Sergio Cesaratto ha scritto un bel libro, Chi non rispetta le regole?
(Cesaratto 2018), con l’obiettivo di smontare sistematicamente una
particolare lettura della crisi dell’Euro, che assolve completamente la
classe dirigente politica ed economica tedesca, e scarica per intero la
responsabilità sui paesi della periferia europea. È una lettura
moraleggiante, diffusa non solo in Germania, ma anche in ambienti
italiani di orientamento liberista. Non è affatto un’invenzione
dell’autore. Al contrario, personalmente ho ascoltato diverse volte
questo tipo di narrazione quando, nell’autunno del 2013, condussi con
Klaus Armingeon una serie di interviste volte a capire in quale maniera
funzionari publici, politici e sindacalisti tedeschi interpretassero la
crisi dell’Euro e le risposte da dare ad essa (Armingeon e Baccaro
2015).
La lettura “tedesca” della crisi
Esagerando un po’ (ma lasciando inalterata la sostanza), la lettura della crisi
che emerse da quei colloqui in Germania si può riassumere nella maniera
seguente: a dire degli intervistati, la situazione dei paesi della
periferia europea era per molti versi simile a quella della Germania nei
primi anni 2000. Anche l’economia tedesca languiva in quel periodo in
una crisi profonda. Diversamente però dai paesi del Sud, la Germania
scelse di mantenere in ordine i suoi conti pubblici e di introdurre
riforme importanti del mercato del lavoro e della protezione sociale (le riforme Hartz).
Sindacati e imprese contribuirono alla ripresa economica accordandosi
per flessibilizzare il sistema di contrattazione collettiva, in
precedenza eccessivamente rigido, e in questo modo consentirono alle
imprese, attraverso la moderazione salariale, di riguadagnare la
competitività internazionale persa negli anni immediatamente successivi
alla riunificazione. Fu un governo di centro-sinistra, il governo
Schroeder, ad introdurre le riforme, e ad esse pagò un prezzo politico
molto alto: non fu rieletto, ma si dimostrò capace di anteporre gli
interessi del paese agli interessi di parte. Grazie alle riforme fatte,
la Germania tornò a crescere in capo a pochi anni.
La storia di solito si concludeva con
considerazioni su quel che avrebbero dovuto fare i paesi della periferia
europea. Come la Germania dieci anni prima, anche per questi l’unica
soluzione era imboccarsi le maniche e fare le riforme strutturali troppo
a lungo rimandate. La loro spesa pubblica era fuori controllo, i
mercati del lavoro eccessivamente rigidi, i sistemi pensionistici troppo
generosi, e in più avevano sprecato l’opportunità dei bassi tassi di
interesse forniti dall’Euro
nei primi anni 2000. Erano responsabili delle proprie sfortune.
Pretendere che i loro debiti fossero ripagati da altri paesi era un
abuso. Chiedere alla Germania di rinunciare alla propria competitività
duramente riconquistata era come chiedere al Barcellona di giocare senza
Messi per fare un favore agli avversari (Weidmann 2012).
Questa ricostruzione veniva fornita, con
poche variazioni, da personaggi di diversa estrazione: funzionari del
ministero delle Finanze e politici di CDU e SPD. Gli unici ad avere una
lettura differente della situazione erano i sindacalisti di Ver.Di., il
sindacato dei servizi, che mettevano l’accento sulla necessità per la
Germania di espandere la domanda interna, ma la loro posizione appariva
del tutto isolata, ed incapace di incidere sulle scelte politiche.
È esattamente contro questo tipo di narrazione che il libro di Cesaratto si rivolge, ricordando come un’unione monetaria, l’Euro come il gold standard,
si regga su “regole del gioco” implicite. Il sistema è sostenibile solo
se ci sono meccanismi e strumenti che consentano l’aggiustamento
simmetrico in caso di squilibri della bilancia di parte corrente. In
particolare, un paese in surplus dovrebbe consentire ai suoi prezzi
interni di crescere più rapidamente dei prezzi dei paesi in deficit in
modo da riequilibrare il tasso di cambio reale (che è dato dal rapporto
tra i prezzi interni ed esteri) e attraverso questo l’equilibrio di
parte corrente. Tali meccanismi non sono però automatici, ma dipendono
da decisioni politiche. Se, come nel caso della Germania, il paese in
surplus ha un’economia “tirata dalle esportazioni”, il non aggiustamento
gli permette di trarre beneficio dalla situazione, almeno per un po’.
