martedì 29 maggio 2018

La Crisi Organica dell'Italia

di Thomas Fazi (dall'American Affairs Journal)
traduzione di Domenico D'Amico

Se un paese rinuncia o perde il potere di emettere la propria moneta, acquisisce lo status o di autorità locale o di colonia.


Il marxista italiano Antonio Gramsci coniò il termine “crisi organica” per descrivere un genere di crisi che si differenzia dalle “normali” crisi, finanziarie, economiche o politiche. Una crisi organica è una “crisi onnicomprensiva” che coinvolge la totalità di un ordine (o sistema) che, quali che siano le ragioni, non è più in grado di generare consenso sociale (in termini ideologici o materiali). Le contraddizioni essenziali che tale genere di crisi insinua nel sistema non possono essere affrontate dalle classi dirigenti. Le crisi organiche sono allo stesso tempo economiche, politiche, sociali e ideologiche – in termini gramsciani, sono crisi di egemonia – e di solito conducono al rigetto nei confronti dei partiti politici istituzionali, delle politiche economiche e delle scale dei valori.
Tuttavia, esse non portano di necessità a un rapido collasso dell'ordine dominante. Gramsci ha definito queste situazioni come interregna in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere” e possono manifestarsi “i fenomeni morbosi più svariati” [Quaderno 3 (XX) § (34) ndt]
Gramsci parlava dell'Italia degli anni 10 del Novecento. A distanza di un secolo, il paese si trova di fronte a un'altra crisi organica. Più precisamente, si tratta di una crisi del modello dopo-Maastricht del capitalismo italiano, avviato nei primi anni 90.
Tale modello, a mio avviso, potrebbe essere descritto come un genere peculiare di capitalismo comprador – termine utilizzato di solito nel contesto del vecchio sistema coloniale per descrivere un regime nel quale le classi dominanti di un paese formano un'alleanza con gruppi di interesse stranieri in cambio di un ruolo subordinato all'interno della gerarchia di potere. Sebbene la crisi abbia covato per qualche tempo sotto la cenere, nelle ultime elezioni politiche, tenute il 4 marzo 2018, è venuta allo scoperto.
I risultati di queste elezioni sono noti. La classe politica che ha governato l'Italia nell'ultimo quarto di secolo, rappresentata dal Partito Democratico (PD) e da Forza Italia, ha subito un crollo senza precedenti, ricevendo, rispettivamente, il 18,7 e il 14% dei voti. A fronte di ciò, i due maggiori partiti “anti-establishment” - il Movimento Cinque Stelle (M5S) e la Lega Nord (Lega) – hanno visto uno spettacolare balzo in avanti, ottenendo, rispettivamente, il 32.7 e il 17,4% dei consensi. Nell'insieme, la coalizione di centro-destra – che include, oltre alla Lega Nord (ora il partito maggiore della coalizione), Forza Italia di Silvio Berlusconi e la piccola formazione post-fascista Fratelli d'Italia – ha ottenuto il 367% dei voti. Tutte le altre formazioni – dall'ultra-liberista ed europeista +Europa, coalizzato col PD, al partito di centro-sinistra Liberi e Uguali, una scheggia del PD che ha fatto campagna contro di esso, e infine alla sinistra radicale di Potere al Popolo – hanno fallito miseramente. Di questi, solo Liberi e Uguali ha superato la soglia minima del 3% necessaria per entrare in parlamento.
Chi siano i perdenti è evidente, mentre manca un indiscusso vincitore. La nuova legge elettorale – approvata nel 2017 da PD, Forza Italia e Lega Nord, con l'intento manifesto di ostacolare il Movimento Cinque Stelle – richiede che ogni partito, o coalizione di partiti, che voglia formare una maggioranza e quindi un governo, debba ottenere almeno il 40% dei voti (alle elezioni o con accordi post-elettorali). Negli ultimi due mesi e mezzo, M5S e Lega – i due candidati più ovvi per la formazione di una coalizione fattibile – sono stati impegnati in negoziati febbrili. Al momento della stesura di quest'articolo, sembrerebbe che si sia raggiunto un accordo tra i due partiti, anche se i dettagli non sono ancora di dominio pubblico. Il profilo del prossimo governo italiano, perciò, resta ancora indefinito. Non possiamo nemmeno escludere la possibilità che i due partiti non riescano a superare l'attuale impasse, il che porterebbe il presidente a nominare un esecutivo temporaneo “tecnocratico”, o addirittura a indire nuove elezioni. In ogni caso, qualsiasi sia l'esito dei negoziati, una cosa è chiara: queste elezioni hanno mutato per sempre il panorama politico italiano.

