domenica 14 ottobre 2018
Il Diario di Spinoza: Il socialismo in 24 ore
Il Diario di Spinoza: Il socialismo in 24 ore: di Nicodemo Si potrebbe fare, in 24 ore. Si potrebbe mettere su un partito che raccolga tutti i socialisti, movimentisti, partitisti e ...
martedì 9 ottobre 2018
L’esplosione del debito pubblico senza un prestatore di ultima istanza
di Domenico Moro da economiaepolitica.it
I trattati europei e l’euro,
imponendo austerità e inibendo l’implementazione di politiche
economiche su misura per le necessità dei singoli Paesi, hanno ottenuto
il risultato opposto a quello previsto dai decisori politici e dalla
dirigenza della Banca d’Italia negli anni’80 e ’90: il debito pubblico
italiano è aumentato.
Il debito pubblico
è in Italia uno dei temi principali, se non il principale, attorno al
quale ruotano il dibattito economico e le scelte politiche. Il debito
pubblico, giudicato eccessivo, è stata una delle motivazioni per
l’adesione all’euro e ai trattati europei, allo scopo di costringere
governi e parlamenti a una maggiore disciplina di bilancio, incidendo
anche oggi sulle scelte di spesa e di politica economica. La maggior
parte del debito pubblico attuale si è formata tra l’inizio degli anni
’80 e l’inizio degli anni ’90, raddoppiando dal 59,9% sul Pil del 1981
al 124,9% del 1994. Nonostante i vincoli europei alla spesa pubblica,
oggi il debito risulta superiore ai livelli dei primi anni ’90,
raggiungendo il 131,8% sul Pil contro il 75,7% della media Ue e il 79%
della media dell’area euro, ed essendo inferiore in Europa al solo
debito greco.
L’obiettivo del presente articolo è
capire perché il debito è raddoppiato tra 1981 e 1994 e perché
successivamente non si è riusciti a ridurlo in modo significativo e
duraturo.
Fig. 1 – Andamento del debito pubblico di Italia, Francia, Regno Unito, Germania e Spagna (in % sul Pil; 1861-2017)
Fonti: Imf; Banca d’Italia;
Direction de la statistique generale et de la documentation;
Statistisches Jahrbuch für das Deutsche Reich, Wirtschaft und Statistik,
cit. in O. Nathan, The nazi war economy; P. Jockstock, The long term
growth of national income in Germany; Fisk, French Public Finance in the
Great War and Today.
Bisogna premettere che l’Italia è
caratterizzata storicamente, sin dai primi decenni dopo l’Unità, da un
debito pubblico relativamente alto rispetto al Pil, in conseguenza delle
ingenti spese sostenute per lunghe guerre d’indipendenza, per la
politica coloniale, l’organizzazione di una amministrazione nazionale e
il sostegno pubblico dell’accumulazione autoctona di capitale. Tuttavia,
il divario con gli altri grandi Paesi europei non è mai stato né così
ampio né così completo come nell’ultima fase storica, compresa tra il
1982 e il 2017 (fig.1). Ad esempio, nell’ultimo ventennio del XIX secolo
il debito pubblico italiano era in linea con quelli spagnolo e francese
e, tra 1915 e 1945, nonostante le enormi spese dovute al continuo stato
di guerra (Prima e Seconda guerra mondiale, Libia, Etiopia, Spagna) e
la socializzazione delle perdite del capitale bancario e industriale
durante la Grande crisi degli anni ‘30, rimase ben al di sotto di quello
britannico e francese. Anche tra il 1945 e il 1975 il livello del
debito rimase abbastanza basso e non troppo dissimile da quello degli
altri Paesi.
L’interpretazione prevalente, ormai
radicata nel senso comune, attribuisce il raddoppio del debito pubblico
all’eccesso di spesa da parte dei governi socialisti e democristiani
degli anni ‘80, dovuta in particolare alla corruzione e al clientelismo.
Un’altra interpretazione riconduce l’accumulo del debito al saldo
negativo del rapporto entrate/spese, quindi a un eccesso di spesa
relativamente alla scarsità di entrate, dovuta alla bassa pressione
fiscale e/o alla evasione ed elusione fiscale.
Fenomeni di corruzione
e di clientelismo si sono verificati e hanno inciso sull’efficienza e
sulla redistribuzione della spesa pubblica tra le classi sociali, ma non
sono stati determinanti per la crescita del debito in rapporto al Pil.
La spesa statale al netto degli interessi in rapporto al Pil – ossia la
spesa per trasferimenti alle famiglie e alle imprese e per stipendi,
beni, servizi acquistati dalla Pa, che include anche la corruzione e le
spese inefficienti e clientelari – risulta, tra 1982 e 1994, sempre al
di sotto della media dei Paesi dell’area euro e della Ue. Viceversa la
spesa per interessi in rapporto al Pil è sempre notevolmente al di sopra
della media dei Paesi dell’area euro e della Ue e in crescita sostenuta
tra 1982 e 1993. Nel 1993, quando la spesa pubblica italiana, al netto
degli interessi, raggiunge il picco, rimane nettamente inferiore (45,7%
sul Pil) a quella dell’area euro (48,6%). Viceversa, nello stesso anno
la spesa per interessi risulta di quasi tre volte superiore (12,1%) a
quella dell’area euro (4,2%)[1].
Considerando tutto il periodo 1982-1994 La spesa media annua italiana,
al netto degli interessi, raggiunge il 43,3% mentre quella per interessi
tocca il 9%, contro rispettivamente il 46,4% e il 3,7% medi dell’area
euro (fig.2).
Fig. 2 – Spese al netto degli interessi e spese per interessi di Italia e area euro (in % sul Pil; 1980-2017)
Fonte: Banca d’Italia, Statistiche di finanza pubblica nei Paesi europei (1999, 2006, 2018)
L’aumento dell’incidenza della spesa per
gli interessi sul debito è dovuta alla crescita vertiginosa dei tassi
d’interesse sui titoli di stato a partire proprio dal 1982 (fig.3). Tale
fenomeno va osservato tenendo presente il tasso reale o effettivo, cioè
al netto dell’inflazione, in quanto sulla formazione o sulla riduzione
dell’accumulo di debito gioca un ruolo importante l’inflazione che, a
seconda che cresca o diminuisca, porta proporzionalmente a una riduzione
o a una crescita del debito. Infatti, nelle fasi di iperinflazione
subito dopo la Prima e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale il
debito è crollato verticalmente in tutti i Paesi coinvolti, a partire
dall’Italia, che passò da un debito del 112,6% sul Pil nel 1943 al 28,7%
nel 1948 (fig.1). Per quanto riguarda il nostro ragionamento sul
raddoppio del debito, bisogna considerare che precedentemente al 1982 i
tassi reali dei Buoni ordinari del tesoro (Bot)[2]
erano fortemente negativi o intorno allo 0%, raggiungendo nel 1980
addirittura un tasso di -5,73%. Tra 1976 e 1981 il rendimento medio
annuo reale fu del -2,6%, viceversa tra 1982 e 1994 raggiunse il 4,6%
(fig. 3).
Fig. 3 – Tassi d’interesse effettivi e nominali dei Bot e tasso d’inflazione (in %; 1976-2016)
Fonte: Mediobanca, Indici e dati relativi ad investimenti in titoli quotati nelle borse italiane (1984- 2016)
La ragione della forte e progressiva
crescita dei rendimenti reali dei Bot sta nel cosiddetto “divorzio” tra
Banca d’Italia e Ministero del Tesoro, a seguito dell’invio nel 1981 da
parte del ministro Andreatta al governatore Ciampi di una lettera con la
quale si esentava la Banca centrale dall’obbligo di acquistare i titoli
di debito emessi dal ministero e non assorbiti dal mercato. Ciò
comportò due effetti: la riduzione della creazione di nuova liquidità,
che abbassò l’inflazione, e la fine del ruolo svolto dalla Banca
centrale di compratore di ultima istanza del debito pubblico, che rese
necessario collocare tutto il debito sul mercato, con costi più elevati
di quanto sarebbe stato possibile in precedenza.
Di conseguenza, l’inflazione
si ridusse molto di più di quanto non calassero i tassi d’interesse
nominali sul debito, portando così all’aumento dei tassi reali e quindi
all’accumulo accelerato di debito. Più tardi, a partire dalla fine degli
anni ’90, il problema si aggravò, a seguito della liberalizzazione dei
mercati finanziari, che portarono all’aumento della quota del debito
pubblico in mano ai non residenti, dal 6% del 1991 al 27% del 1998 al
42,7 del 2008[3].
In questo modo i rendimenti dei titoli furono assoggettati alla
speculazione internazionale, senza la protezione offerta da un
compratore di ultima istanza. Ad ogni modo, prima ancora che gli effetti
della liberalizzazione internazionale si facessero sentire, fu tra ’92 e
’93 che i tassi d’interesse effettivi toccarono il picco del 6,81% e
del 5,06%. È da notare che neanche l’introduzione dell’euro (1992-2002)
ha riportato i tassi effettivi al livello pre “divorzio” (media annua
dello 0,63% tra 1999 e 2016). Eppure l’obiettivo statutario della Bce è
specificatamente il controllo dell’inflazione, che del resto è scesa
molto più che negli anni ’80 e ‘90, arrivando intorno allo zero, a causa
anche della maggiore recessione dal dopoguerra. Il punto è che il ruolo
di compratore di ultima istanza dopo il 1981 non è stato più ricoperto
da nessuna istituzione, nazionale o europea che fosse.