Dunque una prima conclusione di Cesaratto è che il paese che ha violato
le regole (implicite) di funzionamento dell’unione monetaria è la
Germania, e lo ha fatto perseguendo scientemente il suo interesse
nazionale.
La crisi dell’Eurozona come crisi di bilancia dei pagamenti
Nel dibattito di economia eterodossa, Cesaratto è associato alla tesi che equipara la crisi dell’Euro ad una crisi di bilancia dei pagamenti (Cesaratto 2015). In sintesi, secondo questa tesi l’Eurozona
è assimilabile ad un sistema di cambi fissi. È noto che i sistemi di
cambi fissi sono soggetti ad un particolare tipo di crisi (verificatasi
finora soprattutto nei paesi in via di sviluppo), nota come “arresto
improvviso” (Frenkel e Rapetti 2009). Anche la crisi del 2010-2011 ha
per Cesaratto le caratteristiche di un arresto improvviso, sia pure sui generis.
Negli anni precedenti alla crisi, i mercati finanziari si erano convinti che il rischio paese fosse scomparso e che il debito pubblico
di tutti i paesi dell’Eurozona, compresi quelli periferici, fosse di
fatto garantito in solido da tutti i paesi membri. Questa percezione
aveva comportato una convergenza dei tassi di interesse nominali a
partire dalla metà degli anni ’90. Permanevano tuttavia tassi di
inflazione differenti a livello nazionale e questo creava disparità dei
tassi di interesse reale, che erano più alti nei paesi a bassa
inflazione, in primis la Germania, e più bassi nei paesi ad alta
inflazione, quelli della periferia meridionale più l’Irlanda.
Queste differenze nei tassi di interesse reali, note come “effetto Walters” (Walters 1988), rallentavano la domanda nei paesi core
e la facevano aumentare nei paesi della periferia, soprattutto nel
settore delle costruzioni, tradizionalmente sensibile al tasso di
interesse reale, stimolando la concessione di credito da parte del
settore bancario e l’indebitamento, in primis privato. Per un certo
periodo sembrò che gli squilibri fossero espressione di un processo
benefico di convergenza (Blanchard e Giavazzi 2002), che incoraggiava
gli investimenti nei paesi della periferia riducendo le disparità di
sviluppo. Solo successivamente divenne chiaro che gli investimenti erano
in settori a bassa produttività e non generavano convergenza.
Fino all’esplodere della crisi, le
banche periferiche prendevano a prestito riserve da quelle dei paesi
core, le quali erano ben liete di riciclare le loro riserve in eccesso a
tassi un po’ più elevati di quello sui depositi presso la banca
centrale (Cesaratto 2016). Dopo il fallimento di Lehmann Brothers,
tuttavia, e soprattutto dopo la crisi greca, i flussi interbancari dal
centro alla periferia si interruppero bruscamente.
Occorre sottolineare che nel caso
dell’Euro, a differenza di un sistema di cambi fissi, non c’è un
problema di esaurimento delle riserve valutarie da parte dei paesi sotto
attacco, grazie alla presenza di un meccanismo di pagamenti
interbancari, il Target 2, che consente ai paesi membri
di finanziare il deficit estero (e le fughe di capitali) in maniera
potenzialmente illimitata anche quando i flussi transfrontalieri di
capitale si bloccano, sostituendo ai prestiti interbancari i prestiti
del sistema delle banche centrali. Dunque la conseguenza più immediata
dell’arresto improvviso è stata un accumulo di crediti Target 2 da parte
della Bundesbank, e un corrispondente accumulo di debiti da parte delle
banche centrali dei paesi periferici (Sinn 2014). In assenza del
sistema Target 2, le misure di austerità necessarie a far fronte all’arresto improvviso sarebbero state probabilmente assai più gravose.