I Frutti dell'Austerità
Il crollo dei partiti istituzionali – e l'ascesa di quelli “populisti” – può essere compreso solo nel contesto della “recessione più grave e più lunga della storia italiana”, come afferma il governatore della banca centrale italiana, Ignazio Visco. A partire dalla crisi finanziaria del 2007-2009, il PIL italiano si è ridotto di un abbondante 10%, retrocedendo a livelli di più di dieci anni fa. Riguardo il PIL pro capite, la situazione è perfino peggiore: in questi termini la situazione italiana è regredita a quella di vent'anni fa, cioè a prima che il paese divenisse un membro fondatore della moneta unica. L'Italia e la Grecia sono i soli paesi industrializzati la cui economia non ha ancora recuperato sui livelli pre-crisi finanziaria. Il risultato è che circa il 20% delle capacità industriali dell'Italia sono andate distrutte, e il 30% delle imprese ha chiuso i battenti. Si tratta di una distruzione di ricchezza che, a sua volta, ha scosso le fondamenta del sistema bancario, che è stato (ed è tuttora) colpito dalle sofferenze delle piccole e medie imprese (PMI).
La crisi occupazionale italiana continua a essere una delle peggiori d'Europa. L'Italia ha un tasso ufficiale di disoccupazione dell'11% (12% al sud) e un tasso di disoccupazione giovanile del 35% (con picchi del 60% in alcune regioni meridionali). E non consideriamo nemmeno i sotto-occupati e i lavoratori scoraggiati (persone che hanno rinunciato alla ricerca di impiego, e che quindi non figurano nelle statistiche ufficiali). Se lo facessimo, arriveremmo a uno sbalorditivo tasso di disoccupazione del 30%, che sarebbe il più alto d'Europa. In anni recenti anche il tasso di povertà è cresciuto drammaticamente: il 23% della popolazione, circa un italiano su quattro, è oggi a rischio di povertà – il livello più alto dal 1989.
Queste cifre spaventose sono il risultato di cause sia strutturali sia congiunturali, anche se, è ovvio, collegate tra loro. Da un punto di vista congiunturale sono in larga parte la conseguenza della severa politica di austerità messa in atto tra il 2011 e il 2013 dal governo “tecnocratico” di Mario Monti. Monti stesso, in un'intervista alla CNN, ammetteva che l'obbiettivo della politica di austerity era quello di “distruggere la domanda interna mediante il consolidamento fiscale [i.e. Il risanamento di bilancio – ndt]”. Queste politiche proseguirono con tutti i governi successivi, incluso quello di Renzi (2014-2016) e quello uscente presieduto da Paolo Gentiloni.
Effettivamente, il “successo” della distruzione della domanda interna da parte di Monti viene ora confermato da uno studio nascosto nei recessi di un allegato all'ultimo documento programmatico di bilancio italiano, studio che arriva alla conclusione che le misure di consolidamento fiscale (tagli alle spese e aumento delle tasse) perseguite nel periodo 2012-2015 hanno ridotto il PIL italiano di quasi il 5% (circa 75 miliardi di euro l'anno, per un totale sbalorditivo di circa 300 miliardi), i consumi del 4%, gli investimenti del 10%, per via degli gli “effetti recessivi del consolidamento fiscale sia sul PIL sia sulle principali componenti della domanda (consumi e investimenti)”.
Sebbene lo studio in questione prenda in esame un periodo di tempo che giunge solo al 2015, negli ultimi anni la posizione fiscale restrittiva dei governi è rimasta pressoché immutata. Anzi, l'Italia è uno dei pochi paesi ad aver mantenuto un significativo avanzo primario di bilancio [cioè entrate superiori alle spese, al netto della spesa per interessi – ndt] – equivalente oggi a circa l'1,5% del PIL – per tutto il periodo della recessione post-crisi, ad onta di ogni buon senso economico (1). La conseguenza è stata una cruda riduzione dello stato sociale (particolarmente in campo sanitario). Allo stesso tempo, una serie sempre più folta di nuove imposte ha generato scontento sia nella piccola sia nella media impresa.
Il Partito Democratico (PD) è stato al governo sin dal 2013 e ha supervisionato per più di cinque anni l'austerity e le “riforme strutturali” imposte dalla UE. Dati gli effetti disastrosi di queste politiche, c'è poco da essere sorpresi se gli elettori si siano fatti beffe della retorica del governo uscente sulla “ripresa economica”. Il tanto pubblicizzato “milione di nuovi posti di lavoro” creato negli ultimi quattro anni è costituito in maggioranza da lavori temporanei e malpagati – grazie alla riforma neoliberista del mercato del lavoro di Matteo Renzi, il cosiddetto Jobs Act, che ha facilitato le procedure di licenziamento e ha abrogato l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori che in precedenza proteggeva i lavoratori dal licenziamento ingiustificato. Perfino il primo ministro uscente, Paolo Gentiloni, ha ammesso che “la crescita economica non ha ridotto le disuguaglianze, anzi in molto paesi, inclusa l'Italia, continuano ad aumentare, anche se c'è la crescita. Stanno raggiungendo livelli ancora più intollerabili”.
Questa polveriera sociale è stata resa ancora più pericolosa dall'esplosione della cosiddetta crisi migratoria. A partire dal 2014, più di 600.000 migranti e richiedenti asilo sono entrati illegalmente in Italia. Questi arrivi hanno alimentato malumori in molti italiani, che ritengono che gli immigrati ricevano dallo stato più assistenza di loro. Ha anche condotto a un crescente senso di insicurezza.
Secondo un sondaggio internazionale Ipsos del luglio 2017, il 66% degli italiani pensa che ci siano troppi immigrati nel paese, la seconda percentuale più alta tra i 25 paesi oggetto del sondaggio. Il Partito Democratico, nelle parole di Francesco Ronchi, “non ha tenuto conto di queste preoccupazioni e ha cercato di nascondere la gravità della questione”. Nel settembre del 2016 – al culmine della crisi migratoria, con migliaia di stranieri che entravano in Italia attraverso la Libia – l'allora primo ministro Renzi dichiarava: “Non c'è nessuna emergenza. C'è un po' di gente [There are some people]”. [non sono riuscito a trovare la fonte – ndt]