Per quanto riguarda il saldo negativo
tra entrate e uscite, la sua importanza sulla formazione del debito, già
prima del “divorzio” è molto inferiore rispetto a quella del servizio
al debito. Soprattutto, a partire dal 1982 l’incidenza del disavanzo
pubblico sulla formazione del debito si riduce progressivamente,
assumendo un andamento esattamente opposto a quello dell’incidenza della
spesa per interessi e annullandosi del tutto a partire dal 1991 (fig.
4). L’incidenza media della spesa per interessi sul Pil tra 1982 e 1994 è
del 9,1%, mentre quella del disavanzo delle entrate è dell’1,6%. In
sostanza il servizio al debito incide sul raddoppio del debito circa
cinque volte di più del disavanzo, cioè in una misura di almeno il 75%.
Ciò vale ancor di più nel periodo successivo al 1994. Del resto, tra
1991 e 2017 non si registra alcun deficit del bilancio pubblico primario
(al netto degli interessi), tranne che nel 2009.
Fig. 4 – Importanza relativa
sulla formazione del debito della spesa per interessi e del saldo
negativo di bilancio e pressione fiscale di Italia e area euro (in % su
Pil; 1980-2017)
Fonte: Banca d’Italia, Statistiche di finanza pubblica nei Paesi europei (1999-2018)
Al contrario, la Germania, nello stesso
periodo di tempo, presenta un deficit primario in ben otto anni. La
ragione della riduzione e poi dell’annullamento del deficit primario sta
nel fatto che in Italia la pressione fiscale prese ad aumentare
ininterrottamente dal 31,3% sul Pil del 1980 fino a raggiungere la media
europea nel 1992 e il picco proprio nel 1993 (44,4%), aumentando così
di 13,1 punti percentuali in 13 anni, mentre nello stesso periodo l’area
euro aumentava la pressione fiscale di soli 2,2 punti (fig.4). Dal 1993
al 2017, tranne che per quattro anni, la pressione fiscale italiana sul
Pil (incidenza media annua 41,9%) risulterà sempre superiore o uguale a
quella dell’area euro (40,8%).
L’errore dei governi italiani degli anni
‘80, se si può parlare di errore e non piuttosto di scelte politiche
neoliberiste, sta nel fatto di aver eliminato il compratore di ultima
istanza del debito pubblico proprio nel momento in cui se ne aveva più
bisogno. Infatti, in quel periodo si registra un indebolimento della
crescita, dovuto alle crisi dei primi ’80 e dei primi anni ’90. A questo
si aggiunge nel corso degli anni ’90 e 2000 un aumento della
vulnerabilità a shock esterni, dovuta alla liberalizzazione dei mercati
finanziari e quindi alla dipendenza dalla estrema mobilità degli
investimenti internazionali. Non bisogna dimenticare, inoltre, che le
privatizzazioni, parte del pacchetto neoliberista adottato dai governi
italiani (come la separazione tra Banca centrale e Tesoro e la
liberalizzazione dei flussi di capitale), hanno fornito un sollievo
ridotto e solo momentaneo al debito, indebolendo sulla lunga distanza la
crescita del prodotto interno e il ritorno per lo Stato in termini di
dividendi incassati.
Come hanno rilevato Stefano Perri e Riccardo Realfonzo[4]
e contrariamente a quanto tuttora si ritiene a livello di istituzioni
europee e nell’establishment economico e statale nostrano, la questione
decisiva per la gestione del debito pubblico italiano non è e non è mai
stata il contenimento della spesa sociale. È invece la crescita dei
tassi d’interesse sul debito a dover essere considerata come la causa
più importante, anche se non l’unica, del raddoppio del debito degli
anni 1982-1994, e della successiva difficoltà a ridurlo. Tuttavia, non
bisogna dimenticare che, sottesa all’andamento del debito, c’è la
tendenza al disequilibrio dell’economia capitalistica, che, in fase di
crisi, riduce il Pil e quindi il denominatore, portando alla crescita
del rapporto debito/Pil.
Ciò si è verificato soprattutto tra 2008
e 2017, quando, nella determinazione dell’incremento del debito, alla
spesa per interessi si è associata la grave recessione, tramutatasi in
stagnazione permanente, i cui effetti, però, sono stati particolarmente
pesanti a causa della ridotta possibilità dello Stato di spendere in
funzione anticiclica, dovuta a sua volta anche alla inesistenza di un
prestatore di ultima istanza, ormai sancita definitivamente dal
trasferimento del controllo sulla emissione di moneta alla Bce. In
questo senso, i trattati europei e l’euro, imponendo una draconiana
austerity e inibendo l’implementazione di politiche economiche su misura
per le necessità dei singoli Paesi, hanno ottenuto il risultato opposto
a quello previsto dai decisori politici e dalla dirigenza della Banca
d’Italia negli anni’80 e ’90, vale a dire l’aumento del debito
pubblico. Nello stesso tempo, però, crescita, salari e occupazione sono
stati depressi, in una inefficace rincorsa alla riduzione del debito.
[1]
I dati relativi alle spese, alle entrate, alla pressione fiscale di
Italia e area euro sono di fonte Banca d’Italia, Statistiche di finanza
pubblica nei Paesi europei. I dati dell’area euro sono sempre al netto
dell’Italia.
[2]
Il rendimento reale o effettivo è il risultato della depurazione
dall’inflazione del rendimento nominale dei Buoni ordinari del Tesoro a
12 mesi (media delle aste di metà e fine mese). Il calcolo è basato sui
dati dell’inflazione media annua e dei tassi d’interesse medi annui
pubblicati da Mediobanca dal 1984, che si riferiscono a un periodo che
parte dal 1976 e arriva al 2016.
[3] Banca d’Italia, database, Amministrazioni pubbliche: debito pubblico lordo detenuto da non residenti (quota).
[4] Si veda di Stefano Perri e Riccardo Realfonzo, “Tagli alla spesa pubblica? Una vecchia ricetta”, in Economia e politica, 1 Aprile 2014.
mercoledì 3 ottobre 2018
Un sovranismo democratico per un nuovo europeismo
di Alessandro Somma da Micromega
Un scontro tra europeisti e sovranisti, i primi raccolti attorno a Macron e i secondi guidati da Orbán e Salvini. È questa l’immagine più utilizzata per rappresentare lo scontro in atto, confezionata ad arte per nascondere la sostanziale convergenza di europeisti e sovranisti, fautori i primi di un neoliberalismo cosmopolita e i secondi di un neoliberalismo nazionale. E per impedire di riconoscere che il vero confronto è quello tra i fautori di un ritorno agli Stati per alimentare una guerra per la conquista dei mercati, e chi vuole invece ripristinare la dimensione statale per impiegarla in una guerra ai mercati: terreno sul quale si gioca il rilancio della sinistra.
È dunque un rilancio che passa da un diverso sovranismo. Non quello incentrato su valori premoderni buoni solo a reprimere i conflitti causati dalla modernità capitalistica, bensì quello democratico: volto a ripristinare la sovranità popolare in quanto fondamento della democrazia economica, oltre che della democrazia politica.
Il momento Polanyi
La società, rilevava Polanyi nel corso degli anni Quaranta, è naturalmente portata a difendersi dal mercato autoregolato, a opporre al movimento verso “l’allargamento del sistema di mercato” un “opposto movimento protezionistico”. Si assiste così a un “doppio movimento”, il primo volto ad affermare “il principio del liberalismo economico”, e il secondo quello “della protezione sociale”. Quest’ultimo movimento, verso la ripoliticizzazione e risocializzazione del mercato, può avvenire nel rispetto dell’ordine politico democratico, come è successo con il New Deal statunitense, ma anche attraverso il suo affossamento, come si è verificato nel Ventennio fascista[1].
L’epoca attuale è indubbiamente caratterizzata dal rigetto del mercato autoregolato e dal processo di denazionalizzazione che ha accompagnato la sua affermazione. Lo è naturalmente, dal momento che il neoliberalismo si fonda sul cosmopolitismo, come si ricava da quanto auspicato da von Hayek decenni or sono. Quest’ultimo voleva creare una federazione interstatale e delegarle la costruzione e lo sviluppo dell’ordine economico. Avrebbe rappresentato un vincolo esterno con cui rende agli Stati “chiaramente impossibile influenzare i prezzi dei diversi prodotti”, e dunque ostacolare l’edificazione e lo sviluppo di un mercato autoregolato: tanto che “sarà difficile produrre persino le discipline concernenti i limiti al lavoro dei fanciulli o all’orario di lavoro”[2].
