di
Thomas Fazi (dall'American
Affairs Journal)
traduzione
di Domenico D'Amico
Se
un paese rinuncia o perde il potere di emettere la propria moneta,
acquisisce lo status o di autorità locale o di colonia.
Il
marxista italiano Antonio Gramsci coniò il termine “crisi
organica” per descrivere un genere di crisi che si differenzia
dalle “normali” crisi, finanziarie, economiche o politiche. Una
crisi organica è una “crisi onnicomprensiva” che coinvolge la
totalità di un ordine (o sistema) che, quali che siano le ragioni,
non è più in grado di generare consenso sociale (in termini
ideologici o materiali). Le contraddizioni essenziali che tale genere
di crisi insinua nel sistema non possono essere affrontate dalle
classi dirigenti. Le crisi organiche sono allo stesso tempo
economiche, politiche, sociali e ideologiche – in termini
gramsciani, sono crisi di egemonia – e di solito conducono al
rigetto nei confronti dei partiti politici istituzionali, delle
politiche economiche e delle scale dei valori.
Tuttavia,
esse non portano di necessità a un rapido collasso dell'ordine
dominante. Gramsci ha definito queste situazioni come interregna
in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere” e possono
manifestarsi “i fenomeni morbosi più svariati” [Quaderno 3 (XX)
§ (34) ndt]
Gramsci
parlava dell'Italia degli anni 10 del Novecento. A distanza di un
secolo, il paese si trova di fronte a un'altra crisi organica. Più
precisamente, si tratta di una crisi del modello dopo-Maastricht del
capitalismo italiano, avviato nei primi anni 90.
Tale
modello, a mio avviso, potrebbe essere descritto come un genere
peculiare di capitalismo comprador – termine utilizzato di solito
nel contesto del vecchio sistema coloniale per descrivere un regime
nel quale le classi dominanti di un paese formano un'alleanza con
gruppi di interesse stranieri in cambio di un ruolo subordinato
all'interno della gerarchia di potere. Sebbene la crisi abbia covato
per qualche tempo sotto la cenere, nelle ultime elezioni politiche,
tenute il 4 marzo 2018, è venuta allo scoperto.
I
risultati di queste elezioni sono noti. La classe politica che ha
governato l'Italia nell'ultimo quarto di secolo, rappresentata dal
Partito Democratico (PD) e da Forza Italia, ha subito un crollo senza
precedenti, ricevendo, rispettivamente, il 18,7 e il 14% dei voti. A
fronte di ciò, i due maggiori partiti “anti-establishment” - il
Movimento Cinque Stelle (M5S) e la Lega Nord (Lega) – hanno visto
uno spettacolare balzo in avanti, ottenendo, rispettivamente, il 32.7
e il 17,4% dei consensi. Nell'insieme, la coalizione di centro-destra
– che include, oltre alla Lega Nord (ora il partito maggiore della
coalizione), Forza Italia di Silvio Berlusconi e la piccola
formazione post-fascista Fratelli d'Italia – ha ottenuto il 367%
dei voti. Tutte le altre formazioni – dall'ultra-liberista ed
europeista +Europa, coalizzato col PD, al partito di centro-sinistra
Liberi e Uguali, una scheggia del PD che ha fatto campagna contro di
esso, e infine alla sinistra radicale di Potere al Popolo – hanno
fallito miseramente. Di questi, solo Liberi e Uguali ha superato la
soglia minima del 3% necessaria per entrare in parlamento.
Chi
siano i perdenti è evidente, mentre manca un indiscusso vincitore.
La nuova legge elettorale – approvata nel 2017 da PD, Forza Italia
e Lega Nord, con l'intento manifesto di ostacolare il Movimento
Cinque Stelle – richiede che ogni partito, o coalizione di partiti,
che voglia formare una maggioranza e quindi un governo, debba
ottenere almeno il 40% dei voti (alle elezioni o con accordi
post-elettorali). Negli ultimi due mesi e mezzo, M5S e Lega – i due
candidati più ovvi per la formazione di una coalizione fattibile –
sono stati impegnati in negoziati febbrili. Al momento della stesura
di quest'articolo, sembrerebbe che si sia raggiunto un accordo tra i
due partiti, anche se i dettagli non sono ancora di dominio pubblico.
