Uta Ranke-Heinemann è stata la prima donna a diventare titolare di una cattedra di teologia cattolica. Ha scritto due libri molto importanti: Eunuchi per il Regno dei Cieli - la Chiesa Cattolica e la Sessualità (1988) e Così Non Sia (1993), libro di cui proponiamo un'ampia parte. Sono entrambi libri dissacranti, che fanno a pezzi l'uno l'etica sessuale cattolica ed il secondo praticamente tutte le credenze del cristianesimo. Nonostante il contenuto così dissacratorio di testi divenuti best seller mondiali, Uta Ranke-Heinemann non è stata mai mai scomunicata. Appare incredibile ma entrambi i libri sono stati scritti da una donna che, nonostante tutto si definiva ancora cristiana. Nel suo ultimo libro però (Cristianesimo Addio), ha reciso definitivamente ogni suo legame con la dottrina cristiana cattolica. Questo libro è introvabile, fuori catalogo ormai da alcuni anni.
Uta Ranke-Heinemann: Così Non Sia
Introduzione al dubbio di fede
Introduzione al dubbio di fede
PREFAZIONE
Da bambina, di tutto il cristianesimo mi interessava, in fondo, una cosa sola: c'è una vita dopo la morte? A volte, prima di addormentarmi, restavo a lungo sveglia sul letto, e mi immaginavo di stare sdraiata nella cassa da morto: per sempre, per sempre, per sempre ... E la domanda da bambina e l'angoscia da bambina si fecero pesanti e buie come la notte.
All’incirca sei mesi prima della fine della guerra, cioè nel 1944, quando la nostra casa, la scuola e tutta la città di Essen erano state in gran parte distrutte dalle bombe, e non essendoci ormai neanche a Winterberg, dove nel frattempo la guerra ci aveva costretto a sfollare, nessuna scuola che potessi frequentare, mia madre ed io andammo a trovare il professor Rudolf Bultmann (1884-1976) a Marburgo. Negli anni Venti era stata fra i suoi studenti e aveva sostenuto l'esame di stato con lui. Gli chiese se io potessi abitare a casa sua, continuando così a Marburgo a frequentare la scuola. All'epoca avevo appena 17 anni, e lui disse con gentilezza: «Noi (= lui, sua moglie e le sue figlie) siamo contenti che la piccola Uta venga da noi». E così rimasi a casa sua fino alla fine della guerra.
In quel tempo - seppure soverchiate dal fragore dei bombardamenti notturni e dalle catastrofi della guerra - si sollevarono in seno alla chiesa protestante le prime voci contro Rudolf Bultmann, quel teologo protestante destinato a diventare celeberrimo a causa della sua «demitizzazione del Nuovo Testamento». E un giorno arrivò una lettera del mio pastore Friedrich Graeber, dal quale ero stata confermata e che era il migliore amico di mio padre: «Cara Uta, il professor Bultmann non crede nella risurrezione. Non lasciarti influenzare dalle sue idee».
Durante il pranzo (all'epoca magrissimo) dissi: «Professore, è vero che lei non crede nella risurrezione?». Lui disse: «Uta, queste sono cose che ancora non capisci». Lo diceva con il sorriso stanco delle persone alle quali si rivolge sempre la stessa domanda, cosicché ne trassi la conclusione che egli credeva sì nella risurrezione, ma evidentemente in modo diverso da come ci credevano gli altri. Non insistetti nella mia domanda e rimandai la trattazione di questo problema. Del resto, in quel periodo mi impegnavo parecchio per essere sufficientemente preparata: ogni martedì e ogni venerdì pomeriggio Rudolf Bultmann e io traducevamo insieme, sopra nel suo studio, per due ore Platone: cioè, io traducevo e lui mi spiegava il pensiero di Platone.
Molto più tardi, nel frattempo avevo studiato, sulle orme di mia madre, teologia protestante e - nient'affatto sulle orme dei miei genitori - mi ero convertita, nel 1953, al cattolicesimo, gli posi, in una lettera, ancora una volta la domanda sulla sua fede nella risurrezione. Ma di questo ne parleremo più avanti, nel capitolo sulla Pasqua.
La domanda sulla vita dopo la morte e il ricordo di Rudolf Bultmann, quell'erudito tanto disponibile, quell’uomo razionale pieno di devozione, mi hanno accompagnato per tutta la vita.
Il ricordo di Bultmann era vivo, quando dentro di me crescevano i dubbi. Ma il suo esempio mi ha pure insegnato che anche uno scettico può essere cristiano. E se in questo libro, affrontando l'abituale mondo della fede, si dice più volte «così non sia», ciò non esclude il «così sia» che l'uomo può dire comunque, al di là di tutti i dubbi.
Il ricordo di Bultmann era vivo, quando dentro di me crescevano i dubbi. Ma il suo esempio mi ha pure insegnato che anche uno scettico può essere cristiano. E se in questo libro, affrontando l'abituale mondo della fede, si dice più volte «così non sia», ciò non esclude il «così sia» che l'uomo può dire comunque, al di là di tutti i dubbi.
INTRODUZIONE
L'uomo ascolta in buona fede quel che gli viene detto, e perciò egli costituisce un terreno fertilissimo per la religione. Questo fatto non crea problemi fin quando l'uomo ha a che fare con Dio stesso: infatti, egli può stare ben certo che Dio non lo imbroglierà mai. Ma l'uomo, molto più che con Dio, ha a che fare con i suoi rappresentanti. E poiché questi assicurano che i loro discorsi servono alla sua felicità e salvezza eterne, l'uomo dà spesso e volentieri ascolto ai loro discorsi senza porre domande, accetta e crede tutto ciò che loro dicono di credere e di fare, poiché, nei confronti di un'autorità istituita da Dio, ogni dubbio gli sembra essere peccaminoso.
Quanto alla verità di Dio, il cristiano la affronta nella sua vita solo indirettamente. Infatti, secondo il catechismo, «quel che Dio ha rivelato ci viene insegnato dalla chiesa cattolica». Lo stesso concetto viene espresso in un canto cattolico tedesco: «Ho fiducia, o Dio, in quel che insegna la tua chiesa, che sia scritto o non scritto: tu stesso gliel'hai spiegato». Di conseguenza il cristiano riceve la verità, semmai, di seconda mano. Ma una verità che è passata per altre mani è una verità censurata, e il Dio che l'uomo incontra alla fine della catena di distribuzione ecclesiastica, è un Dio censurato. In più la verità (o quel che ne è rimasto) è degenerata, per via della inettitudine teologica dei pastori, in una massa di cose incomprese e incomprensibili e, pertanto, in falsa fede e superstizione.