Anche il rigetto del mercato a cui assistiamo ora non sta avvenendo nel rispetto della democrazia. Lo schema seguito è quello del nazionalismo economico: si sta profilando una lotta tra Stati per la conquista dei mercati, unita allo sviluppo di un sistema di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti. Ci sarebbe invece bisogno di una lotta degli Stati contro i mercati, che tuttavia non prende corpo anche per un erroneo convincimento diffuso a sinistra: che il contrasto del cosmopolitismo implichi un ripudio dell’internazionalismo.
Eppure i due termini non sono affatto coincidenti. Se infatti il cosmopolitismo combatte la dimensione nazionale per promuovere la libera circolazione dei fattori produttivi e con essa il mercato autoregolato, l’internazionalismo valorizza la dimensione nazionale.
Questi concetti sono stati esposti in modo esemplare durante il dibattito parlamentare dedicato all’adesione italiana al Consiglio d’Europa. Allora Lelio Basso ebbe a stigmatizzare il comportamento della borghesia, storicamente espressiva di una “coscienza nazionale”, che aveva abbandonato il “vecchio esasperato nazionalismo” e assunto come sua bandiera il “cosmopolitismo”. E che lo aveva fatto per motivi non certo nobili: voleva resistere alla “pressione di classi che hanno acquistato la coscienza dei propri diritti e che, non potendoli soddisfare nel quadro delle antiquate strutture, minacciano di farle saltare”. Di qui la conclusione che l’emancipazione delle classi subalterne passa dalla loro capacità di togliere “alla nazione il carattere di espressione esclusiva della classe dominate”, ma non anche di abbandonarla come terreno di lotta politica. E ciò equivale a dire che il proletariato deve acquisire “contemporaneamente la coscienza di classe e la coscienza nazionale, ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi”[3].
Nella sinistra storica queste tesi resistono sino alla dissoluzione del Blocco socialista. La ratifica del Trattato di Maastricht è l’occasione per formalizzare il cambio di rotta e affermare che la precedente impostazione era figlia della Guerra fredda. Questa aveva impedito di riconoscere come “l’idea di Europa” fosse “implicita non solo nelle origini internazionaliste, ma anche nella coscienza dell’antifascismo e della Resistenza” [4]: una ricostruzione molto approssimativa e con il senno di poi, da cui trae conferma la sensazione che l’europeismo di oggi costituisca il rimpiazzo, davvero poco meditato sebbene rassicurante come solo sanno essere i dogmi, dell’internazionalismo di ieri, e più in generale della crisi delle idealità ereditate dal passato[5].
Anche per questo si stenta a riconoscere che siamo immersi nel momento Polanyi[6], che occorre pertanto prendere atto del moto verso il recupero della dimensione nazionale, accettarlo in quanto inevitabile reazione della società contro la tirannia dei mercati. E operare affinché tutto ciò si combini con la riaffermazione delle ragioni di una sinistra internazionalista, in quanto tale non anche cosmopolita: le ragioni della sovranità popolare e a monte, nella misura necessaria e sufficiente affinché questa possa esprimersi, della sovranità statale. È l’unico modo per opporre al rinato conflitto tra Stati per la conquista dei mercati una lotta degli Stati contro l’invadenza dei mercati.
Sovranità popolare
Le costituzioni moderne si occupano tutte di sovranità nello Stato, o sovranità popolare, distinguendola dalla sovranità dello Stato o statale: la prima rilevante per i rapporti interni, tra governanti e governati, e la seconda per i rapporti esterni, tra Stati. Per molto tempo ha ciò nonostante resistito il dogma ottocentesco della esclusiva sovranità statale, per cui la sovranità popolare costituiva una mera formula politica, priva di valore giuridico. Le cose cambiano solo nel corso degli anni Cinquanta, quando si afferma la distinzione tra Stato-governo e Stato-società, e si precisa che il primo costituisce un’entità al servizio del secondo: è dunque il popolo il titolare della sovranità anche in senso giuridico, mentre l’apparato statale si limita ad attuare gli intendimenti maturati entro la comunità dei governati.
In altre parole, quando la Costituzione afferma che “la sovranità appartiene al popolo” (art. 1), intende dire che “il popolo resta titolare della potestà di governo, costituente e costituita, dell’una e dell’altra conservando altresì l’esercizio”, mentre lo Stato semplicemente “sostituisce il popolo nel solo esercizio di una parte di tale potestà”[7]. Tanto che, se lo Stato-governo non rispetta la volontà popolare, lo Stato-società ben può esercitare il diritto di resistenza, implicito nel caso non vi sia un’espressa previsione costituzionale in tal senso: come si è sostenuto all’epoca del governo Tambroni per legittimare lo sciopero politico, allora ancora punito dal Codice penale[8].
Alla contrapposizione di governanti e governati occorre però aggiungere quelle tra componenti del popolo in conflitto con riferimento a specifici interessi, come quelli riconducibili al ruolo ricoperto entro il sistema produttivo: gli interessi di classe. La sovranità popolare è cioè radicata in una comunità comprendente entità distinte e contrapposte, come i partiti e le formazioni sorte o emerse dalla loro crisi, tutte investite del diritto di concorrere alla formazione dell’indirizzo politico ben oltre il momento elettorale. E ciò equivale a dire che l’esercizio della sovranità popolare implica forme di rappresentanza dei cittadini destinate a correggere l’ambiguità di fondo della democrazia borghese, incapace di fornire gli strumenti indispensabili a realizzare una “partecipazione continua”[9].
E non è tutto. Siccome l’esito della contrapposizione tra componenti del popolo dipende dalla loro forza sociale, l’esercizio della sovranità richiede l’uguaglianza sostanziale dei cittadini, collegata cioè a un ruolo attivo dei pubblici poteri, chiamati a rimuovere gli ostacoli alla realizzazione della parità. E ciò equivale a dire che l’esercizio della sovranità presuppone, oltre alla libertà e all’uguaglianza, anche la solidarietà: fuori dal mercato, da esprimere con gli strumenti dello Stato sociale, ma anche nel mercato, dove la debolezza sociale deve essere bilanciata dalla forza giuridica. Anche per questo l’esercizio della sovranità popolare passa dalla valorizzazione del lavoro in quanto fonte di uguaglianza e libertà, e dunque dallo sviluppo della democrazia economica. Passa cioè dalla partecipazione diffusa alla vita economica attraverso la programmazione realizzata a livello parlamentare, ma anche con il coinvolgimento dei lavoratori, e non solo di essi, nelle scelte aziendali.
Se così stanno le cose, l’affermazione del principio della sovranità popolare richiede che siano assicurati i diritti della tradizione liberale, ovvero i diritti di libertà: alla libera manifestazione del pensiero, alla libertà personale, alla libertà di associazione, alla libertà di movimento, alla libertà di religione, e così via. È però altrettanto indispensabile la garanzia dei diritti sociali, ovvero la promozione, tra gli altri, del diritto alla salute con la garanzia di “cure gratuite agli indigenti” (art. 32), del diritto all’istruzione inferiore gratuita e superiore assicurata a chi è “privo di mezzi” (art. 34), del diritto al mantenimento e all’assistenza sociale per chi è “inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere”, e del diritto a mezzi adeguati alle esigenze di vita per i lavoratori colpiti da infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria (art. 38).
Tutti i diritti richiamati sono strettamente legati alla sovranità popolare, se non altro in quanto dalla loro previsione essa emerge come vicenda non solamente unitaria: l’esercizio dei diritti sociali, esattamente come dei diritti di libertà, costituisce “espressione permanente di sovranità popolare”, fondamento per la trasformazione del cittadino in “sovrano di se stesso”[10].
Sovranità limitata
Lo Stato moderno nasce come Stato assoluto, del quale il popolo rappresenta semplicemente un elemento costitutivo, essendo l’esercizio della sua sovranità ridotto a una mera funzione: quella concernente l’elezione del parlamento, a cui si riconoscono poteri in quanto organo statale. Le cose cambiano solo in parte con l’affermazione dello Stato di diritto, che mira a istituire un governo degli uomini in luogo del governo delle leggi, e quindi a porre primi condizionamenti all’esercizio della sovranità: non ancora riconosciuta al popolo, ma se non altro limitata a suo favore.
Lo Stato di diritto non rappresenta però un argine contro gli arbitri delle maggioranze contingenti. Questo è l’obiettivo dello Stato costituzionale, nel quale occorrono maggioranze qualificate per modificare le regole relative all’esercizio della sovranità, che oltretutto ha nel frattempo cessato di essere solo statale: la sovranità popolare è tale anche dal punto di vista giuridico e non solo meramente politico. Lo Stato costituzionale arricchisce il catalogo delle limitazioni concernenti l’esercizio della sovranità popolare, efficacemente vincolata a realizzare la parità sostanziale fuori e dentro il mercato, anche e soprattutto per confermare che il suo fondamento risiede nella promozione dell’uguaglianza.