Il profilo del prossimo governo italiano, perciò, resta ancora
indefinito. Non possiamo nemmeno escludere la possibilità che i due
partiti non riescano a superare l'attuale impasse, il che porterebbe
il presidente a nominare un esecutivo temporaneo “tecnocratico”,
o addirittura a indire nuove elezioni. In ogni caso, qualsiasi sia
l'esito dei negoziati, una cosa è chiara: queste elezioni hanno
mutato per sempre il panorama politico italiano.
I
Frutti dell'Austerità
Il
crollo dei partiti istituzionali – e l'ascesa di quelli “populisti”
– può essere compreso solo nel contesto della “recessione più
grave e più lunga della storia italiana”, come afferma il
governatore della banca centrale italiana, Ignazio
Visco. A partire dalla crisi finanziaria del 2007-2009, il PIL
italiano si è ridotto di un abbondante 10%, retrocedendo a livelli
di più di dieci anni fa. Riguardo il PIL pro capite, la situazione è
perfino peggiore: in questi termini la situazione italiana è
regredita a quella di vent'anni fa, cioè a prima che il paese
divenisse un membro fondatore della moneta unica. L'Italia e la
Grecia sono i soli paesi industrializzati la cui economia non ha
ancora recuperato sui livelli pre-crisi finanziaria. Il risultato è
che circa il 20% delle capacità industriali dell'Italia sono andate
distrutte, e il 30% delle imprese ha chiuso i battenti. Si tratta di
una distruzione di ricchezza che, a sua volta, ha
scosso le fondamenta del sistema bancario, che è stato (ed è
tuttora) colpito dalle sofferenze delle piccole e medie imprese
(PMI).
La
crisi occupazionale italiana continua a essere una delle peggiori
d'Europa. L'Italia ha un tasso ufficiale di disoccupazione dell'11%
(12% al sud) e un tasso di disoccupazione giovanile del 35% (con
picchi del 60% in alcune regioni meridionali). E non consideriamo
nemmeno i sotto-occupati e i lavoratori scoraggiati (persone che
hanno rinunciato alla ricerca di impiego, e che quindi non figurano
nelle statistiche ufficiali). Se lo facessimo, arriveremmo a uno
sbalorditivo tasso di disoccupazione del 30%, che sarebbe il più
alto d'Europa. In anni recenti anche il tasso di povertà è
cresciuto drammaticamente: il 23% della popolazione, circa un
italiano su quattro, è oggi a rischio di povertà – il livello più
alto dal 1989.
Queste
cifre spaventose sono il risultato di cause sia strutturali sia
congiunturali, anche se, è ovvio, collegate tra loro. Da un punto di
vista congiunturale sono in larga parte la conseguenza della severa
politica di austerità messa in atto tra il 2011 e il 2013 dal
governo “tecnocratico” di Mario Monti. Monti stesso, in
un'intervista
alla CNN, ammetteva che l'obbiettivo della politica di austerity
era quello di “distruggere la domanda interna mediante il
consolidamento fiscale [i.e. Il risanamento di bilancio – ndt]”.
Queste politiche proseguirono con tutti i governi successivi, incluso
quello di Renzi (2014-2016) e quello uscente presieduto da Paolo
Gentiloni.
Effettivamente,
il “successo” della distruzione della domanda interna da parte di
Monti viene ora confermato da uno studio nascosto nei recessi di un
allegato
all'ultimo documento programmatico di bilancio italiano, studio
che arriva alla conclusione che le misure di consolidamento fiscale
(tagli alle spese e aumento delle tasse) perseguite nel periodo
2012-2015 hanno ridotto il PIL italiano di quasi il 5% (circa 75
miliardi di euro l'anno, per un totale sbalorditivo di circa 300
miliardi), i consumi del 4%, gli investimenti
del 10%, per via degli gli “effetti recessivi del consolidamento
fiscale sia sul PIL sia sulle principali componenti della domanda
(consumi e investimenti)”.
Sebbene
lo studio in questione prenda in esame un periodo di tempo che giunge
solo al 2015, negli ultimi anni la posizione fiscale restrittiva dei
governi è rimasta pressoché immutata. Anzi, l'Italia è uno dei
pochi paesi ad aver mantenuto un significativo avanzo primario di
bilancio [cioè entrate superiori alle spese, al netto della spesa
per interessi – ndt] – equivalente oggi a circa l'1,5% del
PIL – per tutto il periodo della recessione post-crisi, ad onta di
ogni buon senso economico (1). La conseguenza è stata una cruda
riduzione dello stato sociale (particolarmente in campo sanitario).