La Trasformazione della Sinistra Italiana
Odio e paura, disoccupazione, insicurezza e povertà: sono queste le cause del voto di svolta del 4 marzo. Il Movimento Cinque Stelle e la Lega si sono avvantaggiati della crescente insoddisfazione per lo status quo, rivolgendo la loro attenzione alla sicurezza sociale (specialmente il M5S), meno tasse (specialmente la Lega), e più controllo sull'immigrazione (entrambi). Al contempo, gli elettori hanno esplicitamente castigato il partito considerato il maggiore responsabile per la situazione: il PD. Si tratta senza dubbio del partito maggiormente penalizzato da queste elezioni, avendo visto la somma totale dei consensi crollare per più della metà in pochi anni (nelle elezioni europee del 2014 aveva ottenuto il 41% dei voti). Tale esito catastrofico è un ulteriore esempio di “pasokificazione”, nella quale partiti socialdemocratici, nominalmente di centro-sinistra, così come le loro controparti di centro-destra, vengono puniti dagli elettori per la loro adesione ad austerity e neoliberismo. (Il termine pasokificazione si riferisce al partito socialdemocratico greco PASOK, praticamente annientato nel 2014 come conseguenza del suo futile approccio alla crisi del debito greco, dopo aver dominato la scena politica per più di trent'anni). Tra gli altri partiti di centro-sinistra che hanno subito lo stesso destino ci sono il Partito Socialista Francese, il Partito Laburista Olandese (PvdA) – e adesso il PD.
Tuttavia, pasokificazione potrebbe essere un termine troppo tenero, nel caso del PD. Mentre il PASOK e altre simili formazioni si sono originate come genuini partiti socialdemocratici, e solo in seguito sono stati corrotti dall'ideologia neoliberista, il Partito Democratico è stato fondato nel 2007 come un partito della “terza via”, neoliberista e centrista, in opposizione alla tradizione storica (comunista e socialista) della sinistra italiana. Il PD sarebbe dovuto essere un partito finalmente libero dal peso morto delle politiche di massa della sinistra del XX Secolo, pronto ad abbracciare le magnifiche sorti e progressive della politica post-ideologica. Basta con le teorie totalizzanti, i conflitti di classe, l'interventismo statale e la redistribuzione della ricchezza; avanti col liberismo economico, il dominio del mercato, i diritti individuali (piuttosto che sociali), l'innovazione, la governance e la politica just-in-time [responsiveness]. La nascita del PD dovrebbe essere vista come il punto di arrivo della pluridecennale migrazione verso destra della sinistra post-comunista italiana. Il processo ebbe inizio nel 1991, con la trasformazione del Partito Comunista Italiano (PCI) nel Partito Democratico della Sinistra (PDS), già nel nome depurato di qualsiasi riferimento al socialismo. Il nome cambiò successivamente in Democratici di Sinistra (DS) e, alla fine, eliminando perfino ogni riferimento alla “sinistra”, in PD. Ogni volta il partito si è distanziato sempre di più dalla sua base d'origine, la classe lavoratrice, per reinventarsi come il partito della (in declino) classe medio-alta progressista.
Il PD è la perfetta incarnazione di questo perversa convergenza politica, comune ad altri partiti di centro-sinistra, tra il politicamente corretto da una parte (femminismo, antirazzismo, multiculturalismo, diritti LGBTQ, eccetera) e dall'altra l'economia ultra-liberista (anti-statalismo, austerity fiscale, deregolamentazione, deindustrializzazione, finanziarizzazione, eccetera), cosa che Nancy Fraser ha opportunamente etichettato come “neoliberismo progressista” (2) – un'ideologia che non ha nulla da offrire alle masse crescenti di disoccupati e lavoratori iper-sfruttati. Al riguardo, come osserva Nicola Melloni, colpisce il fatto che oggi il PD