La chiesa chiama l'uomo alla fede e non alla riflessione. E, pertanto, questi si esercita per tutta la vita nella ginnastica dell'annuire, del dire «così sia». In una religione che chiama beato il credente e mai lo scettico, coloro che si pongono domande rimangono senza benedizione e risultano spesso sospetti agli occhi nei credenti, ma in realtà il domandare è una virtù cristiana, benché sia solo raramente una virtù dei cristiani.
Può capitare che l'uomo non si accontenti più della fede che altri pretendono da lui, che non ne possa più delle fiabe che gli raccontano, che non sia più disposto a pensare che queste cose siano vere, perché ne soffrono il suo cuore e il suo intelletto.
Ma a chi si deve rivolgere? La chiesa non mostra alcun interesse per l'intelletto dell’uomo e non intende dare chiarimenti. Ogni tipo di spiegazione le risulta piuttosto sospetto e condannabile. Essa si limita a parlare di offese al sentimento religioso. Spesso tali offese - che le stanno molto a cuore - l'hanno spinta a correre davanti al giudice. Purtroppo presta, invece, troppo poca attenzione all'offesa all'intelletto religioso. Quest'ultimo non gode di nessuna protezione da parte della legge. Per il diritto l'intelletto religioso non esiste affatto. Pertanto l'uomo è rinviato a se stesso quando avverta il desiderio di verità e quando per verità non intenda semplicemente le verità superiori somministrategli dai suoi superiori ecclesiastici.
Le considerazioni che seguono intendono essere un aiuto per questo intelletto in ricerca. Qualcuno dirà che così facendo si reca danno alla fede. Ma l'intelletto non può danneggiare la fede; più facilmente e più spesso è stata invece la fede a danneggiare l'intelletto. Il voler credere non a scapito della capacità intellettuale è poi, in realtà, un atto di devozione.
Quando l'uomo che cerca una verità più immediata, più reale e più grande, abbandona le tante parole e prediche vuote, allora può sorgere, in mezzo alle sue tenebre, una nuova verità, bella e tenera, la verità della misericordia di Dio cioè, finora nascosta dietro tante fiabe ecclesiastiche, che è l'unica verità e l'unica speranza.
Nella persona di Gesù incontriamo questa verità. Non sappiamo molto di Gesù. Non sappiamo quando e dove sia nato, né quando sia morto. Egli è una persona senza biografia. Non sappiamo per quanto tempo e dove precisamente avesse predicato in pubblico. In fondo sappiamo solamente che nacque, che durante il periodo in cui predicava c'erano discepoli e discepole che lo seguivano, e che fu giustiziato come ribelle sulla croce, la forca dei Romani, morendo così miseramente.
Non sappiamo molto di Gesù. Ma se seguiamo le sue orme, sentiamo che egli ha cercato e trovato Dio, che è in grado di rivelare questo Dio come qualcuno vicino a ogni essere umano, e che voleva far sì che ogni essere umano fosse vicino a questo Dio e al suo prossimo. Per chiunque lo voglia sapere appare chiaro che la voce di Gesù è tuttora una voce viva, che la sua verità è tuttora una verità viva e che il suo Dio è tuttora un dio vivo e vicino.
Gesù è sepolto non solo a Gerusalemme ma anche sotto una montagna di favole e di formule del frasario ecclesiastico. Bisogna ritrovare una persona scomparsa, un disperso.
LA FIABA NATALIZIA SECONDO LUCA
Natale, la festa della nascita di Gesù, è una sorta di porta d'ingresso al mondo cristiano. È un portale bello e ricco, quasi una porta magica. Dietro questa porta c'è del misterioso, qualcosa delle fiabe delle Mille e una notte. Anche in questo caso il tutto si svolge in Oriente, tra re orientali, carovane con cammelli, una stella sconosciuta e la fragranza delle spezie di paesi lontani.
A prescindere da queste immagini auree da sogno di un giorno lontano misteriosamente radioso, Natale offre all'uomo d'oggi un incanto molto concreto: un mondo illuminato dallo sfavillio di tante luci, con candele, con l'odore di abeti e canti natalizi; e così copre per una sera o per alcuni giorni le innumerevoli miserie esteriori e interiori dell'uomo con lo splendore di angeli. E questi angeli annunziano una grande gioia.
Ma tutto questo non è che una fiaba. Infatti, non è mai un angelo nella nostra vita quotidiana ad annunciare una grande gioia. Le fiabe non reggono mai al confronto della vita. E anche quella magica fiaba sul presepe e sui re e i pastori sul campo, non resisterà davanti allo sguardo critico che si rivolge alla vera storia di quel bambino la cui nascita ricordiamo a Natale: questa storia fu, in realtà, una storia amara che terminò in un'esecuzione capitale. E seppure la fiaba ci permettesse di stringere in una mano l'orlo della veste di un angelo, nel momento in cui aprissimo la mano per guardarla dovremmo constatare che è vuota. Ecco come sono fatte le fiabe: quel mare di tante belle beatitudini che descrivono si dilegua come in un miraggio.
Sebbene questi fatti possano suscitare preoccupazioni, non dovremmo però ignorarli. Infatti, è da dimostrare se sia dannoso volgere le spalle a queste fiabe fantastiche sostituendole con una verità senza fiabe, che ci riguarda molto di più di tutti questi racconti.
E’ la verità annunciata da Gesù quando era uscito dall'incanto dell'infanzia ed entrato nei dolori del mondo: la verità dell'amore di Dio.
Ma quasi fossimo costretti a raccontare tuttora fiabe e nient'altro che fiabe, al posto di tale verità si offrono ai cristiani i variopinti fronzoli che ornano quella porta d'ingresso fiabesca. Come verità essenziale e degna di essere celebrata ci offrono un surrogato della verità in forma di favole, seppellendo così l'essenziale sotto il kitsch miracoloso e il viavai di Natale e di altre ricorrenze. Se la chiesa intende presentarsi quasi come un'eterna narratrice delle fiabe delle Mille e una notte, che racconterà per sempre i mille e un miracolo, allora scambia l'unico miracolo fondamentale con dei piccoli miracolucci, e così facendo lo tradisce.