Allo stesso tempo, una serie sempre più folta di nuove imposte ha
generato scontento sia nella piccola sia nella media impresa.
Il
Partito Democratico (PD) è stato al governo sin dal 2013 e ha
supervisionato per più di cinque anni l'austerity e le “riforme
strutturali” imposte dalla UE. Dati gli effetti disastrosi di
queste politiche, c'è poco da essere sorpresi se gli elettori si
siano fatti beffe della retorica del governo uscente sulla “ripresa
economica”. Il tanto pubblicizzato “milione di nuovi posti di
lavoro” creato negli ultimi quattro anni è costituito in
maggioranza da lavori temporanei e malpagati – grazie alla riforma
neoliberista del mercato del lavoro di Matteo Renzi, il
cosiddetto Jobs Act, che ha facilitato le procedure di licenziamento
e ha abrogato l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori che in
precedenza proteggeva i lavoratori dal licenziamento ingiustificato.
Perfino il primo ministro uscente, Paolo Gentiloni, ha
ammesso che “la crescita economica non ha ridotto le
disuguaglianze, anzi in molto paesi, inclusa l'Italia, continuano ad
aumentare, anche se c'è la crescita. Stanno raggiungendo livelli
ancora più intollerabili”.
Questa
polveriera sociale è stata resa ancora più pericolosa
dall'esplosione della cosiddetta crisi migratoria. A partire dal
2014, più di 600.000 migranti e richiedenti asilo sono entrati
illegalmente in Italia. Questi arrivi hanno alimentato malumori in
molti italiani, che ritengono che gli immigrati ricevano dallo stato
più assistenza di loro. Ha anche condotto a un crescente senso di
insicurezza.
Secondo
un sondaggio internazionale Ipsos del luglio 2017, il 66% degli
italiani pensa che ci siano troppi immigrati nel paese, la seconda
percentuale più alta tra i 25 paesi oggetto del sondaggio. Il
Partito Democratico, nelle parole di Francesco Ronchi, “non
ha tenuto conto di queste preoccupazioni e ha cercato di
nascondere la gravità della questione”. Nel settembre del 2016 –
al culmine della crisi migratoria, con migliaia di stranieri che
entravano in Italia attraverso la Libia – l'allora primo ministro
Renzi dichiarava: “Non c'è nessuna emergenza. C'è un po' di gente
[There are some people]”. [non sono riuscito a trovare la fonte –
ndt]
La
Trasformazione della Sinistra Italiana
Odio
e paura, disoccupazione, insicurezza e povertà: sono queste le cause
del voto di svolta del 4 marzo. Il Movimento Cinque Stelle e la Lega
si sono avvantaggiati della crescente insoddisfazione per lo status
quo, rivolgendo la loro attenzione alla sicurezza sociale
(specialmente il M5S), meno tasse (specialmente la Lega), e più
controllo sull'immigrazione (entrambi). Al contempo, gli elettori
hanno esplicitamente castigato il partito considerato il maggiore
responsabile per la situazione: il PD. Si tratta senza dubbio del
partito maggiormente penalizzato da queste elezioni, avendo visto la
somma totale dei consensi crollare per più della metà in pochi anni
(nelle elezioni europee del 2014 aveva ottenuto il 41% dei voti).
Tale esito catastrofico è un ulteriore esempio di “pasokificazione”,
nella quale partiti socialdemocratici, nominalmente di
centro-sinistra, così come le loro controparti di centro-destra,
vengono puniti dagli elettori per la loro adesione ad austerity e
neoliberismo. (Il termine pasokificazione si riferisce al partito
socialdemocratico greco PASOK, praticamente annientato nel 2014 come
conseguenza del suo futile approccio alla crisi del debito greco,
dopo aver dominato la scena politica per più di trent'anni). Tra gli
altri partiti di centro-sinistra che hanno subito lo stesso destino
ci sono il Partito Socialista Francese, il Partito Laburista Olandese
(PvdA) – e adesso il PD.