...sia l'unico partito ad avere un'autentica natura di classe, il cui elettorato è per lo più composto da benestanti altamente istruiti. Solo l'8% dei disoccupati e il 12% dei lavoratori dipendenti hanno votato per il PD. Cosa ancora più interessante, secondo un sondaggio SWG meno di un terzo degli elettori che avevano scelto il PCI nel 1988 ha votato per il PD nel 2018.

Per farla breve, la sconfitta del PD si può comprendere solo nel contesto della più che decennale metamorfosi della sinistra italiana. E questa, a sua volta, può essere compresa solo nel contesto dei profondi mutamenti intervenuti nell'economia italiana dell'ultimo trentennio. Sotto questo aspetto, la crisi economica del paese è solo l'epifenomeno di una crisi “strutturale” del capitalismo italiano molto più profonda (anche se drammaticamente accelerata dalle politiche post-crisi).
In termini economici, l'Italia è stata de facto in crisi ben prima del crollo del 2008. Fino alla fine degli anni 80, il paese aveva conosciuto trent'anni di crescita relativamente solida; poi, tra i primi e la metà degli anni 90, tutti i maggiori indicatori economici – produttività, produzione industriale, crescita pro capite, eccetera – cominciarono a manifestare un costante declino, e da allora sono ristagnati. Si tratta, in gran parte, del risultato dell'adesione a una super-struttura economica – istituita dal trattato di Maastricht del 1992, che aprì la strada alla fondazione della Unione Monetaria Europea (UME) nel 1999 – che era (ed è) fondamentalmente incompatibile con la politica economica del paese.
Come osserva acutamente Fritz W. Scharpf, ex direttore del Max-Planck-Institut für Gesellschaftsforschung (MPIfG) [Istituto Max Planck per lo Studio delle Società], il regime dell'euro può essere descritto come un processo di “convergenza strutturale forzata”, finalizzato a imporre il modello economico dei paesi del nord (quali Germania e Paesi Bassi), basato sui profitti da esportazione, sulle economie profondamente diverse dei paesi meridionali, come l'Italia, che guardano più alla dinamica dei salari e domanda interna. Scharpf nota che “l'impatto economico dell'attuale regime dell'euro è fondamentalmente asimmetrico. È modellato sulle precondizioni strutturali e sugli interessi economici dei paesi del nord, ed è in conflitto con le condizioni strutturali delle politiche economiche meridionali – condannate così a lunghi periodi di declino economico, stagnazione o bassa crescita”.
Visti i risultati particolarmente disastrosi del regime dell'euro in Italia, la decisione di entrare nell'unione monetaria – e la persistente difesa di quel regime da parte della classe dirigente – potrebbe sembrare una forma di autolesionismo. Tuttavia, come scriviamo Bill Mitchell ed io nel nostro recente volume Reclaiming the State, l'Unione Monetaria Europea deve essere letta come progetto tanto economico, quanto politico. Nel corso degli anni 70 e 80, i salari in crescita, l'aumento dei costi e una maggiore competizione internazionale portarono a una stretta dei profitti, il che provocò le ire dei maggiori detentori di capitale. A livello ancora più radicale, il regime di piena occupazione “minacciava di porre le premesse per un superamento del capitalismo” stesso, visto che una classe operaia sempre più politicizzata stava iniziando a fare causa comune coi movimenti di controcultura, nel pretendere una radicale democratizzazione della società e dell'economia. Come aveva anticipato trent'anni prima l'economista polacco Michał Kalecki, per la classe dominante il pieno impiego non era diventato una semplice minaccia economica, ma anche politica. Comprensibilmente, la questione suscitava la preoccupazione delle élite, come illustrato dai molti documenti prodotti a suo tempo.