Nei cosiddetti vangeli sinottici di Marco, Matteo e Luca così chiamati perché alla base delle loro esposizioni c'è una «sinossi» (= visione comune) si nota chiaramente la tendenza ai racconti miracolosi. Marco è il primo in ordine di tempo, poi seguono Matteo e Luca. L'intento di innalzare Gesù sempre di più a dimensioni celesti e a divinizzarlo attraverso interventi sempre più decisi delle potenze celesti nella sua vita concreta, si va via via rafforzando, cosa che si manifesta già nei racconti sulla sua nascita, la sua generazione e il suo concepimento.
È indicativo che Paolo, il primo scrittore del Nuovo Testamento in ordine di tempo, non menzioni un concepimento verginale. La sua fede si basa solo ed esclusivamente su quella verità teologica che decide tutto e abbraccia tutto: la risurrezione di Cristo. «Ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede» (1 Cor 15,17). Se Cristo non fosse risorto la fede sarebbe stata vana con o senza l'annuncio degli angeli, il concepimento verginale e i miracoli. Ma se Cristo è risorto non c’é bisogno di tutti questi racconti di miracoli. Pertanto, Paolo non ne parla.
Ma alle generazioni successive alle quali appartengono anche i vangeli, la fede nella risurrezione non bastava più. Volevano fornire prove massicce della divinità di Gesù. E con questo intento hanno elaborato racconti dettagliati che si contraddicono a vicenda sulla verità della risurrezione. Del resto, hanno antidatato sempre di più la divinità di Gesù che volevano descrivere.
In Marco, il primo degli evangelisti manca ancora un racconto miracoloso sull'annunciazione e sulla nascita di Gesù, ma durante il suo battesimo si apre il cielo, e una voce dichiara la filiazione divina di Gesù: in Marco, Gesù diventa, quindi, figlio di Dio solo in occasione del suo battesimo e non prima. Secondo il vangelo di Matteo Dio interviene, invece, già prima della nascita in modo miracoloso: un angelo appare a Giuseppe, anzi, a dire il vero, gli appare in sogno. Quest'angelo del sogno gli porta il messaggio di una nascita divina. In Luca, poi, l'angelo appare - se per una volta è consentito parlare così di un angelo - in carne e ossa. Nel quarto e ultimo dei vangeli, quello di Giovanni, che non viene annoverato fra i vangeli sinottici perché dà una sua propria esposizione degli avvenimenti, il processo della divinizzazione miracolosa di Gesù tocca il punto più alto nel Nuovo Testamento: per Giovanni, infatti, Gesù è Dio già prima del concepimento.
A partire dai racconti sui miracoli del Nuovo Testamento il cristianesimo è diventato via via sempre più una fede nei miracoli, si è evoluto partorendo delle strambe curiosità e astruserie nelle quali ha finito con il perdersi. Queste cose sono poi diventate il criterio della giusta interpretazione della fede cristiana, cosicché una persona che voglia credere in Gesù, nella sua risurrezione e in nient'altro, è oggi, agli occhi della chiesa, un eretico.
Ma torniamo concretamente ai racconti natalizi del Nuovo Testamento. Quanto alle determinazioni di tempo, luogo e circostanze varie della nascita di Gesù, le cronache di Matteo e Luca (solo questi due evangelisti parlano della nascita di Gesù) sono di carattere leggendario. I vangeli di Marco e di Giovanni non dicono niente sulla nascita di Gesù: le loro narrazioni sulla sua vita partono da un momento in cui Gesù era già adulto. (Si noti che né il vangelo di Luca né gli Atti degli apostoli - i due scritti sono della stessa mano - sono stati scritti da Luca, il medico e accompagnatore di Paolo di cui parla la lettera ai Colossesi [4,14], così come l'autore del vangelo di Matteo non è l'apostolo Matteo: gli autori dei due vangeli sono sconosciuti.)
Basta considerare brevemente le circostanze impossibili e le contraddizioni contenute nelle cronache sulla nascita di Gesù per capire come queste non siano storicamente attendibili.
Cominciamo con il celebre racconto natalizio di Luca la cui lettura fa parte della celebrazione del Natale in molte famiglie cristiane e soprattutto in quelle protestanti: «In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città» (Lc 2,1-3).
La sola affermazione che sia stato ordinato un censimento di questo tipo dimostra che tutto il rapporto non è che una favola. Nessun imperatore romano ha mai ordinato una migrazione di popoli tanto folle da costringere gli abitanti dell'impero ad attraversare i vari paesi in lungo e in largo per andare nei loro rispettivi luoghi di provenienza e per tornare poi nei posti dove avevano preso residenza o domicilio. Un censimento del genere sarebbe stato assurdo e impraticabile.
Certamente si facevano censimenti (census), e i cittadini erano iscritti in liste anagrafiche, per facilitare la riscossione delle tasse e per le visite di leva. Sin dal 366 a.C. si facevano ogni cinque anni censimenti del genere. Ogni cittadino della città di Roma doveva presentarsi al Campo di Marte per certificare davanti ai censori (censores) la situazione della sua famiglia e dei suoi averi. Nelle province i censimenti non si facevano periodicamente, bensì solamente qualora occorresse. Nel contesto di tali censimenti lo stato romano non si interessava minimamente ai luoghi di provenienza delle rispettive famiglie e, nel caso concreto, delle famiglie ebree. Secondo il diritto romano ogni contribuente doveva presentare la dichiarazione dei redditi nel luogo dove era residente; la dichiarazione fiscale per i terreni, invece, andava presentata laddove si possedeva il terreno.
C'è stato poi, effettivamente, un censimento di Quirinio in Giudea. Dopo la morte di Erode nel 4 a.C. Arcelao, suo figlio maggiore, era diventato etnarca (sovrano del popolo) di Giudea, Samaria e Idumea. Questi non godeva di buona fama presso i suoi sudditi. Dopo una strage nell'atrio del tempio la popolazione mandò una delegazione ad Augusto per presentare un reclamo. L'imperatore convocò Arcelao al suo cospetto, lo destituì e lo mandò in esilio in Gallia.