Tuttavia,
pasokificazione potrebbe essere un termine troppo tenero, nel caso
del PD. Mentre il PASOK e altre simili formazioni si sono originate
come genuini partiti socialdemocratici, e solo in seguito sono stati
corrotti dall'ideologia neoliberista, il Partito Democratico è stato
fondato nel 2007 come un partito della “terza via”, neoliberista
e centrista, in opposizione alla tradizione storica (comunista e
socialista) della sinistra italiana. Il PD sarebbe dovuto essere un
partito finalmente libero dal peso morto delle politiche di massa
della sinistra del XX Secolo, pronto ad abbracciare le magnifiche
sorti e progressive della politica post-ideologica. Basta con le
teorie totalizzanti, i conflitti di classe, l'interventismo statale e
la redistribuzione della ricchezza; avanti col liberismo economico,
il dominio del mercato, i diritti individuali (piuttosto che
sociali), l'innovazione, la governance e la politica just-in-time
[responsiveness]. La nascita del PD dovrebbe essere vista come il
punto di arrivo della pluridecennale migrazione verso destra della
sinistra post-comunista italiana. Il processo ebbe inizio nel 1991,
con la trasformazione del Partito Comunista Italiano (PCI) nel
Partito Democratico della Sinistra (PDS), già nel nome depurato di
qualsiasi riferimento al socialismo. Il nome cambiò successivamente
in Democratici di Sinistra (DS) e, alla fine, eliminando perfino ogni
riferimento alla “sinistra”, in PD. Ogni volta il partito si è
distanziato sempre di più dalla sua base d'origine, la classe
lavoratrice, per reinventarsi come il partito della (in declino)
classe medio-alta progressista.
Il
PD è la perfetta incarnazione di questo perversa convergenza
politica, comune ad altri partiti di centro-sinistra, tra il
politicamente corretto da una parte (femminismo, antirazzismo,
multiculturalismo, diritti LGBTQ, eccetera) e dall'altra l'economia
ultra-liberista (anti-statalismo, austerity fiscale,
deregolamentazione, deindustrializzazione, finanziarizzazione,
eccetera), cosa che Nancy
Fraser ha opportunamente etichettato come “neoliberismo
progressista” (2) – un'ideologia che non ha nulla da offrire alle
masse crescenti di disoccupati e lavoratori iper-sfruttati. Al
riguardo, come osserva
Nicola Melloni, colpisce il fatto che oggi il PD
...sia
l'unico partito ad avere un'autentica natura di classe, il cui
elettorato è per lo più composto da benestanti altamente istruiti.
Solo l'8% dei disoccupati e il 12% dei lavoratori dipendenti hanno
votato per il PD. Cosa ancora più interessante, secondo un sondaggio
SWG meno di un terzo degli elettori che avevano scelto il PCI nel
1988 ha votato per il PD nel 2018.
Per
farla breve, la sconfitta del PD si può comprendere solo nel
contesto della più che decennale metamorfosi della sinistra
italiana. E questa, a sua volta, può essere compresa solo nel
contesto dei profondi mutamenti intervenuti nell'economia italiana
dell'ultimo trentennio. Sotto questo aspetto, la crisi economica del
paese è solo l'epifenomeno di una crisi “strutturale” del
capitalismo italiano molto più profonda (anche se drammaticamente
accelerata dalle politiche post-crisi).
In
termini economici, l'Italia è stata de facto in crisi ben
prima del crollo del 2008. Fino alla fine degli anni 80, il paese
aveva conosciuto trent'anni di crescita relativamente solida; poi,
tra i primi e la metà degli anni 90, tutti i maggiori indicatori
economici – produttività, produzione industriale, crescita pro
capite, eccetera – cominciarono a manifestare un costante declino,
e da allora sono ristagnati. Si tratta, in gran parte, del risultato
dell'adesione a una super-struttura economica – istituita dal
trattato di Maastricht del 1992, che aprì la strada alla fondazione
della Unione Monetaria Europea (UME) nel 1999 – che era (ed è)
fondamentalmente incompatibile con la politica economica del paese.
Come
osserva acutamente Fritz
W. Scharpf, ex direttore del Max-Planck-Institut für
Gesellschaftsforschung (MPIfG) [Istituto Max Planck per lo Studio
delle Società], il regime dell'euro può essere descritto come un
processo di “convergenza strutturale forzata”, finalizzato a
imporre il modello economico dei paesi del nord (quali Germania e
Paesi Bassi), basato sui profitti da esportazione, sulle economie
profondamente diverse dei paesi meridionali, come l'Italia, che
guardano più alla dinamica
dei salari e domanda interna. Scharpf nota che “l'impatto
economico dell'attuale regime dell'euro è fondamentalmente
asimmetrico. È modellato sulle precondizioni strutturali e sugli
interessi economici dei paesi del nord, ed è in conflitto con le
condizioni strutturali delle politiche economiche meridionali –
condannate così a lunghi periodi di declino economico, stagnazione o
bassa crescita”.
