologia integrale? Qui e ora, le grandi opzioni strategiche per un
soggetto politico sono due. Alla vincente deriva trumpiana, oggi si
contrappone soltanto l'europeismo liberista. È l’impianto del discorso
pubblico imposto dalle forze dominanti ma funzionale anche a chi vi si
oppone: antisistema vs sistema, populisti vs realisti, anti-europeisti
vs europeisti.
È evidente che in tale polarizzazione non c’è spazio
per una forza progressiva dalla parte del lavoro. È, quindi,
innanzitutto decisivo spezzare l’ideologia binaria e introdurre
un’alternativa. Sulla base della nostra Costituzione, declinata secondo
la cultura socialista, cattolico-sociale e dell’ecologia integrale,
l’alternativa è l’europeismo costituzionale. È un europeismo
anti-retorico che riconosce e punta a correggere le contraddizioni tra i
principi fondamentali della nostra Costituzione e l'impalcatura
istituzionale e di policy dei Trattati e dell'euro. È un europeismo
consapevole del primato della concorrenza e della stabilità dei prezzi
scolpito delle normative della UE e nella fisiologia dell'eurozona e il
primato del lavoro e della solidarietà sociale affermato nella nostra
Carta fondamentale e, in forma diversa, nelle altre Carte scritte dopo
il secondo conflitto mondiale. È un europeismo "adulto" in grado di
rilevare la deriva verso lo "Stato minimo", prescritta dai Trattati e
dall'agenda mercantilista della moneta unica e la necessità
dell'intervento pubblico nella regolazione dell'economia prevista nella
nostra Costituzione per "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e
sociale, che, limitando di fatto libertà e uguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica,
economica e sociale del Paese".
Il patriottismo costituzionale nella
versione socialista, cattolico-sociale e dell’ecologia integrale,
intende agire nella tensione tra, da una parte, i Trattati che prevedono
"una moneta unica, l'euro, nonché la definizione e la conduzione di una
politica monetaria e del cambio uniche, che abbiano l'obiettivo
principale di mantenere la stabilità dei prezzi e, fatto salvo questo
obiettivo, di sostenere le politiche economiche generali dell'Unione
conformemente al principio di un'economia di mercato aperta e in libera
concorrenza" (Tuef, art. 119, comma 2) e, dall’altra parte, la nostra
Costituzione dove "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il
diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo
diritto" (Art 4, comma 1). Il patriottismo costituzionale qui proposto
punta a correggere, anche attraverso misure unilaterali, il mercato
unico europeo che, attraverso il principio del "Paese d'origine",
alimenta dumping sociale, svalutazione del lavoro e quindi
disuguaglianza sul decisivo terreno della distribuzione primaria del
reddito. Il patriottismo costituzionale riafferma la centralità del
contratto collettivo nazionale a protezione della concorrenza al
ribasso.
7
Il nostro patriottismo costituzionale denuncia uno
statuto della Bce che neanche Reagan e Thatcher avrebbero sognato di
realizzare e ricorda le amare valutazioni di Guido Carli che, a
proposito del Trattato di Maastricht, nelle sue memorie sull'istituto di
Francoforte scriveva: "è difficile accettare con animo leggero il fatto
che l'obiettivo della stabilità dei prezzi sia indicato senza alcun
riferimento al livello occupazionale e, dunque, al benessere delle
comunità che si sono date questa Costituzione monetaria.". Il nostro
patriottismo costituzionale propone e programma, attraverso la
riconversione ecologica dell’economia, strategie attive e
“discriminatorie” di politica industriale (inibite dall’articolo 107 del
Trattato sugli aiuti di Stato alle imprese), investimenti in
innovazione tecnologica per creare occupazione qualificata in settori
emergenti ad elevato impatto sociale, come la green economy e l’economia
circolare, e reimpostare una adeguata stagione di industrializzazione
per il Mezzogiorno. In tale contesto di innovazione tecnologica
progressiva, si promuove il “lavoro minimo garantito” e la
riduzione/redistribuzione del tempo di lavoro, in alternativa di
paradigma al “reddito di cittadinanza” (come trasferimento individuale,
incondizionato e universale) e si dedicano maggiori risorse al Reddito
di inclusione per estenderne la copertura e innalzarne l’importo al fine
di contrastare la povertà e promuovere l’inclusione al lavoro.