Gli effetti immediati dell’arresto
improvviso di flussi di capitale si manifestarono non nel sistema
bancario, ma nel mercato dei titoli pubblici. Preoccupati
dall’aggravarsi delle finanze pubbliche di alcuni paesi, appesantite
dalla crisi e dagli interventi pubblici per “mettere in salvo” i sistemi
bancari (per esempio in Irlanda), i mercati finanziari cominciarono a
nutrire dubbi sulla capacità di alcuni governi di ripagare i loro
debiti, e dunque domandarono tassi di interesse sempre più elevati per
compensare l’aumentato rischio. L’aumento dei tassi di interesse
aggravava, invece di alleggerire, il rischio di fallimento. Ad un certo
punto alcuni paesi della periferia divennero incapaci di rifinanziare le
proprie emissioni di titoli pubblici anche a tassi molto elevati, e
dunque furono costretti ad invocare l’intervento della “trojka” proprio
come in simili circostanze i paesi in via di sviluppo invocano
l’intervento del Fondo Monetario Internazionale. Ed infatti tra i
programmi di austerità richiesti dal FMI ai paesi in via di sviluppo e quelli richiesti dalla trojka
non c’è grande differenza: entrambi comportano l’aggiustamento fiscale
attraverso il taglio della spesa piuttosto l’aumento delle imposte, e la
liberalizzazione dei mercati dei prodotti e soprattutto del lavoro.
Insomma, i tratti caratteristici di un
arresto improvviso, argomenta Cesaratto, sono chiaramente identificabili
anche nella crisi dell’Eurozona: afflusso di capitali esteri (in questo
caso per rifinanziare l’espansione di credito bancario nei paesi
periferici), improvvisa crisi di fiducia, arresto e fuga di capitali,
intervento delle istituzioni monetarie internazionali con annesse
condizionalità, e programma di aggiustamento strutturale (ovvero
austerità). Per quanto la crisi si sia manifestata nel mercato dei
debiti pubblici – un mercato in cui il rischio non è “coperto” dalla BCE,
che può fornire riserve in maniera potenzialmente illimitata alle
banche, ma non può, a norma di trattati europei, acquistare titoli dai
governi – è stata per Cesaratto in primis una crisi di debito privato:
alcune parti hanno prestato eccessivamente e in maniera poco prudente,
ed altre parti, corrispondentemente, hanno preso in prestito
eccessivamente e in maniera poco prudente. Guardare alla situazione,
come fa la Germania, solo dal lato del creditore è forse comprensibile,
ma del tutto parziale. Le parti in causa sono due e hanno responsabilità
simmetriche: il debitore si impegna a ripagare il debito, il creditore
concede il credito dopo aver adeguatamente vagliato la solvibilità della
controparte.
Cesaratto sottolinea come le regole di governance
previste dai trattati europei erano e sono completamente inadeguate a
scongiurare il tipo di crisi descritta nel paragrafo precedente, in
quanto sostanzialmente disinteressate alle dinamiche del settore privato
e interamente finalizzate a limitare la discrezionalità fiscale dei
governi. Tali regole presuppongono, in linea con l’economia neoclassica,
che il settore privato sia efficiente, e in particolare che il settore
finanziario sia in grado di prezzare adeguatamente il rischio, cosa per
lo meno discutibile dopo l’ultima crisi. I trattati si preoccupano
dunque del problema di “azzardo morale”, ovvero di impedire che il
settore pubblico si indebiti più del dovuto sfruttando l’aumentata
credibilità derivante dal far parte di un’unione monetaria. Per questo
motivo furono introdotti nel Trattato di Maastricht vincoli di deficit e
debito pubblico attraverso il Patto di Stabilità e Crescita. Tuttavia,
nulla fu previsto per limitare l’indebitamento privato, né per impedire
politiche di svalutazione competitiva (reale) all’interno dell’Eurozona.
Il “mercantilismo” tedesco
Per quanto il libro di Cesaratto non
prenda posizione esplicita nella disputa accademica sull’importanza
delle politiche di contenimento del costo unitario del lavoro in
Germania, limitandosi a sintetizzare le varie posizioni (pp. 45-47), si
tratta di un tema importante per la tesi centrale del libro, che colei
che ha davvero violato le regole (implicite) di un’unione monetaria è
stata la Germania.