Visti
i risultati particolarmente disastrosi del regime dell'euro in
Italia, la decisione di entrare nell'unione monetaria – e la
persistente difesa di quel regime da parte della classe dirigente –
potrebbe sembrare una forma di autolesionismo. Tuttavia, come
scriviamo Bill Mitchell ed io nel nostro recente volume Reclaiming
the State,
l'Unione Monetaria Europea deve essere letta come progetto tanto
economico, quanto politico. Nel corso degli anni 70 e 80, i salari in
crescita, l'aumento dei costi e una maggiore competizione
internazionale portarono a una stretta dei profitti, il che provocò
le ire dei maggiori detentori di capitale. A livello ancora più
radicale, il regime di piena occupazione “minacciava
di porre le premesse per un superamento del capitalismo”
stesso, visto che una classe operaia sempre più politicizzata stava
iniziando a fare causa comune coi movimenti di controcultura, nel
pretendere una radicale democratizzazione della società e
dell'economia. Come aveva anticipato trent'anni prima l'economista
polacco Michał Kalecki, per la classe dominante il pieno impiego non
era diventato una semplice minaccia economica,
ma anche politica.
Comprensibilmente, la questione suscitava la preoccupazione delle
élite, come illustrato dai molti documenti prodotti a suo tempo.
La
Sovranità Nazionale e il Paradosso della Debolezza
Lo
spesso citato rapporto del 1975 Crisi
della Democrazia
della Commissione Trilaterale, affermava, dal punto di vista
dell'establishment, che erano necessarie contromisure a più livelli.
Non solo era favorevole a una riduzione del potere contrattuale dei
lavoratori, ma anche alla promozione di “un maggior grado di
moderazione nella democrazia” e un maggior disimpegno (o “non
coinvolgimento”) della società civile rispetto all'operare del
sistema politico, da ottenersi per mezzo della diffusione
dell'”apatia”. In questo contesto, si capisce meglio perché le
élite europee abbiano abbracciato i “vincoli esterni” dell'UME
come un sistema per depoliticizzare la politica economica, in modo da
sottrarre al controllo democratico e parlamentare le politiche
macroeconomiche, per mezzo di un auto-imposta riduzione della
sovranità nazionale. Il loro obbiettivo non era semplicemente quello
di mettere le politiche economiche fuori dalla portata delle sfide
popolar-democratiche, ma anche quello di ridurre il costo politico
della transizione neoliberista, che chiaramente implicava scelte
impopolari, scaricando la responsabilità di tali misure su fattori e
istituzioni esterne. Si può dire che questa sia l'incarnazione di
quello che Edgar Grande chiama
il “paradosso della debolezza”, per il quale le élite nazionali
trasferiscono una parte del potere a un decisore sovranazionale
(apparendo in tal modo più deboli) per essere in grado di sopportare
meglio la pressione da parte degli attori sociali, asserendo che “lo
vuole l'Europa” (e divenendo così più forti). Come dice Kevin
Featherstone: “Gli impegni vincolanti della UE permettono ai
governi di varare riforme impopolari nei loro paesi, e nel contempo
darne la colpa alla UE, anche
se essi stessi desideravano attuarle”
(corsivo mio).
Nel
caso dell'Italia questo è quantomai chiaro. Probabilmente lo si deve
al fatto che l'economia mista, statocentrica, dell'Italia del
dopoguerra è stata vista dalle classi dirigenti come decisamente
incompatibile col paradigma neoliberista emerso negli anni 80. In
questa prospettiva, l'Italia aveva bisogno di “riforme”
energiche, anche in assenza di qualsiasi consenso popolare. Così,
Maastricht venne vista da una gran parte dell'establishment italiano
come lo strumento per realizzare la trasformazione radicale – o
neoliberalizzazione – della politica economica del paese. Guido
Carli, importante ministro dell'economia tra il 1989 e il 1992, non
ne fa un segreto. Nelle sue memorie Carli scriveva:
L'Unione
Europea implica (…) l'abbandono dell'economia mista, l'abbandono
della pianificazione economica, la ridefinizione dei parametri della
composizione della spesa pubblica, la restrizione dei poteri delle
assemblee parlamentari a favore di quelli dei governi (…) la
cancellazione del concetto di servizi sociali gratuiti (e la
conseguente riforma del sistema sanitario e della sicurezza sociale)
(…) la riduzione della presenza dello Stato nel sistema finanziario
e industriale (…) l'abbandono di dazi e controllo dei prezzi.