La
strada cosmopolita e della “sovranità europea”, rilanciata su versanti
elettorali concorrenti da Macron e da Varoufakis e dai loro seguaci in
Italia, è strada legittima. Ma non è una strada originale, distintiva.
Anzi, è la strada seguita, dopo l’89, da tutte le versioni della
sinistra storica e dalle variegate sinistre critiche, antagoniste, di
movimento. Lungo tale strada non si può rispondere agli interessi del
lavoro e delle classi medie disperate. Non si può arrivare a un soggetto
politico autonomo, a un partito di una qualche rilevanza. Lungo tale
strada si è appendice, dentro o fuori, del Partito Democratico o,
nell’indisponibilità verso il Pd, si è nobile testimonianza di sinistra
estetica.
Il nostro patriottismo costituzionale, archiviata la
riforma progressiva dei Trattati, intende innanzitutto bloccare
ulteriori misure regressive. Il pacchetto proposto dalla Commissione
Junker è stato di fatto messo fuori gioco dal governo tedesco e
dall’iniziativa (autorizzata da Berlino?) di 8 Paesi europei guidati da
Olanda, Irlanda e Finlandia a causa di qualche limitata apertura alla
condivisione dei rischi. Avremmo dovuto contrastarlo e dovremmo farlo
qualora fosse ancora in campo poiché, nonostante le aperture, il
pacchetto consolida l’impianto esistente e prevede una limitata
solidarietà soltanto a condizione di ulteriori misure regressive sul
piano economico e sociale. Tra le iniziative regressive da sospendere va
incluso anche l’ulteriore allargamento della Ue ai Balcani. Nel quadro
dato, determinerebbe ulteriore dumping sociale e svalutazione del
lavoro.
Senza modificare i Trattati e senza poter ricorrere alla
mutualizzazione dei debiti pubblici, strade impercorribili, quali azioni
propone un soggetto autonomo orientato a proteggere e promuovere gli
interessi del lavoro?
1. Va cancellato il Fiscal Compact dalla
legislazione comunitaria. Perché? Perché dannoso, a causa della sua
natura pro-ciclica, per la sostenibilità dei debiti pubblici e
intimamente contraddittorio con gli obiettivi costituzionali di dignità
del lavoro e welfare.
2. Va introdotta, affianco alla vigilanza sul
vincolo del 3% nel rapporto tra deficit di bilancio pubblico e Pil, la
vigilanza su una variabile di pari rilevanza economica e politica: il
saldo commerciale (esportazioni meno importazioni).
8
Gli
aggiustamenti devono essere a carico del Paese "deviante" anche quando
il saldo è positivo e supera il 3% del Pil. Vuol dire che la Germania
deve innalzare le retribuzioni dei suoi lavoratori e lavoratrici, invece
di imporre il taglio alle retribuzioni degli altri. Perché? Perché,
come aveva già motivato (inutilmente) Keynes nel 1943 a Bretton Woods
durante le trattative per il varo di FMI e Banca Mondiale, diffusi
avanzi eccessivi di bilancia commerciale determinano un deficit cronico
di domanda aggregata e disoccupazione elevata. Le ragioni keynesiane
sono ancora più rilevanti quando l'agenda mercantilista è seguita
ostinatamente dal Paese leader di un'area monetaria segnata da profonde
differenze economiche e sociali. In altri termini, i surplus commerciali
tedeschi dell'8-9% del Pil sono colpi devastanti sulle prospettive
dell'eurozona e sulle condizioni del lavoro e del welfare, di gran lunga
più gravi degli sconfinamenti del deficit dei bilanci pubblici. Al fine
di attenuare la portata mercantilista dell’Ue e dell’eurozona andrebbe
colta la sfida protezionista di Trump come opportunità: invece che
cercare un trattamento preferenziale, i governi europei dovrebbero
riconoscere che l’area più ricca del pianeta, l’Eurozona, non può
continuare a fondare la sua crescita sul consumatore Usa e spostarsi
verso la domanda interna europea, quindi di ciascuno Stato nazionale.