La disputa, una sorta di “fuoco amico”
tra autori che condividono un approccio eterodosso all’economia, ha
opposto Flassbeck e Lapavitsas da un lato (2015) e Storm e Naastepad
dall’altro (2015). Per Flassbeck e Lapavitsas la causa prima della crisi
è da cercarsi nella pluriennale moderazione salariale tedesca, sia
nominale (contenimento dei costi unitari del lavoro) che reale (aumenti
salariali reali inferiori alla crescita della produttività del lavoro),
effetto dell’offensiva padronale per la riduzione dei costi e delle
strategie cooperative di sindacati e (soprattutto) consigli di fabbrica
delle grandi aziende tedesche, preoccupati oltre ogni cosa di garantire i
posti di lavoro dei propri affiliati, e dunque disposti a fare
contrattazione concessiva (Baccaro e Benassi 2017). Con l’Euro, e con la
conseguente impossibilità di compensare le differenze tra i tassi
nazionali di inflazione attraverso l’aggiustamento del cambio nominale,
la moderazione salariale ha prodotto una svalutazione del tasso di
cambio reale tedesco a svantaggio degli altri paesi dell’Eurozona, ed è
dunque di importanza fondamentale, secondo Flassbeck e Lapavitsas
(2015), per spiegare l’accumularsi di squilibri delle partite correnti.
Storm e Naastepad ritengono invece che
la moderazione salariale e la compressione dei costi unitari del lavoro
abbiano un’importanza marginale nello spiegare i surplus di parte
corrente tedeschi, dato che, a loro dire, il sistema produttivo tedesco
non compete sui costi, ma su livelli qualitativi superiori (resi
possibili dalla presenza di istituzioni non liberali nelle relazioni
industriali e nella formazione professionale), ed attribuiscono un ruolo
più importante ai flussi di capitale dal centro alla periferia
dell’Eurozona, che avrebbero causato la perdita di competitività di
quest’ultima. Se un effetto della moderazione salariale c’è stato,
argomentano Storm & Naastepad, si è fatto sentire più sulla
riduzione delle importazioni tedesche che sullo stimolo alle
esportazioni. Insomma, mentre per Flassbeck e Lapavitsas la catena
causale procede dal mercato del lavoro (moderazione salariale) alle
differenze di competitività, per Storm parte dichiaratamente dalla
finanza, mentre il mercato del lavoro ha un ruolo secondario e derivato
(le perdite di competitività sono conseguenze delle bolle immobiliari).
Cesaratto, come detto, non si schiera
esplicitamente, ma un intero capitolo del libro è dedicato al
“mercantilismo” tedesco, il che lascia pensare che simpatizzi per la
versione di Flassbeck e Lapavitsas. Allo stesso tempo, ci si deve
chiedere fino a che punto questa versione (che come detto mette
fortemente l’accento sul mercato del lavoro come origine della catena
causale) sia conciliabile con la sua tesi che la crisi dell’Euro è crisi
di bilancia dei pagamenti, tesi che mette al centro dell’azione i
movimenti di capitale e la finanza. In ogni caso, il libro discute i
numerosi vantaggi che l’Euro ha fornito alla Germania, ricordando ad
esempio che il famoso “salvataggio” della Grecia
del 2010 fu in realtà un salvataggio delle banche francesi e tedesche
(ancor più francesi che tedesche in verità), fortemente esposte rispetto
al sistema bancario greco: se la Grecia avesse fatto default, queste
banche avrebbero subito perdite che ne avrebbero compromesso la
stabilità finanziaria, costringendo i governi di riferimento a
rifinanziarle. Attraverso il salvataggio della Grecia, pagato in maniera
proporzionale dai altri partner europei, Parigi e Berlino hanno
mutualizzato i costi del loro bail-out. Cesaratto ricorda anche come la Germania abbia beneficiato dalla flight to security
seguita alla crisi dei debiti sovrani, ovvero della fuga di capitali
dai paesi della periferia verso il centro, che ha condotto ad un
ulteriore abbassamento dei tassi di interesse in Germania.
Le proposte di riforma inadeguate
Le riforme di cui la zona Euro avrebbe
bisogno dovrebbero consistere nell’introduzione di regole che rendano
simmetrici i costi dell’aggiustamento tra paesi, permettendo di
restaurare “le regole del gioco”. Un esempio che Cesaratto non discute,
ma che andrebbe in questa direzione, riguarda il sistema di
contrattazione collettiva, che dovrebbe essere coordinato tra i vari
paesi in maniera da assicurare che i tassi di crescita del salario
nominale corrispondano in media all’obiettivo di inflazione della BCE
più la crescita media della produttività nazionale, in modo da rendere
impossibili le svalutazioni competitive (del cambio reale) che hanno
caratterizzato i primi anni dell’Euro. Tuttavia, queste e altre regole
di bilanciamento incontrerebbero difficoltà e resistenze politiche
probabilmente insormontabili, oltre che difficoltà di coordinamento tra
attori nazionali (sono i sindacati tedeschi della manifattura disposti a
rinunciare alla competitività di costo delle loro imprese?).