È
evidente che Carli concepiva l'Unione Europea soprattutto come un
mezzo per imporre nientemeno che la trasformazione integrale
dell'economia italiana – una trasformazione che non sarebbe stata
possibile, o lo sarebbe stata con molta difficoltà, senza gli
autoimposti vincoli esterni creati prima da Maastricht , quindi
dall'euro. È così che, ad esempio, il governo Amato riuscì nel
1992 la CGIL a porre termine alla scala mobile, che collegava i
salari all'inflazione, non confrontandosi direttamente coi
lavoratori, ma essenzialmente richiamandosi al vincolo esterno del
Sistema Monetario Europeo (SME), sistema di cambio semi-fisso che
avrebbe spianato la strada all'euro. Carli stesso riconobbe che
“l'Unione Europea rappresentava un percorso alternativo per la
soluzione di problemi che non riuscivamo a gestire attraverso i
normali canali di governo e parlamento”. Perciò, la decisione
italiana di aderire allo SME e quindi all'UME non si può comprendere
unicamente all'interno di interessi a carattere nazionale. Piuttosto,
come ha sottolineato James Heartfield, la si dovrebbe vedere come lo
strumento con cui una parte della “comunità nazionale” (l'élite
politica ed economica) è riuscita a depotenziarne un'altra (i
lavoratori).
Il
Capitalismo Comprador in Italia
Dal
punto di vista dell'establishment, il fatto che l'Unione Monetaria
Europea comportasse anche la deindustrializzazione e
“mezzogiornificazione” del paese – a beneficio delle imprese
tedesche e francesi, che acquisirono un gran numero di attività (o
comunque una loro quota importante) in Italia e in altri paesi
periferici – e la sua retrocessione a un ruolo subordinato
all'interno della gerarchia europea di potere, è stato un piccolo
prezzo da pagare per la vittoria in patria contro le classi
lavoratrici. In questo senso, il regime economico dell'Italia
post-Maastricht può essere accostato a una forma di capitalismo
comprador – un regime semi-coloniale in cui le classi dominanti di
un paese in pratica si alleano con interessi stranieri in cambio di
rapporti di classe più favorevoli in patria. Ironicamente, la
sinistra post-comunista ha rivestito un ruolo cruciale nel dare
legittimità alla narrazione del vincolo esterno; già nei primi anni
90, la sua sottomissione al neoliberismo era talmente profonda che i
suoi maggiori rappresentanti si erano convinti che l'Unione Europea
fosse davvero per l'Italia l'imperdibile occasione di unirsi
finalmente alla famiglia delle nazioni “moderne” e “virtuose”.
Non è una coincidenza che l'economica “terapia d'urto” degli
anni 90 (in particolare lo smantellamento e la privatizzazione del
settore, una volta imponente, delle industrie di stato) venne
patrocinato in gran parte da governi di centro-sinistra.
La
medesima logica del vincolo esterno la vediamo all'opera anche oggi.
È sempre più evidente, ad esempio, che la cosiddetta crisi del
debito sovrano del 2010-2011 non è stata una risposta “naturale”
dei mercati all'“eccessivo” debito pubblico italiano, ma
un'azione in larga parte “architettata” dalla Banca Centrale
Europea (BCE) mirata a forzare gli stati a implementare l'austerity.
Come ha
osservato di recente Luigi Zingales, docente di finanza alla
University of Chicago, alla fine la BCE è intervenuta sul mercato
dei titoli italiani, ma solo dopo una lunga attesa:
“Questo
ritardo non era dovuto a incompetenza, ma al palese desiderio di
imporre la 'disciplina del mercato' – cioè fare pressione sul
governo perché migliorasse la situazione fiscale. È stata una forma
di violenza economica che ha lasciato l'economia italiana in rovina e
gli elettori italiani legittimamente furiosi nei confronti delle
istituzioni europee”.