La Sovranità Nazionale e il Paradosso della Debolezza
Lo spesso citato rapporto del 1975 Crisi della Democrazia della Commissione Trilaterale, affermava, dal punto di vista dell'establishment, che erano necessarie contromisure a più livelli. Non solo era favorevole a una riduzione del potere contrattuale dei lavoratori, ma anche alla promozione di “un maggior grado di moderazione nella democrazia” e un maggior disimpegno (o “non coinvolgimento”) della società civile rispetto all'operare del sistema politico, da ottenersi per mezzo della diffusione dell'”apatia”. In questo contesto, si capisce meglio perché le élite europee abbiano abbracciato i “vincoli esterni” dell'UME come un sistema per depoliticizzare la politica economica, in modo da sottrarre al controllo democratico e parlamentare le politiche macroeconomiche, per mezzo di un auto-imposta riduzione della sovranità nazionale. Il loro obbiettivo non era semplicemente quello di mettere le politiche economiche fuori dalla portata delle sfide popolar-democratiche, ma anche quello di ridurre il costo politico della transizione neoliberista, che chiaramente implicava scelte impopolari, scaricando la responsabilità di tali misure su fattori e istituzioni esterne. Si può dire che questa sia l'incarnazione di quello che Edgar Grande chiama il “paradosso della debolezza”, per il quale le élite nazionali trasferiscono una parte del potere a un decisore sovranazionale (apparendo in tal modo più deboli) per essere in grado di sopportare meglio la pressione da parte degli attori sociali, asserendo che “lo vuole l'Europa” (e divenendo così più forti). Come dice Kevin Featherstone: “Gli impegni vincolanti della UE permettono ai governi di varare riforme impopolari nei loro paesi, e nel contempo darne la colpa alla UE, anche se essi stessi desideravano attuarle” (corsivo mio).
Nel caso dell'Italia questo è quantomai chiaro. Probabilmente lo si deve al fatto che l'economia mista, statocentrica, dell'Italia del dopoguerra è stata vista dalle classi dirigenti come decisamente incompatibile col paradigma neoliberista emerso negli anni 80. In questa prospettiva, l'Italia aveva bisogno di “riforme” energiche, anche in assenza di qualsiasi consenso popolare. Così, Maastricht venne vista da una gran parte dell'establishment italiano come lo strumento per realizzare la trasformazione radicale – o neoliberalizzazione – della politica economica del paese. Guido Carli, importante ministro dell'economia tra il 1989 e il 1992, non ne fa un segreto. Nelle sue memorie Carli scriveva:

L'Unione Europea implica (…) l'abbandono dell'economia mista, l'abbandono della pianificazione economica, la ridefinizione dei parametri della composizione della spesa pubblica, la restrizione dei poteri delle assemblee parlamentari a favore di quelli dei governi (…) la cancellazione del concetto di servizi sociali gratuiti (e la conseguente riforma del sistema sanitario e della sicurezza sociale) (…) la riduzione della presenza dello Stato nel sistema finanziario e industriale (…) l'abbandono di dazi e controllo dei prezzi.