Dopo la destituzione di Arcelao, la Giudea venne aggregata, nel 6 d.C. alla provincia romana di Siria. Nello stesso anno l’imperatore nominò Quirinio governatore (legatus) della Siria, nomina questa che comprendeva l'incarico particolare di organizzare l'amministrazione della Giudea. Per la Giudea fu nominato, quale amministratore, anche un governatore regionale (procurator - Lutero traduce Landpfleger).* Questi procuratori risiedevano, poi, non a Gerusalemme, bensì a Cesarea, sul mare. Solo in occasione delle grandi feste, quando numerosi ebrei affluivano a Gerusalemme, anche i procuratori vi si recavano per poter affrontare eventuali disordini.
* Il termine Landpfleger è stato introdotto appunto da Martin Lutero per indicare i procuratori delle province dell'Impero Romano. [N.d.T.]
Il procuratore più conosciuto era Ponzio Pilato (26-36 d.C.); Giuseppe Flavio (n. 37/38 d.C. - m. 100/110), generale ebreo e, nel 66/67 d.C. comandante supremo in Galilea, il quale capitolò nel 67 insieme alla fortezza di Jotapata davanti ai Romani, scrisse, dopo la distruzione di Gerusalemme e dopo la fine della guerra giudaica (66-70 d.C.), alcune importanti opere storiografiche, le quali sono per noi la fonte principale per la storiografia del periodo neotestamentario.
Questo autore riferisce su Quirinio e sul censimento da lui ordinato quanto segue: «Cirenio (= Quirinio) uno dei quei, che sempre era chiamato a consigliare: huomo per ogni officio di magistero e principato celebre, il quale per tutt'i gradi al'amministrazione era venuto al consolato essendo in tutte le degnità chiaro: venne con pochi in Soria mandato da Cesare per Censore dei genti, e approbatore della sentenza di cadauno. Fu mandato con lui Coponio capitano de cavallieri con l'autorità sopra tutt'i Giudei. Venne Cirenio anco in Giudea, perché era al governo della Soria congiunta, per stimare di tutti l'havere, e havere il conto di tutti le pecunie d'Archelao» (Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, XVIII,I,I; trad. it.:, Gioseffo Flavio Historico, Delle Antichità e Guerre Giudaiche. Diviso in Ventisette libri. Tradotto in italiano per M. Pietro Lauro Modonese, Venetia, Appresso Angelo Bosio, 1702, p. 479).
Quanto a questo censimento della popolazione o dei beni, Giuseppe Flavio ci porta due volte nell'anno 6 d.C.: prima con l'accenno al procuratore Coponio (6-9 d.C.) e poi con la seguente precisazione: «Tra tanto Cirenio havendo tolto per conto le richezze d'Archelao, e compiuto la descrizione, che si fece l'anno 37. Dipoi, che Antonio era stato vinto nella guerra di Attio, privò il Pontificato Iozaro, che havea consentito, che 'l popolo movesse sedizione ... » (Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, XVIII,3,1; trad. it.: p. 480).
Ora, la battaglia di Azio (in cui Ottaviano, più tardi chiamato Augusto, sconfisse Antonio e Cleopatra) si svolse nel 31 a.C. pertanto anche questa indicazione ci porta all’anno 6 d.C.
Abbiamo detto che il primo procuratore era Lucio Coponio (6-9 d.C.). Sotto il suo governo si ebbe subito un duro scontro con la popolazione ebrea, e ciò proprio a causa del censimento della popolazione ordinato nel 6 d.C. da Quirinio. L'opposizione contro questo censimento era talmente forte che un certo Giuda, detto «il galileo», «indusse i paesani» in Giudea e Samaria «a ribellione, insultandoli se avessero acconsentito a pagare il tributo ai Romani e avessero tollerato, dopo Dio, padroni mortali» (Giuseppe Flavio, Guerra giudaica, 11,8,1; trad. it.: Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, Società Editrice Internazionale, Torino 1963, p. 207s). Secondo gli Atti degli Apostoli (5,37) Giuda il galileo morì in questi disordini. Più tardi il procuratore Alessandro (46-48 d.C.) fece crocifiggere come ribelli anche i suoi due figli Giacobbe e Simone.
Nello stesso anno, cioè nel 6 d.C. fu fondato il partito ultranazionalistico degli zeloti (= zelanti, il termine indica le persone che si impegnano con zelo per la Legge di Dio); i fondatori e ispiratori religiosi di questo partito erano (ancora una volta) Giuda il galileo nonché il fariseo Zadok. Agli occhi degli zeloti la lotta contro il dominio straniero dei Romani era un dovere religioso. È interessante constatare che tale partito fu fondato in Galilea benché questa regione non fosse affatto coinvolta nel censimento. Ma la Galilea era diventata già in precedenza un centro della resistenza contro la potenza occupante, e i galilei avevano fama di essere anarchici. Probabilmente il fatto che Gesù fosse galileo giocò un ruolo decisivo nel contesto del suo processo e della sua esecuzione.
Possiamo quindi constatare quanto segue: il censimento che, secondo Luca, coincise con la nascita di Gesù, in realtà ebbe luogo nel 6 d.C. Non sappiamo niente di un censimento precedente. Pertanto questa indicazione cronologica di Luca non si accorda neppure con un'altra indicazione da lui stesso fornita: l'evangelista dice, infatti, che Giovanni il Battista, il cugino di Gesù che era solamente sei mesi più vecchio di lui, fu generato al tempo di Erode (m. 4 a.C.) (Lc 1,5).
A parte l'errore di data, è sbagliato anche il motivo del viaggio a Betlemme indicato da Luca. Infatti, un viaggio del genere sarebbe stato ipotizzabile solo nel caso in cui Giuseppe avesse posseduto dei terreni a Betlemme. In caso contrario, l'ordine del governatore siriaco Quirinio non avrebbe riguardato Giuseppe, poiché questi era sottoposto al tetrarca Erode Antipa di Galilea. Il motivo del viaggio non può essere stato, poi, in nessun caso il fatto che Giuseppe «era della casa e della famiglia di Davide»; infatti, come abbiamo detto sopra, un fatto del genere era per i Romani, in questo contesto, indifferente.