La
crisi del debito, combinata con le ritardate reazioni della BCE,
portò a invocazioni
isteriche da parte dei media perché si mettesse freno al deficit
per mezzo di misure di austerity d'emergenza, e portò al governo
“tecnocratico” di Mario Monti. Ma la sola ragione per cui
l'Italia aveva sperimentato una “crisi del debito sovrano” fu, in
primo luogo, il fatto che, come tutti i paesi dell'eurozona,
utilizzava di fatto una valuta straniera. Proprio come un singolo
stato (ad esempio) degli Stati Uniti o dell'Australia, i paesi
dell'eurozona accedono a prestiti in una valuta su cui non hanno
alcun controllo (non possono né fissare i tassi di interesse né
rinnovare il debito emettendo nuova moneta, e perciò, a differenza
dei paesi che contraggono debiti nella loro propria valuta, sono a
rischio di insolvenza [default]). Come testimonia un recente rapporto
della BCE “sebbene l'euro sia una moneta a corso forzoso [fiat
currency], le autorità fiscali degli stati che vi aderiscono hanno
rinunciato alla capacità di contrarre un debito non passibile di
default”.
Ciò
conferisce un potere enorme alla BCE, che non è eletta da alcuno e
non risponde ad alcuno, che può usare (e di fatto usa) il suo potere
di emissione monetaria per imporre le proprie politiche sui governi
recalcitranti (come ha fatto con la Grecia nel 2015, quando ha
tagliato la liquidità d'emergenza alle banche greche per costringere
il governo di Syriza a invertire la rotta e accettare il terzo
memorandum di salvataggio), o addirittura ottenerne le dimissioni,
com'è successo in Italia nel 2011. Come ha di recente riconosciuto
il Financial
Times, la BCE ha di fatto “costretto Silvio Berlusconi ad
abbandonare la sua carica a favore del mai eletto Mario Monti”,
ponendo le sue dimissioni come condizione per l'ulteriore sostegno da
parte della BCE alle banche e ai titoli italiani. Questo esemplifica
ciò che il grande economista britannico Wynne Godley† intendeva
scrivendo,
nel lontano 1992, che “se un paese rinuncia o perde [il potere di
emettere la propria moneta], acquisisce lo status o di autorità
locale o di colonia”.
Per
l'establishment politico italiano quell'esperienza fu un efficace
memento del patto faustiano che aveva firmato aderendo all'eurozona.
Rinunciando alla sovranità economica del proprio paese, avevano
messo la loro sopravvivenza politica nelle mani di tecnocrati che
nessuno ha mai eletto. È una lezione che anche il PD ha imparato a
proprie spese, dopo anni di infinite (e alla fine inutili)
contrattazioni con la Commissione Europea al fine di ottenere un
minimo grado di “flessibilità fiscale”. La potremmo chiamare la
vendetta della depoliticizzazione: una strategia che si era mostrata
positiva per gli obbiettivi interni delle élite locali fintanto che
il regime dell'euro aveva potuto garantire un minimo di crescita ai
paesi della periferia.
Ma
adesso che le contraddizioni fondamentali del sistema Europa sono
venute a galla, le élite politiche italiane si sono ritrovate prive
degli strumenti economici per mantenere il consenso sociale. Come
scrive Scharpf, nei paesi come l'Italia l'unione monetaria non ha
comportato solo pesanti costi socioeconomici, ma ha anche avuto
“l'effetto di distruggere la legittimità democratica dei governi”.
Uno
dei corollari di questa perdita di legittimità democratica è che
gli appelli alla logica del vincolo esterno non hanno più il peso
che avevano in precedenza. I cittadini – non solo quelli italiani –
sono disposti sempre di meno a giustificare lo status quo in
base a norme arbitrarie e punitive e diktat esterni, la cui natura
politica (cioè non neutrale) diventa sempre più evidente. Lo
dimostra il fatto che i tentativi da parte dell'establishment
italiano ed europeo di screditare le proposte “populiste” a causa
della loro presunta insostenibilità fiscale, minaccia alla stabilità
finanziaria o incompatibilità con la normativa europea, è
clamorosamente fallito. Anzi, è stato controproducente. Come lo sono
state, dal punto di vista dell'establishment, le affermazioni, da
parte dei maggiori rappresentanti dellUE, che qualsiasi nuovo governo
si debba adeguare alle decisioni prese da quelli precedenti. Dato che
sempre più ci si rende conto della natura antidemocratica
e neocoloniale dell'Unione Europea, simili tattiche intimidatorie
non funzionano più. In questa chiave, il voto del 4 marzo non è
stato tanto un voto “contro l'Europa” – anche se i partiti
tradizionalmente europeisti sono stati severamente castigati –
quanto un voto contro la depoliticizzazione, e a favore dio una
ripoliticizzazione del processo decisionale nazionale. Cioè per un
maggior grado di controllo collettivo sulla politica e la società,
che di necessità può essere esercitato solo a livello nazionale.