Con lo Stato costituzionale i diritti fondamentali diventano inviolabili. E compongono la cornice entro cui si sviluppa il pluralismo cui rinvia il riconoscimento che il popolo comprende centri di interessi in contrasto tra loro[11], tutti chiamati a concorrere all’esercizio della sovranità popolare. Anche per questo lo Stato costituzionale è tale in quanto identifica la cornice entro cui iscrivere il conflitto democratico: “il pluralismo non degenera in anarchia normativa a condizione che, malgrado la divisione sulle strategie particolari dei gruppi sociali, vi sia una convergenza generale su alcuni aspetti strutturali della convivenza politica e sociale, che si possono così mettere fuori discussione e consacrare in un testo non disponibile da parte degli occasionali signori della legge”[12].
Non vi è pertanto motivo di sostenere che la sovranità popolare si risolva in una sorta di dittatura della maggioranza. Questo sosteneva al principio del Novecento chi voleva denigrare la democrazia per aprire la strada all’involuzione fascista, ma è in fin dei conti quanto affermano coloro i quali considerano il neoliberalismo incompatibile con la democrazia.
Semmai è di dittatura del mercato che occorre parlare: quella indotta dal neoliberalismo che promuove lo scioglimento dell’individuo nell’ordine proprietario, e la funzionalizzazione delle sue condotte al mantenimento del principio di concorrenza. A dimostrazione di come la normalità capitalistica possieda una forza attrattiva tale da impedire la costruzione di un capitalismo dal volto umano: esito inevitabile se la sovranità popolare non viene riconosciuta e alimentata come forza emancipatoria da opporre all’ordine proprietario e al principio di concorrenza.
Sovranità condizionata
Che la sovranità nello Stato presupponga la sovranità dello Stato, era ben presente ai Costituenti, i quali ammisero limitazioni di quest’ultima solo per promuovere un ordine politico incentrato sulla pace e sulla giustizia fra le nazioni, e solo in condizioni di parità con gli altri Stati. Di qui la previsione costituzionale per cui l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni” (art. 11). Il tutto per legittimare l’adesione all’Onu[13], il cui statuto così sintetizza i fini dell’organizzazione: “mantenere la pace e la sicurezza internazionale”, nonché “sviluppare tra le nazioni relazioni amichevoli fondate sul rispetto e sul principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’auto-decisione dei popoli” (art. 1).
Erano circoscritte anche le limitazioni della sovranità relativa al funzionamento dell’ordine economico, che a livello internazionale si volle incentrare sulla libera circolazione delle merci, ma non anche dei capitali: era questo il senso del compromesso raggiunto a Bretton Woods, sostenuto anche in quanto fondamento del compromesso keynesiano. Se infatti i capitali circolano liberamente, i governi sono costretti a competere per attirarli comprimendo i salari e la pressione fiscale sulle imprese, e questo contrastava con la volontà di edificare un ordine economico internazionale incentrato sull’economia reale. Il tutto esplicitato durante la conferenza di Bretton Woods, e soprattutto nello statuto del Fondo monetario internazionale[14], dove si legge tutt’ora che “gli Stati membri possono esercitare gli opportuni controlli per regolamentare i movimenti di capitali” (art. 6).
Ma non è tutto: l’intento di promuovere la prosperità richiede talvolta di controllare anche la circolazione delle merci, di ricorrervi come strumento di politiche anticicliche direttamente votate a produrre la piena occupazione. È lo stesso Keynes a mettere in luce questo aspetto in un contributo significativamente intitolato “autosufficienza nazionale”, nel quale si dichiara il definito tramonto dell’internazionalismo economico di matrice ottocentesca: possono circolare “le idee, la conoscenza, la scienza… ma lasciamo che le merci siano prodotte in casa quando è ragionevole e possibile in modo conveniente, e specialmente che la finanza sia soprattutto nazionale”[15].
La costruzione europea ha rappresentato e rappresenta il principale dispositivo utilizzato per rovesciare il compromesso keynesiano e a monte per scardinare la disciplina costituzionale della sovranità[16]: per condizionarla al rispetto dell’ortodossia neoliberale.
L’Europa unita non promuove infatti la pace e la giustizia, né tantomeno rispetta la parità tra Stati: alimentato la circolazione di tutti i fattori produttivi per rovesciare il compromesso di Bretton Woods. Lo ricaviamo in modo esemplare considerando le riflessioni di Guido Carli, Ministro del tesoro che rappresentò l’Italia nei negoziati per la definizione dei contenuti del Trattato di Maastricht. Il banchiere era consapevole che il Trattato avrebbe condotto ad “allargare all’Europa la Costituzione monetaria della Repubblica federale di Germania”. E lo apprezzava proprio per questo, perché avrebbe implicato “la concezione dello Stato minimo” e dunque un “mutamento di carattere costituzionale”, per cui si sarebbero ristrette le libertà politiche e riformate quelle economiche: realizzando in particolare “una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari ed aumenti quelle dei governi”, e un ripensamento complessivo delle “leggi con le quali si è realizzato in Italia il cosiddetto Stato sociale”[17].
Proprio questo assetto viene presidiato dal principio della superiorità del diritto europeo sul diritto nazionale. Un principio che a ben vedere non ha un fondamento costituzionale: se come abbiamo detto la partecipazione italiana all’Europa unita non è coperta dalla Costituzione (art. 11), essa si fonda unicamente sugli atti di recepimento dei Trattati, ovvero su leggi ordinarie, il che è “semplicemente illegale”[18].
Ma non è questo, evidentemente, l’orientamento dell’Unione europea, secondo cui il diritto europeo prevale persino sul diritto costituzionale nazionale (Corte di giustizia Cee, Sent. 17 dicembre 1970, 11/70). La Corte costituzionale afferma che ci sono limiti a questo principio: per la precisione “controlimiti all’ingresso delle norme dell’Unione europea”. Questi sono però attivabili solo se sono chiamati in causa precetti “irrinunciabili… per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale” (sent. 22 ottobre 2014 n. 238): ad esempio quelli relativi alla forma repubblicana, intangibile per espressa previsione (art. 139). A queste condizioni la riaffermazione della sovranità non si potrà invocare per contrastare la pervasività dell’ortodossia neoliberale. I controlimiti sono cioè “riserve di sovranità” solo “potenziali”, buone solo per legittimare la costruzione europea nei confronti del popolo sovrano: per fungere da “oppiacei”[19].
Questo vale però per l’Italia, ma non per altri Paesi europei più vigili rispetto alle conseguenze di una cessione di sovranità statale al livello sovranazionale. Primo fra tutti la Germania, la cui Corte costituzionale afferma che il parlamento tedesco “in quanto rappresentante del popolo” deve mantenere “un influsso costitutivo sullo sviluppo politico della Germania”. Anche e soprattutto per assolvere al “dovere dello Stato di garantire un giusto ordine sociale”, ovvero per “creare le condizioni minime per un’esistenza dignitosa dei suoi cittadini” (sent. 30 giugno 2009, 2 BvE 2/08).
Il tutto mentre la Legge fondamentale tedesca è stata modificata per chiarire che la Germania aderisce all’Unione economica e monetaria solo nella misura in cui questa si fonda sull’ortodossia neoliberale (art. 88). Con il risultato che l’Unione si potrà modificare solo cambiando la Legge fondamentale tedesca, a riprova di come essa sia oramai radicalmente immodificabile.
Sovranismo democratico
Da tempo si discute di un nuovo costituzionalismo, capace di promuovere e tutelare i diritti fondamentali in assenza dello Stato[20]. È un’opzione suggestiva ma criticabile da diversi punti di vista, innanzi tutto perché prefigura un progetto emancipatorio privo di dimensione politica, con ciò condannato all’inefficacia[21]. Inoltre alimenta l’idea secondo cui, in tempi di globalizzazione, i poteri statuali sono volatili: idea fuorviante in quanto trascura il loro fondamentale contributo al funzionamento del mercato autoregolato. Il nuovo costituzionalismo impedisce cioè di riconoscere la centralità di una lotta per riorientare l’azione dei poteri statuali, e a monte la necessità di recuperare la dimensione nazionale in quanto arena democratica entro cui il conflitto redistributivo si sviluppa in modo equilibrato, e il suo esito viene tradotto in pratica politica. È questo il senso del sovranismo democratico.
La liberazione dal vincolo esterno è insomma indispensabile alla ripoliticizzazione del mercato, per la quale la democrazia deve però svilupparsi in forme ulteriori rispetto a quelle contemplate dalla tradizione borghese. Deve cioè affermarsi in quanto espressione di sovranismo politico, da intendersi però come condizione per consentire lo sviluppo del sovranismo sociale, strumento attraverso cui dar seguito all’esito del conflitto redistributivo. È questo il fondamento del compromesso keynesiano, alimentato dalle mediazioni tra capitale e lavoro in qualche modo presidiate dallo Stato, anche ricorrendo al sistema della sicurezza sociale come forma di salario differito, e più in generale come componente di una politica di piena occupazione[22]. Tutto l’opposto di quanto preteso invece dall’ortodossia neoliberale, che al confronto tra centri di potere economico riequilibrato secondo lo schema della parità sostanziale oppone la polverizzazione di quel potere, funzionale a ridurre i comportamenti degli operatori del mercato a reazioni automatiche ai suoi stimoli, per sterilizzare così il conflitto sociale.