È evidente che Carli concepiva l'Unione Europea soprattutto come un mezzo per imporre nientemeno che la trasformazione integrale dell'economia italiana – una trasformazione che non sarebbe stata possibile, o lo sarebbe stata con molta difficoltà, senza gli autoimposti vincoli esterni creati prima da Maastricht , quindi dall'euro. È così che, ad esempio, il governo Amato riuscì nel 1992 la CGIL a porre termine alla scala mobile, che collegava i salari all'inflazione, non confrontandosi direttamente coi lavoratori, ma essenzialmente richiamandosi al vincolo esterno del Sistema Monetario Europeo (SME), sistema di cambio semi-fisso che avrebbe spianato la strada all'euro. Carli stesso riconobbe che “l'Unione Europea rappresentava un percorso alternativo per la soluzione di problemi che non riuscivamo a gestire attraverso i normali canali di governo e parlamento”. Perciò, la decisione italiana di aderire allo SME e quindi all'UME non si può comprendere unicamente all'interno di interessi a carattere nazionale. Piuttosto, come ha sottolineato James Heartfield, la si dovrebbe vedere come lo strumento con cui una parte della “comunità nazionale” (l'élite politica ed economica) è riuscita a depotenziarne un'altra (i lavoratori).

Il Capitalismo Comprador in Italia
Dal punto di vista dell'establishment, il fatto che l'Unione Monetaria Europea comportasse anche la deindustrializzazione e “mezzogiornificazione” del paese – a beneficio delle imprese tedesche e francesi, che acquisirono un gran numero di attività (o comunque una loro quota importante) in Italia e in altri paesi periferici – e la sua retrocessione a un ruolo subordinato all'interno della gerarchia europea di potere, è stato un piccolo prezzo da pagare per la vittoria in patria contro le classi lavoratrici. In questo senso, il regime economico dell'Italia post-Maastricht può essere accostato a una forma di capitalismo comprador – un regime semi-coloniale in cui le classi dominanti di un paese in pratica si alleano con interessi stranieri in cambio di rapporti di classe più favorevoli in patria. Ironicamente, la sinistra post-comunista ha rivestito un ruolo cruciale nel dare legittimità alla narrazione del vincolo esterno; già nei primi anni 90, la sua sottomissione al neoliberismo era talmente profonda che i suoi maggiori rappresentanti si erano convinti che l'Unione Europea fosse davvero per l'Italia l'imperdibile occasione di unirsi finalmente alla famiglia delle nazioni “moderne” e “virtuose”. Non è una coincidenza che l'economica “terapia d'urto” degli anni 90 (in particolare lo smantellamento e la privatizzazione del settore, una volta imponente, delle industrie di stato) venne patrocinato in gran parte da governi di centro-sinistra.
La medesima logica del vincolo esterno la vediamo all'opera anche oggi. È sempre più evidente, ad esempio, che la cosiddetta crisi del debito sovrano del 2010-2011 non è stata una risposta “naturale” dei mercati all'“eccessivo” debito pubblico italiano, ma un'azione in larga parte “architettata” dalla Banca Centrale Europea (BCE) mirata a forzare gli stati a implementare l'austerity. Come ha osservato di recente Luigi Zingales, docente di finanza alla University of Chicago, alla fine la BCE è intervenuta sul mercato dei titoli italiani, ma solo dopo una lunga attesa:

Questo ritardo non era dovuto a incompetenza, ma al palese desiderio di imporre la 'disciplina del mercato' – cioè fare pressione sul governo perché migliorasse la situazione fiscale. È stata una forma di violenza economica che ha lasciato l'economia italiana in rovina e gli elettori italiani legittimamente furiosi nei confronti delle istituzioni europee”.