Una soluzione che viene di frequente
avanzata, e sdegnosamente rifiutata dall’opinione pubblica tedesca,
consiste nell’introduzione di trasferimenti fiscali dai paesi in surplus
a quelli in deficit. Trasferimenti di questo tipo sono già
politicamente difficili da sostenere in paesi in cui vi è comunanza di
storia, cultura e tradizioni (si pensi a quanto spinosa sia la questione
dei trasferimenti tra Nord e Sud in Italia, o tra Ovest e Est in
Germania), figurarsi nell’Unione europea, ove tali condizioni non
esistono. In ogni caso, i trasferimenti non risolvono il problema degli
squilibri di competitività tra paesi, ma semmai li compensano a
posteriori, condannando i paesi della periferia ad un poco dignitoso
futuro di dipendenza dalla solidarietà altrui.
Cesaratto sottolinea inoltre l’assoluta
inadeguatezza delle proposte di riforma dell’Eurozona al momento in
discussione. Lungi dal muovere verso una più equa ripartizione dei costi
di aggiustamento, esse mirano a restaurare l’ortodossia monetaria
violata, agli occhi dell’élite tedesca, dalla politica monetaria
non-convenzionale della BCE di Draghi, e a far applicare le regole di
rigore fiscale troppo spesso violate, a dire della Germania, dai paesi
del Sud. Spiccano in questo senso il breve documento (detto “non-paper”)
fatto circolare da Schaeuble prima di lasciare il Ministero delle
Finanze, che chiede una più rigorosa applicazione delle regole fiscali
(compreso il Fiscal Compact) da affidarsi ad un
organismo tecnico, un fondo monetario europeo, che possa imporre la
disciplina a governi recalcitranti, sostituendosi alla Commissione
Europea, un organismo ritenuto eccessivamente comprensivo nei riguardi
dei governi inadempienti. Contemporaneamente il non-paper rifiuta
l’assicurazione comune dei depositi bancari e l’introduzione di
Eurobonds, ovvero ogni forma di ulteriore mutualizzazione dei rischi tra
paesi europei. Chiede inoltre che ogni intervento di “salvataggio”
degli stati sia condizionato ad interventi di ristrutturazione del
debito, con perdite per i detentori di titoli. Se tali proposte fossero
applicate, fa notare Cesaratto, i tassi di interesse sui titoli italiani
aumenterebbero a causa dell’aumentato rischio, mettendo a rischio la
sostenibilità del debito pubblico e accelerando, invece di prevenire,
una nuova crisi di fiducia.
Anche le recenti proposte francesi,
nonostante la gran fanfara con cui sono state accolte, non affrontano la
sostanza dei problemi dell’Eurozona e rischiano di peggiorare la
situazione. Cesaratto si sofferma sul contributo di 16 economisti
francesi e tedeschi (Bénassy-Quéré e et al. 2018), che si propone come
una mediazione tra esigenze diverse, e lo considera troppo vicino al
non-paper tedesco per rappresentare una soluzione durevole. In
particolare, le proposte degli economisti franco-tedeschi incorporano la
richiesta tedesca che interventi di sostegno da parte del fondo
salva-stati siano subordinati alla ristrutturazione del debito.
Che fare?
Le raccomandazioni di policy
che derivano dall’analisi sono sorprendentemente moderate, considerate
le prese di posizione precedenti dell’autore (per es. Cesaratto 2016).
Non si consiglia di uscire dall’Euro; anzi, se ne mettono in evidenza le
incognite e i rischi difficilmente quantificabili data la mancanza di
precedenti (pp. 98-105). Quel che l’Italia dovrebbe fare, nell’opinione
di Cesaratto, è esigere la non-applicazione delle regole fiscali, in
particolare del Fiscal Compact.
Invece di impegnarsi a tagliare il debito attraverso attivi di bilancio
primario anno dopo anno, cosa che ha effetti recessivi, il governo
italiano dovrebbe impegnarsi a stabilizzare il debito, ma non a ridurlo.