Il vincolo esterno da combattere non è solo quello derivante dalla cessione di sovranità in materia di politica monetaria e a monte di politica fiscale e di bilancio, la prima prevista esplicitamente nei Trattati e la seconda in qualche modo coartata attraverso il meccanismo della governance[23]. Occorre anche contrastare il mercato unico ripristinando i controlli sulla circolazione dei fattori produttivi: soprattutto dei capitali, pena l’insostenibilità del compromesso keynesiano. La circolazione delle imprese e dei lavoratori deve essere limitata in quanto alla base di pratiche odiose di dumping salariale e sociale.
Rispetto alla circolazione dei capitali e dei lavoratori, quella delle merci necessita di minori controlli, che sono tuttavia fondamentali per porre rimedio agli squilibri della bilancia dei pagamenti. La situazione sarebbe in parte diversa, ove nell’Eurozona fossero rispettate le regole relative al buon funzionamento di un’area monetaria ottimale, e in particolare quella per cui i Paesi in surplus devono sostenere la domanda dei loro cittadini e contribuire così, attraverso l’importazione, a riequilibrare la bilancia dei pagamenti dei Paesi in deficit. Accade invece l’opposto, giacché la Germania supera da troppo tempo e in modo esorbitante il limite, peraltro molto generoso, ammesso dalle regole: un surplus delle partire correnti entro una media del 6% del prodotto interno lordo calcolato nel triennio[24].
Il ripristino dei controlli sulla circolazione dei fattori produttivi consente di tutelare l’identità nazionale intesa quale modalità condivisa da una “comunità solidale che stabilisce come distribuire la ricchezza prodotta”[25], ovvero come promuovere la democrazia economica nel rispetto dei principi di uguaglianza, libertà e solidarietà. Nulla a che vedere con il riferimento a ontologie premoderne[26], buone solo ad alimentare il conflitto tra Stati per la conquista dei mercati e a ricomporre il conflitto redistributivo provocato dalla modernità capitalistica.
Un nuovo europeismo
Il sovranismo democratico non ha alternative: l’Europa unita in quanto dispositivo neoliberale è irriformabile ed è pertanto illusorio pensare di democratizzarla, magari nell’ambito di un ampliamento dell’Unione economica e monetaria. Occorre al contrario rinazionalizzare le politiche economiche, presupposto irrinunciabile per riattivare la sovranità popolare e il conflitto sociale quali fondamenti della democrazia economica. E ciò significa recuperare innanzi tutto la sovranità monetaria: non solo per riequilibrare i differenziali di competitività, ma anche perché l’Eurozona in quanto area monetaria non ottimale è inesorabilmente destinata a beneficiare il centro della costruzione europea e a danneggiare la sua periferia.
Peraltro l’enfasi sulla sovranità monetaria può essere fuorviante. In fondo sono le politiche monetarie a plasmare il rapporto tra economia e società, sicché il mero ritorno della moneta nazionale potrebbe creare l’illusione infondata che esso comporti di per sé un recupero del compromesso keynesiano. Mentre è evidente che le politiche realizzate con il ritorno della Lira ben potrebbero essere le stesse di quelle realizzate con l’Euro, soprattutto se le prime sono realizzate dalla stessa classe dirigente a cui si devono le seconde. Di qui l’importanza del conflitto sociale in quanto vicenda capace di riattivare la sovranità popolare e produrre, oltre al ricambio della classe dirigente, un ampliamento delle decisioni affidate alla partecipazione democratica, e dunque sottratte all’impero degli automatismi concepiti dall’ortodossia neoliberale.
Si badi però che il sovranismo democratico non mira alla chiusura nazionalista. Al contrario è il presupposto per rilanciare una diversa forma di europeismo, incentrato sulla democrazia economica oltre che politica, in quanto tale strumento di emancipazione sociale e individuale.
La stessa costruzione europea, sorta nei Trenta gloriosi, è stata inizialmente concepita in modo tale da lasciare spazio a qualche forma di resistenza alle istanze del mercato: i Trattati menzionano la piena occupazione accanto al controllo dell’inflazione come finalità delle politiche economiche, che dunque avrebbero potuto alimentare il compromesso keynesiano. Proprio per rovesciarlo si sono definite politiche economiche ossessionate dalla stabilità dei prezzi, per poi imporre politiche fiscali e di bilancio incentrate sul controllo del deficit e del debito. Il recupero della sovranità popolare ben potrebbe consentire di riavvolgere il nastro di questa storia e alimentare un “patriottismo costituzionale”[27]: potrebbe riportare in auge politiche nazionali di piena occupazione da porre alla base di una diversa costruzione europea, entro cui sviluppare politiche aperte al sostegno della domanda e dunque alla redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso.
Detto questo, riflettere sul sovranismo democratico è
indispensabile a prescindere dai sentimenti suscitati dal ritorno dei
confini: i processi di rinazionalizzazione sono inevitabili in quanto
reazione alla pervasività del mercato autoregolato. Non riconoscerlo nel
nome di un europeismo ideologico e scollato dalla realtà non eviterà
l’involuzione e infine il crollo dell’Europa unita, ma semplicemente,
quando questo avverrà, consentirà al sovranismo identitario di
affermarsi incontrastato.
(l'articolo anticipa e sintetizza i temi del volume di
Alessandro Somma "Sovranismi. Stato popolo e conflitto sociale" in
uscita per DeriveApprodi)
NOTE
[1] K. Polanyi, La grande trasformazione (1944), Torino, 1974.
[2] F. von Hayek, The Economic Conditions of Interstate Federalism, in 5 New Commonwealth Quarterly, 1939, p. 131 ss.
[3] AC 13 luglio 1949, 10292 ss.
[4] Così Caludio Petruccioli, in AC 28 ottobre 1992, 5251 ss.
[5] A. D’Attorre, Sovranità non è una parola maledetta (14 giugno 2018), https://www.italianieuropei.it/it/italianieuropei-3-2018/item/4049-sovranità-non-è-una-parola-maledetta.html.
[6] S. Cesaratto, Polanyi moment (22 settembre 2017), http://sollevazione.blogspot.com/2016/09/polany-moment-quale-strategia-di.html.
[7] V. Crisafulli, La sovranità popolare nella Costituzione italiana (1954), in Id., Stato, Popolo, Governo, Milano, 1985, p. 91 ss.
[8] G. Amato, I fatti di luglio, il diritto alla resistenza e l’incriminazione dello sciopero politico, in Democrazia e diritto, 1961, p. 124 ss.
[9] L. Carlassare, La sovranità del popolo nel pluralismo della democrazia liberale, in Id. (a cura di), La sovranità popolare nel pensiero di Esposito, Crisafulli, Paladin, Padova, 2004, p. 7.
[10] T.E. Frosini, Sovranità popolare e costituzionalismo, Milano, 1997, p. 214.
[11] E. Cheli, Intorno ai fondamenti dello Stato costituzionale, in Quaderni costituzionali, 2006, p. 263.
[12] G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, p. 48.
[13] G. Bascheri, L. Bianchi d’Espinosa e C. Giannattasio, La Costituzione italiana, Firenze, 1949, p. 41.
[14] H. Morgenthau, Closing Address to the Conference, in International Monetary Fund and International Bank for Reconstruction and Development, Washington, 1944, p. iv.
[15] J.M. Keynes, National Self-Sufficiency, in 22 Yale Review, 1933, p. 755 ss.
[16] V. Giacché, Costituzione italiana contro Trattati europei, Reggio Emilia, 2015.
[17] G. Carli, Cinquant’anni di vita italiana (1993), Roma e Bari, 1996, p. 432 ss.
[18] G. Itzcovich, Teorie e ideologie del diritto comunitario, Torino, 2006, p. 422.
[19] A. Guazzarotti, Sovranità e integrazione europea, in Rivista AIC, 2017, 3, p. 7.
[20] Ad es. L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, Roma e Bari, 1997, p. 39 ss.
[21] G. Preterossi, Residui, persistenze, illusioni: il fallimento politico del globalismo, in Scienza e politica, 2017, p. 106.
[22] W. Streeck, Tempo guadagnato (2012), Milano, 2013, p. 133.
[23] Cfr. A. Somma, Maastricht, l’Europa della moneta e la cultura ordoliberale, in A. Barba et al., Rottamare Maastricht, Roma, 2016, p. 70 ss.
[24] S. Cesaratto, Chi non rispetta le regole?, Reggio Emilia, 2018.
[25] C. Formenti, Quelle sinistre che odiano il popolo (29 gennaio 2018), http://temi.repubblica.it/micromega-online/quelle-sinistre-che-odiano-il-popolo-contro-lideologia-del-politicamente-corretto.
[26] C. Galli, Sulla sinistra rossobruna (29 giugno 2018), https://ragionipolitiche.wordpress.com/2018/06/29/sulla-sinistra-rossobruna.
[27] S. Fassina, La bussola del patriottismo costituzionale per ricostruire la sinistra, in Id. (a cura di), Controvento, Reggio Emilia, 2017, p. 1 ss.