3. Va sostenuta la stabilizzazione e riduzione dei debiti pubblici
attraverso la costruzione da parte della Bce di un mercato di titoli di
Stato a lunghissima scadenza (almeno trentennale) e tassi zero. Come
indicato nel progetto elaborato da Minenna e Boitani, la Bce si dovrebbe
impegnare ad acquistare sul mercato secondario un ammontare di titoli
di Stato pari, per ciascun Paese membro, alla dimensione finale del
quantitative easing. Perché? Perché altrimenti le divergenze si
aggravano e il terreno della competizione tra imprese diventa ancora più
impervio per i Paesi periferici.
4. Va ampliato il mandato della
Bce, in analogia a quanto scritto nello statuto della Federal Reserve
degli Stati Uniti, al fine di includere l'obiettivo di un tasso di
occupazione qualificato, a pari rilevanza con l'obiettivo di inflazione.
Perché? Perché il diritto al lavoro è un diritto fondamentale. Non può
essere sotto-ordinato all'inflation target.
5. Vanno cancellate o
radicalmente riscritte alcune Direttive come, ad esempio, la Direttiva
Bolkestein (introdotta nel 2004 dalla Commissione Prodi) e quella sui
cosiddetti "lavoratori dislocati" (ritoccata di recente) al fine di
arginare il dumping sociale determinato dal principio della concorrenza e
del "Paese di origine". Perché? Perché, un mercato unico senza standard
sociali, irresponsabilmente allargato a Est nel 2004, determina
fisiologicamente svalutazione del lavoro e alimenta le disuguaglianze e
depressione della domanda interna.
6. Vanno fermati i trattati di “libero scambio” a cominciare dal Ceta. Perché? Perché aggravano la svalutazione del lavoro.
Sono evidenti le difficoltà politiche delle "modeste proposte"
sintetizzate sopra: la Germania e uno schieramento di Paesi dentro e
fuori la zona euro non acconsentiranno a correggere l’impianto
ordoliberista scolpito nei Trattati europei, a partire dal celebrato
"Trattato di Roma", e nelle istituzioni dell'eurozona. La discussione
prevalente a Berlino, il “compromesso” definito nel paper di 14
economisti franco-tedeschi sono chiari. Inoltre, si opporranno, in nome
dell’interesse generale dell’Italia, anche gli interessi interni,
beneficiati dal consolidato ordine liberista dell’Ue e dell’eurozona.
9
Sul versante interno dobbiamo lavorare a tessere, giorno dopo giorno,
una coalizione per la domanda interna, costituita dagli interessi
economici e sociali dipendenti in via prevalente o totale da
investimenti e consumi nazionali (il 75% della nostra economia):
artigiani e commercianti, la stragrande maggioranza delle micro e
piccole imprese, i “loro” lavoratori subordinati, lavoratori autonomi,
professionisti e lavoratori e lavoratrici delle pubbliche
amministrazioni.
Sul versante europeo, con chi portare avanti la
controffensiva progressiva nella declinazione del nesso nazionale-Unione
europea-eurozona? I nostri interlocutori sono, innanzitutto, Podemos,
La France Insoumise e Bloco de Esquerda primi firmatari, il 12 Aprile
scorso, di un appello per “rompere la camicia di forza dei trattati
europei che impongono l’austerità e favoriscono il dumping fiscale e
sociale”, per “Un ordine democratico, giusto ed equo, che rispetti la
sovranità dei popoli.”. Dobbiamo cercare le massime convergenze
possibili, innanzitutto con loro, ma agire anche attraverso iniziative
unilaterali, “in infrazione” quando necessario. Si deve richiedere,
quando necessario, l'opzione opt-out, soluzione ampiamente usata da
altri paesi su scelte fondamentali (euro, Schengen, Fiscal compact)
senza incorrere in conseguenze “punitive”. Si deve usare con
determinazione, ove non fosse concesso l’opt-out, il potere di veto su
ogni decisione per cui sia richiesta l'unanimità. Giova ripetere che
questo non va inteso come un atteggiamento anti-europeo: l’obiettivo non
è separarsi dall'Unione Europea, con cui bisogna mantenere tutte le
forme di collaborazione possibili, ma contrastare l’ulteriore
ridefinizione della nostra Costituzione materiale.