La crisi del debito, combinata con le ritardate reazioni della BCE, portò a invocazioni isteriche da parte dei media perché si mettesse freno al deficit per mezzo di misure di austerity d'emergenza, e portò al governo “tecnocratico” di Mario Monti. Ma la sola ragione per cui l'Italia aveva sperimentato una “crisi del debito sovrano” fu, in primo luogo, il fatto che, come tutti i paesi dell'eurozona, utilizzava di fatto una valuta straniera. Proprio come un singolo stato (ad esempio) degli Stati Uniti o dell'Australia, i paesi dell'eurozona accedono a prestiti in una valuta su cui non hanno alcun controllo (non possono né fissare i tassi di interesse né rinnovare il debito emettendo nuova moneta, e perciò, a differenza dei paesi che contraggono debiti nella loro propria valuta, sono a rischio di insolvenza [default]). Come testimonia un recente rapporto della BCE “sebbene l'euro sia una moneta a corso forzoso [fiat currency], le autorità fiscali degli stati che vi aderiscono hanno rinunciato alla capacità di contrarre un debito non passibile di default”.
Ciò conferisce un potere enorme alla BCE, che non è eletta da alcuno e non risponde ad alcuno, che può usare (e di fatto usa) il suo potere di emissione monetaria per imporre le proprie politiche sui governi recalcitranti (come ha fatto con la Grecia nel 2015, quando ha tagliato la liquidità d'emergenza alle banche greche per costringere il governo di Syriza a invertire la rotta e accettare il terzo memorandum di salvataggio), o addirittura ottenerne le dimissioni, com'è successo in Italia nel 2011. Come ha di recente riconosciuto il Financial Times, la BCE ha di fatto “costretto Silvio Berlusconi ad abbandonare la sua carica a favore del mai eletto Mario Monti”, ponendo le sue dimissioni come condizione per l'ulteriore sostegno da parte della BCE alle banche e ai titoli italiani. Questo esemplifica ciò che il grande economista britannico Wynne Godley† intendeva scrivendo, nel lontano 1992, che “se un paese rinuncia o perde [il potere di emettere la propria moneta], acquisisce lo status o di autorità locale o di colonia”.
Per l'establishment politico italiano quell'esperienza fu un efficace memento del patto faustiano che aveva firmato aderendo all'eurozona. Rinunciando alla sovranità economica del proprio paese, avevano messo la loro sopravvivenza politica nelle mani di tecnocrati che nessuno ha mai eletto. È una lezione che anche il PD ha imparato a proprie spese, dopo anni di infinite (e alla fine inutili) contrattazioni con la Commissione Europea al fine di ottenere un minimo grado di “flessibilità fiscale”. La potremmo chiamare la vendetta della depoliticizzazione: una strategia che si era mostrata positiva per gli obbiettivi interni delle élite locali fintanto che il regime dell'euro aveva potuto garantire un minimo di crescita ai paesi della periferia.
Ma adesso che le contraddizioni fondamentali del sistema Europa sono venute a galla, le élite politiche italiane si sono ritrovate prive degli strumenti economici per mantenere il consenso sociale. Come scrive Scharpf, nei paesi come l'Italia l'unione monetaria non ha comportato solo pesanti costi socioeconomici, ma ha anche avuto “l'effetto di distruggere la legittimità democratica dei governi”.
Uno dei corollari di questa perdita di legittimità democratica è che gli appelli alla logica del vincolo esterno non hanno più il peso che avevano in precedenza. I cittadini – non solo quelli italiani – sono disposti sempre di meno a giustificare lo status quo in base a norme arbitrarie e punitive e diktat esterni, la cui natura politica (cioè non neutrale) diventa sempre più evidente. Lo dimostra il fatto che i tentativi da parte dell'establishment italiano ed europeo di screditare le proposte “populiste” a causa della loro presunta insostenibilità fiscale, minaccia alla stabilità finanziaria o incompatibilità con la normativa europea, è clamorosamente fallito. Anzi, è stato controproducente. Come lo sono state, dal punto di vista dell'establishment, le affermazioni, da parte dei maggiori rappresentanti dellUE, che qualsiasi nuovo governo si debba adeguare alle decisioni prese da quelli precedenti. Dato che sempre più ci si rende conto della natura antidemocratica e neocoloniale dell'Unione Europea, simili tattiche intimidatorie non funzionano più. In questa chiave, il voto del 4 marzo non è stato tanto un voto “contro l'Europa” – anche se i partiti tradizionalmente europeisti sono stati severamente castigati – quanto un voto contro la depoliticizzazione, e a favore dio una ripoliticizzazione del processo decisionale nazionale. Cioè per un maggior grado di controllo collettivo sulla politica e la società, che di necessità può essere esercitato solo a livello nazionale.