(1 ottobre 2018)
Le doppie morali della crisi europea
Sergio Cesaratto ha scritto un bel libro, Chi non rispetta le regole?
(Cesaratto 2018), con l’obiettivo di smontare sistematicamente una
particolare lettura della crisi dell’Euro, che assolve completamente la
classe dirigente politica ed economica tedesca, e scarica per intero la
responsabilità sui paesi della periferia europea. È una lettura
moraleggiante, diffusa non solo in Germania, ma anche in ambienti
italiani di orientamento liberista. Non è affatto un’invenzione
dell’autore. Al contrario, personalmente ho ascoltato diverse volte
questo tipo di narrazione quando, nell’autunno del 2013, condussi con
Klaus Armingeon una serie di interviste volte a capire in quale maniera
funzionari publici, politici e sindacalisti tedeschi interpretassero la
crisi dell’Euro e le risposte da dare ad essa (Armingeon e Baccaro
2015).
La lettura “tedesca” della crisi
Esagerando un po’ (ma lasciando inalterata la sostanza), la lettura della crisi
che emerse da quei colloqui in Germania si può riassumere nella maniera
seguente: a dire degli intervistati, la situazione dei paesi della
periferia europea era per molti versi simile a quella della Germania nei
primi anni 2000. Anche l’economia tedesca languiva in quel periodo in
una crisi profonda. Diversamente però dai paesi del Sud, la Germania
scelse di mantenere in ordine i suoi conti pubblici e di introdurre
riforme importanti del mercato del lavoro e della protezione sociale (le riforme Hartz).
Sindacati e imprese contribuirono alla ripresa economica accordandosi
per flessibilizzare il sistema di contrattazione collettiva, in
precedenza eccessivamente rigido, e in questo modo consentirono alle
imprese, attraverso la moderazione salariale, di riguadagnare la
competitività internazionale persa negli anni immediatamente successivi
alla riunificazione. Fu un governo di centro-sinistra, il governo
Schroeder, ad introdurre le riforme, e ad esse pagò un prezzo politico
molto alto: non fu rieletto, ma si dimostrò capace di anteporre gli
interessi del paese agli interessi di parte. Grazie alle riforme fatte,
la Germania tornò a crescere in capo a pochi anni.
La storia di solito si concludeva con
considerazioni su quel che avrebbero dovuto fare i paesi della periferia
europea. Come la Germania dieci anni prima, anche per questi l’unica
soluzione era imboccarsi le maniche e fare le riforme strutturali troppo
a lungo rimandate. La loro spesa pubblica era fuori controllo, i
mercati del lavoro eccessivamente rigidi, i sistemi pensionistici troppo
generosi, e in più avevano sprecato l’opportunità dei bassi tassi di
interesse forniti dall’Euro
nei primi anni 2000. Erano responsabili delle proprie sfortune.
Pretendere che i loro debiti fossero ripagati da altri paesi era un
abuso. Chiedere alla Germania di rinunciare alla propria competitività
duramente riconquistata era come chiedere al Barcellona di giocare senza
Messi per fare un favore agli avversari (Weidmann 2012).
Questa ricostruzione veniva fornita, con
poche variazioni, da personaggi di diversa estrazione: funzionari del
ministero delle Finanze e politici di CDU e SPD. Gli unici ad avere una
lettura differente della situazione erano i sindacalisti di Ver.Di., il
sindacato dei servizi, che mettevano l’accento sulla necessità per la
Germania di espandere la domanda interna, ma la loro posizione appariva
del tutto isolata, ed incapace di incidere sulle scelte politiche.
È esattamente contro questo tipo di narrazione che il libro di Cesaratto si rivolge, ricordando come un’unione monetaria, l’Euro come il gold standard,
si regga su “regole del gioco” implicite. Il sistema è sostenibile solo
se ci sono meccanismi e strumenti che consentano l’aggiustamento
simmetrico in caso di squilibri della bilancia di parte corrente. In
particolare, un paese in surplus dovrebbe consentire ai suoi prezzi
interni di crescere più rapidamente dei prezzi dei paesi in deficit in
modo da riequilibrare il tasso di cambio reale (che è dato dal rapporto
tra i prezzi interni ed esteri) e attraverso questo l’equilibrio di
parte corrente. Tali meccanismi non sono però automatici, ma dipendono
da decisioni politiche. Se, come nel caso della Germania, il paese in
surplus ha un’economia “tirata dalle esportazioni”, il non aggiustamento
gli permette di trarre beneficio dalla situazione, almeno per un po’.
Dunque una prima conclusione di Cesaratto è che il paese che ha violato
le regole (implicite) di funzionamento dell’unione monetaria è la
Germania, e lo ha fatto perseguendo scientemente il suo interesse
nazionale.
La crisi dell’Eurozona come crisi di bilancia dei pagamenti
Nel dibattito di economia eterodossa, Cesaratto è associato alla tesi che equipara la crisi dell’Euro ad una crisi di bilancia dei pagamenti (Cesaratto 2015). In sintesi, secondo questa tesi l’Eurozona
è assimilabile ad un sistema di cambi fissi. È noto che i sistemi di
cambi fissi sono soggetti ad un particolare tipo di crisi (verificatasi
finora soprattutto nei paesi in via di sviluppo), nota come “arresto
improvviso” (Frenkel e Rapetti 2009). Anche la crisi del 2010-2011 ha
per Cesaratto le caratteristiche di un arresto improvviso, sia pure sui generis.
Negli anni precedenti alla crisi, i mercati finanziari si erano convinti che il rischio paese fosse scomparso e che il debito pubblico
di tutti i paesi dell’Eurozona, compresi quelli periferici, fosse di
fatto garantito in solido da tutti i paesi membri. Questa percezione
aveva comportato una convergenza dei tassi di interesse nominali a
partire dalla metà degli anni ’90. Permanevano tuttavia tassi di
inflazione differenti a livello nazionale e questo creava disparità dei
tassi di interesse reale, che erano più alti nei paesi a bassa
inflazione, in primis la Germania, e più bassi nei paesi ad alta
inflazione, quelli della periferia meridionale più l’Irlanda.
Queste differenze nei tassi di interesse reali, note come “effetto Walters” (Walters 1988), rallentavano la domanda nei paesi core
e la facevano aumentare nei paesi della periferia, soprattutto nel
settore delle costruzioni, tradizionalmente sensibile al tasso di
interesse reale, stimolando la concessione di credito da parte del
settore bancario e l’indebitamento, in primis privato. Per un certo
periodo sembrò che gli squilibri fossero espressione di un processo
benefico di convergenza (Blanchard e Giavazzi 2002), che incoraggiava
gli investimenti nei paesi della periferia riducendo le disparità di
sviluppo. Solo successivamente divenne chiaro che gli investimenti erano
in settori a bassa produttività e non generavano convergenza.
Fino all’esplodere della crisi, le
banche periferiche prendevano a prestito riserve da quelle dei paesi
core, le quali erano ben liete di riciclare le loro riserve in eccesso a
tassi un po’ più elevati di quello sui depositi presso la banca
centrale (Cesaratto 2016). Dopo il fallimento di Lehmann Brothers,
tuttavia, e soprattutto dopo la crisi greca, i flussi interbancari dal
centro alla periferia si interruppero bruscamente.
Occorre sottolineare che nel caso
dell’Euro, a differenza di un sistema di cambi fissi, non c’è un
problema di esaurimento delle riserve valutarie da parte dei paesi sotto
attacco, grazie alla presenza di un meccanismo di pagamenti
interbancari, il Target 2, che consente ai paesi membri
di finanziare il deficit estero (e le fughe di capitali) in maniera
potenzialmente illimitata anche quando i flussi transfrontalieri di
capitale si bloccano, sostituendo ai prestiti interbancari i prestiti
del sistema delle banche centrali. Dunque la conseguenza più immediata
dell’arresto improvviso è stata un accumulo di crediti Target 2 da parte
della Bundesbank, e un corrispondente accumulo di debiti da parte delle
banche centrali dei paesi periferici (Sinn 2014). In assenza del
sistema Target 2, le misure di austerità necessarie a far fronte all’arresto improvviso sarebbero state probabilmente assai più gravose.
Gli effetti immediati dell’arresto
improvviso di flussi di capitale si manifestarono non nel sistema
bancario, ma nel mercato dei titoli pubblici. Preoccupati
dall’aggravarsi delle finanze pubbliche di alcuni paesi, appesantite
dalla crisi e dagli interventi pubblici per “mettere in salvo” i sistemi
bancari (per esempio in Irlanda), i mercati finanziari cominciarono a
nutrire dubbi sulla capacità di alcuni governi di ripagare i loro
debiti, e dunque domandarono tassi di interesse sempre più elevati per
compensare l’aumentato rischio. L’aumento dei tassi di interesse
aggravava, invece di alleggerire, il rischio di fallimento. Ad un certo
punto alcuni paesi della periferia divennero incapaci di rifinanziare le
proprie emissioni di titoli pubblici anche a tassi molto elevati, e
dunque furono costretti ad invocare l’intervento della “trojka” proprio
come in simili circostanze i paesi in via di sviluppo invocano
l’intervento del Fondo Monetario Internazionale. Ed infatti tra i
programmi di austerità richiesti dal FMI ai paesi in via di sviluppo e quelli richiesti dalla trojka
non c’è grande differenza: entrambi comportano l’aggiustamento fiscale
attraverso il taglio della spesa piuttosto l’aumento delle imposte, e la
liberalizzazione dei mercati dei prodotti e soprattutto del lavoro.