Il
Futuro dell'Italia
È
possibile, per i partiti “anti establishment” che hanno dato voce
a quest'esigenza di ripoliticizzazione – Movimento Cinque Stelle e
Lega – soddisfare le aspettative? È improbabile. Alla fine dei
conti, nessuno dei due partiti offre una alternativa praticabile allo
status quo, almeno in termini di politica economica. Il
programma economico della Lega è tuttora piuttosto neoliberista: la
proposta economica principale del partito è una flat tax che
sostituisca l'attuale tassazione (più o meno) progressiva, una
proposta chiaramente regressiva, con l'aggiunta di qualche iniziativa
di protezione sociale (abolizione della legge Fornero, che ha
allungato l'età pensionabile). In modo analogo, il programma del M5S
“non è nemmeno lontanamente il programma di una formazione
progressista”, come
scrive Nicola Melloni. Anche se la sua immagine, come quella di
movimenti populisti di sinistra quali Podemos e Occupy, è costruita
sulla contrapposizione tra popolo e oligarchia, il M5S riduce questa
oligarchia “a una 'casta' politica corrotta” dice Melloni.
“Fattori economici come la relazione tra capitale e lavoro, le
disuguaglianze, o lo stesso capitalismo, sono assenti. Piuttosto, si
tratta di una formazione populista ma di centro – abbastanza
opportunista da cavalcare qualsiasi battaglia che possa riscuotere
consensi, ma priva dell'ambizione di cambiare, o anche solo di
riformare, il sistema”. In questo senso, essi sono l'esempio
perfetto dei “fenomeni morbosi” di cui parlava Gramsci.
Cosa
più importante, anche se il M5S e la Lega avessero davvero
intenzione di cambiare il sistema, per farlo dovrebbero mettere in
discussione il regime dell'euro, ma nessuno dei due sembra volerlo.
Sebbene entrambi i partiti vengano descritti come euroscettici, o
addirittura come anti-europeisti, sono stati prontissimi a giurare
fedeltà all'Unione Europea, prima e dopo il voto. Finché
manterranno questa posizione, il loro fallimento è una certezza.
Come detto più sopra, le istituzioni europee hanno un nutrito
arsenale di strumenti “per sottomettere, e all'occorrenza
rendere impotente la funzionalità democratica dei governi del sud”
come dice Scharpf. “Anche se l'Italia possiede un potere
contrattuale maggiore di quello della Grecia, finanziariamente la si
può ugualmente strangolare”, scrive
Zingales, come è successo alla Grecia nel 2015, se venisse
percepita come una minaccia al regime neocoloniale dell'Europa.
In
conclusione, a prescindere dai risultati dei negoziati, o anche nella
prospettiva di eventuali nuove elezioni, la crisi organica
dell'Italia è qui, e qui resterà. E non avrà soluzione finché non
se ne affronterà la causa essenziale: la fondamentale
incompatibilità tra la politica economica italiana e la moneta
unica.
Note
(1)
Un governo con un avanzo primario sta spendendo nell'economia reale
meno di quanto ne estragga attraverso la tassazione, e quindi sta
sottraendo ricchezza all'economia, di solito per ridistribuirla ai
titolari, interni ed esteri, di titoli di stato (in genere banche o
individui affluenti). Il buon senso economico suggerirebbe che un
governo coinvolto in una recessione dovrebbe comportarsi esattamente
all'opposto: produrre deficit per stimolare l'attività economica.
(2)
Vedi anche Nancy
Fraser, “From
Progressive Neoliberalism to Trump—and Beyond,”
American
Affairs
1, no. 2 (Winter 2017): 46–64.
dello stesso autore: Per una Sinistra di Nuovo Grande
Notevole
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