Oltre al nodo
Italia-Ue-eurozona, l’immigrazione è l’altro tema, peraltro associato
con quello della sicurezza, che dobbiamo affrontare in modo adeguato a
ricostruire una relazione, innanzitutto sentimentale, con le fasce
popolari attratte da offerte politiche regressive. Il punto centrale
consiste nell’iniziare a discuterne, senza nascondere il problema sotto
il tappeto di un solidarismo di circostanza. Bernie Sanders, durante la
sua compagna elettorale per le primarie per la presidenza degli Usa,
sottolineo che una politica di frontiere aperte è una politica liberista
(“Open borders is a right wing policy”). Da sinistra, dobbiamo proporre
un modello di integrazione rispettoso anche dei timori e delle ansie
diffuse. Un modello di integrazione che non destrutturi ulteriormente il
mercato del lavoro. Fra un multiculturalismo indifferenziato e incapace
di selettività e la ghettizzazione discriminatoria proposta dalla Lega,
dobbiamo saper integrare oltre a accogliere, unificare le lotte sociali
e assicurare un flusso migratorio in entrata il più possibile
programmato, nel rispetto delle regole e delle tradizioni del nostro
Paese. In tale contesto, è decisiva la revisione degli accordi di
Dublino, prevedendo sanzioni sulle erogazioni di fondi europei per i
Paesi che non collaborano e, dall’altro, risorse aggiuntive ai Paesi
della sponda Sud del Mediterraneo. I Paesi di partenza dei flussi devono
essere messi in sicurezza sotto il profilo della stabilità politica e
sotto il profilo economico, legando l’assistenza economica (che deve
provenire da tutta l’Europa, i muri o le polizie ai confini alpini prima
o poi saranno travolti) anche a forme di controllo dei flussi “in
situ”. I gruppi criminali che fanno tratta di esseri umani vanno
perseguiti anche dai Governi dei Paesi di partenza. I luoghi in cui i
migranti vengono trattenuti nei Paesi di partenza devono essere gestiti
nel pieno rispetto dei diritti umani e devono essere aperti ai controlli
delle istituzioni internazionali.
10
In conclusione
La
navigazione controvento può riprendere. Anche in Italia. Lo scenario è
instabile. Non soltanto per i numeri in Parlamento. Ma per una ragione
fondamentale: l’ordine economico e sociale dominante, i mercati e i
vincoli sovranazionali al servizio degli interessi più forti, non
vengono meno. Le promesse, di segno diverso, fatte dai “vincitori” sono
impraticabili. I rapporti di forza rimangono enormemente squilibrati a
sfavore del lavoro. La rottura, per scelta o accidente finanziario, o la
normalizzazione degli “anti-sistema” riaprirebbe i giochi. Ma non c’è
alcun determinismo economico. La sinistra potrebbe tornare a
reinterpretare la sfida, difficilissima, soltanto a condizione di
liberarsi dalla religione dell’europeismo astratto e avviarsi lungo la
rotta, in chiave socialista e cattolico-sociale, del patriottismo
costituzionale per costruire leve regolative essenziali per lo Stato
nazionale, unica dimensione praticata e praticabile per la sovranità
popolare.
Fiuggi, 6 Maggio 2018
Prime sottoscrizioni:
Stefano Fassina, Lanfranco Turci, Laura Lauri, Celeste Ingrao, Michele
Prospero, Massimo D’Antoni, Riccardo Achilli, Daniela Lastri, Paolo
Desogus, Salvatore Multinu, Giusy Spadaccino, Floriana D’Elia, Carlo
Clericetti, Alessandro Visalli, Andrea De Pietri, Marco Lang, Chiara
Zoccarato, Salvatore Monni, Mauro Beschi
Per contribuire al testo e/o sottoscrivere: fiuggi.maggio2018@gmail.com
mercoledì 9 maggio 2018
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