Il Futuro dell'Italia
È possibile, per i partiti “anti establishment” che hanno dato voce a quest'esigenza di ripoliticizzazione – Movimento Cinque Stelle e Lega – soddisfare le aspettative? È improbabile. Alla fine dei conti, nessuno dei due partiti offre una alternativa praticabile allo status quo, almeno in termini di politica economica. Il programma economico della Lega è tuttora piuttosto neoliberista: la proposta economica principale del partito è una flat tax che sostituisca l'attuale tassazione (più o meno) progressiva, una proposta chiaramente regressiva, con l'aggiunta di qualche iniziativa di protezione sociale (abolizione della legge Fornero, che ha allungato l'età pensionabile). In modo analogo, il programma del M5S “non è nemmeno lontanamente il programma di una formazione progressista”, come scrive Nicola Melloni. Anche se la sua immagine, come quella di movimenti populisti di sinistra quali Podemos e Occupy, è costruita sulla contrapposizione tra popolo e oligarchia, il M5S riduce questa oligarchia “a una 'casta' politica corrotta” dice Melloni. “Fattori economici come la relazione tra capitale e lavoro, le disuguaglianze, o lo stesso capitalismo, sono assenti. Piuttosto, si tratta di una formazione populista ma di centro – abbastanza opportunista da cavalcare qualsiasi battaglia che possa riscuotere consensi, ma priva dell'ambizione di cambiare, o anche solo di riformare, il sistema”. In questo senso, essi sono l'esempio perfetto dei “fenomeni morbosi” di cui parlava Gramsci.
Cosa più importante, anche se il M5S e la Lega avessero davvero intenzione di cambiare il sistema, per farlo dovrebbero mettere in discussione il regime dell'euro, ma nessuno dei due sembra volerlo. Sebbene entrambi i partiti vengano descritti come euroscettici, o addirittura come anti-europeisti, sono stati prontissimi a giurare fedeltà all'Unione Europea, prima e dopo il voto. Finché manterranno questa posizione, il loro fallimento è una certezza. Come detto più sopra, le istituzioni europee hanno un nutrito arsenale di strumenti “per sottomettere, e all'occorrenza rendere impotente la funzionalità democratica dei governi del sud” come dice Scharpf. “Anche se l'Italia possiede un potere contrattuale maggiore di quello della Grecia, finanziariamente la si può ugualmente strangolare”, scrive Zingales, come è successo alla Grecia nel 2015, se venisse percepita come una minaccia al regime neocoloniale dell'Europa.
In conclusione, a prescindere dai risultati dei negoziati, o anche nella prospettiva di eventuali nuove elezioni, la crisi organica dell'Italia è qui, e qui resterà. E non avrà soluzione finché non se ne affronterà la causa essenziale: la fondamentale incompatibilità tra la politica economica italiana e la moneta unica.

Note
(1) Un governo con un avanzo primario sta spendendo nell'economia reale meno di quanto ne estragga attraverso la tassazione, e quindi sta sottraendo ricchezza all'economia, di solito per ridistribuirla ai titolari, interni ed esteri, di titoli di stato (in genere banche o individui affluenti). Il buon senso economico suggerirebbe che un governo coinvolto in una recessione dovrebbe comportarsi esattamente all'opposto: produrre deficit per stimolare l'attività economica.
(2) Vedi anche Nancy Fraser, “From Progressive Neoliberalism to Trump—and Beyond,” American Affairs 1, no. 2 (Winter 2017): 46–64.
Thomas Fazi è l'autore di The Battle for Europe (Pluto, 2014) e co-autore di Reclaiming the State (Pluto, 2017).

dello stesso autore: Per una Sinistra di Nuovo Grande



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