Ma Giuseppe non possedeva della terra a Betlemme. Altrimenti avrebbe avuto anche schiavi o fittavoli da quelle parti, sarebbe stato un benestante e avrebbe fatto nascere il bambino a casa di un fittavolo o di un amministratore e non, invece, in una mangiatoia.
Che però Giuseppe e Maria fossero persone povere, una coppia senza proprietà, lo si desume dalla descrizione che Luca dà del sacrificio di purificazione di Maria. Egli scrive: «Quando venne il tempo della loro purificazione, secondo la legge di Mosè (in questo testo Luca riferisce la necessità della purificazione cultuale erroneamente a entrambi i genitori, mentre in realtà la purificazione riguardava solamente la madre.
In tedesco non si nota questo errore, perché il lettore riferisce l'espressione «ihre Reinigung» [= «la sua purificazione» o «la loro purificazione»] solamente a Maria; il testo originale, invece, usa il plurale auton = la loro purificazione, vale a dire quella di Maria e Giuseppe) portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore, come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore» (Lc 2,22 ss).
Il sacrificio di colombe non era la Regola, bensì un'eccezione ammessa nel caso si trattasse di persone povere: «Quando i giorni della sua purificazione [ ... ] saranno compiuti, porterà al sacerdote [ ... ] un agnello di un anno come olocausto e un colombo o una tortora in sacrificio di espiazione. Il sacerdote li offrirà davanti al Signore e farà il rito espiatorio per lei; essa sarà purificata dal flusso del suo sangue [ ... ] Se non ha mezzi da offrire un agnello, prenderà due tortore o due colombi: uno per l'olocausto e l'altro per il sacrificio espiatorio. Il sacerdote farà il rito espiatorio per lei ed essa sarà monda» (Lv 12,6 ss). Se il sacrificio dei colombi non è, anch'esso, solamente un prodotto della fantasia di chi ha scritto il vangelo, esso dimostra la povertà della coppia. Comunque non si può supporre che Giuseppe abbia posseduto dei terreni a Betlemme, per motivare in tal modo il suo viaggio, e asserire poi che Maria ha fatto il sacrificio prescritto per i poveri. Ma se al tempo della nascita di Gesù non ci fu nessun censimento, ammesso cioè che egli sia nato al tempo di Erode, allora Giuseppe non aveva nessun motivo per esporre sua moglie, quasi partoriente, alle fatiche e ai pericoli di un viaggio del genere. Di conseguenza si può constatare che Maria e Giuseppe non hanno fatto questo viaggio a Betlemme in quel momento e per quel motivo.
Ne segue che Gesù, ammesso che Maria e Giuseppe abitassero a Nazaret, non nacque a Betlemme, bensì a Nazaret. Ma per Luca (e allo stesso modo per Matteo) è importante che il luogo natale sia Betlemme, poiché essa è la città di Davide.
Con il censimento, Luca vuole rendere plausibile la nascita di Gesù a Betlemme, ma dal momento che tratta i fatti in modo arbitrario sono gli stessi fatti a confutarlo. E perciò si vede che Maria e Giuseppe non hanno cercato invano un alloggio, che non c'era il bambino nella mangiatoia, che non c'erano i pastori raccolti davanti alla stessa e neppure il bue e l'asino sdraiati accanto.
Anche se si volesse ammettere solo per un attimo che al tempo indicato da Luca, vale a dire al tempo di Erode, ci fosse stato un censimento del genere, sarebbe comunque assurdo pensare a una tale marcia a Betlemme compiuta da una donna sul punto di partorire. Se Giuseppe si fosse davvero comportato in questo modo avrebbe messo a rischio la vita di sua moglie e quella del bambino non ancora nato: un atteggiamento che non si potrebbe che definire privo di riguardo, soprattutto se si considera il fatto che per un censimento la presenza di Maria non sarebbe stata richiesta, dato che l'obbligo di registrazione interessava esclusivamente i capo famiglia.
Del resto, questi censimenti non avevano luogo in un giorno fissato: il loro svolgimento richiedeva piuttosto settimane o addirittura mesi. Pertanto non c'era comunque tutta questa urgenza.
Se seguiamo l'esposizione fornita dal vangelo ci risulta del tutto incomprensibile come mai Giuseppe non abbia provveduto meglio per il parto; per esempio poteva far sì che Maria, quando «si compirono per lei i giorni del parto», alloggiasse presso la sua parente Elisabetta che, secondo il Nuovo Testamento, abitava a pochi chilometri di distanza, per dare alla luce suo figlio. Ma probabilmente anche questa parente non, è che un personaggio leggendario.
La strada che Maria e Giuseppe (in un primo momento si menziona solamente l'uomo: «Anche Giuseppe [ ... ] dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea» [Lc 2,4]) dovettero percorrere per arrivare al luogo del presunto censimento era, poi, una strada faticosa e pericolosa di circa 130 chilometri. Quanto alle fatiche, basti ricordare l'ultimo tratto di questo percorso: la via da Gerico a Gerusalemme, (Infatti, si dovrà supporre che si fosse scelta la via più facile che passava per la valle del Giordano e non il percorso su e giù per le montagne dell'ostile Samaria. Anche di Gesù viene raccontato che egli andava a Gerusalemme passando per Gerico [cfr. Mc 10,46].)
Ora, Gerico sta a 250 metri sotto il livello del mare, mentre Gerusalemme si trova a circa 750 metri sopra il livello del mare.
Nel periodo delle piogge, in inverno cioè, il fango rendeva le vie assolutamente impercorribili. Perciò è anche assurdo pensare che la storia natalizia si sia svolta durante l'inverno («nel mezzo del freddo inverno»).*
Inoltre questa strada era anche pericolosa: il brigantaggio, infatti, imperversava a quei tempi in modo tale che persone singole e piccoli gruppi rischiavano sempre di essere assaliti.
Nel raccontare la storia di quell’uomo che sulla strada da Gerusalemme a Gerico incappò nei briganti (Lc 10,30), Gesù fa un esempio tratto dalla vita di ogni giorno.
Ma ad andare, insieme a Maria e Giuseppe, da Nazaret a un censimento a Betlemme sarebbero stati, semmai, in pochi: non è infatti probabile che ci siano state molte persone a Nazaret che possedessero del terreno a Betlemme. Solo in occasione delle feste più importanti era possibile formare grandi carovane per trovare protezione dai briganti.