Insomma, i tratti caratteristici di un
arresto improvviso, argomenta Cesaratto, sono chiaramente identificabili
anche nella crisi dell’Eurozona: afflusso di capitali esteri (in questo
caso per rifinanziare l’espansione di credito bancario nei paesi
periferici), improvvisa crisi di fiducia, arresto e fuga di capitali,
intervento delle istituzioni monetarie internazionali con annesse
condizionalità, e programma di aggiustamento strutturale (ovvero
austerità). Per quanto la crisi si sia manifestata nel mercato dei
debiti pubblici – un mercato in cui il rischio non è “coperto” dalla BCE,
che può fornire riserve in maniera potenzialmente illimitata alle
banche, ma non può, a norma di trattati europei, acquistare titoli dai
governi – è stata per Cesaratto in primis una crisi di debito privato:
alcune parti hanno prestato eccessivamente e in maniera poco prudente,
ed altre parti, corrispondentemente, hanno preso in prestito
eccessivamente e in maniera poco prudente. Guardare alla situazione,
come fa la Germania, solo dal lato del creditore è forse comprensibile,
ma del tutto parziale. Le parti in causa sono due e hanno responsabilità
simmetriche: il debitore si impegna a ripagare il debito, il creditore
concede il credito dopo aver adeguatamente vagliato la solvibilità della
controparte.
Cesaratto sottolinea come le regole di governance
previste dai trattati europei erano e sono completamente inadeguate a
scongiurare il tipo di crisi descritta nel paragrafo precedente, in
quanto sostanzialmente disinteressate alle dinamiche del settore privato
e interamente finalizzate a limitare la discrezionalità fiscale dei
governi. Tali regole presuppongono, in linea con l’economia neoclassica,
che il settore privato sia efficiente, e in particolare che il settore
finanziario sia in grado di prezzare adeguatamente il rischio, cosa per
lo meno discutibile dopo l’ultima crisi. I trattati si preoccupano
dunque del problema di “azzardo morale”, ovvero di impedire che il
settore pubblico si indebiti più del dovuto sfruttando l’aumentata
credibilità derivante dal far parte di un’unione monetaria. Per questo
motivo furono introdotti nel Trattato di Maastricht vincoli di deficit e
debito pubblico attraverso il Patto di Stabilità e Crescita. Tuttavia,
nulla fu previsto per limitare l’indebitamento privato, né per impedire
politiche di svalutazione competitiva (reale) all’interno dell’Eurozona.
Il “mercantilismo” tedesco
Per quanto il libro di Cesaratto non
prenda posizione esplicita nella disputa accademica sull’importanza
delle politiche di contenimento del costo unitario del lavoro in
Germania, limitandosi a sintetizzare le varie posizioni (pp. 45-47), si
tratta di un tema importante per la tesi centrale del libro, che colei
che ha davvero violato le regole (implicite) di un’unione monetaria è
stata la Germania.
La disputa, una sorta di “fuoco amico”
tra autori che condividono un approccio eterodosso all’economia, ha
opposto Flassbeck e Lapavitsas da un lato (2015) e Storm e Naastepad
dall’altro (2015). Per Flassbeck e Lapavitsas la causa prima della crisi
è da cercarsi nella pluriennale moderazione salariale tedesca, sia
nominale (contenimento dei costi unitari del lavoro) che reale (aumenti
salariali reali inferiori alla crescita della produttività del lavoro),
effetto dell’offensiva padronale per la riduzione dei costi e delle
strategie cooperative di sindacati e (soprattutto) consigli di fabbrica
delle grandi aziende tedesche, preoccupati oltre ogni cosa di garantire i
posti di lavoro dei propri affiliati, e dunque disposti a fare
contrattazione concessiva (Baccaro e Benassi 2017). Con l’Euro, e con la
conseguente impossibilità di compensare le differenze tra i tassi
nazionali di inflazione attraverso l’aggiustamento del cambio nominale,
la moderazione salariale ha prodotto una svalutazione del tasso di
cambio reale tedesco a svantaggio degli altri paesi dell’Eurozona, ed è
dunque di importanza fondamentale, secondo Flassbeck e Lapavitsas
(2015), per spiegare l’accumularsi di squilibri delle partite correnti.
Storm e Naastepad ritengono invece che
la moderazione salariale e la compressione dei costi unitari del lavoro
abbiano un’importanza marginale nello spiegare i surplus di parte
corrente tedeschi, dato che, a loro dire, il sistema produttivo tedesco
non compete sui costi, ma su livelli qualitativi superiori (resi
possibili dalla presenza di istituzioni non liberali nelle relazioni
industriali e nella formazione professionale), ed attribuiscono un ruolo
più importante ai flussi di capitale dal centro alla periferia
dell’Eurozona, che avrebbero causato la perdita di competitività di
quest’ultima. Se un effetto della moderazione salariale c’è stato,
argomentano Storm & Naastepad, si è fatto sentire più sulla
riduzione delle importazioni tedesche che sullo stimolo alle
esportazioni. Insomma, mentre per Flassbeck e Lapavitsas la catena
causale procede dal mercato del lavoro (moderazione salariale) alle
differenze di competitività, per Storm parte dichiaratamente dalla
finanza, mentre il mercato del lavoro ha un ruolo secondario e derivato
(le perdite di competitività sono conseguenze delle bolle immobiliari).
Cesaratto, come detto, non si schiera
esplicitamente, ma un intero capitolo del libro è dedicato al
“mercantilismo” tedesco, il che lascia pensare che simpatizzi per la
versione di Flassbeck e Lapavitsas. Allo stesso tempo, ci si deve
chiedere fino a che punto questa versione (che come detto mette
fortemente l’accento sul mercato del lavoro come origine della catena
causale) sia conciliabile con la sua tesi che la crisi dell’Euro è crisi
di bilancia dei pagamenti, tesi che mette al centro dell’azione i
movimenti di capitale e la finanza. In ogni caso, il libro discute i
numerosi vantaggi che l’Euro ha fornito alla Germania, ricordando ad
esempio che il famoso “salvataggio” della Grecia
del 2010 fu in realtà un salvataggio delle banche francesi e tedesche
(ancor più francesi che tedesche in verità), fortemente esposte rispetto
al sistema bancario greco: se la Grecia avesse fatto default, queste
banche avrebbero subito perdite che ne avrebbero compromesso la
stabilità finanziaria, costringendo i governi di riferimento a
rifinanziarle. Attraverso il salvataggio della Grecia, pagato in maniera
proporzionale dai altri partner europei, Parigi e Berlino hanno
mutualizzato i costi del loro bail-out. Cesaratto ricorda anche come la Germania abbia beneficiato dalla flight to security
seguita alla crisi dei debiti sovrani, ovvero della fuga di capitali
dai paesi della periferia verso il centro, che ha condotto ad un
ulteriore abbassamento dei tassi di interesse in Germania.
Le proposte di riforma inadeguate
Le riforme di cui la zona Euro avrebbe
bisogno dovrebbero consistere nell’introduzione di regole che rendano
simmetrici i costi dell’aggiustamento tra paesi, permettendo di
restaurare “le regole del gioco”. Un esempio che Cesaratto non discute,
ma che andrebbe in questa direzione, riguarda il sistema di
contrattazione collettiva, che dovrebbe essere coordinato tra i vari
paesi in maniera da assicurare che i tassi di crescita del salario
nominale corrispondano in media all’obiettivo di inflazione della BCE
più la crescita media della produttività nazionale, in modo da rendere
impossibili le svalutazioni competitive (del cambio reale) che hanno
caratterizzato i primi anni dell’Euro. Tuttavia, queste e altre regole
di bilanciamento incontrerebbero difficoltà e resistenze politiche
probabilmente insormontabili, oltre che difficoltà di coordinamento tra
attori nazionali (sono i sindacati tedeschi della manifattura disposti a
rinunciare alla competitività di costo delle loro imprese?).
Una soluzione che viene di frequente
avanzata, e sdegnosamente rifiutata dall’opinione pubblica tedesca,
consiste nell’introduzione di trasferimenti fiscali dai paesi in surplus
a quelli in deficit. Trasferimenti di questo tipo sono già
politicamente difficili da sostenere in paesi in cui vi è comunanza di
storia, cultura e tradizioni (si pensi a quanto spinosa sia la questione
dei trasferimenti tra Nord e Sud in Italia, o tra Ovest e Est in
Germania), figurarsi nell’Unione europea, ove tali condizioni non
esistono. In ogni caso, i trasferimenti non risolvono il problema degli
squilibri di competitività tra paesi, ma semmai li compensano a
posteriori, condannando i paesi della periferia ad un poco dignitoso
futuro di dipendenza dalla solidarietà altrui.