Con questa proposta, si scommette sul fatto che un aumento del deficit
pubblico faccia ripartire la domanda aggregata, e generi un tasso di
crescita sufficientemente superiore al tasso di interesse medio pagato
sullo stock di debito da stabilizzare il debito pur in presenza di un
deficit primario. Questa politica, però, richiede la collaborazione
della BCE che deve impegnarsi non solo a mantenere basso il tasso di
interesse di riferimento, ma anche a proteggere i titoli del debito
pubblico italiano da improvvise crisi di sfiducia dei mercati
finanziari, continuando ad acquistarli (o dichiarando di essere disposta
a farlo whatever it takes).
C’è molto con cui concordare in questo
libro. Personalmente condivido che fosse necessario opporre alla
narrazione “tedesca” della crisi una narrazione alternativa e opposta
che la bilanciasse. Occorre tuttavia ricordare che non c’è stato nessun
raggiro teutonico: le regole che sono state applicate sono quelle
inserite nei Trattati europei, che l’Italia ha volontariamente
sottoscritto e spesso incoraggiato. Concordo anche sull’analisi della
natura della crisi, anche se avrei voluto un po’ più di chiarezza sulla
catena causale: la crisi ha origine dalla moderazione salariale tedesca?
O dalla creazione di credito bancario nei paesi periferici, conseguenza
di tassi di interesse reali troppo bassi (nella periferia)? O le due
cose sono inscindibili? È importante rispondere a queste domande, dato
che le implicazioni di policy sono differenti. Sono inoltre d’accordo
che l’Italia dovrebbe prendere le distanze dalle proposte dell’Eurozona
formulate recentemente dai tecnocrati franco-tedeschi.
Quel che mi lascia un po’ insoddisfatto è invece la parte di political economy:
non vedo perché i partner europei dovrebbero accettare che l’Italia
metta da parte gli impegni già presi sul deficit e sulla riduzione del
debito (attraverso il Fiscal Compact), per impegnarsi solo a
stabilizzare il debito. Inoltre, quanto è realistico pensare che la BCE
sia disposta a intervenire in difesa dei titoli di debito pubblico
italiano, soprattutto ora che il mandato di Draghi è in scadenza?
In breve, il programma di Cesaratto, per
quanto ragionevole, non mi sembra politicamente realizzabile nelle
condizioni attuali. Cesaratto ha ragione che per superare la crisi è
necessario che la Germania cambi la direzione della sua politica
economica, rilanciando la sua domanda interna, e permettendo agli altri
di fare altrettanto. Tuttavia, questo non accadrà perché qualche
economista riesce a convincere les elites politico-economiche tedesche
che le loro analisi sono sbagliate, ma perché cambiano i rapporti di
forza. Concretamente questo significa due cose: primo, un pesce grosso
(ovvero di importanza sistemica, come l’Italia) decide che è disposto ad
uscire dall’Euro se le cose non cambiano. Questo però è un chicken game
molto pericoloso, in cui ci si può fare molto male. Secondo, un pesce
grossissimo, come gli Stati Uniti di Trump, costringe la Germania a
ribilanciare il proprio modello di crescita minacciando il ritorno al
protezionismo. Credo che la seconda minaccia sia più credibile della
prima.
*Max Planck Institute for the Study of Societies
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Bénassy-Quéré, Agnès e et al. 2018.
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Blanchard, Olivier e Francesco Giavazzi.
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Cesaratto, S. 2015. “‘Alternative Interpretation of a Stateless Currency Crisis’.” Cambridge Journal of Economics 41(4):977-98.
Cesaratto, Sergio. 2016. Sei Lezioni Di Economia. Reggio Emilia: Imprimatur.
Cesaratto, Sergio. 2018. Chi Non Rispetta Le Regole? . Reggio Emilia: Imprimatur.
Flassbeck, Heiner e Costas Lapavitsas. 2015. Against the Troika: Crisis and Austerity in the Eurozone. London: Verso.
Frenkel, Roberto e Martin Rapetti. 2009.
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Storm, Servaas e C. W. M. Naastepad. 2015. “Crisis and Recovery in the German Economy: The Real Lessons.” Structural Change and Economic Dynamics 32:11-24.
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Weidmann, Jens. 2012. “Rebalancing Europe.” Speech at Chatham House in London, 28 March.
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