Ma da nessuna parte viene affermato, anzi è da escludersi, che il censimento coincidesse con una delle grandi feste (Pasqua, Pentecoste e Festa dei Tabernacoli) in occasione delle quali i pellegrini ebrei affluivano a Gerusalemme. Infatti, se essi fossero stati censiti in un luogo diverso da Gerusalemme, l'obbligo religioso di partecipare al pellegrinaggio gli avrebbe vietato di adempiere all’obbligo politico del censimento o, viceversa, l'obbligo politico del censimento non gli avrebbe permesso di compiere l'obbligo religioso. Tale obbligo religioso sussisteva però (con qualche eccezione), per tutti: «Tutti sono obbligati a comparire durante le tre feste principali, eccetto i sordi, matti, minorenni, asessuati, androgini, donne (!), schiavi, paralizzati, ciechi, malati, vecchi e coloro che non sono in grado di salire coni propri piedi sul monte del tempio» (citato da Joachim Jeremias, Jerusalem zur Zeit Jesu, 1969, p. 87). In breve: non è possibile che il censimento avesse avuto luogo proprio in occasione delle tre grandi feste.
Negli altri periodi dell'anno, quando appunto non c'erano tanti pellegrini a Gerusalemme, la città disponeva di decine di migliaia di alloggi liberi; la città di Gerusalemme era, infatti, abituata ad ospitare un numero straordinario di forestieri. Il fatto che c'erano sempre posti a sufficienza e che nessuno doveva dire al suo compagno: «C'è troppa gente: non riesco a trovare un alloggio per la notte a Gerusalemme», era considerato l'ottavo dei dieci miracoli che si verificavano al santuario. Per la verità, non era poi sempre così; si racconta, infatti, anche quanto segue: «Nel cortile del tempio non fu mai schiacciato nessuno, solo una volta al tempo di Hillel avvenne durante la Pasqua che fu schiacciato un vecchio: questa Pasqua fu chiamata la Pasqua degli schiacciati» (cit. da J. Jeremias, loc. cit. pp. 89 95).
Al di fuori del periodo delle grandi feste, quando cioè gli alloggi a Gerusalemme erano tutti liberi, era pertanto inutile recarsi a Betlemme dove, secondo Luca, tutti gli alberghi erano strapieni: Betlemme si trova, infatti, vicino a Gerusalemme (a circa 8 km). Anzi, non era neppure necessario andare fino a Gerusalemme, poiché le località circostanti, e perciò anche quelle fra Gerusalemme e Betlemme, erano preparate ad accogliere i forestieri.
Il colmo delle incongruenze (per non dire: insensatezze) riportate dall'autore del vangelo di Luca consiste, come abbiamo visto sopra, nel fatto che, oltre a far coincidere l'accaduto con il censimento di Quirinio (6 d.C.), fornisce anche un'altra datazione: stando a quanto affermato in Lc 1,5, tutti questi avvenimenti si sono succeduti durante il governo di Erode. Ma questi mori già nel 4 a.C. Affermare che lo stesso avvenimento storico sia avvenuto in due decenni diversi significa aprire una divergenza storiografica: o è errata la collocazione storiografica della nascita di Gesù al tempo del censimento di Quirinio, vale a dire nel 6 d.C. o è errata la datazione al tempo di Erode (m. 4 a.C.): infatti, solamente una delle due datazioni può essere corretta, ammesso che non siano sbagliate entrambe. Chi volesse, poi, continuare a supporre che i messaggi degli angeli e avvenimenti analoghi siano dei fatti storici, dovrebbe accontentarsi della supposizione che Luca, quanto a tutti i fatti storici verificabili, racconti favole e nient'altro che favole e che egli, quando parla di avvenimenti soprannaturali e perciò non verificabili, riferisca sempre e comunque fatti veramente accaduti. Trattando la storia in modo arbitrario, Luca ha dimostrato di essere un relatore storicamente inattendibile, un narratore di fiabe.
* Versetto citato da un canto natalizio tedesco («Es ist ein Ros entsprungen») che viene cantato ogni anno in tutte le chiese, cattoliche e protestanti, di lingua tedesca. [N.d.T.]
Ecco qui un altro esempio che dimostra l'inattendibilità delle indicazioni storiografiche di Luca. Questi non si limita a datare la nascita di Gesù, ma dice anche quando cominciò la sua attività pubblica: l'inizio di tale attività coincide, secondo Luca, con l'entrata in scena di Giovanni Battista. Anche in questo caso le sue indicazioni sono assai confuse.
All'inizio del terzo capitolo si legge: «Nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, sotto il sommo sacerdote Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto».*
Vediamo queste indicazioni punto per punto: il 19 agosto 14 d.C. Tiberio (42 a.C. - 37 d.C.) divenne imperatore, pertanto l'anno decimoquinto del suo governo decorse fra l'agosto del 28 d.C. e l'agosto del 29 d.C.; dal 26 al 36 d.C. Ponzio Pilato era governatore della Giudea; dal 4 a.C. al 39 d.C. Erode Antipa era tetrarca (il termine indica colui che esercita il dominio su una parte di un regno, originariamente un quarto) della Galilea, e suo fratello Filippo era, dal 4 a.C. al 34 d.C. tetrarca dell'Iturea e della Traconitide. Quanto a Lisania, a parte il fatto che morì fra il 28 d.C. e il 37 d.C. non ne sappiamo molto di più. Comunque, fin qui ci siamo: l’anno 28-29 è plausibile.
L'indicazione che segue, invece, non può essere corretta; Luca aggiunge: «Sotto il sommo sacerdote Anna e Caifa». Come prima cosa stupisce il fatto che, nel parlare di questi due personaggi, Luca usi il singolare (sotto il sommo sacerdote). In secondo luogo chiunque riporti un'indicazione cronologica del genere si riferisce alla durata della carica di questi personaggi e non, invece, al tempo della loro vita. Ora, nel 15 d.C. Anna cessò dall'ufficio di sommo sacerdote: egli fu destituito dall'allora procuratore romano Valerio Grato (15-26 d.C.), il predecessore di Ponzio Pilato (cfr. Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche, 18,2,2). Caifa, invece, assunse la carica di sommo sacerdote nel 18 d.C. Nel frattempo c'erano stati, per quattro brevi periodi, altrettanti sommi sacerdoti.