Cesaratto sottolinea inoltre l’assoluta
inadeguatezza delle proposte di riforma dell’Eurozona al momento in
discussione. Lungi dal muovere verso una più equa ripartizione dei costi
di aggiustamento, esse mirano a restaurare l’ortodossia monetaria
violata, agli occhi dell’élite tedesca, dalla politica monetaria
non-convenzionale della BCE di Draghi, e a far applicare le regole di
rigore fiscale troppo spesso violate, a dire della Germania, dai paesi
del Sud. Spiccano in questo senso il breve documento (detto “non-paper”)
fatto circolare da Schaeuble prima di lasciare il Ministero delle
Finanze, che chiede una più rigorosa applicazione delle regole fiscali
(compreso il Fiscal Compact) da affidarsi ad un
organismo tecnico, un fondo monetario europeo, che possa imporre la
disciplina a governi recalcitranti, sostituendosi alla Commissione
Europea, un organismo ritenuto eccessivamente comprensivo nei riguardi
dei governi inadempienti. Contemporaneamente il non-paper rifiuta
l’assicurazione comune dei depositi bancari e l’introduzione di
Eurobonds, ovvero ogni forma di ulteriore mutualizzazione dei rischi tra
paesi europei. Chiede inoltre che ogni intervento di “salvataggio”
degli stati sia condizionato ad interventi di ristrutturazione del
debito, con perdite per i detentori di titoli. Se tali proposte fossero
applicate, fa notare Cesaratto, i tassi di interesse sui titoli italiani
aumenterebbero a causa dell’aumentato rischio, mettendo a rischio la
sostenibilità del debito pubblico e accelerando, invece di prevenire,
una nuova crisi di fiducia.
Anche le recenti proposte francesi,
nonostante la gran fanfara con cui sono state accolte, non affrontano la
sostanza dei problemi dell’Eurozona e rischiano di peggiorare la
situazione. Cesaratto si sofferma sul contributo di 16 economisti
francesi e tedeschi (Bénassy-Quéré e et al. 2018), che si propone come
una mediazione tra esigenze diverse, e lo considera troppo vicino al
non-paper tedesco per rappresentare una soluzione durevole. In
particolare, le proposte degli economisti franco-tedeschi incorporano la
richiesta tedesca che interventi di sostegno da parte del fondo
salva-stati siano subordinati alla ristrutturazione del debito.
Che fare?
Le raccomandazioni di policy
che derivano dall’analisi sono sorprendentemente moderate, considerate
le prese di posizione precedenti dell’autore (per es. Cesaratto 2016).
Non si consiglia di uscire dall’Euro; anzi, se ne mettono in evidenza le
incognite e i rischi difficilmente quantificabili data la mancanza di
precedenti (pp. 98-105). Quel che l’Italia dovrebbe fare, nell’opinione
di Cesaratto, è esigere la non-applicazione delle regole fiscali, in
particolare del Fiscal Compact.
Invece di impegnarsi a tagliare il debito attraverso attivi di bilancio
primario anno dopo anno, cosa che ha effetti recessivi, il governo
italiano dovrebbe impegnarsi a stabilizzare il debito, ma non a ridurlo.
Con questa proposta, si scommette sul fatto che un aumento del deficit
pubblico faccia ripartire la domanda aggregata, e generi un tasso di
crescita sufficientemente superiore al tasso di interesse medio pagato
sullo stock di debito da stabilizzare il debito pur in presenza di un
deficit primario. Questa politica, però, richiede la collaborazione
della BCE che deve impegnarsi non solo a mantenere basso il tasso di
interesse di riferimento, ma anche a proteggere i titoli del debito
pubblico italiano da improvvise crisi di sfiducia dei mercati
finanziari, continuando ad acquistarli (o dichiarando di essere disposta
a farlo whatever it takes).
C’è molto con cui concordare in questo
libro. Personalmente condivido che fosse necessario opporre alla
narrazione “tedesca” della crisi una narrazione alternativa e opposta
che la bilanciasse. Occorre tuttavia ricordare che non c’è stato nessun
raggiro teutonico: le regole che sono state applicate sono quelle
inserite nei Trattati europei, che l’Italia ha volontariamente
sottoscritto e spesso incoraggiato. Concordo anche sull’analisi della
natura della crisi, anche se avrei voluto un po’ più di chiarezza sulla
catena causale: la crisi ha origine dalla moderazione salariale tedesca?
O dalla creazione di credito bancario nei paesi periferici, conseguenza
di tassi di interesse reali troppo bassi (nella periferia)? O le due
cose sono inscindibili? È importante rispondere a queste domande, dato
che le implicazioni di policy sono differenti. Sono inoltre d’accordo
che l’Italia dovrebbe prendere le distanze dalle proposte dell’Eurozona
formulate recentemente dai tecnocrati franco-tedeschi.
Quel che mi lascia un po’ insoddisfatto è invece la parte di political economy:
non vedo perché i partner europei dovrebbero accettare che l’Italia
metta da parte gli impegni già presi sul deficit e sulla riduzione del
debito (attraverso il Fiscal Compact), per impegnarsi solo a
stabilizzare il debito. Inoltre, quanto è realistico pensare che la BCE
sia disposta a intervenire in difesa dei titoli di debito pubblico
italiano, soprattutto ora che il mandato di Draghi è in scadenza?
In breve, il programma di Cesaratto, per
quanto ragionevole, non mi sembra politicamente realizzabile nelle
condizioni attuali. Cesaratto ha ragione che per superare la crisi è
necessario che la Germania cambi la direzione della sua politica
economica, rilanciando la sua domanda interna, e permettendo agli altri
di fare altrettanto. Tuttavia, questo non accadrà perché qualche
economista riesce a convincere les elites politico-economiche tedesche
che le loro analisi sono sbagliate, ma perché cambiano i rapporti di
forza. Concretamente questo significa due cose: primo, un pesce grosso
(ovvero di importanza sistemica, come l’Italia) decide che è disposto ad
uscire dall’Euro se le cose non cambiano. Questo però è un chicken game
molto pericoloso, in cui ci si può fare molto male. Secondo, un pesce
grossissimo, come gli Stati Uniti di Trump, costringe la Germania a
ribilanciare il proprio modello di crescita minacciando il ritorno al
protezionismo. Credo che la seconda minaccia sia più credibile della
prima.
*Max Planck Institute for the Study of Societies
Referenze bibliografiche
Armingeon, Klaus e Lucio Baccaro. 2015. “The Crisis and Germany: The Trading State Unleashed.” Pp. 165-83 in Complex Democracy, edito da V. Schneider e B. Eberlein: Springer International Publishing.
Baccaro, Lucio e Chiara Benassi. 2017.
“Throwing out the Ballast: Growth Models and the Liberalization of
German Industrial Relations.” Socio-Economic Review 15(1):85-115.
Bénassy-Quéré, Agnès e et al. 2018.
“Reconciling Risk Sharing with Market Discipline: A Constructive
Approach to Euro Area Reform.” Center For Economic Policy Research, Policy Insight No 91.
Blanchard, Olivier e Francesco Giavazzi.
2002. “Current Account Deficits in the Euro Area: The End of the
Feldstein-Horioka Puzzle? .” Brookings Papers on Economic Activity 2:147-86.
Cesaratto, S. 2015. “‘Alternative Interpretation of a Stateless Currency Crisis’.” Cambridge Journal of Economics 41(4):977-98.
Cesaratto, Sergio. 2016. Sei Lezioni Di Economia. Reggio Emilia: Imprimatur.
Cesaratto, Sergio. 2018. Chi Non Rispetta Le Regole? . Reggio Emilia: Imprimatur.
Flassbeck, Heiner e Costas Lapavitsas. 2015. Against the Troika: Crisis and Austerity in the Eurozone. London: Verso.
Frenkel, Roberto e Martin Rapetti. 2009.
“A Developing Country View of the Current Global Crisis: What Should
Not Be Forgotten and What Should Be Done.” Cambridge Journal of Economics 33(4):685-702.
Sinn, Hans-Werner. 2014. “Austerity, Growth and Inflation: Remarks on the Eurozone’s Unresolved Competitiveness Problem.” The World Economy 37(1):1-13.
Storm, Servaas e C. W. M. Naastepad. 2015. “Crisis and Recovery in the German Economy: The Real Lessons.” Structural Change and Economic Dynamics 32:11-24.
Walters, Alan. 1988. “A Critical View of the Ems.” Cato Journal 8(2):503–6.
Weidmann, Jens. 2012. “Rebalancing Europe.” Speech at Chatham House in London, 28 March.
Iscriviti a:
Post (Atom)
Il racconto truccato del conflitto previdenziale
di Matteo Bortolon da Il Manifesto Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...
-
di Domenico D'Amico Repetita iuvant , ho pensato di fronte al libro di Michel Floquet ( Triste America , Neri Pozza 2016, pagg. 2...
-
di Franco Cilli Hanno ucciso il mio paese. Quando percorro la riviera adriatica in macchina o col treno posso vedere chiarament...