Evidentemente Luca non aveva la pur minima idea di quanto fosse storicamente avvenuto, e perciò afferma praticamente che Gesù operò da una parte negli anni 15-18 (il periodo minimo per includere sia il sacerdozio di Anna, sia quello di Caifa) e dall'altra nel 29. In questo modo fa, quindi, una spaccata storiografica simile a quella che abbiamo notato nel contesto della nascita di Gesù che egli colloca sia al tempo di Erode (m. 4 a.C.) che durante il censimento di Quirinio (6 d.C.). Oggi si elude la problematica della datazione errata «sotto il sommo sacerdote Anna e Caifa» affermando che uno dei due sommi sacerdoti (Anna) non era più in carica, ma ancora in vita, e che nel 29 d.C., quando cioè Gesù cominciò la sua attività pubblica, era ancora influente.
Ma pur ammettendo che Luca stesso non volesse dire esattamente quello che egli stesso afferma con precisione, vale a dire che Gesù operava durante il periodo delle cariche di Anna e Caifa, è comunque vero che più tardi alcuni teologi lo interpretavano precisamente in questo senso. Basta dare per esempio un'occhiata alla famosa Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea in Palestina (m. 339 d.C.), vescovo appunto di Cesarea. Eusebio interpreta Luca secondo le affermazioni di Luca, affermando cioè che Gesù operava negli anni che intercorrevano tra la carica di Anna e quelli della carica di Caifa. Contemporaneamente mantiene anche la data del 29 d.C.
Di conseguenza, Eusebio dà la seguente descrizione insensata: fu «durante il quindicesimo anno del regno di Cesare Tiberio [...] La Sacra Scrittura dice (commento: l'inesattezza di Luca nel frattempo si è fatta "sacra") che tutto il suo insegnamento lo svolse nel periodo di tempo compreso sotto il pontificato di Anna e di Caifa, e questo significa che tutto il tempo della sua predicazione coincide con gli anni in cui questi tennero la loro carica. Cominciò dunque sotto il pontificato di Anna e durò fino a quello di Caifa [...]
Dunque l'intera durata dell'insegnamento del nostro Salvatore, come appare evidente, non comprende quattro anni completi, e ci furono in questo periodo quattro sommi sacerdoti, da Anna fino a Caifa, uno per anno» (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica 1,10; trad. it.: Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, a cura di Maristella Ceva, Rusconi, Milano 1979, p. 102s [qui di seguito abbr.: SE]).
Gli storici della chiesa sono stati a lungo indaffarati in tentativi di datazione del genere: quando si trattava di mandar giù tutto quello che era scritto nei vangeli, i casi di difficoltà di deglutizione erano, fra i teologi, sempre assai rari
* Citato secondo la traduzione tedesca riportata dall'autrice; la traduzione della CEI riporta: «Sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa». [N.d.T.]
E così anche Tommaso d'Aquino, il teologo più autorevole del medioevo, ha fatto proprie tali sciocchezze: infatti, nella sua Catena Aurea, la «catena d'oro», un'interpretazione dei vangeli, Tommaso colloca l'attività pubblica di Gesù sia nel quindicesimo anno dell'impero di Tiberio (che sarebbe il 29 d.C.) che nei quattro anni che trascorsero fra Anna e Caifa, vale a dire dal 15 al 18 (Commento al Vangelo di Luca, 3,1-2).
Per la verità, non abbiamo nessunissima informazione biografica sicura intorno all'anno di nascita di Gesù, benché in quel periodo ci fossero degli storici che avrebbero potuto dire qualcosa in merito, Giuseppe Flavio, per esempio: ma lui non menziona Gesù. Coloro, poi, che scrivono di Gesù, vale a dire i quattro evangelisti, in fondo non si interessano alla sua biografia. Quanto ai dati concreti della sua nascita, Gesù è, quindi, venuto al mondo quasi come un fantasma e, dato che non conosciamo neanche l'anno della sua morte, è uscito dalla storia con la stessa vaghezza. Non abbiamo niente di concreto in mano, solamente le tracce che egli ha lasciato nel paesaggio religioso della Palestina.
Infine ancora una nota sulla scena dell'annunciazione raccontata in Luca (1,26ss).
L'angelo Gabriele, che in quest'occasione non rivelò il suo nome - cosa che fece invece nei confronti del padre di Giovanni Battista in quell'altra scena descritta poco prima da Luca (Lc 1,19) - venne subito riconosciuto da Maria. E Maria fece un'obiezione: «Come è possibile, visto che non ho rapporti sessuali con nessun uomo?» (Lc 1,34). Lutero traduce vagamente: «Sintemal ich von keinem Manne weiß» (imperocché non so nulla di nessun uomo).
Almeno del proprio marito Giuseppe, Maria ne avrebbe dovuto «sapere» qualcosa. Ma anche la pudica traduzione «da ich keinen Mann erkenne» (lett: poiché non riconosco, non comprendo nessun uomo),* che si trova in Bibbie sia cattoliche che protestanti, non è precisa. Infatti, a differenza della parola greca neotestamentaria «riconoscere», la parola tedesca erkennen (riconoscere, comprendere) indica solamente un processo mentale, vale a dire la percezione di chi comprende, e nient'affatto un avvenimento sessuale.
Del resto, a prescindere dalla traduzione, vaga o chiara che sia, osservata da vicino la formulazione di tale obiezione dimostra che si tratta di una risposta che l'evangelista mette in bocca a un personaggio fittizio: si tratta cioè di un'invenzione letteraria. Con le parole «poiché non ho rapporti sessuali con nessun uomo», Maria determina sì correttamente la situazione in cui oggettivamente si trova in quel momento, ma dal punto di vista soggettivo o psicologico è impensabile che lei si sia espressa in questi termini. Oggettivamente o giuridicamente, Maria non doveva avere rapporti sessuali con un estraneo; altrimenti sarebbe stata considerata adultera, meritevole di morte.
Per suo marito, poi, essa era, benché giuridicamente già sua moglie, ancora una specie di sposa. Giuseppe, infatti, non l'aveva ancora portata a casa sua. Ma i rapporti matrimoniali fra fidanzati erano, se non vietati, comunque inusuali. Pertanto, l'obiezione di Maria descrive correttamente la sua situazione oggettiva.
Dal punto di vista psicologico, invece, Maria non può aver pronunciato questa frase, poiché con tale formulazione lei avrebbe detto di non avere rapporti con suo marito né con un altro uomo, e che d'altra parte secondo lei la condizione necessaria perché il messaggio dell'angelo si avverasse era un suo rapporto sessuale o con suo marito o con un altro uomo. Secondo Luca, Maria non dice, infatti (come solo avrebbe potuto dire): «Poiché non ho rapporti sessuali con mio marito», ma piuttosto dice «con nessun uomo», il che significa: non ho avuto rapporti sessuali con un uomo qualsiasi.
Ora, l'indifferenza nei confronti della sessualità che lei esprime in questa frase, mettendo cioè il rapporto matrimoniale e quello adulterino sullo stesso piano, dimostra che l'obiezione di Maria nei confronti dell'angelo altro non è che un'invenzione letteraria, come in seguito avremo occasione di vedere meglio (cfr. il capitolo sulla madre vergine).
*Questa traduzione tedesca corrisponde alla formulazione italiana: «Non conosco uomo.» [N.d.T.]
Appendice
Nella notte fra il 9 e il 10 maggio 1291, degli angeli portarono la casa della Santa Vergine di Nazaret in Europa: in un primo momento a Raunizza in Dalmazia, tra Tersato e Fiume. Pieni di meraviglia, gli abitanti della zona videro, la mattina dopo, la casa, costruita secondo uno stile architettonico a loro estraneo e sita in un luogo dove prima non c'era mai stato nessun edificio. Stava lì senza fondamenta. E all'interno di tale casa c'era una croce posta su un altare e una statua della Santa Vergine.
Il vescovo di quella zona che, infermo, non poteva alzarsi dal letto, ottenne in una visione informazioni in merito alla casa estranea. In seguito a tale visione guarì e raccontò quanto gli era stato rivelato. Il governatore di Fiume, Nicolò Frangipani, mandò una delegazione a Nazaret la quale seppe dagli abitanti di quella città che la santa casa era scomparsa. Ne erano rimaste, però, le fondamenta, che corrispondevano alla pianta della casa estranea trovata a Raunizza.
Tutto ciò è stato testimoniato sotto giuramento e può essere verificato negli archivi di Fiume. Tutti i verbali sono stati pubblicati. Comunque, dopo tre anni e sette mesi, nella notte del 10 dicembre 1294, la casa scomparve anche da Raunizza, e all'improvviso venne a trovarsi dall'altra parte dell'Adriatico, in Italia, nei pressi della città di Recanati. Dei pastori l'avevano vista librarsi in aria mentre stava attraversando il mare.
Ma visto che la santa casa attraeva non solo molti pellegrini ma anche parecchi delinquenti, essa migrò ancora spostandosi di circa due chilometri e poi, un'ultima volta, andando ancora 150 metri più in là fino ad arrivare a Loreto dove si fermò in mezzo a una strada pubblica. E lì è rimasta fino a oggi. «Nel corso dei secoli la santa casa di Loreto ha senz'altro superato tutte le prove dell'esame storico nonché scientifico, ed è umanamente certo che si tratta della stessa casa in cui abitava Maria, la regina dei cieli, a Nazaret» (Heinrich Joseph Wetzer e Benedikt Welte, Kirchenlexikon, 2a edizione, 1886-1903, vol. VIII, p. 147).
Nel 1510 papa Giulio II (1503-1513) incaricò il celebre Bramante di progettare un rivestimento in marmo per questa casa. I papi Leone X (1513-1521), Clemente VII (1523-1534) e Paolo III (1534-1549) lo fecero realizzare. Più tardi altri papi, e precisamente Pio V (1566-1572) e Sisto V (1585-1590) fecero costruire una magnifica basilica sopra la casa di Nazaret.
Purtroppo i francesi rubarono, nel 1797, l'immagine miracolosa, ma nel 1801 Napoleone la fece portare indietro. In seguito a un esame approfondito eseguito dalla commissione competente, Innocenzo XII istituì, nel 1699, una festa con messa proprio in memoria del pio avvenimento del «trasferimento della santa casa della theotokos (colei che ha partorito Dio) Maria in cui la parola si è fatta carne». In un primo momento si trattava solamente di una festa regionale, ma nel 1719 fu introdotta pure in Toscana e poi, da papa Benedetto XIII (1724-1730), anche nello Stato della Chiesa, a Venezia e in tutti i territori di dominio spagnolo. I visitatori di tale luogo di grazia ottennero e ottengono molte indulgenze.
Nel mese di novembre del 1887 una celebre santa visitò la casa a Loreto: santa Teresa di Lisieux, detta anche «santa Teresa del Bambin Gesù» o «la piccola santa Teresa» per non confonderla con la «grande Teresa» di Avila. All'età di 15 anni santa Teresa di Lisieux entrò nell'ordine delle carmelitane e, dopo una dura vita da monaca, morì nel 1897 a 24 anni.
Nel suo diario racconta del suo viaggio a Loreto: «Dopo aver detto addio a Venezia, venerammo a Padova la lingua di S. Antonio, poi a Bologna, il corpo di Santa Caterina, il cui volto serba ancora l'impronta del bacio del Bambin Gesù. Fui proprio felice quando mi vidi sulla via di Loreto. Come ha fatto bene la SS. Vergine a sceglier quel luogo per deporvi la sua benedetta Casa […] Che dire della Santa Casa? Nel trovarmi sotto il medesimo tetto che alloggiò la Sacra Famiglia, nel contemplare quelle mura sopra le quali il Nostro Signore aveva fissato i suoi sguardi divini, nel calpestare quella terra che San Giuseppe aveva bagnato col suo sudore, e dove Maria aveva recato Gesù fra le braccia dopo averlo portato nel seno verginale, provai una profonda commozione. Vidi la stanza dell'annunziazione: deposi la mia corona nella scodella di Gesù Bambino» (Suor Teresa del Bambino Gesù o del Volto Santo, Storia di un'anima, Libreria Sacro Cuore, Torino 1911, p. 104s).
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